CHATEAUBRIAND, François-René, cavaliere, poi visconte de

Enciclopedia Italiana (1931)

CHATEAUBRIAND, François-René, cavaliere, poi visconte de

Alfredo Galletti

Nacque a Saint-Malo (Bretagna), il 4 settembre 1768 e morì a Parigi il 4 luglio 1848, ultimo figlio di un cadetto d'antica famiglia aristocratica, che era stato in gioventù uomo avventuroso, violento e di pochi scrupoli, e fu più tardi, nell'intimo della famiglia, chiuso, autoritario e a volte terribile. La puerizia e la prima adolescenza del futuro scrittore corsero neglette e spiritualmente solitarie, sia nella casa paterna sia nei collegi di Dol, Rennes e Dinan, ove la famiglia lo mandò perché vi attendesse a studî che furono, in realtà, assai disordinati e superficiali. Lo Ch. era per temperamento un autodidatta e la sua cultura, che era vasta, se non profonda, e sempre aperta alle nuove idee, fu da lui conquistata più tardi, con ostinato lavoro, tra le dure vicende di una giovinezza tempestosa. Nei primi anni più che lo studio ebbe care le inerti voluttuose fantasticherie, che lo accompagnavano nelle passeggiate solitarie lungo il mare o nell'antico e triste maniero di Combourg, e i colloquî con una sorella singolarmente prediletta, Lucilla: una natura nervosa, con cui discorreva di sogni e di spiriti, di viaggi lontani e di avventure meravigliose.

A diciassette anni, mentre egli avrebbe voluto partire per l'Amenca e farsi esploratore e soldato nelle colonie, fu obbligato dal padre ad entrare come luogotenente nel reggimento di Navarra. Fu di guarnigione a Cambrai; poi fu a Parigi e ottenne di essere presentato a corte. A Parigi conobbe i letterati di maggior grido e pubblicò i suoi primi versi - assai mediocri - nell'Almanach des Muses. Intanto il padre era morto, e la Rivoluzione, iniziatasi sotto apparenze così legali e riformatrici nel 1789, cresceva rapidamente di forza e di violenza. Allo Ch. parve giunto il momento di realizzare il suo antico disegno di un viaggio in America. Partì il 10 aprile 1791, ed era già di ritorno a Le Havre il 2 gennaio 1792.

Quali parti del Nuovo Continente egli abbia realmente visitato nei sette mesi di soggiorno che vi fece, non sappiamo con certezza. Era sbarcato a Baltimora e sembra percorresse alcuni stati dell'Ovest, visitasse le cascate del Niagara, risalisse l'Ohio sino alla confluenza del Kentucky; ma nel suo poema in prosa Les Natchez, nel René, nei Mémoires d'outre-tombe egli ci fa intendere che le sue peregrinazioni furono assai più vaste e più ardue. Tornato in Francia vi trovò la democrazia minacciosa, la monarchia vacillante, la nobiltà imprigionata o esule. Nel luglio del 1792 lo Ch. raggiunse gli emigrati di là dal Reno, e fu ferito all'assedio di Thionville. Poi fu gravemente ammalato, e febbricitante si trascinò a Bruxelles e di là a Jersey, donde passò in Inghilterra. Vi rimase sette anni (1793-1800), quasi sempre a Londra, lottando con la miseria e qualche volta con la fame, traducendo durante il giorno per gli editori, studiando la notte e procurandosi così quella varietà di cognizioni e di idee - ricchezza un po' disordinata e di apparato - che infarcisce il suo primo lavoro: l'Essai sur les Révolutions, pubblicato a Londra nel 1797. È questo un libro notevolissimo nella sua ideologia farraginosa e nella sua ingenuità critica, perché contiene i germi ideali di tutta l'opera futura dello Ch. e ne illumina alcuni contrasti. L'Essai afferma il carattere materialistico di tutte le rivoluzioni in particolar modo di quella francese; però lo spirito del libro è settecentesco e antistorico. La rivolta del Rousseau contro le istituzioni sociali e la cultura sembra allo Ch. la grande scoperta del pensiero moderno ed egli ne deduce, piuttosto che un'utopistica speranza per l'avvenire, una negazione radicale del presente. Quanto alla religione, affermava che "Dio, la materia, la fatalità sono l'identica cosa", ammetteva che l'esistenza del male è un'obiezione inconfutabile all'idea della Provvidenza cristiana e si domandava quale religione avrebbe preso in avvenire il luogo del cristianesimo. Di lì ad un anno (1798) la lettera di una sorella che gli annunziava la morte della madre nella prigione ove il tribunale rivoluzionario l'aveva gettata, e aggiungeva che gli ultimi pensieri della morente erano stati di sollecitudine per gli errori religiosi del figlio esule, valse a toccargli il cuore e a convertirlo; e già sul principio del 1799 egli metteva mano a scrivere quel libro sul Génie du christianisme che pubblicato a Parigi nel 1802 - l'anno del concordato tra Bonaparte primo console e la chiesa cattolica - doveva apparire alla Francia, e si può dire a tutta l'Europa, come la più eloquente apologia della restaurata coscienza religiosa. Lo Ch., per un'amnistia concessa a parte degli emigrati, era tornato in Francia nel 1800 e il Bonaparte, dopo la pubblicazione del Génie, volendo conquistare al regime lo scrittore famoso, lo nominò prima segretario di ambasciata a Roma, poi legato nel Vallese (Svizzera); ma di lì a poco (1804), la proditoria fucilazione del duca d'Enghien persuase lo Ch. a dimettersi. Nel 1806 egli partì per l'Oriente in cerca di visioni e impressioni per un racconto epico di argomento religioso, nel quale ricevessero forma artistica quelle idee intorno all'ispirazione cristiana di tutta la poesia moderna che aveva esposto nel Génie. Il poema in prosa s'intitolò Les Martyrs e venne in luce nel 1809. Del suo viaggio orientale - una specie di periplo del Mediterraneo, poiché, dopo aver visitato la Grecia, l'Asia Minore e la Palestina, egli era tornato in Francia per la Tunisia e la Spagna - diede una narrazione magniloquente nell'Itinéraire de Paris à Jérusalem pubblicato nel 1811. In quello stesso anno lo Ch., eletto all'Accademia francese, non vi poté essere accolto, perché il discorso che avrebbe dovuto pronunciare il giorno della sua ammissione irritò Napoleone per certi accenni a Tacito, a Nerone e alla dignità della storia, giudice incorruttibile della tirannide.

Ma l'orgoglio e l'egotismo inquieto dello Ch. aspiravano all'azione politica. Il precipitare di Napoleone stava per aprirgli anche questa via. Nel 1814, mentre ancora Napoleone difendeva contro gli eserciti degli alleati il territorio francese, lo Ch. nel libello De Bonaparte et des Bourbons ne sottoponeva a una requisitoria implacabile l'opera politica, esaltava i Borboni e indicava nel conte di Provenza (il futuro Luigi XVIII) il legittimo restauratore delle fortune francesi. Durante i Cento giorni seguì il fuggiasco Borbone a Gand e fu nominato da lui ministro degl'Interni per interim. Dopo Waterloo ebbe il titolo di pari di Francia (1816); fu nel 1821 ambasciatore a Berlino e subito dopo a Londra; rappresentò la Francia al congresso di Verona (1822); ottenne l'anno seguente il portafogli per gli Affari esteri, e fu il più efficace promotore della guerra contro la Spagna per restaurarvi l'assolutismo monarchico. Ma egli era, politicamente parlando, un difficile e scontroso "servitore del sovrano": il suo orgoglio, il suo bisogno di predominare, il suo istinto critico incoercibile facevano di lui un collaboratore dispettoso, iracondo, impaziente di quegli adattamenti e di quelle docilità che la politica esige. Venne ugualmente in uggia al re e al primo ministro Villèle e fu bruscamente escluso dal ministero (1824). Allora, sul giornale Le Conservateur, che aveva fondato nel 1818, egli si abbandonò, pur dichiarandosi fedele sostenitore del trono e dell'altare, a un'opposizione mordace e corrosiva, che interruppe per poco, nel 1828, quando fu mandato ambasciatore a Roma; che riprese non appena costituito il ministero Polignac e che parve giustificata e, insieme anche punita dagli avvenimenti del luglio 1830. Per un sentimento di dignità e di onore, profondo e sincero in lui, sebbene a volte un po' teatrale, non volle servire il nuovo re Luigi Filippo, rinunciò alla dignità di pari e ostentò la sua fedeltà alla dinastia caduta e in particolar modo alla duchessa di Berry, in difesa della quale - trattenuta in prigione sotto accusa di complotto - scrisse un Mémoire sur la captivité de la duchesse de Berry, che gli attirò un processo politico. Gli ultimi anni trascorse in un atteggiamento di sdegnosa e delusa solitudine spirituale, che molto valse ad accrescere la sua popolarità, poiché i vecchi legittimisti gli erano indulgenti, in quanto si era serbato fedele ai Borboni, e i giovani - liberali, bonapartisti o repubblicani - circondavano di grande ammirazione lo scrittore e veneravano l'indipendenza e il disinteresse dell'uomo che non aveva voluto piegarsi ai nuovi padroni. Attendeva intanto a scrivere i ricordi della sua vita, così varia di casi e di fortune: ricordi che aveva incominciato sin dal 1811 e ai quali diede il titolo singolare di Mémoires d'outre-tombe. Voleva dire che quei ricordi e quegli avvenimenti dovevano giungere al lettore quasi portati da una voce che risuonava di là dalla vita, poiché il libro doveva uscire postumo e con questo patto lo Ch., trovandosi in strettezze, vendette ancor vivo le memorie a una società editrice. Morì il 4 luglio del 1848, dopo aver visto, non senza costernazione (ma già la sua intelligenza declinava), anche la rivoluzione del febbraio di quell'anno.

L'energia creatrice e combattiva dello Ch. si esercitò principalmente nella letteratura sin verso il 1812, e , dal 1814 al 1830 nella politica. Per i posteri la sua riputazione rimase principalmente letteraria; ma egli, che nelle sue memorie non dubita di collocarsi accanto a Napoleone come restauratore della coscienza morale e civile della Francia, si giudicava e si ammirava, innanzi tutto, come uomo d'azione. Da quel gentiluomo dell'antico regime, cioè feudale, che egli era, la fama di un suscitatore d'immagini o di un agitatore d'idee gli pareva assai misera cosa al paragone di quella cui può aspirare chi guida i popoli e mette mano a ordire la tela della storia, e l'istinto del suo egoismo gli suggeriva che "la gloria senza la potenza è il fumo di un arrosto che altri si mangia". Ma se l'ufficio di ministro e le ambascerie e la guerra di Spagna da lui promossa gli furono fonti di grandi compiacimenti, di cui le sue Memorie fanno indiscreta testimonianza, la storia non può apporre la sua firma alle grandi lodi che lo Ch. fa del proprio genio politico. Dell'uomo politico egli aveva molte attitudini, ma non la virtù essenziale che le coordina, le mette in valore, le rivolge allo scopo cui la loro azione deve essere subordinata. Aveva pronta e sicura la percezione della realtà morale, e le finzioni della commedia umana non lo traevano in inganno. Ma occupato a vagheggiare sé medesimo nello specchio dei grandi avvenimenti, dimentica la necessità incalzante, la quale gli si rivolta contro; oppure, ferito nella sua vanità, lascia, per disdegnoso gusto, che le cose precipitino e che il male da lui detestato trionfi. Così gli avvenne di offendere amici e nemici, ma più quelli che questi, e più specialmente il re Luigi XVIII; di celebrare ufficialmente la vittoria della religione cattolica, mentre ne riconosceva segretamente e ne lamentava la decadenza; di affermare che fuori del legittimismo non ci poteva esser salvezza politica per l'Europa, mentre vedeva con occhio lucido il rapido risorgere del liberalismo e della democrazia, ed egli stesso, con le accuse mosse alla Restaurazione, ne affrettava la vittoria. Quindi la sua critica fu vana, perché non coordinata all'azione; la sua preveggenza sterile, perché quasi sempre sprezzante e inerte.

Come scrittore invece la sua parte è assai cospicua nella storia della moderna letteratura francese. Ma anche qui sembra che egli s'illudesse sul vero carattere dell'opera sua. Lo Ch. ha detto infinite volte che il suo Génie du christianisme aveva restaurato la religione in Francia e che l'idea di Dio e dell'immortalità dell'anima riprese, per virtù di quel libro, il suo impero". Ma il libro può aver attratto o risospinto alla fede gli spiriti candidi e un po' superficiali che non amano pensare e discutere, ma prediligono le belle immagini, i simboli graziosi e le iacili analogie. Sotto il rispetto critico e dottrinale il libro non ha consistenza, Lo Ch. è stato forse il primo a ideare un'apologia del cristianesimo quasi puramente estetica, a lodare la religione dei Martiri, dei Padri e dei Dottori, e i suoi "misteri terribili", solo perché essa tocca il cuore, commuove l'immaginazione, fa sgorgare dolci lacrime, blandisce sogni soavi, ispira opere pudiche. Il libro piacque ai giovani e alle donne, ma gli spiriti virili abituati a più intellettuale nutrimento lo accolsero con una certa diffidenza e al Manzoni, per esempio, sembrava opera più di retore immaginoso che di credente. Di quell'apologia, infatti, piacquero e in quel fervore di religiosità rinascente furono imitate, le pagine descrittive e i raffronti letterarî tra le più famose opere poetiche del classicismo pagano e altre affini a quelle per l'argomento, ma d'ispirazione cristiana. Ammiratissimi furono certi racconti passionali che lo Ch. aveva pensato da prima come parti episodiche del Génie, e che poi, meglio consigliato, staccò dal contesto: e sono Atala (1801), storia d'una giovane pellirossa convertita al cristianesimo e consacrata a perpetua verginità dal voto di una madre imprudente, cosicché essa, vinta dall'amore, per non cedere alla passione irresistibile si uccide; e René (1807), altra storia d'amore, ma di un amore più cupo e più tragico, poiché descrive il germinare di una triste passione nel cuore di un fratello e di una sorella, così che per sottrarsi al fascino mortale la sorella entra in un chiostro e il fratello, Renato, va a peregrinare e a morire tra gl'Indiani della Florida. La malia che emana da questi racconti, patetici nel loro immaginoso sentimentalismo, è grande, ma è, cristianamente parlando, impura, perché nasce dall'orgoglio, dalla misantropia e da un erotismo contenuto e insieme irritato da un segreto istinto di crudeltà. La lunga, indiscretamente lunga, epopea Les Martyrs è per tre quarti opera di un abilissimo narratore dall'immaginazione romantica, che dando per sfondo ad un pietoso caso d'amore e di morte i simboli e le immagini di quella che è stata definita la mitologia cristiana e mescolando il meraviglioso della Gerusalemme liberata a quello del Paradiso perduto e della Messiade, ha creduto di offrire al secolo decimonono il tipo di un epos religioso che sostituisse tanto le vecchie e screditate epopee in versi quanto il romanzo di avventure del Settecento. Ma sotto questo rispetto il tentativo è interamente fallito. La parte artisticamente viva dei Martyrs è il lungo racconto di Eudoro, il protagonista, un tribuno cristiano dell'esercito romano, il quale innamora di sé una giovanetta greca e pagana, Cimodocea, ed essa per amor suo si converte alla fede di Cristo e muore martire con lui, sbranata dalle fiere. È un racconto di viaggi e d'avventure d'ispirazione intimamente pagana; e l'amore e la morte - assai più che l'idealismo cristiano - rivestono di grazia e di poesia Les aventures du dernier des Abencérages, che lo Ch. pubblicò nel 1831. L'Itinéraire de Paris à Jérusalem, diario del viaggio di un credente che per la Grecia e l'Asia, percorrendo luoghi che avevano visto il fiore e lo splendore del paganesimo e la sua fatale decadenza, muove verso il sepolcro di Cristo, è guastato dall'enfasi indiscreta di una vanità che nelle memorie e nelle tradizioni del passato cerca, più che altro, un paludamento entro cui drappeggiarsi. Cosicché l'opera più viva e tuttavia più letta dello Ch. sono i Mémoires d'outre-tombe. È anch'essa dominata e turbata dalle continue intrusioni e scorribande di un egotismo insaziabile; ma i casi e i tempi di cui vi si fa ricordo sono così varî e vivi, gli uomini e le loro passioni e i conflitti di una grande età storica vi sono ritratti con occhio così sicuro, con un ardore così perspicace, che la fantasia è commossa, e la magnificenza del dramma ci fa indulgenti verso le esorbitanti divagazioni dell'attore che racconta.

Ma il maggior merito letterario dello Ch. è di aver trovato i temi più famosi e più diffusi del romanticismo francese. Del Rousseau riprese la calda eloquenza, sentimentale insieme e sensuale; del Bossuet e degli altri oratori sacri del grande secolo rinnovò l'ampio periodo armonioso e v'insinuò il fascino della sua superba malinconia e del suo erotismo sottile, legato al dolore e alla crudeltà, e ne fece quello stile grandioso e voluttuoso, che aspira continuamente al sublime e cade anche spesso nel retorico e nel pomposo, il quale fu chiamato stile impero in letteratura, e sedusse poi tanti scrittori romantici, dal Thierry all'Hugo e a Giorgio Sand, e non fu senza efficacia anche in Italia, come apparisce per molti segni dalla prosa del Guerrazzi. E con tale arte lo Ch. portò l'immaginazione dei lettori verso spettacoli nuovi, in regioni ignote o mal note: nelle foreste sterminate e lungo i grandi fiumi dell'America, nella Gallia dei druidi, nella Germania e nella Scizia barbariche, nella Spagna moresca: evocazioni che "l'armonia pittrice" della sua parola avvolgeva di un incanto musicale. In quelle scene personaggi strani e maniaci vivevano una vita esaltata e inumana, dominata dalla fantasia e non dall'esperienza o dalla necessità, che li conduceva inevitabilmente alla morte. E perciò i romantici, ribelli quasi tutti alla tradizione sociale e alla realtà che incatena il sentimento, salutarono nello Ch. il maestro creatore dei grandi tipi romantici: la vergine pura e ardente che soccombe a una passione fatale; il bel tenebroso che turba tutti i cuori femminili e li disdegna o li spezza, perché nessun amore umano può vincere la sua misantropia orgogliosa; il ribelle magnanimo e un po' satanico, in guerra contro la società e superiore alla società, ai pregiudizî della quale contrappone le leggi imprescrittibili della natura; lo scellerato privo di ogni umanità, in cui sembrano incarnarsi la Tenebra e il Male come nel dio malvagio di qu̇alche antica cosmogonia. Per molti riguardi si può dire che lo Ch. procede dal Rousseau e preannuncia il Byron. Il Lamartine, l'Hugo, Giorgio Sand nel primo periodo enfatico e ribelle della sua vita letteraria, il Balzac di Seraphita e del Lys dans la vallée, A. De Musset nella Confession d'un enfant du siècle, il De Vigny, in Eloa e in Stello; Barbey d'Aurevilly nel romanzo e nella critica, riprendono, variandoli, i temi lirici e storici che lo Ch. aveva inventato. Né forse era del tutto fuori di strada il Sainte-Beuve quando. leggendo Salammbó del Flaubert, correva col pensiero ai Martyrs; onde non sembra esagerato il giudizio di chi affermò che lo Ch. ha dato l'impulso decisivo all'immaginazione francese durante il sec. XIX.

Bibl.: S. Marin, Histoire de la vie et des ouvrages de M. de Ch., Parigi 1832, voll. 2; Z. Collombet, Ch., sa vie et ses écrits, Lione 1851; C. De Marcellus, Ch. et son temps, Parigi 1859; A. Sainte-Beuve, Ch. et son grupe littéraire sous l'Empire, voll. 2, Parigi 1861; 2ª ed. corretta e accresciuta, Parigi 1878; Ch. Benoit, Ch., sa vie et ses oeuvres, Parigi 1864; E. Faguet, Ch., in Le XIX Siècle, Parigi 1887; G. Pailhes, Ch., sa femme et ses amis, Bordeaux 1896; A. Meurel, Essai sur Ch., avec une bibliographie, Parigi 1898; E. Biré, Les dernières anées de Ch. (1830-38), Parigi 1902; Lady Blennerhassett, Romantik und die Restaurationsepoche in Frankreich: Ch., Magonza 1903; Ch. Maurras, Trois idées politiques (Ch., Michelet, Sainte-Beuve), Parigi 1904; id., Nouvelles études sur Ch., Parigi 1912; A. Cassagne, La vie politique de F. de Ch., Parigi 1911; J. Lemaitre, Ch., Parigi 1912; G. Chinard, Lexotisme américain dans l'œvre de Ch., Parigi 1918; M. Levaillant, Splendeurs et misères de M. de Ch., Parigi 1922; V. Giraud, le Christ. de Ch., I, Parigi 1925; Corr. gén. de Ch., pubbl. da L. Thomas, Parigi 1913 segg.; G. Rabizzani, Ch., Lanciano 1910.

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