CHIAROSCURO

Enciclopedia Italiana (1931)

CHIAROSCURO (fr. clair-obscur; sp. claroscuro; ted. Helldunkel; ingl. clare-obscure)

Vincenzo GOLZIO
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Il chiaroscuro risulta nella realtà dalla diversa posizione delle varie parti di un corpo rispetto alla sorgente luminosa, cioè è determinato dal contrasto fra luce ed ombra nel passaggio dei toni intermedî, ma è stato adottato in arte come mezzo illusivo per rappresentare la profondità e la sporgenza delle masse o anche per riprodurre la naturale sfumatura delle tinte. Costituisce in altri termini il mezzo di rappresentazione della terza dimensione nelle arti disegnative, riproducendo illusivamente sul piano l'obliquità interna delle superficie curve e spezzate, così come lo scorcio lineare, di cui è complemento, riproduce l'obliquità dei contorni nello spazio. Dato questo suo rapporto di dipendenza dallo scorcio, evidentemente esso consegue all'acquisto della veduta prospettica: e le arti antiche, per quanto colte e perfezionate, non hanno mai raggiunto la capacità di dare illusivo risalto alle figure sullo sfondo, ma sono rimaste nella strettoia obbligata del più rigoroso parallelismo di vedute.

Lo scorcio e il chiaroscuro, ignoti all'arte egizia, sono supreme conquiste dell'arte greca, dalla quale sono poi passate nel dominio di tutte le altre civiltà venute a diretto o indiretto contatto con lei. Ne possiamo ricostruire in certo modo il sorgere e lo sviluppo attraverso la pittura vascolare. In alcuni vasi di stile severo, databili ai primi decennî del sec. V a. C., si sorprendono i primi tentativi, imprecisi e, per così dire, incoscienti di chiaroscuro ottenuto con pennellate di vernice diluita per indicare capelli, code, o talvolta particolari paesistici, o col tratteggio in nero dei contorni. Durante tutto il sec. V si sviluppa gradualmente questo processo preparatorio alla sostanziale innovazione, attraverso il trattamento sempre più libero e grandioso del panneggio, che acquista volume e morbidezza, attraverso la rappresentazione sempre più perfetta del corpo, che ottiene maggior libertà di movimenti pur entro i vincoli delle vedute parallele; infine attraverso il rendimento sempre più corporeo di tutta la natura. La plasticità delle pieghe nei movimenti irregolari dà l'effetto di ombreggiature della stoffa, l'uso crescente della vernice diluita e del tratteggio dei contorni precisa l'impressione; tuttavia dobbiamo giungere alla fine del secolo per trovare esempî più convincenti, come la figura del demone Talo nella grande anfora di Ruvo a volute. Non possiamo sapere esattamente fino a che punto sia pervenuta su questa strada la megalografia dell'età di Pericle, ma è presumibile che la pittura polignotea, pur ignorando il concetto razionale della veduta prospettica, abbia applicato l'ombreggiatura su più larga scala e sviluppato il sistema (anche con l'espediente di disporre le figure su varî piani) molto più di quanto non appaia nelle pitture vascolari, che pallidamente riflettono, sia per la loro inferiorità artistica, sia soprattutto a causa della mancanza di policromia, tali composizioni. Il grande innovatore fu, comunque, l'ateniese Apollodoro (v.). Si deve ritenere che l'invenzione di Apollodoro sia stata perfezionata dai continuatori di lui o almeno dalla cerchia degl'immediati seguaci, e specialmente da Zeusi di Eraclea e Parrasio di Efeso. Quintiliano (Inst. orat., XII, 10,4) attribuisce anzi l'invenzione a Zeusi, e quale fosse questa invenzione precisa Plinio in un brano (Nat. Hist., XXXV, 29) dove allude esplicitamente alla scoperta dei concetti di luce e d'ombra, di riflesso e d'armonia nella fusione dei toni e delle tinte, e alla loro applicazione pratica in pittura. Non si può credere peraltro che Apollodoro per primo abbia immaginato e reso l'ombra per dare illusivo risalto alla convessità dei corpi, giacché oltre quanto si è già detto, possiamo stabilire in base a una testimonianza di Vitruvio (De archit., V II; praef., II) che il pittore Agatarco di Samo (v.), la cui arte aveva precipuo carattere decorativo, poco prima della metà del sec. V impostò il problema della prospettiva nelle sue pitture sceniche, senza peraltro risolverlo. Apollodoro in sostanza, valendosi di tutte le precedenti esperienze, verso la fine dello stesso secolo introdusse nella pittura di tavole la veduta obliqua con lo scorcio prospettico e il chiaroscuro, in modo da rivelare nuovi, vastissimi orizzonti e concedere infinite possibilità non mai prima supposte alle arti disegnative.

Nella ceramografia non potevano mancare le ripercussioni del progresso, per quanto la tecnica delle figure rosse sul fondo nero non permettesse un rendimento adeguato. Esempî più che ogni altro preziosi sono i cosiddetti monocromi provenienti da Ercolano e da Pompei e conservati nel Museo Nazionale di Napoli, i quali derivano da originali della fine del sec. V e degl'inizî del IV: il chiaroscuro si accenna appena nel dipinto di Alessandro con le giocatrici di astragali, mentre nella scena dell'apobate e in quella di lotta col centauro già ricchi sono gli effetti d'ombra e ben calcolati per la luce incidente da sinistra, specie nella seconda dove si riconosce anche l'applicazione delle leggi prospettiche nelle dimensioni un po' minori della figura femminile, arretrata dal primo piano del quadro.

L'arte, pervenuta alla conquista di questi mezzi che segnavano il culmine della perfezione, ne fece l'uso più largo, fino all'abuso nell'età della decadenza, per l'assidua ricerca di effetti sempre nuovi, più mirabili e, diremo, sensazionali; né vale insistere con esempî che sono innumerevoli. Basti ricordare a quali fantasiosi prodigi siano pervenuti i decoratori ellenistici e romani nella rappresentazione di architetture irreali e di illusivi sfondi paesistici.

Bibl.: M. Collignon, in Mém. et Monum. Piot, XII, p. 47 segg.; A. Della Seta, La genesi dello scorcio nell'arte greca, in Mem. R. Accademia dei Lincei, s. 5ª, XII (1906), pp. 139 segg., 221 segg. (bibl. p. 225, n. 1); E. Pfuhl, Malerei u. Zeichnung der Griechen, Monaco 1923, principalmente pp. 665 segg., 673 segg. (ivi anche la bibl. e l'indicazione delle fonti antiche).

Nella pittura medievale il chiaroscuro persistette in formule manieristiche (pittura bizantina o bizantineggiante) o per imitazione da esemplari antichi, ma fu anche totalmente soppresso o attenuato per evidente proposito stilistico (musaici romani del sec. IX; pittura musulmana; pittura gotica oltremontana). Riacquistò nel Trecento valore e varietà rispondente al vario temperamento degli artisti (Giotto, Simone Martini, ecc.): e più ancora nel Rinascimento e in seguito. I teorici lo identificarono col rilievo; così lo intendeva ad esempio Galileo Galilei, se riteniamo sua la lettera che egli scriveva a Lodovico Cardi da Cigoli, nella quale parla del chiaroscuro, per dimostrare falsa la pretesa superiorità della scultura sulla pittura, a cagione del rilievo, "imperciocché quel rilievo che si scorge nella scultura, non lo mostra come scultura, ma come pittura". La statua infatti non ha rilievo per esser larga, lunga e profonda, ma per essere dove chiara e dove scura. Ossia la profondità di una scultura non è conosciuta dalla nostra vista "per sé et assolutamente, ma per accidente e rispetto al chiaro et allo scuro. E tutto questo è nella pittura non meno che nella scultura, dico il chiaro, lo scuro, la lunghezza e la larghezza; ma alla scultura il chiaro e lo scuro lo dà da per sé la natura e alla pittura lo dà l'arte". Nell'arte il modo del chiaroscuro è una delle più squisite espressioni dell'individualità dell'artista, soprattutto quando essa abbia intenti plastici come la pittura fiorentina: così esso in Leonardo è del tutto opposto a quello di Michelangiolo.

Le pitture di Leonardo possono ridursi fondamentalmente a luce e ombra. "Nero e bianco, dice egli stesso, in pittura sono i principali, conciossiaché la pittura sia composta d'ombra e di lumi, cioè di chiaro e di scuro". Ma il contrasto di chiaro e di scuro in Leonardo giunge a risultati ben differenti da quelli a cui arriva in Michelangelo. Mentre nel Buonarroti il chiaroscuro serve, col prevalere del chiaro sullo scuro, a dare effetti di rilievo, facendo staccare le figure dal fondo del quadro e avvicinandole a chi guarda, nel Vinci il chiaroscuro, ridotto a penombra dal prevalere dello scuro, è impiegato con squisita sensibilità pittorica a dare una visione lontana, a immergere gli oggetti nell'atmosfera del quadro. Per Leonardo, come per tutti i grandi pittori, il chiaroscuro serve a rendere tutte le variazioni dell'ombra, della mezza tinta, e della luce, del volume dei corpi e delle distanze.

Quanto è stato detto fa già vedere come vi siano varie, differentissime possibilità di espressione negli effetti chiaroscurali; occorre ora aggiungere qualche parola intorno a un altro speciale chiaroscuro, quello cioè di Michelangelo da Caravaggio, che così largo seguito ebbe nella pittura del Seicento. Questo pittore concepiva il chiaroscuro come violento contrasto di parti illuminate e di parti in ombra. Egli, secondo racconta un suo biografo, il Bellori, "non faceva mai uscire all'aperto del Sole alcuna delle sue figure, ma trovò una maniera di campirle entro l'aria bruna di una camera rinchiusa, pigliando un lume alto, che scendeva a piombo sopra la parte principale del corpo, e lasciando il rimanente in ombra, affine di recar forza con veemenza di chiaro e di scuro". Questa luce, che piomba improvvisa nell'ambiente oscuro, colpisce gli oggetti e le figure, illuminandone alcuni lati, altri lasciandone nell'ombra, e per forza di contrasto modella i corpi, facendone risaltare il valore volumetrico, di massa, e accentuando la composizione in tralice del quadro, che sarà poi lo schema favorito del Seicento. Né all'apparizione improvvisa di figure e di oggetti nel buio è estranea la "meraviglia" secentesca.

Il chiaroscuro caravaggesco ebbe un'importanza grandissima, e questo stile pittorico, diffuso per l'Europa, non rimase senza effetto sui più celebrati pittori che appunto sono noti per il loro impiego del chiaroscuro, come ad es., per citare soltanto il più famoso, il Rembrandt. I pittori che si servono della luce che piomba nell'ambiente sopra gli oggetti in esso contenuti, rimanendo quasi estranea ad essi, arrestandosi alla loro superficie, son detti luministi. Il pittore luminista tende a impostare la visione della realtà sul contrasto tra il chiaro e lo scuro, a trascurare il colore, a ridursi al monocromato; visione tutta diversa da quella del colorista, del pittore cioè che non conosce luce astratta fuori del colore, ma solo il colore - luce, che identifica cioè il colore con la luce e illumina il quadro con la luce che è contenuta nei singoli colori, mettendoli in valore per mezzo dei rapporti tonali. Il chiaroscuro da questi pittori è ottenuto coi colori stessi: ossia è dato dalla quantità di chiaro e di scuro che essi contengono, cioè dal tono. A Venezia alla fine del sec. XV si scoprì che l'illuminazione del quadro si poteva ottenere non con le semplici tinte chiare, più ricche di luce, ma col rapporto dei toni, cioè col rapporto delle varie dosi di luce e di ombra contenute nei colori.

Chiaroscuro e colore non furono più tra loro in netta opposizione; la pittura non dovette più, come quella dei Senesi, ridursi alla superficie per non distruggere il colore. o, come quella dei Forentini, rinunciare al colore per non distruggere il rilievo, o ricorrere, come quella dei michelangioleschi, al mezzo termine del cangiantismo. Così si ebbe un effetto chiaroscurale pittorico, senza rinunziare al colore, come dovette fare Leonardo, ma anzi ottenendolo per mezzo del colore stesso, della composizione tonale.

Lodatissimo fu sempre per il chiaroscuro Antonio Allegri detto il Correggio. Egli riprese il chiaroscuro di Leonardo, ma lo svolse con ben altro spirito: senza che il colore venisse assorbito dall'ombra, ma sì che fosse reso da quello più tenero e gentile. Col chiaroscuro s'intona la linea serpentina nella Zingarella di Napoli, creando un capolavoro; col chiaroscuro il Correggio ci fa dimenticare la solidità della forma, che egli tuttavia non distrugge.

Come si rileva dalle parole del Galilei che abbiamo citate, il chiaroscuro ha la sua importanza non solo nella pittura, ma anche nella scultura. Nella scultura barocca, ad es., il contrasto delle parti illuminate con quelle in ombra è usato comunemente come mezzo per ottenere quegli effetti particolari di movimento delle masse che sono caratteristici di quell'arte in quel periodo. L'uso del chiaroscuro è ancor più comune e naturale nei bassorilievi, che tendono così a diventare pitture, aiutando il gioco delle luci e delle ombre, il digradare dei piani prospettici, nel Seicento anche l'architettura tende alla pittura, attraverso ad effetti scenografici. Le facciate barocche, fortemente aggettate, così variate nel gioco delle sporgenze e delle rientranze, dànno luogo a numerosi effetti di luce e di ombra e si presentano al nostro occhio come immensi quadri.

Con la parola chiaroscuro si chiamano anche le pitture che con altra parola si dicono monocromati, quelle pitture cioè nelle quali tutti gli effetti sono ottenuti con la sola degradazione delle ombre e delle luci, mentre una sola tonalità domina tutta la composizione. Con questa specie di decorazione pittorica si ornarono le facciate delle case e dei palazzi nel sec. XVI in Roma e per tutta l'Italia, imitando la pietra o il marmo intagliati. La tecnica è quella dell'affresco; dice il Vasari che tali chiaroscuri "vogliono avere.... fierezza, disegno, forza, vivacità e bella maniera; ed essere espressi con una gagliardezza che mostri arte e non stento, perché si hanno a vedere ed a conoscere di lontano".

Chiaroscuri si facevano anche su tele per archi trionfali o per apparati di teatri e di feste.

Come autori famosissimi di chiaroscuri, o monocromati, ricordiamo Polidoro da Caravaggio e Maturino fiorentino.

Con la parola chiaroscuro s'indicano anche speciali stampe impresse a più tinte in modo da imitare i disegni acquerellati, dai Francesi dette anche Camaieux. Per ottenere le diverse tinte si usano più tavole che si stampano sovrapponendole l'una all'altra (v. incisione).

Bibl.: G. Vasari, Le vite, ecc., ed. Milanesi, Firenze 1878-1885; G. Galilei, Opere, Firenze 1901, XI, p. 340 segg.; L. Venturi, La critica e l'arte di Leonardo da Vinci, Bologna 1919; A. Reichel, De Clair-obscur-Schnitte des XVI., XVII. und XVIII. Jahrhunderts, Zurigo-Lipsia-Vienna 1926.

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