CHIMICA AMBIENTALE

XXI Secolo (2010)

Chimica ambientale

Anna Bortoluzzi

Per illustrare nella maniera migliore questa disciplina è utile liberare il campo da alcune spontanee reazioni che può suscitare il termine chimica. Per coloro che non sono chimici questa parola evoca scenari non sempre rassicuranti e potrebbe indurre a pensare che la chimica ambientale si occupi dei danni che la pratica industriale della chimica ha causato all’ambiente. In realtà si tratta di una nuova disciplina che, nata nell’ambito della chimica tradizionale, si è evoluta ben oltre i confini dell’area scientifica originaria, trovandosi oggi profondamente inserita in un’ampia serie di altre discipline, anche non scientifiche, come, per es., la giurisprudenza. Forse il merito del grande sviluppo che ha caratterizzato la chimica ambientale è proprio la sua connessione con l’ambiente. Se, infatti, per ambiente s’intende il contesto comprendente l’aria, l’acqua, il terreno, le risorse naturali, la flora, la fauna, gli esseri umani e le loro interrelazioni, è facile capire come l’interesse di questa nuova disciplina si estenda a quello che, con la pratica del senso comune, si chiamerebbe mondo.

Sarà evidenziato in seguito come la chimica ambientale offra ben più che una visione specialistica dell’entità generica chiamata mondo, essendo infatti riuscita a unire la capacità della chimica di penetrare i meccanismi della materia con la visione sistemica che la definizione di ambiente comporta. Inoltre, con riferimento all’insegnamento di questa nuova disciplina, bisogna tenere presente che la nascita delle scienze ambientali ha lanciato una sfida complessiva agli uomini di scienza, metodologica prima che scientifica: affiancare agli strumenti d’indagine, propri delle singole discipline, la visione sistemica. In questo senso la chimica ambientale è una scienza in evoluzione, che ha un ruolo negli atenei di tutto il mondo, ma non ancora una struttura disciplinare univocamente condivisa e soprattutto comprensiva di tutti i contributi che la compongono. Allo sviluppo delle sue tematiche contribuiscono, infatti, ambiti e fonti diverse: tra gli altri, la matematica e la statistica per la costruzione di modelli; la pratica chimica degli enti di controllo ambientale con l’evoluzione degli approcci al monitoraggio; le iniziative politiche e legislative con l’individuazione di principi a tutela della collettività (per es., il principio di precauzione); lo sviluppo delle tecnologie per affrontare operativamente le soluzioni che la ricerca propone.

Tutti questi contributi delineano per la chimica ambientale un orizzonte di conoscenze che si estende molto al di là dei laboratori di ricerca o degli atenei, pur comprendendoli ovviamente come punti di riferimento irrinunciabili. Si può allora ritenere che la pratica dell’insegnamento di questa nuova disciplina andrà fortemente rinnovata in futuro per provvedere a comunicarne tutta l’importanza e la completezza di contenuti. Comunque tra gli elementi costitutivi universalmente condivisi si possono oggi individuare: i cicli chimici (dell’azoto, del fosforo, dello zolfo ecc.); la chimica e la biochimica dell’acqua (tra cui l’inquinamento delle acque e il loro trattamento); l’atmosfera e la chimica atmosferica (tra cui le particelle nell’atmosfera, gli inquinanti inorganici gassosi nell’aria, gli inquinanti organici nell’atmosfera, l’inquinamento fotochimico, i componenti antropogenici nell’atmosfera come il gas serra); la geosfera e geochimica (tra cui la chimica del suolo); la chimica legata allo sviluppo tecnologico, all’utilizzo delle risorse e delle energie; la chimica ambientale dei rifiuti pericolosi (tra cui le tecnologie di trattamento degli stessi); la biochimica ambientale; la chimica tossicologica; la chimica analitica ambientale.

L’approccio sistemico

A livello di evoluzione attuale, gli elementi costitutivi della chimica ambientale fanno pensare a un prossimo e veloce suo percorso di sviluppo in ottica sistemica. Lo studio dell’ambiente non è più, infatti, il prodotto di una serie di singole indagini scientifiche, ma presuppone l’interazione attiva tra matrici ambientali (per es., aria, acqua, suolo ecc.) e discipline diverse (per es., biologia, geologia, ecologia, demografia, fisica, meteorologia ecc.). Fra tutte le discipline scientifiche con cui la chimica ambientale s’intreccia, sicuramente quella che studia i sistemi complessi fornisce le basi per la logica da utilizzare. Il pensiero sistemico, come studio dei sistemi e delle loro interazioni, ha leggi e regole proprie e costituisce la base condivisa di molti approcci scientifici innovativi che vanno dalla gestione di reti informatiche allo studio delle leggi che regolano il caos, dalle applicazioni in ambito cibernetico all’utilizzazione nelle scienze umane (per es., nella programmazione neurolinguistica). Anche discipline applicative come l’organizzazione aziendale hanno fatto uso del pensiero sistemico come piattaforma per sviluppare scientificamente le logiche di analisi e di sviluppo.

Nel caso della chimica ambientale, o delle scienze ambientali in generale, non vi è stata ancora un’applicazione sistematica degli strumenti messi a disposizione dalla teoria generale dei sistemi, di cui, tuttavia, si sono riscoperti nella pratica postulati tra i più importanti e alcune leggi chiave. Quando si osserva l’ambiente in effetti si prende in esame un sistema e costituiscono sistemi anche gli organismi viventi. Le scienze ambientali, sistemiche per la loro stessa costituzione, beneficeranno di un significativo impulso allo sviluppo attraverso l’applicazione del pensiero sistemico come parte metodologica integrante. In questo campo, e in particolare in quello della chimica ambientale, spingersi oltre i confini, verso discipline apparentemente non affini ma portatrici di approcci diversi ai problemi, è un forte motore per l’innovazione. Per offrire un contributo a questa nuova visione, che promuoverà in futuro i contenuti della chimica ambientale, si descriveranno alla luce delle logiche e dei postulati del pensiero sistemico alcuni dei principali elementi costitutivi.

Il suolo

Il suolo è la parte superficiale della crosta terrestre che si forma per degradazione chimico-fisica dalle rocce e dal contributo congiunto di microrganismi e agenti atmosferici. La funzione da sempre nota del suolo è quella di fornire il supporto per la vita delle piante; questa caratteristica rende evidente il suo essere strutturalmente un sistema aperto e dinamico che evolve continuamente verso condizioni di equilibrio. In esso le componenti abiotiche (minerali, acqua, aria, sostanze organiche) e quelle biotiche (alghe, miceti, batteri, protozoi, anellidi, artropodi ecc.) hanno una stretta interdipendenza e quindi esso rappresenta in modo esemplare un ecosistema. Tuttavia, le funzioni del suolo sono più vaste delle reazioni chimiche e biochimiche e delle dinamiche dell’ecosistema che vi hanno luogo e sono in più ampia relazione con la morfologia terrestre, le acque superficiali e sotterranee e l’attività umana.

Se si prende in esame la definizione di sistema come viene proposta dalla teoria dei sistemi si trova che esso è considerato un insieme che si mantiene in vita e conserva le sue funzioni complessive attraverso l’interazione delle sue parti. In particolare, tale teoria sottolinea che il comportamento di tutti i sistemi dipende dalle correlazioni delle parti, piuttosto che dalla natura delle stesse. Nel caso del suolo questa definizione chiarisce bene come alcune sue proprietà fondamentali non siano dovute alle singole componenti ma al suo funzionamento come sistema: per es., la capacità del suolo di depurare le acque attraverso l’azione combinata delle componenti biotiche e abiotiche, proprietà conosciuta sin dall’antichità e utilizzata dall’uomo per ottenere acqua adatta all’alimentazione (come nel caso dei sistemi di cisterne romane); la capacità del suolo di sostenere la vita delle piante attraverso meccanismi il cui studio è stato la prima base della chimica ambientale (i cicli chimici degli ecosistemi). Se si prende in considerazione il ciclo del fosforo (fig. 1) risulta evidente come il suolo, in quanto sistema, svolga un ruolo fondamentale nel mantenere disponibile per gli organismi viventi, tra cui le piante, un elemento chiave per la vita come il fosforo e in che modo ciò avvenga mediante l’interazione dinamica di tutte le sue componenti: dalle rocce, che forniscono i fosfati inorganici, ai fosfato-organici frutto dell’attività biochimica degli organismi presenti nel suolo. Le proprietà di depurazione e di fertilizzazione del terreno sono svolte dal suolo in accordo con un principio della teoria dei sistemi: le caratteristiche di un sistema trascendono quelle delle singole parti che lo compongono e nessuna di esse, presa singolarmente, le possiede. L’attività dei batteri o quella di erosione delle rocce per ottenere fosfati inorganici non sarebbero, infatti, in grado di produrre, da sole, la disponibilità di fosfati inorganici solubili e di mantenere un equilibrio tra le diverse forme del fosforo che sono alla base del ciclo vitale.

Il suolo è costituito da molti di questi equilibri dinamici e si può quindi pensare che non si presenti come un unico ecosistema ma ne comprenda diversi, in molti dei quali è presente la componente antropica. Definendo il suolo come una vera risorsa naturale rinnovabile si conferma la coerenza con la teoria dei sistemi secondo cui un’entità sistemica può appartenere a sistemi più grandi e, a sua volta, essere composta da sottosistemi più piccoli. Si tratta di un’affermazione avente utilità pratica se si pensa di impostare le logiche per lo studio di una risorsa naturale rinnovabile, ma vulnerabile, come il suolo, tenendo conto che è possibile acquisire le conoscenze relative a molti sistemi diversi applicando i medesimi principi dell’approccio sistemico. In realtà, sino a oggi tale approccio non è stato integralmente applicato allo studio del suolo e si è pertanto appreso molto dagli eventi ma senza purtroppo la salvaguardia del principio di prevenzione. È stato possibile conoscere allora le dinamiche della chimica e della biochimica del suolo soltanto attraverso gli effetti negativi sull’ambiente che, nello specifico, sono da considerare vere e proprie passività ambientali anche da un punto di vista economico. Le risorse naturali sono beni collettivi e il ripristino dei loro equilibri o la loro salvaguardia sono spesso oneri economici che la collettività deve sostenere per garantire la propria sopravvivenza.

In modo particolare, quando un suolo è inquinato, il problema si pone in termini non tanto di tutela dell’ambiente quanto di salute pubblica. Le strutture di controllo e i legislatori hanno potuto agire fondamentalmente nel nome della salute pubblica in quanto nell’ambito della tutela del suolo, e in generale della legislazione ambientale, vi erano vaste lacune normative che hanno lasciato spazio ad azioni ingiustificabili dal punto di vista scientifico. Basti pensare che fino agli anni Settanta del 20° sec. era lecito per un’azienda provvedere al seppellimento dei rifiuti industriali nel proprio suolo di stabilimento; fino al 1980 la legislazione italiana non prevedeva alcuna normativa per una specifica tutela di suolo, sottosuolo e acque sotterranee. È recente l’orientamento del legislatore che fa chiaro riferimento a limiti tabellari per individuare i livelli di inquinamento del suolo e ha stabilito l’obbligatorietà dell’intervento di bonifica prima con d.m. del 25 ott. 1999 n. 471 e poi con d. legisl. del 3 apr. 2006 n. 152 parte IV, con il quale si passa a un approccio misto con limiti tabellari e criteri di screening. La pesante eredità che l’attuale legislazione lascia alle prossime generazioni, a causa della quasi inesistente tutela del suolo dall’inquinamento, ha però origini anche nell’approccio al problema da parte degli uomini di scienza. La chimica ambientale ha permesso di conoscere i cicli dell’ecosistema suolo, la natura dei suoi costituenti e alcune particolari dinamiche, ma non si è posta il problema in termini di studio di sistemi complessi. Nell’approccio scientifico si è sottovalutata una delle basi della teoria dei sistemi, secondo cui più un sistema è complesso, più imprevedibili risultano le proprietà generali, dette proprietà emergenti, perché si manifestano quando l’intero sistema è in funzionamento.

Tra queste proprietà del sistema suolo non adeguatamente esaminate vi sono tutte le capacità di interazione con le matrici gassose, come l’atmosfera, e quindi non si è considerato, per es., che la ricaduta al suolo di molecole inquinanti come le diossine potesse farle rientrare nella catena alimentare di cui fa parte, ovviamente, anche l’uomo. Un’altra proprietà emergente del suolo non valutata è quella che lo porta ad arricchire le acque sotterranee con sostanze che, in alcuni casi, possono essere nocive per la vita (per es., i diserbanti selettivi accumulati nelle acque di prima falda oggi definitivamente compromesse, e dovuti a un indiscriminato uso agricolo in anni anche molto recenti). Infine, tra le proprietà emergenti sottovalutate vi è la capacità del suolo di trattenere nella propria matrice minerale i metalli pesanti, anche quando questi sono prodotti da attività industriali (come nel caso del mercurio derivante dagli impianti soda-cloro o del piombo utilizzato come piombo tetraetile, antidetonante nelle benzine), ma poi di rilasciarli in forma solubile sotto l’azione delle piogge acide per inquinamento atmosferico, creando quindi picchi di concentrazione nelle falde acquifere sottostanti. L’incapacità di adattare efficaci logiche di prevenzione nella tutela dei suoli non è però dovuta solo all’approccio carente, in quanto non sistemico, del mondo scientifico ma è il risultato anche di altri fattori: l’uomo da sempre contribuisce agli equilibri del suolo con le proprie attività agricole, per es. con le pratiche di fertilizzazione; il suolo è stato da secoli inquadrato nell’ambito della proprietà dei singoli e non come bene della collettività. Questa condizione ha impedito una valutazione adeguata dell’impatto di alcune attività sull’equilibrio del sistema suolo e ha portato alla seguente proibitiva e onerosa situazione: 15.000 siti da bonificare individuati negli Stati Uniti, 30.000 in Germania e 7000 nei Paesi Bassi mentre la FAO (Food and Agriculture Organization) nel 1995 denunciava la diminuzione del 40% circa della capacità produttiva delle superfici coltivate al mondo, provocata dalla contaminazione o dall’uso non appropriato dei suoli.

Le acque

Per comprendere meglio i meccanismi dinamici che costituiscono i sistemi e analizzarne alcuni, come la relazione tra causa ed effetto, si prenda in esame uno scenario di contaminazione dell’ambiente che nel contesto della chimica ambientale è storico e molto studiato: l’inquinamento da mercurio, noto sin dai tempi dell’Impero romano in quanto lo sfruttamento delle miniere di cinabro provocava nell’ambiente circostante una contaminazione derivante dalla lavorazione del minerale, identificabile per la colorazione rossa che appariva anche nei terreni e nelle acque, come nel caso della miniera di Idrica (Slovenia). Il mercurio è l’unico metallo che alle condizioni ambiente si presenta allo stato liquido e per tale sua caratteristica è da sempre risultato insostituibile. Con esso si realizzano le amalgame, particolari leghe che possono passare dallo stato solido a quello liquido indipendentemente dalla temperatura e semplicemente in funzione della concentrazione di mercurio presente. Inoltre il mercurio come tutti i liquidi distilla a temperature relativamente basse ed è pertanto storicamente utilizzato per l’estrazione dei metalli preziosi come l’oro e l’argento. Questo elemento si è reso ancora più utile nel corso dell’evoluzione tecnologica per le sue caratteristiche di conduttore e, infatti, come tale viene ancora oggi diffusamente utilizzato nell’industria chimica per la produzione di cloro, nel ruolo di elettrodo nel processo denominato soda-cloro. Tuttavia il mercurio per i chimici rappresenta anche uno degli elementi di transizione e fa parte dei metalli identificati come metalli pesanti insieme a cadmio, cobalto, cromo, rame, manganese, molibdeno, piombo, zinco. Questi metalli hanno caratteristiche comuni che sono risultate particolarmente utili sin dall’epoca delle teorie e tecniche alchemiche: formano una grande varietà di composti anche organici e spesso colorati; sono quindi così versatili da essere utilizzati, per es., come catalizzatori ma anche come coloranti di uso corrente (per es., nella formulazione delle vernici).

In pratica il mercurio, per gli usi che ne sono stati fatti, si può meritare la definizione di elemento ubiquitario nell’ambiente. I suoi impieghi, anche odierni, sono tali per cui lo si trova in molti oggetti di vita quotidiana: dai termometri ai dispositivi di sicurezza delle auto, dai prodotti biocidi di ambito agricolo alle lampade al neon. Peraltro l’intossicazione da mercurio non è altrettanto manifesta nella nostra esperienza di vita quotidiana. La pericolosità di questo metallo nell’ambiente è inoltre percepita in modo ridotto per il familiare impiego tradizionale in ambito medico: il calomelano, bicloruro di mercurio Hg2Cl2, è stato usato fino a pochi decenni fa come lassativo regolarmente iscritto nella farmacopea; le otturazioni dentarie in amalgama sono state diffusamente utilizzate con la motivazione che il composto dopo pochi giorni dalla sua applicazione orale si inertizza per un fenomeno di passivazione della superficie attraverso la formazione di sali insolubili di mercurio come appunto il calomelano, farmaco innocuo.

Questa esperienza di convivenza con il mercurio, senza troppi danni visibili, ne ha ulteriormente favorito la diffusione e gli usi su grande scala, come nell’ambito delle tecnologie industriali. La situazione è radicalmente mutata nel 1956 con il disastro ecologico di Minamata: 111 morti e 30.000 malati affetti da un nuovo morbo, chiamato morbo di Minamata (contaminazione da mercurio); questa data ha segnato una tappa fondamentale della storia evolutiva della chimica ambientale. Nella baia di Minamata in Giappone, nazione allora alla ricerca di una rinascita industriale dopo la distruzione causata dalla Seconda guerra mondiale, si verificò il primo grande disastro ecologico dell’era moderna che si distinse per la prima ri­chiesta collettiva di risarcimento danni da parte delle persone coinvolte. Dopo l’incidente di Minamata l’approccio all’ambiente delle collettività ha subito un cambiamento profondo e la legislazione si è ispirata a principi di tutela e di prevenzione impensabili nei periodi precedenti che pure avevano registrato ritmi vertiginosi nello sviluppo tecnologico dei Paesi industrializzati. Con l’esperienza di Minamata ha preso avvio il coinvolgimento di una nuova figura professionale nell’ambito della chimica ambientale, ossia il legislatore. La chimica ambientale ha così orientato pesantemente i principi che regolano le leggi e oggi, come si evidenzierà dall’esame dei nuovi regolamenti europei, il legislatore si fa interprete della tutela della collettività attraverso un’azione che propone problematiche ai giuristi e coinvolge i chimici. Il caso Minamata si è concluso soltanto nel 2004 con un riconoscimento ufficiale dei danni subiti dagli abitanti e con il loro indennizzo, ma la lezione appresa nel frattempo ha permesso di elaborare in altri Paesi una legislazione che persegue la tutela dell’ambiente e della salute fino al riconoscimento di danni in eventi simili, secondo un principio universalmente riconosciuto: chi inquina paga.

È utile dedicare un approfondimento alla mancata azione preventiva della comunità scientifica e sull’eventuale atteggiamento irresponsabile dei chimici che gestivano l’impianto di Minamata, i cui scarichi sono stati la causa della contaminazione da mercurio. Come accennato in precedenza, la tossicità del mercurio era nota già in epoca romana: si sapeva come l’aspettativa di vita degli schiavi impegnati nelle miniere di cinabro, ed esposti ai vapori durante l’estrazione del metallo dal minerale, non superasse i sei mesi. Si conosceva anche la tossicità per le forme di vita di alcuni composti inorganici del mercurio che, come nel caso del rame per i solfati, venivano impiegati come rudimentali biocidi in agricoltura. La loro bassa solubilità li rendeva però apparentemente innocui per l’uomo tanto da pensare di utilizzarli persino come farmaci. Infatti, con i sali di mercurio non si erano mai verificati episodi di intossicazione acuta come invece, per es., nel caso di ingestione di sali di arsenico. Pertanto, da un punto di vista scientifico, per quelle che erano le conoscenze dell’epoca, i chimici di Minamata non avevano motivi per prendere misure di contenimento del mercurio negli scarichi; almeno questo è stato uno degli argomenti utilizzati per non gestire gli oneri del risarcimento collettivo intentato per via legale dai malati e dalle loro famiglie.

Se la chimica ambientale era agli inizi, ciò che mancava non erano soltanto le informazioni ma anche gli approcci logici efficaci. Leggendo infatti l’esperienza di Minamata con gli strumenti della teoria dei sistemi si rileva come siano stati trascurati i meccanismi di ben due di essi. Il primo è il corpo umano nei suoi processi di interazione con le sostanze. In pratica non si è tenuto conto di un principio della teoria dei sistemi che spiega la modalità delle relazioni causa-effetto: è bene infatti attendersi nei sistemi un certo ritardo tra la causa e il suo effetto; la retroazione circolare dei sistemi impiega del tempo prima di manifestarsi; più il sistema è complesso, più tempo la retroazione può impiegare a manifestarsi. Se non si tiene conto del ritardo sistemico, si potrebbe essere indotti a reagire in modo esagerato o poco coerente. Il corpo umano è sicuramente un sistema complesso e nel caso di contaminazione da mercurio è stato poco coerente, da parte dei chimici e dei tossicologi, non considerare tale ritardo. L’elemento ingerito o respirato si accumula nell’organismo perché non vi sono meccanismi che ne permettono l’eliminazione efficace. Infatti, non si elimina con feci o urine ma solamente con il ricambio dei tessuti cornei (peli, capelli, unghie) nei quali riesce a concentrarsi. Questi tessuti, però, sono soggetti a un ricambio molto lento e quindi insufficiente a proteggere gli organismi contaminati da quantità significative di mercurio. Il fatto che esso non dia segni di tossicità acuta, riconducibile alla sua somministrazione in un lasso di tempo breve, ha fatto ritenere che non potesse generare danni negli organismi.

Un’indagine scientifica del modo in cui gli organismi interagiscono con tale sostanza, svolta secondo logiche di pensiero sistemico, avrebbe potuto evidenziare in anticipo quelli che sono oggi i ben noti meccanismi di avvelenamento da accumulo di mercurio nei tessuti per aumento di concentrazione in ogni anello della catena alimentare, e quindi di danno progressivo all’interno degli esseri viventi che la compongono e al cui vertice si trova l’essere umano. Oggi siamo tutelati da limiti posti dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) che stabilisce livelli massimi giornalieri per l’assunzione di quei cibi che possono essere contaminati da mercurio (per es., pesci predatori come il tonno). Tuttavia, un’indagine svolta coniugando le giuste logiche sistemiche con un rigoroso approccio scientifico avrebbe sicuramente permesso di prevenire i danni all’ambiente almeno per quanto riguarda l’entità dell’impatto, ma avrebbe però richiesto studi scientifici piuttosto articolati che, probabilmente, all’epoca sarebbero stati inquadrati nell’ambito della ricerca di base, allora come oggi caratterizzata da scarsità di finanziamenti e di soggetti (università o industrie) nel ruolo strategico di protagonisti. L’indagine scientifica svolta invece a posteriori, sullo scenario ambientale una volta evidenziati i danni, ha visto coinvolti diversi soggetti, compresi i laboratori pubblici di controllo, che hanno operato attraverso studi applicativi, quindi non più catalogati nell’indistinto campo della ricerca di base. Il più rilevante aspetto critico di questo approccio scientifico a posteriori, che purtroppo penalizza ancora oggi la chimica ambientale, riguarda i costi economici che sono di ordini di grandezza superiori (10 o 100 volte) rispetto ai costi della ricerca di base; inoltre i costi sociali risultano difficilmente calcolabili (è sempre problematico quantificare il valore della vita umana e di quel bene collettivo che è l’ambiente).

Per gli aspetti sopra descritti, relativi alla tossicità per accumulo, il mercurio è stato uno dei metalli più studiati, ma condivide questa proprietà con gli elementi di transizione (già richiamati come metalli pesanti). Gli studi di chimica ambientale in questo contesto hanno permesso di valutare i meccanismi comuni ai metalli pesanti nella prospettiva dei sistemi complessi (fig. 2) e di stabilire criteri di tutela, opportunamente rigidi, nella legislazione. Per es., nella normativa degli Stati Uniti i metalli pesanti sono compresi nella lista delle 129 sostanze tossiche da eliminare dagli scarichi con la miglior tecnologia possibile (BAT, Best Available Technologies) economicamente ottenibile, utilizzando cioè sempre le scoperte scientifiche e tecnologiche più avanzate se economicamente sostenibili.

Il secondo sistema che non è stato adeguatamente preso in esame nel disastro di Minamata, al fine della possibile prevenzione di danni ambientali da mercurio, è l’ecosistema marino e dei corpi idrici in generale. Come abbiamo visto gli elementi di transizione, a cui il mercurio appartiene, si distinguono nella tavola periodica per la loro versatilità: sono infatti noti per presentare una reattività chimica che permette di ottenere composti sia inorganici sia organici. Nel caso giapponese il mercurio contenuto negli scarichi industriali affluiva in una baia, ovvero un’insenatura costiera con una stretta entrata dal mare che si allarga progressivamente verso l’entroterra. La dinamica del sistema costituito dalla baia, le sue acque e gli organismi viventi, aveva tra le proprietà emergenti, nell’ottica della teoria dei sistemi, lo scarso ricambio delle acque con accumulo consistente di sedimenti nei quali trovavano un habitat ideale diverse specie di batteri, sia aerobi sia anaerobi. Una semplice analisi dei fattori che costituiscono lo scenario ambientale della baia di Minamata, cioè la possibilità del mercurio di formare composti organici e forte presenza di specie batteriche, non consente di evidenziare, tuttavia, alcun elemento che indichi la pericolosità del sistema. Un esame condotto, invece, secondo la teoria dei sistemi interpreta e illustra un postulato importante e, nel caso in questione, risolutivo: come già sottolineato, quando si scompone un sistema nelle sue parti per analizzarlo, esso perde le sue proprietà; per comprendere il funzionamento di un sistema, quindi, bisogna esaminarlo come un tutto. Se lo scenario ambientale di Minamata fosse stato esaminato alla luce di questo postulato sarebbe emerso che il ruolo chiave nella tossicità manifestata dal mercurio era un suo composto organico prodotto dai batteri anaerobici, per sua natura molto solubile e in grado di bioaccumularsi nel tessuto lipidico dei pesci: il metilmercurio nelle sue due forme CH3Hg+ solubile in acqua e (CH3)2Hg in forma volatile che si può facilmente disperdere in atmosfera.

Soltanto l’interazione dei due sistemi (corpo umano ed ecosistema dei corpi idrici) ha potuto generare un danno ambientale di insospettabile intensità, non evidenziato con tempistica utile alla prevenzione perché indagato con approccio scientifico di analisi non sistemica dei fenomeni. Peraltro, secondo la teoria dei sistemi in base alla quale essi possono far parte di altri più grandi e, a loro volta, essere composti da sottosistemi più piccoli, lo stesso meccanismo di metilazione del mercurio è parte di un sistema più vasto. Infatti, la forma volatile del metilmercurio lo rende presente in quantità apprezzabili in atmosfera dove è in grado di bioaccumularsi in organismi non acquatici, come insetti e uccelli, compresi gli organismi presenti nei suoli, dove subisce il trascinamento da parte delle piogge. Inoltre, le piogge che si verificano in aree industrializzate, o densamente abitate, tendono ad avere un contenuto di acidità notevole in quanto solubilizzano gli ossidi di azoto e zolfo presenti in atmosfera come risultato delle attività industriali e delle combustioni anche per uso civile (per es., auto, riscaldamento domestico). L’acidità delle piogge fornisce un ulteriore contributo di mercurio e di metalli pesanti, solubili negli acidi, alle falde acquifere e ai corpi idrici. Poiché la contaminazione da mercurio è presente anche nei suoli dei siti industriali che lo hanno utilizzato, con alcuni casi parossistici di seppellimento di rifiuti ad alta concentrazione di mercurio nelle sue diverse forme, è confermata l’evidenza di un sistema più grande: mercurio in atmosfera dilavato da piogge acide che rimuovono altro mercurio presente nei suoli e lo trascinano nelle acque dove subisce le trasformazioni anaerobiche all’interno dei sedimenti dei corpi idrici. Siamo davanti a quello che nella teoria dei sistemi si definirebbe sistema a complessità dinamica, nel quale le connessioni possibili tra le varie parti sono numerose e svariate perché ciascuna di esse può assumere diverse caratteristiche.

La vera sfida della chimica ambientale del futuro sarà quindi fare prevenzione utilizzando gli strumenti della teoria dei sistemi per valutare in anticipo gli scenari ambientali che si presentano, anche attraverso lo studio di fenomeni caratterizzati da complessità dinamica. Bisogna ricordare a questo punto che la teoria dei sistemi non è una disciplina che si esprime per postulati come nella sintesi sin qui effettuata ma solo per fini illustrativi. È in realtà una scienza che al proprio interno ha sviluppato robusti strumenti di calcolo ed è quindi in grado di elaborare modelli e fornire risposte basate sul trattamento di dati. In attesa che l’approccio scientifico della chimica ambientale utilizzi strumenti più consoni (teoria dei sistemi), nel rapporto tra società civile e sfera giuridica si stanno applicando nuove soluzioni per esercitare tutela e prevenzione rispetto ai disastri ambientali.

La figura chiave, per questo aspetto, come si è già visto, è il legislatore. La legislazione internazionale e nazionale prende spunto dalle conferenze mondiali degli scienziati e, in tema di ambiente, sta diventando sempre più tecnica e prescrittiva. La lezione appresa con disastri ambientali analoghi a quello di Minamata ha avuto una ricaduta nella legislazione di tutti i Paesi industrializzati e ha fatto sì che fossero stabiliti, tra l’altro, limiti, per es., per i livelli di mercurio negli scarichi industriali; obblighi di bonifica dei suoli inquinati; limitazione delle attività industriali che possono interferire con gli equilibri di corpi idrici chiusi o circoscritti (come baie e lagune); limitazione del contenuto di mercurio negli alimenti. Tale approccio prescrittivo, denominato command and control, implica che si eserciti un controllo efficace del rispetto dei limiti e dei principi tecnici contenuti nella legislazione. Per questo sono stati istituiti in ogni nazione specifici organi di controllo pubblici in grado di utilizzare competenze tecniche e scientifiche di alto profilo. Si sono così create nuove professionalità che si possono identificare con i veri chimici ambientali, che coniugano il lavoro scientifico, con la pubblicazione di lavori di ricerca applicata, al lavoro più operativo sul campo. Nel settore dei chimici ambientali, operativi all’interno degli organi di controllo, si osserva anche un primo approccio alla modellazione ambientale (analisi dell’ambiente e dei suoi fenomeni attraverso modelli matematico-statistici) e questo fa pensare che il pensiero sistemico stia trovando finalmente collocazione nella parte più applicativa della disciplina.

Il legislatore europeo, probabilmente il più convinto che l’approccio sistemico sia l’unica logica per introdurre un cambiamento sostanziale nella gestione ambientale, nel concepire gli ultimi regolamenti emanati per il controllo delle sostanze chimiche ha tenuto presente il seguente principio della teoria dei sistemi: i sistemi resistono al cambiamento grazie alle connessioni tra le parti; tuttavia, quando avviene, il cambiamento può risultare improvviso e dirompente. Grazie a questa consapevolezza, si possono identificare quelle specifiche aree sulle quali operare piccoli e mirati interventi per ottenere grandi cambiamenti in tutto il sistema; questo esito è noto come effetto leva. In realtà, il legislatore ha trovato motivazione al cambiamento considerando che tutti i tentativi messi in atto per tenere sotto controllo le sostanze chimiche pericolose erano in precedenza risultati inefficaci. Per es., l’inventario europeo delle sostanze chimiche dichiarate, ELINCS (European LIst of Notified Chemical Substances), in circa dieci anni di applicazione ha permesso la catalogazione di circa 3000 sostanze a fronte delle 100.000 potenzialmente coinvolte. Il cambiamento di approccio era evidentemente necessario anche perché l’Unione Europea dichiara che, tra i principi applicati per la tutela della collettività, il legislatore è tenuto a seguire il principio di precauzione. Nel 21° sec. non è ormai più possibile non avere un ragionevole controllo sulla maggioranza delle sostanze chimiche in circolazione e sul loro potenziale impatto sull’uomo e sull’ambiente. È entrato pertanto in vigore il giugno del 2007 il regolamento europeo REACH (Registration, Evaluation, Authorisation and restriction of CHemicals), che utilizza pienamente l’effetto leva. Per indurre il cambiamento il legislatore ha infatti sostituito quaranta strumenti legislativi sull’argomento con uno solo, identificando però con precisione la piccola area che poteva generare un grande rinnovamento in tutto il sistema: no data, no market. In pratica non sarà più possibile mettere sul mercato sostanze chimiche di cui prima non si siano forniti i dati tecnico-scientifici all’agenzia europea ECHA (European CHemical Agency), appositamente istituita. Non più quindi libero mercato delle sostanze e dati tossicologici forniti dalle aziende solo laddove l’autorità pubblica lo ritenesse utile. Con la gestione introdotta dal regolamento REACH, si avrà la garanzia che se una sostanza è sul mercato o nell’ambiente lo è nel rispetto della tutela collettiva. Il principio di precauzione è così applicato in tutti i suoi aspetti e la tutela della collettività ha un punto di riferimento unico che agisce in perfetta ottica sistemica.

L’atmosfera

Il caso specifico dell’ozono ci aiuta a comprendere come l’approccio sistemico non sia stato sempre trascurato nella visione scientifica della chimica ambientale. Anzi, nel caso dell’ozono stratosferico si può evidenziare come una visione globale del sistema Terra abbia permesso la corretta valutazione del problema entrando nel merito delle cause: nel corso di una sola generazione si è verificata così una sostanziale risoluzione del cosiddetto buco dell’ozono conseguente alle misure adottate all’unisono dai legislatori di tutti i Paesi industrializzati. La molecola dell’ozono O3 è na­turalmente esistente in natura e in particolare si concentra negli strati alti dell’atmosfera e cioè nella sua parte denominata stratosfera (circa 25-30 km di quota). Il meccanismo di formazione dell’ozono a partire dall’ossigeno O2 dipende dalle particolari condizioni di irraggiamento di quella parte dell’atmosfera. Si forma, infatti, per reazione fotochimica innescata dalla componente ultravioletta della radiazione solare. Nella zona della stratosfera, detta anche ozonosfera, si possono misurare concentrazioni di ozono che variano dalle 6 alle 8 parti per milione (ppm), mentre le correnti verticali presenti in atmosfera ne trasportano una parte verso il suolo fino a dare luogo a una concentrazione di fondo che varia dagli 0,01 ai 0,04 ppm, in condizioni di aria pulita, in zone non soggette a interferenze dovute all’inquinamento. L’ozono, quando è presente a livello del suolo, costituisce uno dei principali componenti dello smog fotochimico. Con semplici misure della concentrazione di ozono nella stratosfera e della radiazione ultravioletta in grado di attraversarla è stato immediato rilevare una correlazione diretta tra la presenza dell’ozono e la protezione della Terra a livello del suolo rispetto alla componente UV della radiazione solare. Il meccanismo naturale è quindi un sistema molto semplice in cui lo strato di ozono, grazie alla sua reattività, crea un mantello protettivo rispetto a una radiazione che ha potere di danneggiare gli organismi viventi con un meccanismo radicalico. I danni al DNA generati dalla radiazione UV sono, per es., dimostrati dagli studi sul melanoma, il tumore della pelle che ha un andamento chiaramente correlato alla quantità di raggi ultravioletti a cui sono esposti i singoli soggetti.

Il meccanismo di impoverimento dello strato di ozono si può descrivere con semplici equazioni chimiche e tra queste la più importante è:

O + O3 → O2 + O2 [1]

Questa reazione in realtà è piuttosto lenta e in equilibrio nella stratosfera con altre reazioni, tra cui quella che genera ozono a partire da ossigeno molecolare. Tale equilibrio chimico ha permesso allo strato di ozono di mantenersi a livelli costanti, prima dello sviluppo industriale, fino a che, a seguito dell’introduzione nell’atmosfera di nuove molecole come gli ossidi di azoto (NOx) e i composti attivi del cloro (ClOx), lo stesso equilibrio si è sbilanciato a sfavore della presenza dell’ozono nella stratosfera. Gli NOx provengono dalla combustione e i ClOx dalla degradazione, a opera della radiazione ultravioletta, dei composti organici del cloro e dei clorofluorocarburi (CFC o freon); la loro azione è tale da aumentare significativamente la velocità della reazione [1] e quindi alterare l’equilibrio di mantenimento delle concentrazioni di ozono nel mantello protettivo della stratosfera. Queste molecole funzionano infatti come catalizzatori e quindi promuovono solamente la reazione senza venire consumati nel suo svolgersi.

L’alterazione ambientale introdotta dai composti organici del cloro e dei clorofluorocarburi è stata generata dall’attività antropica che, a partire dagli anni Cinquanta del 20° sec., ha intensificato a livello globale la produzione industriale. Si è infatti potuto valutare che l’82% di questi composti era immesso nell’atmosfera e che il loro effetto era più prolungato e aggressivo degli NOx nel contribuire alla distruzione dell’ozono stratosferico. La decisione presa a livello mondiale è stata quindi quella di bandire non soltanto l’utilizzazione ma anche la produzione dei composti organici del cloro e dei clorofluorocarburi. Queste misure radicalmente restrittive sono state applicate in forma integrale a partire dal 1994 e a distanza di pochi anni i risultati sono già evidenti.

Il caso dell’ozono stratosferico è un insostituibile esempio di come l’approccio sistemico possa essere la vera chiave di volta per affrontare e risolvere i problemi che la chimica ambientale riesce a evidenziare con l’indagine scientifica tradizionale. Infatti, la scoperta delle reazioni chimiche complesse, che contribuiscono all’impoverimento del contenuto di ozono della stratosfera, non sarebbe stata sufficiente a concepire adeguate misure di contenimento del problema a livello mondiale. La grande risorsa utilizzata per fronteggiare il continuo aumento dell’irraggiamento UV della superficie terrestre è stata la stretta sinergia con una disciplina, da sempre sistemica, come la meteorologia. La visione globale che offrono gli osservatori meteorologici mondiali ha messo a disposizione una vera rete di stazioni di osservazione dei movimenti dell’atmosfera, e in particolare della stratosfera. A questa straordinaria possibilità di osservazione è associata anche una grande quantità di dati disponibili fin dal 1957: misure di quantità di ozono nell’atmosfera, messe a punto già nel 1920 dal meteorologo inglese Gordon M. Dobson (1889-1976), e misure di irraggiamento erano parte di un programma di monitoraggio a livello mondiale organizzato in occasione dell’Anno geofisico internazionale (1957-58). Quest’attività sistemica già operativa ha permesso di agire prontamente con proposte di misure efficaci sin dai primi momenti in cui si sono avute le prove scientifiche dell’assottigliamento dello strato di ozono (1985). Nell’ottobre 1987 la concentrazione di ozono misurata sopra l’Antartide risultava dimezzata rispetto ai valori medi normali del periodo 1957-1978, creando una falla delle dimensioni dell’Europa. Oggi le concentrazioni di ozono sono sistematicamente monitorate da una serie di stazioni che costituiscono il Global ozone observing system e grazie alle misure di contenimento adottate con il Protocollo di Montreal, a cui hanno aderito ben 175 Paesi, si è potuto osservare negli anni successivi al 2000 una sostanziale ricostituzione del mantello di ozono sopra l’Antartide. Nel 2006 fotografie aeree hanno finalmente mostrato la chiusura di quello che è entrato nella nostra esperienza come il buco dell’ozono. Tuttavia, questo successo è legato a due aspetti straordinariamente favorevoli. In primo luogo, l’attività di alterazione degli equilibri ambientali era dovuta a specie chimiche chiaramente provenienti da attività umane di natura specifica (attività industriale di settori come la refrigerazione) e in grado di essere sostituite con altre meno pericolose per l’ambiente. In secondo luogo, la disponibilità di dati a livello globale ha permesso di prendere decisioni, anche drastiche ma condivise da un numero così alto di governi da rendere velocemente raggiungibili i risultati voluti per la salvaguardia dell’ambiente inteso nel senso più ampio, la Terra.

Un caso più recente, al momento non completamente efficace, viste le tendenze globali, è quello finalizzato a una progressiva limitazione dell’anidride carbonica emessa in atmosfera. Il Protocollo di Kyoto (1997) e altri accordi internazionali si sono proposti la tutela del pianeta dal riscaldamento globale, tuttavia i punti di contatto con il successo dello strato di ozono sono ancora troppo pochi per poter essere ottimisti a riguardo. I dati sul contributo che la concentrazione di CO2 darebbe all’innalzamento della temperatura media terrestre sono ancora troppo discussi e poco condivisi tra i Paesi industrializzati. La legislazione esistente non sembra così strettamente legata a dati scientifici, inoltre l’anidride carbonica è sempre stata un costituente naturale dell’atmosfera e al momento non è ancora possibile quantificare con certezza la quantità del contributo antropico. Non è possibile quindi stabilire misure drastiche di restrizione, come nel caso dei clorofluorocarburi; questo implica una difficoltà reale non soltanto nel perseguire gli obiettivi di riduzione, ma addirittura nel concordare i limiti da raggiungere.

Ozono e anidride carbonica costituiscono due esempi estremi della chimica ambientale applicata all’atmosfera. Problemi della stessa natura, come lo smog fotochimico, le piogge acide, le polveri sottili e altri ancora, rimangono all’attenzione di tutti, governi compresi, per una semplice ragione: l’aria non ha territorio né collocazione, rimane un patrimonio globale in continuo movimento al quale è legata indissolubilmente la qualità della nostra vita sulla Terra. La molecola dell’ozono offre anche una serie di spunti rispetto alla tentazione di attribuire alla chimica delle valenze sempre positive o sempre negative. Il ruolo protettivo che ha l’ozono stratosferico si deve considerare anche alla luce della specifica tossicità per gli esseri umani della sua molecola: essa è, infatti, un forte ossidante in grado di danneggiare i tessuti, generando radicali liberi; la sua capacità di reagire per via radicalica nella stratosfera le permette di proteggerci dalla radiazione ultravioletta assorbendola, ma a livello del terreno, la sua presenza nello smog cittadino, fornisce il maggior contributo alla irritazione delle mucose e alla difficoltà di respirazione per i soggetti sensibili. La presenza dell’ozono (maggiore costituente dello smog fotochimico) induce in effetti le autorità a consigliare i cittadini delle aree più industrializzate a limitare le loro uscite nei giorni di maggior concentrazione di smog. Se il mantello di ozono distribuito uniformemente nella stratosfera protegge la biosfera, le aree di concentrazione di ozono prodotto dalle attività metropolitane danneggiano e peggiorano la qualità di vita. La proprietà della reattività radicalica è, tuttavia, la medesima e un suo adeguato sfruttamento può contribuire al miglioramento degli standard qualitativi della vita umana (per es., il legislatore può prescrivere una sterilizzazione delle acque destinate al consumo umano con flusso di basse concentrazioni di ozono). L’ozono diventa in questo modo anche un’importante risorsa in grado di sostituire il cloro e i suoi composti che, pur efficaci, non rispettano le caratteristiche organolettiche delle acque potabili e neanche l’integrità delle strutture metalliche degli impianti di acquedotto. Si intravedono inoltre sue ulteriori applicazioni in altri settori, per es. nella cosmetica in relazione al potenziale refrigerante che pare possiedano sue piccolissime dosi contenute in alcuni prodotti. In quest’ultimo campo però la chimica più rigorosa deve lasciare il passo ad altre discipline, sempre nella speranza che non debba occuparsi in futuro di tali tematiche aprendo un nuovo capitolo di alterazioni ambientali.

Bibliografia

J. O’Connor, I. McDermott, The art of systems thinking. Essential skills for creativity an problem solving, London 1997 (trad. it. Il pensiero sistemico, Milano 2003).

Ecologia applicata, a cura di A. Provini, S. Galassi, R. Marchetti, Torino 1998.

S.E. Manahan, Environmental chemistry, Boca Raton 19997 (trad. it. Padova 2000).

M. Floccia, G. Risotti, M. Sanna, Dizionario dell’inquinamento, Roma 2003.

N. Cardellicchio, S. Cavalli, Il monitoraggio ambientale, Milano 2004.

C. Baird, M. Cain, Environmental chemistry, New York 2005 (trad. it. Bologna 20062).

N. Cardellicchio, S. Cavalli, Il monitoraggio ambientale II, Milano 2005.