Ciclismo

Il Libro dell'Anno 2004

Sergio Neri

Ciclismo

"Due ragazzi del borgo

cresciuti troppo in fretta, un'unica passione

per la bicicletta…"

(Grechi-De Gregori,

Il bandito e il campione)

Uno sport di grandi campioni

di Sergio Neri

30 maggio

Si conclude a Milano l'87° Giro d'Italia. La maglia rosa va a sorpresa al ventiduenne Damiano Cunego, che aveva iniziato il Giro come gregario e che tappa dopo tappa si è imposto in classifica fino alla meritata vittoria finale. Con il suo impegno e la sua determinazione Cunego ha saputo risvegliare l'entusiasmo del pubblico, ancora scosso dalla tragica recente scomparsa di Marco Pantani.

La fine di un campione

Marco Pantani, vincitore del Giro d'Italia e del Tour de France nello stesso anno, il 1998, uno dei più grandi scalatori nella storia centenaria del ciclismo, muore in una stanza d'albergo a Rimini la sera del 14 febbraio 2004. La notizia genera, non solo in Italia, sbigottimento e costernazione. Pantani aveva 34 anni. Ma la maggioranza dei tifosi, pur consapevole del suo declino e della sua volontà di autodistruggersi, sognava ancora di vederlo in gara, protagonista di una delle sue progressioni in salita, capaci di trasmettere emozioni fortissime ai cultori di questo sport.

L'autopsia e l'esame tossicologico diranno che Pantani è morto per eccessiva assunzione di cocaina. In quell'albergo di Rimini si era rifugiato quasi in incognito cinque giorni prima, arrivando da Milano ove aveva passato altri quattro giorni rinchiuso in una stanza d'albergo, senza contatti con il mondo esterno. Un mese prima di morire aveva festeggiato il suo compleanno con una cena a Predappio, in una trattoria di campagna, alla quale aveva preso parte una quindicina di amici di vecchia data. A nessuno di loro erano sfuggite la pessima condizione non solo fisica del corridore e la sua volontà d'isolarsi dal suo mondo.

Allarmate per lo stato quasi disperato dell'uomo, un paio di persone si erano attivate per indurre Pantani ad aderire a un progetto ideato in fretta e furia con don Pierino Gelmini, non per un ricovero nella comunità di recupero umbra ma per un programma più in sintonia con lo stato, la popolarità e la condizione psicologica del corridore. Lo si voleva portare in un centro analogo in Bolivia, con una motivazione che gli accendesse un po' dell'entusiasmo perduto: quella di diventare una sorta di maestro per un centinaio di ragazzi raccolti nei borghi più poveri del paese. Un tentativo. Probabilmente Pantani lo ha saputo, forse la sua manager è riuscita a comunicarglielo nei giorni della sua volontaria clausura a Milano. Fatto sta che tra i biglietti trovati nella stanza dell'albergo riminese, pare ve ne fosse uno con questo pensiero vergato da Pantani: "Vado in Bolivia, mi disintossico e torno a correre".

Il giorno del funerale nel piccolo borgo dei pescatori, a Cesenatico, intorno alla bara di legno chiaro del campione si sono radunate migliaia di persone. In quel pomeriggio invernale, con le barche immobili nel canale e un cielo grigio e basso quasi a testimoniare l'infinita tristezza dei presenti, Pantani ha raggiunto il cimitero e ha concluso così la sua corsa sfortunata. Quando la gente è tornata nel paese, era sera. Rintocchi lenti della campana della chiesa si appoggiavano sui pensieri e facevano male.

I volti dei ciclisti più vecchi, giunti da ogni parte d'Italia, ma anche dei più giovani e dei colleghi rivali di Pantani, mostravano tutti lo stesso dolore, lo stesso smarrimento, lo stesso sgomento espressi da un'altra folla, nel gennaio del 1960, al funerale di Fausto Coppi. Il mondo del ciclismo si proponeva con identici sentimenti e soprattutto con lo stesso linguaggio. La grande famiglia del Giro d'Italia era quella di Cesenatico così come, quarant'anni prima, era stata quella di Castellania. Non era cambiato niente. Nel mondo di questo sport si entra nel nuovo restando ancorati al passato.

Un legame speciale

Unico tra tutti gli sport, il ciclismo vanta un rapporto particolare con il suo pubblico, con quelli che lo amano. In realtà i tifosi avevano provato con le emozioni date da Pantani sui tornanti delle salite più aspre le stesse vibrazioni che, tanto tempo prima, aveva trasmesso, in condizioni analoghe, Fausto Coppi.

Nel ciclismo la gente coglie un sentimento che non appartiene agli altri sport perché l'impresa del corridore non è solo una sfida agonistica: è qualcosa che rende questo sport un mestiere della vita, lo specchio della fatica, del coraggio, della fantasia e della capacità degli uomini di conquistare ogni giorno, come il corridore a capo della tappa del Giro o del Tour, un piccolo bottino di fortuna. Solo così si spiegano, oggi ancora, autentici pellegrinaggi di folla sulle grandi salite alpestri al passaggio del Giro o del Tour. Lo spettacolo è immediato e breve ma sulla strada, conquistata dalla gente con indubbio sforzo fisico, occupata sin dalla notte precedente l'arrivo della corsa, si realizza una sorta di piccolo miracolo dovuto al ciclismo, espressione di una cultura contadina fatta di lavoro, sofferenza e ottimismo. In quella cultura la gente si ritrova così come cinquant'anni fa la visse spartendo con i grandi campioni del dopoguerra un momento civile di speranza e di fiducia.

Coppi e Bartali, espressione leggendaria non solo di una grande sfida sulla strada ma anche di una storia che si collocava perfettamente nell'epoca della nostra rinascita, dopo il martirio della guerra, dovevano la loro straordinaria popolarità anche al sentimento che essi generavano proponendosi, con il loro umile strumento d'acciaio, come ambasciatori di una ritrovata serenità della vita. In un paese distrutto dalle bombe, lungo strade popolate di buche, accanto a case le cui pareti mostravano sconce ferite, i corridori del Giro d'Italia erano stati i primi a ricucire i borghi con un sentimento di speranza, portando, di campanile in campanile, con la complicità di un viaggio in bicicletta, il loro messaggio di forza e di umiltà. Erano stati i primi a indicare agli italiani, appena uscita dai rifugi e con i morti appena sotterrati, la via di una pace possibile e di una voglia comune di ricominciare. Il ciclismo era diventato una componente importante della cultura popolare italiana soprattutto in quell'epoca illustrata dalla povertà ma anche da una voglia comune di rinascere con la forza delle braccia e l'impulso della fantasia. I corridori erano l'espressione perfetta del sentimento della gente e per questo erano profondamente amati.

Il 'contributo' di Bartali

Il 14 luglio 1948 Gino Bartali era in corsa al Tour de France, con un ritardo di oltre 21 minuti dalla maglia gialla francese, l'astro nascente Luison Bobet. Il Tour era arrivato a Sanremo ma sarebbe ripartito da Cannes per affrontare le tre tappe alpestri, sormontate dalle cime leggendarie del Vars, dell'Izoard, del Galibier, del Lautaret e di tutti gli altri colli della storia più bella del Tour. In Italia era stato ferito il leader del partito comunista, Palmiro Togliatti. La tensione era altissima. La minaccia dello scoppio di una guerra civile era incombente. Bartali occupava la stanza doppia di un piccolo albergo. La divideva con il suo fedelissimo gregario Giovannino Corrieri. Alle 11 di sera, quando tutti i corridori della formazione italiana già da un po' dormivano (alle 5 sarebbe suonata la sveglia), la proprietaria dell'albergo bussò alla porta della stanza di Bartali e chiamò al telefono il campione toscano il quale pensò a un messaggio domestico. Scese e si sentì salutare, invece, da un uomo politico che gli era capitato di conoscere in una delle sue visite al Papa. Era il capo del governo, Alcide De Gasperi, che gli raccontò brevemente della drammatica situazione in cui versava il paese e gli disse che tutti si sentivano impegnati a fare qualcosa sicché anche lui, Bartali, di suo, poteva dare un piccolo contributo. De Gasperi gli chiese, un po' ingenuamente, se se la sentiva di vincere il Tour e Bartali, riconducendolo garbatamente alla realtà, gli rispose che conquistare il Tour sarebbe stato difficile ma che l'indomani di sicuro avrebbe vinto la tappa.

È un episodio che testimonia del forte rapporto tra il ciclismo e la storia del paese e che spiega molto bene la ragione per la quale, a dispetto dei tempi, della ricchezza e del progresso tecnologico di oggi, il corridore ciclista resta sempre un'espressione perfetta e amata d'una romantica disposizione a considerare questo sport una sorta di fuga collettiva sull'orizzonte della strada, verso un misterioso traguardo di fortuna: una fuga fatta senza investimenti o preventivi di spese, ma semplicemente con un cuore, due gambe e la spinta del sogno. Il giorno dopo, Bartali diede battaglia rispondendo a un attacco del francese Jean Robic, scalatore molto abile detto 'testa di vetro' perché cadendo si era due o tre volte procurato fratture alla testa. Il campione toscano mandò in crisi Bobet, portatore della maglia gialla, il quale risentì non solo dell'attacco di Bartali ma anche delle spaventose condizioni del tempo (grandine e anche neve sullo sterrato dell'Izoard), e vinse la tappa giungendo a Briançon 18 minuti prima del leader.

La notizia del suo trionfo giunse in Italia attraverso la radio e accese un entusiasmo che diede a tutti un sentimento di fratellanza. Molti, sulla porta dei bar che erano soliti affiggere ogni giorno al vetro un foglio con i nomi dei primi cinque e i tempi dei distacchi, si abbracciavano leggendo della notizia sportiva e del grande trionfo di Bartali. Togliatti, in ospedale, con un filo di voce chiese a Nilde Jotti, che lo assisteva, chi aveva vinto la tappa del Tour.

L'indomani Bartali tornò all'attacco rispondendo a una fuga arditissima ma scriteriata (iniziata dopo il via) del povero Bobet, ormai palesemente in trappola, e rivinse con un distacco che gli consentì di strappare al rivale la maglia gialla del primato. Non sazio dei successi, conquistò anche la terza tappa delle Alpi assicurandosi un margine che gli permise d'arrivare a Parigi da grande trionfatore. Il belga Briek Schotte, giunto secondo con un distacco di 26 minuti, chiese di essere considerato lui il vero vincitore del Tour in quanto Bartali, a suo avviso, era un 'fuori categoria'. In Italia furono in molti a sostenere che Bartali aveva salvato il paese dalla guerra civile. La cosa non era vera.

Bartali aveva solo contribuito a diffondere un piccolo ma importante sentimento di serenità dimostrando come fosse 'caldo' il rapporto tra il ciclismo e la gente, come fosse immediato il messaggio dei corridori non solo per le loro vittorie ma per i loro gesti e i sentimenti dai quali i gesti sono spesso accompagnati.

Storie di umiltà

Fiorenzo Magni, altro protagonista delle corse del dopoguerra, è ricordato da tutti con il fantasioso appellativo di 'leone delle Fiandre', non tanto per le sue tre vittorie consecutive del Giro delle Fiandre fra il 1949 e il 1951, ma soprattutto per la romantica storia di umiltà del suo viaggio in treno: privo di squadra, con una valigia veramente di cartone e legata 'a rinforzo' con lo spago e la bicicletta quale bagaglio appresso, Magni era andato lassù a cercare la sua fortuna proponendosi da emigrante tra i veltri del pavé, i corridori avvezzi a quelle strade battute dal vento, a quei ritmi talvolta impossibili sull'ostico acciottolato del percorso. La bandiera di Magni era la bandiera di tutti anche perché tutti, in quel periodo, praticamente gestivano la loro vita con lo stesso spirito, gli stessi sogni, la stessa capacità di soffrire e la stessa povertà.

Quando nel 1960 morì improvvisamente Fausto Coppi, vittima di una malaria non capita, contratta in Africa durante una battuta di caccia alla vigilia di Natale, si disse che un'epoca era finita e che per il ciclismo sarebbe inevitabilmente iniziato il declino. Erano gli anni della grande ripresa. Nella vita degli italiani avevano fatto capolino la Vespa e la Lambretta, gli scooter che avevano dato alle famiglie il primo segno tangibile del benessere conquistato. Nasceva l'utilitaria. Le strade incominciavano a popolarsi di automobili sicché sembrava quasi naturale prevedere difficoltà non piccole per uno sport venuto dalla povertà. Ma questo non impedì che il ciclismo restasse nel cuore della gente anche se il calcio gli rubava la ribalta. Il calcio si proponeva come spettacolo perfetto, con un campo regolare di gioco, una tribuna per il pubblico spettatore a pagamento e il grande sostegno della televisione consapevole di poter addentare, con questo sport, un ghiotto boccone per un potenziale giro d'affari. Il ciclismo restava invece legato alla sua storia e alle sue origini: la strada per le corse, il sostegno della gente venuta spontaneamente ad aspettare i corridori e il sogno, soprattutto il sogno, dei ragazzi innamorati di questo sport con la forza d'una passione infinita.

Passione per lo sport, ma non solo. La passione per la bicicletta nasce in un ragazzo con il sostegno di due forze contemporanee, mescolate. È come se scoccassero all'improvviso due scintille insieme: l'amore per la macchina, così semplice, così complice, così colorata, leggera e così disponibile, ubbidiente, felice, e il gusto della fuga, quella che i corridori chiamano l'uscita, cioè il gusto eterno dell'uomo di andare a vedere oltre i confini del suo piccolo territorio di vita. Il gusto del ragazzo di esplorare al di là dei vicoli che circondano la sua casa. Questo gusto, questo sogno dell'infinito oltre la siepe, nessun veicolo moderno di rapida e grande comunicazione lo toglierà mai all'uomo, non soltanto ai più giovani. Esistono ciclisti ormai ottantenni, per i quali un'uscita genera ancora l'emozione di andare con le proprie forze e la propria bicicletta nella bottega di un paese lontano, conquistato senza l'aiuto di nessuno né l'uso di mezzi motorizzati, ma in solitario, con i propri pensieri e le proprie sensazioni. Alla radice dell'attività di un corridore ciclista esiste questo sentimento accompagnato dal progetto di conquistare con la bicicletta, cioè da solo, mettendosi sui pedali e andando, una propria fortuna nella vita.

Dopo Coppi e Bartali vennero alla ribalta del ciclismo tanti campioni, alcuni dei quali capaci di raggiungere con vibrazioni molto forti il cuore dei tifosi e di trascinare sulla strada delle corse, soprattutto nei percorsi sormontati dalle grandi salite, centinaia di migliaia di persone. Uno di questi è stato negli anni Sessanta l'abruzzese Vito Taccone, un corridore di piccola statura, molto forte e soprattutto molto determinato. Al suo esordio, avvenuto al Giro d'Italia al compimento dei 21 anni, partì con il proposito di guadagnare soldi per la famiglia, afflitta da una grande povertà. Il padre era mancato in circostanze tragiche e la mamma faceva del suo meglio per garantire ai suoi ragazzi un piatto di minestra tutti i giorni. Una mattina, alla partenza di una delle prime tappe al Sud, Taccone apprese da un comunicato dell'organizzazione che sulla piazza di un certo paese era stato posto dalla comunità locale un traguardo a premio di 500.000 lire. Da quel momento non pensò ad altro e sulla salita che portava al famoso paese sgomitò da par suo con autentici campioni della montagna, tra i quali il tedesco Hans Junkermann che godeva di un grande rispetto per le sue qualità di eccellente scalatore. Vinse Taccone, che appena passato il traguardo restò per qualche istante senza respiro, ma intascò la bella cifra. La sera, dal telefono dell'albergo, i compagni lo sentirono gridare alla mamma una frase che poi rimbalzò sui giornali e gli fece conquistare il cuore della gente: le disse che per quella cambiale in scadenza due giorni dopo, non doveva più preoccuparsi, era già pagata. Storie da libro Cuore di uno sport sostanzialmente povero? No, storie che la gente ama perché in qualche modo appartengono alla vita di tutti.

Le grandi sfide

I momenti di popolarità del ciclismo naturalmente si legano alla durata dei campioni di riferimento e soprattutto alle grandi sfide. La storia della disciplina fiorisce in Francia e in Italia. Sono questi i due paesi che hanno dato vita alla leggenda di uno sport decollato negli ultimi anni dell'Ottocento con la nascita della Parigi-Roubaix, frutto di una scommessa fatta da arditi dell'avventura estrema, raccolti la mattina di Pasqua sulla porta di una locanda alla periferia di Parigi e decisi a battersi per raggiungere la regione delle filande. Forse non sapevano che avrebbero trovato lassù la polvere nera del carbone e soprattutto lo strazio del pavé, impietoso acciottolato destinato ai carri agricoli che trasportavano barbabietole, le cui ruote di ferro, altrimenti, sarebbero sprofondate nel fango. Giunti a Roubaix rischiarono la scomunica in quanto accusati di aver 'lavorato' nel giorno di Pasqua e soprattutto di non aver rispettato il precetto della Santa Messa. Ma il loro gesto diede praticamente il via alla storia del ciclismo. Nacquero il Tour de France e il Giro d'Italia, la Milano-Sanremo, da subito battezzata 'la classicissima dei fiori' e il Giro di Lombardia in autunno, detto, a sua volta, 'la corsa delle foglie morte', a chiusura della stagione. La sfida tra italiani e francesi diventò il punto di riferimento destinato a durare nel tempo. La gente si affezionò alle rivalità che coltivò sino ai tempi del confronto al Giro d'Italia tra Laurent Fignon e Francesco Moser.

Della mancanza di un asso francese attualmente tutto il movimento soffre e il Tour in particolare, anche se l'importanza della manifestazione è diventata talmente grande che nel mese di luglio non vi è nulla al mondo, da un punto di vista sportivo, capace di contrastarne la popolarità. Olimpiade, Campionato del Mondo di calcio e Tour de France rappresentano oggi i tre massimi eventi dello sport mondiale.

La piaga del doping

La grandezza del Tour pone tuttavia domande alle quali non è facile rispondere. Giova al ciclismo, sport fortemente ancorato a una cultura contadina, questa dilatazione sostenuta da una torrenziale irruzione di soldi e dovuta, come in altre discipline dello sport, alla grande diffusione dell'evento 'catturato' dalla televisione? Non esiste il rischio di snaturare il movimento esponendolo a una gestione affaristica che potrebbe stritolarlo, non avendo il ciclismo struttura, spirito e mentalità adeguati? Il rischio c'è. Tanto è vero che a questa situazione è doveroso attribuire la responsabilità del fenomeno che affligge il ciclismo in questo momento: il problema del doping, come in tutti gli sport professionistici, fortemente legato all'eccessivo movimento di affari che mette gli atleti al centro di un impietoso e distruttivo sistema.

La televisione, con le riprese in diretta di tutte le grandi corse in linea e a tappe, ha fatto da grande cassa di risonanza degli eventi, proponendosi anche come veicolo mediatico di grandissimo interesse per gli sponsor che si sono affollati sulle maglie dei corridori come mosche sulla marmellata, portando tanti soldi ma esigendo al tempo stesso risultati destinati a dare al campione vincente il tocco della superiorità. Di conseguenza in un movimento impreparato a sostenere un urto commerciale così forte sono entrati tanti personaggi consapevoli di trovare tra i corridori un fertilissimo terreno per i loro affari: gestori ambigui, team manager molto scaltri, preparatori troppo furbi, medici non sempre onesti, procuratori. Tutti questi hanno aperto naturalmente, anche senza volerlo, la strada al doping. Il fenomeno non ha trovato nell'ambiente del ciclismo sufficiente resistenza per mettere in atto una difesa energica dei valori e degli interessi dei corridori.

Un tempo la squadra nasceva intorno a un direttore sportivo che organizzava il lavoro, i programmi, la partecipazione alle corse e spesso si occupava, come un buon padre di famiglia, anche della gestione dei guadagni dei corridori. Questi, storicamente, avevano come prima ambizione quella di costruirsi la casa destinando il resto alla progettazione di un loro futuro di lavoro, una volta terminata la carriera agonistica. I guadagni, anche ai tempi non remoti di Felice Gimondi ed Eddie Merckx, non erano certo quelli di oggi, che appaiono a tutti, non soltanto nel ciclismo, scandalosamente smisurati.

La morte di Pantani è stato l'episodio drammatico che ha messo l'accento sulla nuova realtà del ciclismo, inducendo molti a pensare che lo sfortunato scalatore di Cesenatico sia stato una sorta di protagonista negativo del movimento, non avendo mai confessato il suo probabile ricorso al doping. Questa impostazione sbagliata del problema ha indotto molti dirigenti sportivi a considerare colpevoli 'solo' gli atleti e dunque si è scatenata, con il sostegno di una parte meno informata dei mezzi di comunicazione, una specie di criminalizzazione dei corridori.

Il fatto è che la lotta al doping, almeno in passato, è stata sempre condotta a livello internazionale con molta superficialità e ipocrisia. Da una ventina d'anni, pseudoscienziati hanno incominciato a sottoporre gli atleti all'autoemotrasfusione per arricchire il sangue di ossigeno. In seguito si è fatto ricorso all'eritropoietina (EPO), una sostanza che stimola la produzione di globuli rossi aumentando il rifornimento di ossigeno ai muscoli. I dirigenti internazionali incaricati di combattere il doping hanno stabilito di porre al 50% il limite tollerato per la frazione di eritrociti nel sangue, ordinando il ritiro della licenza per 15 giorni all'atleta trovato ai controlli con valori superiori a quell'indice. Chi restava al di sotto veniva considerato nella norma e così liberato da ogni colpa. Superfluo raccontare dell'attività di tutti i ben pagati assistenti dei corridori impegnati a controllare il limite dell'ematocrito utilizzando speciali macchinette capaci di analizzare, con una piccola centrifuga, la densità del sangue.

Si è generata la convinzione, ossia la certezza, che ciò che non risulta ai controlli non è doping e che senza il ricorso a sostanze dopanti non si è competitivi. Pantani è stato, come tutti gli altri, protagonista e vittima della stessa realtà. La mattina del 5 giugno 1999, due giorni prima della conclusione del Giro d'Italia, quando al controllo degli ispettori dell'antidoping il suo sangue risultò di una densità superiore al limite consentito, il mondo gli crollò addosso. Il campione era già maglia rosa e avrebbe vinto il suo secondo Giro. Consapevole di quanto la pratica fosse diffusa (oggi le regole sono cambiate e i controlli sono scientificamente più validi) Pantani si chiuse in sé stesso e iniziò da quel giorno a isolarsi dal suo mondo, cadendo, purtroppo, in un giro di falsi 'amici' decisi a togliergli dalla tasca quanti più soldi possibile.

Provarono in molti a recuperarlo, consapevoli del grande talento che madre natura gli aveva dato e forse in piccola parte qualcuno ci riuscì. Nel 2003 lo obbligarono ad allenarsi a Madrid, ospite di un corridore disponibile e amico. Lo avevano isolato dal giro di spacciatori che ormai lo irretiva e Pantani, ancorché incapace di cogliere il messaggio d'amore che folle veramente sterminate gli lanciavano, partì per il Giro d'Italia portando a termine una prova molto onorevole se non addirittura straordinaria per un atleta provato moralmente e fisicamente come lui, per di più sottoposto ogni giorno a controlli antidoping. Ma quella fu l'ultima volta che gli appassionati lo videro. Negli occhi di tutti restano due scatti, gli ultimi due, dello scalatore romagnolo: uno sulla salita dello Zoncolan e uno a ridosso del traguardo della Cascata del Toce.

Terminato il Giro c'era chi coltivava ancora il sogno di vederlo al Tour contro l'americano Lance Armstrong, fenomeno straordinario ma anomalo in questo sport. C'era chi giurava sulla ripresa atletica di Pantani il quale veniva segnalato di tanto in tanto in allenamento. Invece, concluso il Giro d'Italia, il campione tornò nella sua Cesenatico e sul cancello della villa che aveva costruito e nella quale ospitava anche i genitori, ritrovò, impietosi, i falsi amici di prima. Cadde di nuovo nella spirale della droga, cercando in quella polvere mortale un aiuto che fuori non trovava, chiuso in sé stesso com'era. Non si fidava di nessuno e non credeva a nulla, neppure alla sua bicicletta, che amava e che gli ricordava la passione che aveva alimentato la sua vita di ragazzo, quando, quattordicenne, da Cesenatico andava a scuola a Cesena, all'Istituto agrario, con una sola volata lunga più di 30 km.

Durante le feste natalizie andò a Cuba, portando con sé la bicicletta. Visse nella casa di una povera famiglia e conobbe Maradona. Al ritorno in Italia fu ipotizzato il progetto boliviano, cui si è accennato sopra. Un grande campione, suo collega e rivale, Mario Cipollini, si disse pronto ad accompagnarlo nonostante fosse vicina la data della Milano-Sanremo. Anche in questo caso si manifestò lo spirito della gente del ciclismo, la solidarietà che nutre i sentimenti di coloro che praticano questo sport: sono persone legate tra di loro da una cultura fortemente radicata nella grande fatica che il mestiere impone, una fatica che tuttavia il corridore sopporta senza dimenticare le strade che con quella fatica ha percorso. Nel raccontare i momenti legati alla fatica Bartali era un maestro. Neppure una fontanella su un particolare tornante della Consuma sfuggiva alla sua memoria, né la condizione del tempo in un dato giorno e neppure la posizione in gara del suo rivale di sempre, Coppi.

Lo spirito del ciclismo

L'americano Armstrong è, davvero, un campione indubbio ma anomalo nel mondo del ciclismo, la cui culla resta sempre l'Europa e in particolare la Francia, l'Italia, il Belgio, la Spagna, la Svizzera, l'Olanda e in parte la Germania. Armstrong, colpito da un tumore ai testicoli e da metastasi che nel tempo i suoi medici curanti sono riusciti a distruggere, è l'espressione d'una mentalità che non fa assolutamente parte della storia classica del ciclismo: prepara il suo gesto finalizzato esclusivamente alla vittoria del Tour de France nel mese di luglio; trasforma in grande affare l'impresa e sparisce dal mondo delle corse sino al Tour successivo. Non è questo il comportamento del corridore tradizionale né sono queste le gesta che gli appassionati chiedono ai corridori, i quali nell'immaginario collettivo non sono superuomini ma interpreti spontanei dei sogni di tutti, protagonisti di un viaggio generoso che sintetizza lo spirito comune e, soprattutto, combattenti disponibili, tutto l'anno, alla partenza delle maggiori gare del calendario. Gli scatti in salita di Pantani, quella grinta che il corridore di Cesenatico esprimeva rimontando il gruppo e riuscendo ad andarsene in fuga, dopo aver ripetuto a oltranza gli assalti, erano il massimo dell'emozione possibile offerta ai tifosi.

Sulla strada delle corse, soprattutto nei punti più alti, sui tornanti delle salite destinate a decidere della classifica generale e della sfida tra i campioni, la gente si raccoglie a gruppi di migliaia. Lo fa con largo anticipo sull'arrivo della carovana. Sembra quasi che sulla strada si crei un cenacolo spontaneo, una sorta di assemblea dell'amicizia e dei pensieri accesi da un'attesa sempre più febbrile. I corridori sono annunciati da lontano e quando arrivano, tra spigoli di roccia, sono come l'espressione di un miracolo che riaccende commozioni antiche.

I francesi sono i massimi cultori dello spirito vero e forse intramontabile del ciclismo. Lo esaltano con il Tour de France e ne proteggono la tradizione gestendo da maestri la gara che ha radici nel passato, la Parigi-Roubaix, che ogni anno rappresenta un evento nazionale di massima importanza. Alcuni tratti di pavé sono intoccabili in quanto riconosciuti monumento nazionale. Tutte le trasmissioni radiofoniche, sin dal mattino, trasmettono in continuazione notizie sul viaggio dei 'condannati all'inferno del Nord' e persino i bollettini meteorologici, comunicando le condizioni del tempo nelle varie regioni, segnalano immancabilmente le nubi di lassù dove "in questo momento stanno pedalando i corridori della Roubaix". Alla partenza da Compiègne sembra quasi che ai corridori venga data una benedizione con l'augurio di buona fortuna lungo il faticoso viaggio verso il pavé. Mentre a Roubaix, nel piccolo velodromo di legno annerito dal tempo, l'arrivo imminente dell'uomo in fuga è annunciato con l'enfasi dovuta a un autentico navigatore sfinito ma ormai prossimo all'approdo sulla costa che lo salverà.

Felice Gimondi vinse da ragazzo - era il 1966 - una Parigi-Roubaix andando in fuga a 40 km dalla conclusione: una fuga solitaria, in cui guadagnò un minuto ogni 10 km e alla quale tutte le radio francesi e belghe diedero grande rilievo con collegamenti continui e sempre più eccitati. Come per miracolo, quella fuga di Gimondi stanò dalle case, nonostante la pioggia, migliaia e migliaia di persone, per lo più di origine italiana, giunte lassù quando nelle miniere del carbone scendevano soprattutto i nostri emigrati, e le raccolse sui bordi dei sentieri del pavé ove si celebrava per loro, con la fuga di un corridore della loro patria, il miracolo di una rivincita morale dettata da un'impresa sportiva e sostenuta da un'emozione. Sul prato del velodromo, un maturo siciliano abbracciò l'ignaro Gimondi, ancora sudicio di fango, e tentò inutilmente di convincerlo ad andare a casa sua a festeggiare con la famiglia quel giorno meraviglioso. E comunque gli disse, con le lacrime agli occhi, che l'indomani nella miniera avrebbe avuto, lui, grazie a Gimondi, di che ragionare con gli amici belgi e francesi. E con mimica significativa fece capire a Gimondi quale sarebbe stato il suo argomento. Era una felicità espressa alla buona, con sentimenti e parole dettate dall'emozione ma era soprattutto la testimonianza della grande sintonia che si crea sulla strada tra i corridori e la gente, grazie a uno sport che tutto sommato non ha granché di tecnico e che si fonda all'ottanta per cento sulla capacità dell'uomo di resistere, più a lungo possibile, sotto il peso della fatica.

Anche in quel pomeriggio malinconico di Cesenatico, quattro giorni dopo la sventurata fine di Marco Pantani, solo e lontano da tutti gli affetti, nella stanza di un albergo a Rimini, la gente ha testimoniato al campione e al ciclismo questo sentimento di grande affinità spirituale e di solidarietà quasi per dimostrare che il ciclismo, da quello epico vissuto da Bottecchia a quello poetico narrato da Oriani, da quello eroico di Coppi e Bartali a quello moderno di Gimondi e Merckx fino all'ultimo testimoniato dall'odissea di Pantani, ha sempre lo stesso linguaggio e racconta sempre la stessa sofferta storia dei sogni e della fatica di tutti.

Il nuovo campione

Dalle sue radici il ciclismo ogni volta rinasce affidandosi sempre al gesto d'un ragazzo che vola felice sui pedali della sua bicicletta. L'ultima storia appartiene al Giro d'Italia. Parte favorito Gilberto Simoni, un campione collaudato, già vincitore due volte della corsa rosa. Ma in casa gli spunta un talento del quale gli esperti conoscevano il potenziale valore ma non la maturità conquistata in un lampo. È Damiano Cunego, poco più di 22 anni, veronese di Cerro, scalatore di rango, ma anche velocista di qualità e soprattutto atleta dotato d'un grande recupero fisico dopo la fatica. Cresciuto in una famiglia serena e per questo solida, è un corridore semplice, padrone della sua realtà, consapevole dei suoi mezzi e determinato quanto serve per affiancare il capitano e metterlo nei guai.

Rinascono gli entusiasmi. La gente che popola a migliaia le salite finali del Giro sembra darsi appuntamento sullo scoglio della Presolana, dopo il Gavia e il Mortirolo, per abbracciare i corridori e ringraziarli della loro fatica. La forza del ciclismo, in fondo, è tutta qui. Non è poco.

repertorio

Le origini della bicicletta

L'antenato della bicicletta può essere considerato il 'celerifero', veicolo formato da un telaio dritto con due ruote, poste una dietro l'altra, sul quale ci si poneva a cavalcioni puntando i piedi per terra per avanzare. Vi è incertezza sulla paternità e sulla data in cui sarebbe stato presentato per la prima volta al giardino del Palais Royal a Parigi. L'attribuzione al conte M. de Sivrac e la data del 1790 sono da alcuni contestate come forzatura sciovinistica; il brevetto sarebbe stato depositato da un certo Sievrac nel 1817 e riguarderebbe unicamente il diritto di importazione (dalla Germania).

Il primo vero precursore delle bicicletta fu comunque il 'velocifero' (velocipede secondo la dizione del brevetto) del tedesco Karl Friedrich Christian Ludwig Drais, barone di Sauerbronn, presentato il 5 aprile 1818 nei giardini di Luxembourg a Parigi e con il quale il suo inventore percorse più di 14 km in un'ora. All'avanzamento grazie alla spinta dei piedi a terra, seguito da una breve fase di appoggio sulla traversa orizzontale per sfruttare l'inerzia del movimento delle due ruote in linea, la 'draisina' - così chiamata in onore del suo inventore - univa l'utilizzazione di una sorta di timone di carro, un rudimentale sterzo che consentiva la manovrabilità del mezzo in curva. Il nuovo veicolo trovò ammiratori, che vedevano nella possibilità di curvare un grosso passo in avanti, ma anche denigratori, perché risultava molto faticoso e poco veloce. In Inghilterra si sostituirono al legno strutture in metallo meno pesanti e la draisina diventò hobby horse. La sua utilizzazione restò limitata a pochissimi fruitori.

I primi tentativi di un sistema di trasmissione della forza con un meccanismo di propulsione che prevedeva un complesso di leve agenti sulla ruota posteriore furono effettuati dal fabbro scozzese Kirkpatrick Macmillan (1839). La prova del veicolo da lui effettuata sul tragitto da Courthill a Glasgow nel 1842 (su quasi 70 miglia) sollevò grande sensazione. Fu però citato in tribunale per aver investito un bambino, sbucato dalla folla quasi alla fine del percorso, e condannato a pagare 5 scellini di multa.

La sorte dei velociferi registrò una decisiva accelerazione nel 1861, quando il francese Ernest Michaux applicò i pedali sul mozzo della ruota anteriore. A questa intuizione la neocostituita Société Michaux et Cie, dimostrando notevole dinamismo commerciale, fece seguire l'anno successivo una vera e propria produzione, mettendo in vendita 144 velocipedi a 500 franchi oro l'uno. Michaux apportò anche numerose piccole modifiche, tra cui il primo tentativo di un congegno di frenata. I francesi ribattezzarono il mezzo michaudine. Poiché non aveva brevettato le sue invenzioni, Michaux fu presto imitato da numerosi fabbricanti sia in Francia sia in Inghilterra. Un suo ex operaio emigrato nel 1865 in America, Pierre Lallement, si mise in società con James Carroll, meccanico di Ansonia (Connecticut), e brevettò con il nuovo socio un mezzo simile negli USA.

Nel 1866 Eduard Cooper presentò ruote in ferro con cerchi piatti, mentre poco tempo dopo fu utilizzato acciaio forgiato per telai e forcelle. Nel 1868 C. Arder introdusse i primi rivestimenti delle ruote in caucciù. Un velocipede Michaux, importato nel 1868 a Coventry da Rowley Turner, rappresentante a Parigi della Coventry Sewing Machine Co, destò l'interesse del capofficina James Starley, che intuì le potenzialità di questo mezzo e accettò ordinazioni da importatori francesi. L'iniziativa fu talmente rilevante per la compagnia che la ragione sociale fu modificata presto in Coventry Machinists' Company. Al primo Salone del ciclo organizzato a Parigi nel 1869 apparvero anche i cuscinetti a sfere al mozzo e il freno sul cerchio e non sulla gomma. Il numero di brevetti stava nel frattempo aumentando sensibilmente, a testimonianza dell'interesse che ormai si era creato attorno alla michaudine.

In quegli anni anche in Italia iniziava una vivace produzione artigianale, supportata da una crescente richiesta. I primi bicicli furono fabbricati nel 1868 a Modena, nell'officina di R. Vellani, presto seguito dal conterraneo N. Martinelli e da altri artigiani a Firenze, Milano e Padova. La diffusione raggiunta dai velocipedi è indirettamente testimoniata da un'ordinanza del sindaco di Milano dell'aprile 1869, che ne vietava l'uso all'interno della cerchia del Naviglio e lungo i corsi, stabilendo nel contempo che essi dovevano essere muniti "del freno, d'un sonaglio, e nelle ore notturne anche di un fanale".

Nel 1870 fu prodotto a Coventry da James Starley e William Hillman il modello Ariel, la prima 'grande B' ribattezzata presto 'il ragno' a causa dei raggi che si dipartivano perpendicolarmente dal mozzo della ruota anteriore, come in una grande ragnatela. Poiché i pedali agivano direttamente sulla ruota anteriore, essendo fissati al mozzo, non si trovò altra soluzione che aumentare il diametro per accrescere lo spazio coperto per pedalata. Anche l'americano C. Donald a New York adottò presto la stessa soluzione, con ruotino posteriore utilizzato solo come punto d'appoggio. Nel 1874 Starley brevettò la soluzione a raggi tangenziali, in grado di resistere meglio alla torsione. Su un 'ragno' il francese Jules Truffault (1875) montò i tubi della forcella ovali, ricavati da foderi di sciabola, introducendo per la prima volta i tubi cavi di acciaio che aumentavano la robustezza e diminuivano il peso. Successivamente, utilizzò anche i raggi di ferro in tensione per la ruota in luogo di quelli di legno. Questo permise una drastica riduzione del peso, da 40 a 20 kg e poi a poco più di 10 kg nel 1881.

Il gigantismo della ruota anteriore, necessario per aumentare l'avanzamento per pedalata, poneva tuttavia problemi di stabilità, cui John Kemp Starley, nipote di James, pose rimedio compiendo, nel 1884, il passo successivo: utilizzò per la prima volta la ruota posteriore come ruota motrice, servendosi della catena come organo di trasmissione. Valorizzando il principio del moltiplicatore timidamente introdotto con il Kangaroo, John Kemp Starley rinunciò alle ruote di grande diametro, applicando invece una moltiplica sul movimento centrale e il pignone sulla ruota posteriore con numero di denti molto più piccolo, variando così nel modo più opportuno la distanza percorsa per ogni pedalata. Nello stesso anno l'inglese Thomas Humber presentò il telaio in croce e un freno sulla ruota anteriore agente sulla verticale anteriormente alla serie dello sterzo. In Italia l'artigiano Costantino Vianzone fu il primo a costruire il 'bicicletto' con trasmissione a catena sulla ruota posteriore.

Allo stesso tempo, la forcella della ruota anteriore assumeva la caratteristica forma ricurva in avanti che sarebbe rimasta pressocché inalterata in tutte le successive versioni. La curvatura aumenta notevolmente la stabilità della guida della bicicletta, in quanto, con l'inclinazione dalla verticale dell'asse di governo della ruota, il punto di contatto tra questa e il terreno viene a trovarsi su quello stesso asse e non indietro rispetto all'intersezione tra quello e il suolo, come avverrebbe in assenza di curvatura.

Nel 1885 la Rudge Ltd, prima vera industria inglese del settore, fece uscire a Coventry il 'pioniere' con sella soffice, parafango e fanale. Anche la Hillman e la Singer riuscirono ad avviare a produzione un mezzo maneggevole, sicuro e veloce; era un colpo mortale per il biciclo e per i tricicli, mentre ebbero fortuna per un breve periodo anche macchine multiple come tandem, triplette ecc. Nello stesso anno in Italia Edoardo Bianchi iniziava la produzione del bicicletto completamente in ferro nella piccola officina di via Nirone a Milano: erano i timidi inizi di quella che sarebbe diventata l'industria simbolo del settore in Italia. Intanto il termine bicicletta andò soppiantando i precedenti velocipede e bicicletto.

L'invenzione dello pneumatico, brevettato dal veterinario scozzese John Boyd Dunlop nel 1888 a Belfast (prodotto e distribuito dalla Edlin & Sinclair, che successivamente avrebbe rilevato anche i diritti del brevetto), fornì un impulso notevolissimo alla bicicletta, consentendone l'utilizzazione anche su tratti con fondo duro e non solo su terra battuta. Il copertone, così come ideato da Dunlop, era incollato direttamente sul cerchio. Con perfezionamenti successivi si arrivò a presentarlo separato dalla camera d'aria.

I brevetti, soprattutto in Francia, Inghilterra e Stati Uniti, furono numerosissimi. L'inglese Charles K. Welch e l'americano W.E. Bartlett immaginarono nello stesso tempo lo pneumatico smontabile. I fratelli Edouard-Etienne e André Michelin nel 1891 effettuarono con C. Terront alla Parigi-Brest-Parigi un ingresso di notevole risonanza in campo agonistico. La riconversione della produzione della ditta di famiglia fu dovuta all'insistenza di André, convinto che fosse giunto il momento di entrare in un settore che si annunciava in fortissima espansione. Qualche mese dopo anche Giovan Battista Pirelli si inserì in questo campo, grazie a un brevetto che prevedeva un montaggio/smontaggio degli pneumatici meno problematico rispetto ad altri produttori. Nel campo dei costruttori in Italia si affiancarono ben presto alla Bianchi altre case come l'Olympia (1893), la Velo (1894), la De Battisti-Montanari e la Prinetti & Stucchi (già attive nel 1895), la Maino e la Dei (1896), la Frera (1897), la Frejus, la Itala, la Magenta e anche la Fiat (negli anni della guerra libica prima fornitrice dell'esercito italiano).

In Europa il gigante per la grande capacità produttiva, già nettamente orientata verso l'esportazione, era diventata l'Inghilterra. Coventry rappresentava il centro propulsore di un movimento che contava più di 200 costruttori tra cui la Humber, che nel 1895 presentò una bicicletta con telaio triangolare e ruote di uguale diametro, la Rudge-Whitworth, la Raleigh, la Singer e la Triumph. La produzione industriale in quel paese era già arrivata a rilevanti economie di scala ed era riuscita a soddisfare le richieste di oltre un milione di ciclisti.

Per quel che riguarda l'introduzione del cambio, la prima commercializzazione di una bicicletta di tale tipo con doppia catena e con catena sospesa si ebbe nel 1900 a opera di Paul de Vivie. Nel 1911 lo Stéphanois Panel introdusse il deragliatore con rocchetto a scambio sul mozzo della ruota posteriore; più tardi se ne ebbero i perfezionamenti con l'introduzione del cambio Simplex nel 1923 e del Campagnolo nel 1933.

La ruota libera, introdotta nel 1897 e perfezionata in Germania dalla Fichtel & Sachs, che nel 1903 lanciò il modello 'Torpedo', aveva reso pressante l'esigenza di efficaci congegni di arresto. L'evoluzione dei freni è frutto, come per numerose altre piccole modifiche, di molti nomi e ingegni rimasti sconosciuti. Il freno a ceppi sulla ruota anteriore venne prima rivestito con cuoio, poi con gomma. Successivamente vennero utilizzate delle biellette, sostituite a loro volta dal comando a cavo (1912). Venne quindi diminuita la lunghezza delle leve e i pattini furono fatti agire sul cerchio; per incrementare l'efficacia della frenata si cominciò inoltre a considerare con più attenzione anche la qualità dei pattini. L'aggiunta del freno posteriore (1921) consentì un decisivo miglioramento in termini di sicurezza. Una forma alternativa di frenata fu il freno a tamburo.

Dopo di allora la forma della bicicletta sarebbe rimasta quasi invariata fino ai nostri giorni, non trovando più soluzioni rivoluzionarie (se si esclude l'alta competizione), con perfezionamenti limitati in larga prevalenza alla componentistica.

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Le grandi corse su strada

L'idea di organizzare corse su strada che collegassero due città fu sollecitata dal successo che avevano riscosso le competizioni nei parchi e in pista, e se ne fecero promotori in molti casi i quotidiani sportivi alla ricerca di nuove proposte atte ad accrescere il loro prestigio e la loro tiratura. Le prime gare in linea possono essere considerate la Parigi-Rouen e la Londra-Brighton del 1869, che aprirono la via a un filone destinato a incontrare grande favore fra il pubblico. In Italia si devono ricordare la Firenze-Pistoia del 1870, la Milano-Piacenza del 1872, la Milano-Torino (1876), che si disputa tuttora.

Con la definitiva scomparsa del biciclo e l'utilizzazione degli pneumatici ci fu un'esplosione delle gare di 'gran fondo', in grado di colpire l'immaginazione perché univano città lontane fra loro. Nel 1891 P. Rousseau, che nel 1889 aveva acquistato il Véloce Sport, organizzò, in collaborazione con il Vélo club bordelais, la Bordeaux-Parigi (572 km dietro allenatori, vinta da G.P. Mills in 26h 34′ a 21,5 km/h), cui il Petit Journal con il caporedattore P. Giffard rispose lanciando la Parigi-Brest-Parigi (1208 km: 575 iscritti, 281 partenti, 4 arrivati e vincitore C. Terront in 71h 22′, alla media di 17,6 km/h). Nel 1892 si tennero il Giro dello Jutland (502 km), la gran fondo di Lipsia (500 km), la Parigi-Marsiglia (790 km), nel 1893 la Vienna-Berlino (585 km), nel 1894 la Basilea-Kleve (620 km), la Milano-Monaco di Baviera (600 km), la Lione-Parigi-Lione (1040 km), nel 1895 la S. Sebastián-Madrid (530 km), la Trieste-Vienna (540 km), la Parigi-Royan (556 km), la Lipsia-Berlino-Lipsia-Dresda-Lipsia (500 km), la Pietroburgo-Mosca (700 km).

Anche in Italia per un periodo le gran fondo godettero di grande popolarità. La prima competizione di questo tipo fu organizzata dal giornale la Bicicletta nel 1894 e prevedeva 540 km - da Milano a Torino - su percorso che si snodava tra Lombardia e Piemonte. Vinse Eugenio Sauli, alla media di 20,431 km/h. L'anno successivo fu adottato il percorso Milano-Padova-Bologna-Milano (540 km), riproposto nel 1902 quando vinse Enrico Brusoni. La gara fu poi portata a 600 km e chiamata la 'Seicento' (vinta nel 1903 da Giovanni Rossignoli e nel 1904 di nuovo da Brusoni; fu ripresa poi nel 1912 e nel 1913, edizioni vinte rispettivamente da Luigi Ganna e da Costante Girardengo, quindi nel 1919 e nel 1941). Altra gran fondo di successo fu la Milano-Roma, di cui fu specialista Carlo Galetti, vincitore di 4 edizioni su 9 (nel 1906, 1907, 1911, 1918); venne riproposta per la nona e ultima volta nel 1979. Da ricordare anche la XX settembre (Roma-Napoli-Roma), che fu una gran fondo dal 1902 al 1907; nel 1908 si svolse in due tappe perché l'Unione velocipedistica italiana aveva imposto la regola che non si poteva correre di notte; successivamente alternò le due formule, fino a quando negli anni Cinquanta non fu abbandonata.

Se oggi le gran fondo non godono più tanto successo, rimane invece invariato l'apprezzamento per le corse in linea di chilometraggio tra i 200 e i 300 km. Tra quelle che godono ora di maggior prestigio la decana è la Liegi-Bastogne-Liegi, organizzata per la prima volta per professionisti nel 1894, dopo due edizioni per dilettanti. Fu seguita tra le classiche di maggior fama dalla Parigi-Tours e dalla Parigi-Roubaix - diventata leggendaria per il suo percorso micidiale su pavé, che negli anni ha favorito grandi imprese ma ha anche bruciato tante speranze - nel 1896, dal Giro di Lombardia nel 1905, dalla Milano-Sanremo nel 1907, dal Giro delle Fiandre nel 1913. In Francia, Belgio e Italia, grazie a queste classiche, il ciclismo divenne lo sport più popolare.

I campionati nazionali su strada esordirono nel 1894 in Belgio, nel 1897 in Spagna, nel 1906 in Italia, nel 1907 in Francia. Il primo Campionato mondiale su strada per dilettanti fu disputato nel 1921, per professionisti nel 1927.

Le manifestazioni ciclistiche destinate ad attrarre maggiormente l'attenzione e l'entusiasmo del tifo sono state comunque fin dal loro esordio le corse a tappe, da disputarsi in più giorni. L'idea di organizzare una competizione di questo tipo fu formulata nel 1902 a Parigi da Géo Lefèvre, capo della rubrica di ciclismo al giornale Auto-Vélo (successivamente rinominato Auto e dal 1946 Équipe), di cui era amministratore Victor Goddet e direttore Henri Desgrange, nel desiderio di superare in originalità e tiratura il giornale rivale Vélo. Nacque così il Tour de France, da subito formulato su una distanza superiore ai 400 km per tappa (per un totale di 2428 km in 6 tappe, intervallate da uno a quattro giorni di riposo). L'esordio del Tour avvenne il 1° luglio 1903 a Mogeron, nei pressi di Parigi, e all'arrivo il 19 luglio al parigino Parco dei Principi risultò vincitore l'emigrato valdostano Maurice Garin.

Nel 1909 la Gazzetta dello Sport riuscì nell'intento di allestire il Giro d'Italia, annunciato nell'agosto 1908 per battere sul tempo il Corriere della Sera che aveva già organizzato un Giro d'Italia automobilistico e stava pensando a un'analoga iniziativa per ciclisti. Ne furono responsabili Armando Cougnet, Eugenio Camillo Costamagna, Tullio Morgagni, che cominciarono a occuparsi dell'organizzazione, ivi compresa la ricerca degli sponsor per trovare le 30.000 lire di premi, solo dopo l'annuncio e riuscirono ad allestire partendo da zero un'iniziativa di grande rilievo. Il primo Giro d'Italia partì il 13 maggio 1909 da Milano, le tappe furono 8, per un totale di 2448 km. I concorrenti furono 127 ma solo 49 furono presenti all'arrivo a Milano. Il vincitore fu Luigi Ganna.

Nella gerarchia dei grandi giri devono essere citati anche, in ordine di importanza, la Vuelta ciclista a España (che esordì nel 1935, con un percorso di 3411 km in 14 tappe con partenza e arrivo da Madrid; vinse il belga Gustave Deloor) e il Giro della Svizzera (la prima edizione si tenne nel 1933 e fu vinta dall'austriaco Max Bulla).

Il Tour fu capace di rinnovarsi continuamente e di riproporsi sempre in forme originali, cambiando percorsi e proponendo difficoltà nuove (tappe di montagna sul Ballon d'Alsace nel 1905, sui Pirenei nel 1910, sulle Alpi nel 1911), istituendo la classifica generale per somma dei tempi nel 1913 (imitata dal Giro nel 1914), adottando per il ciclista alla guida della classifica la maglia gialla (che richiamava i colori dell'Auto) nel 1919 (la maglia rosa al Giro comparve nel 1931), introducendo gli abbuoni (1923), inventando le squadre nazionali per ridurre lo strapotere delle marche più potenti (dal 1930 agli anni Sessanta; per compensare le spese di tale innovazione fu allestita la carovana pubblicitaria), introducendo le semitappe (1934), provando a eliminare ogni giorno a partire dalla seconda tappa l'ultimo in classifica (1939), sostituendo la classifica a tempi con quella a punti (1953). Fra le innovazioni introdotte al Giro va invece ricordata nel 1933 la cronometro individuale: i 62 km della Bologna-Ferrara crearono grande fermento nella carovana e grande curiosità negli sportivi per il loro rilevante contenuto tecnico. Il Tour rispose nel 1934 con una semitappa a cronometro di 83 km, seguita da ben 6 tappe a cronometro individuale nel 1935. Nel 1933 il Tour introdusse il Gran Premio della Montagna (al Giro fu inserito nel 1934; l'estensione del percorso alle Dolomiti avvenne nel 1937). Originò al Tour l'episodio forse decisivo nella lotta al doping, già iniziata nel 1966: la tragica fine di Tom Simpson nella tappa del Mont Ventoux del 1967 eliminò le incertezze e fece entrare a pieno titolo i controlli medici nel ciclismo. Per un avvenimento extraciclistico merita invece una citazione il Giro: nel 1910 Luigi Comerio con mezzi pionieristici riuscì a realizzare Il secondo Giro ciclistico d'Italia, un documentario che segnò la via per i cinegiornali degli anni Trenta e Quaranta.

La formula della corsa a tappe conserva ancora oggi un fascino che non ha uguali. Mentre in altre nazioni si dà notevole prestigio anche a corridori con altre caratteristiche, la maggioranza degli appassionati italiani e francesi di ciclismo ritiene vero campione solo chi sia riuscito a vincere grandi corse a tappe. Per questo le classifiche dei plurivittoriosi al Giro o al Tour e di chi ha realizzato l'accoppiata nello stesso anno sono particolarmente tenute in considerazione. Nella lista dei corridori capaci di vincere in una sola stagione Giro e Tour ci sono nomi prestigiosi: Eddy Mercks (3 volte), Fausto Coppi, Bernard Hinault e Miguel Indurain (2 volte), Jacques Anquetil, Stephen Roche e Marco Pantani (1 volta). I recordmen del Tour sono Lance Armstrong con 6 vittorie (consecutive); Anquetil, Hinault, Merckx, Indurain con 5 vittorie. Il primato di vittorie al Giro appartiene invece ad Alfredo Binda, Coppi e Merckx, maglia rosa 5 volte ciascuno.

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