CINA

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Cina

Claudio Cerreti
Giuseppe Mureddu
Giorgio Trentin
ENCICLOPEDIA ITALIANA VI APPENDICE Tab cina 01.jpg

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(X, p. 257; App. I, p. 417; II, i, p. 585; III, i, p. 374; IV, i, p. 436; V, i, p. 625)

Questioni territoriali

di Claudio Cerreti

La definizione del territorio sotto sovranità cinese continua a essere uno dei punti cui il governo presta la maggiore attenzione. L'evento recente più significativo in questo senso è stato la restituzione di Hong Kong (1997), cui è stato assicurato, per ulteriori 50 anni, uno status specifico, conservandovi l'assetto socioeconomico acquisito. Hong Kong è stata così eretta a regione amministrativa speciale evitando, almeno nell'immediato, il temuto esodo di persone e di attività. Tuttavia, rispetto al passato, l'importanza di Hong Kong per la C. è considerevolmente diminuita: se la ex colonia britannica ha rappresentato a lungo l'unica porta aperta agli scambi (economici e non) da e per la C., la recente istituzione di regioni economiche speciali sul territorio metropolitano cinese, specificamente abilitate e incoraggiate a intrattenere rapporti diretti con l'estero, ha ridimensionato il problema della relativa chiusura cinese. La restituzione di Hong Kong, quindi, benché rivesta importanza anche sotto il profilo produttivo e più ancora finanziario, si è piuttosto risolta nella riaffermazione di un principio di sovranità da parte della C., perseguito per decenni con grande tenacia. A maggior ragione, la restituzione di Macao (fine 1999) si è tramutato in un evento di importanza eminentemente simbolica.

Su altri versanti, le questioni appaiono più sostanziali, ma anche più complesse per poter essere risolte in tempi rapidi. Se la C. è riuscita a regolare, in base allo statu quo, le pendenze relative ai suoi confini occidentali, attraverso una serie di accordi con le repubbliche centro-asiatiche sorte dalla dissoluzione dell'URSS, e benché trattative siano in corso anche con la Federazione Russa per il lunghissimo confine comune (un breve tratto sull'Altai, fra Kazakistan e Mongolia, quindi il lungo percorso continuo in Manciuria), rimangono del tutto aperte le questioni con India e Pakistan nell'area del Kaśmir, dove i tre paesi avanzano rivendicazioni incrociate cui nessuno pare voler rinunciare, stante l'importanza militare della regione e la sua difficile situazione etnica. Esistono poi altri non irrilevanti contenziosi, non ancora risolti, su alcuni piccoli gruppi di isole nel Mar Cinese Meridionale (Spratly, Paracel, Senkaku e altre isole minori), nonché la rivendicazione su Taiwan, divenuta ormai il prossimo obiettivo del governo cinese, sulla base dello stesso sistema adottato per Hong Kong e Macao.

I problemi territoriali apparentemente più pressanti per la C. sono interni, prodotti dalla forte differenziazione etnica che interessa le sue regioni periferiche, dalla divaricazione regionale dei termini dello sviluppo economico e dalle profonde modificazioni dell'ambiente naturale. Fra queste ultime, che annoverano casi di seria contaminazione dei suoli e delle acque, pesante inquinamento atmosferico nelle aree industriali ancora alimentate a carbone, estese aree deforestate, perdita di fertilità nelle regioni subdesertiche e così via, occorre ricordare gli effetti prodotti e attesi dalla costruzione della diga delle Tre Gole, lungo il medio corso dello Yangtze (iniziata nel 1994), il cui bacino, in corso di riempimento, dovrà estendersi su circa 54.000 km², interessando un tratto di circa 600 km di corso fluviale; la formazione del bacino provoca lo spostamento di 1,5 milioni di persone e conseguenze climatiche e in genere ambientali non prevedibili, così che il progetto è stato duramente osteggiato, anche in C., e non ha goduto di nessun sostegno finanziario o tecnico internazionale.

Fra le questioni concernenti la presenza di minoranze, quella tibetana sembra tuttora la più accesa, mentre appare relativamente meno grave quella che interessa la popolazione islamica del Xinjiang Uygur, soprattutto dopo la conclusiva definizione dei confini di cui si è detto. La minoranza tibetana, comunque, è riuscita ad attirare su di sé la maggiore attenzione internazionale rivendicando il rispetto dell'autonomia amministrativa del Tibet e la conseguente tutela delle specificità culturali della popolazione, a fronte di una costante politica di incorporazione e di assimilazione attuata dal governo cinese.

La questione è palesemente territoriale, nel senso che la popolazione tibetana, secondo i dati ufficiali, rappresenterebbe appena lo 0,4% della popolazione della C.; anche ammettendo una sottostima ufficiale, la sua rilevanza demografica rimane affatto esigua, nel quadro demografico cinese, e correlativamente deboli le sue richieste, specie se si considerano la vastità e le potenzialità del territorio tibetano, praticamente mai messo in valore prima degli interventi cinesi. La concentrazione dei Tibetani entro un'area ben determinata (anche se il governo cinese è stato accusato di aver delimitato la regione autonoma del Tibet in modo da escluderne parte della popolazione tibetana), e per di più fortemente periferica, rende la questione assai delicata. L'importanza strategica ed economica di tutta la regione si somma alla fermissima intenzione cinese di non permettere che alcun territorio un tempo soggetto all'autorità (in qualsiasi forma espressa) dell'impero cinese sfugga oggi all'autorità dello Stato repubblicano.

Problemi di altra natura e non meno insidiosi sembrano porre quelle regioni costiere in cui si è realizzato un intenso sviluppo economico, autonomo e aperto al mercato internazionale, che non solo caratterizza queste aree in maniera del tutto diversa dalla gran parte della C., rurale e meno avanzata, ma sembra aver annullato gli effetti del lungo periodo rivoluzionario e socialista, recuperando quel primato economico e sociale che già le stesse regioni avevano prima della rivoluzione. In questi termini, lo sbilanciamento regionale potrebbe produrre tentazioni secessioniste che sarebbero alimentate non solo da egoismi economici, ma anche da tradizioni sociopolitiche inveterate e da precisi interessi geopolitici di Stati esteri.

Popolazione

Popolazione e condizioni economiche

Le regioni costiere sono anche quelle che più nettamente sembrano indirizzate a completare la transizione demografica. Nell'insieme della C. la popolazione continua a crescere, ma il ritmo di accrescimento è rallentato, e in ogni caso è molto inferiore alla crescita del PIL (per cui il PIL per abitante ha conosciuto un incremento spettacolare, nonostante il basso livello assoluto); nelle regioni industrializzate e urbanizzate costiere l'accrescimento demografico si sarebbe arrestato da tempo, se non fosse per la fortissima immigrazione che dagli anni Ottanta è ripresa e che è causa del generale forte aumento della popolazione urbana. Da queste stesse regioni sono partiti, in passato, i componenti delle attuali comunità cinesi all'estero, sia in America, sia nell'Asia sud-orientale (Singapore, Indonesia, Malaysia, Thailandia), con i quali le relazioni economiche e sociali non si sono mai interrotte e hanno anzi preso sempre maggior vigore, incidendo significativamente sulla capitalizzazione delle economie locali.

L'assetto urbano presenta un dinamismo assai maggiore rispetto ai decenni scorsi. Le città principali, specie quelle in cui esistono zone economiche speciali o porti franchi, si sono viste attribuire la funzione di guidare le corrispondenti aree dell'entroterra, un vero e proprio Hinterland esclusivo, e di dialogare con l'estero (a cominciare da Giappone e Corea del Sud). La crescente concentrazione, però, comincia a porre problemi di assetto generale del territorio e di riequilibrio fra aree interne e costiere. D'altro canto, è nelle aree urbane che si realizza la maggior parte dello straordinario incremento produttivo che caratterizza la C. degli anni Novanta e sembra destinato a portare il paese, in prospettiva, al primo posto nel mondo in termini di PIL globale; un incremento che fin da ora ha consentito il notevolissimo aumento dell'interscambio e il ritorno in attivo della bilancia commerciale, facendo della C. uno dei primi dieci paesi del mondo per volume di scambi.

L'industrializzazione, in queste aree, investe ormai quasi tutti i comparti; quelli tessile, meccanico, chimico, dell'abbigliamento, elettronico e alimentare sono i più solidi e ramificati. Dal punto di vista cinese, e nonostante l'accorta gradualità con cui viene condotta la nuova politica economica del paese, lo sviluppo dell'area costiera è di importanza strategica, al punto che qualsiasi limitazione al suo potenziamento potrebbe comportare un freno intollerabile alla crescita dell'intera Cina. Anche da parte delle imprese estere, che qui hanno trovato ottime opportunità di investimento (si contano circa 140. 000 imprese a capitale misto, per un totale di investimenti esteri in atto di circa 50 miliardi di dollari) e che, a brevissimo termine, contano di trovare un mercato di sbocco di dimensioni incomparabili, una riduzione delle potenzialità economiche della C. costiera rappresenterebbe poco meno che un ritorno alla politica isolazionista tradizionale. Nondimeno, l'abbandono delle campagne sta creando problemi serissimi sia in ordine a un regolare approvvigionamento alimentare (benché la C. si sia dimostrata in grado, in anni recenti, di esportare cereali e altri alimenti), sia riguardo alla tenuta di ambienti rurali sostanzialmente artificiali dopo millenni di interventi umani, dove l'abbandono può innescare una vera e propria serie di catastrofi 'naturali'. Si spiega anche così l'oscillare del governo cinese fra spinte liberalizzatrici e strette autoritarie, pure a proposito di gestione del territorio e di mobilità della popolazione.

Per altro verso, la valorizzazione delle risorse delle regioni interne prosegue senza sosta a opera dei poteri pubblici (mentre quelle costiere si avvalgono di capacità autopropulsive e di capitali esteri), grazie alla costruzione di infrastrutture (installazioni idrauliche e idroelettriche, vie di comunicazione, condotte) e alla scoperta di nuovi importanti giacimenti minerari (carbone, petrolio, metano). Un'adeguata valorizzazione di questi ultimi, che consentirebbe di trattenere una parte della popolazione, richiede investimenti ingenti per avviarne il prodotto alla costa: è nelle regioni costiere, del resto, che la domanda civile e industriale è maggiore, mentre le industrie dell'interno (prevalentemente di proprietà pubblica), in fase di riconversione o smantellamento, non sembrano in grado di assorbire utilmente le materie prime né di garantire incrementi di produttività.

In definitiva, gli abitanti delle zone interne continuano ad avere a disposizione prevalentemente produzioni di base agro-zootecniche e minerarie, in una situazione che sancisce di fatto il fallimento della politica di industrializzazione dell'interno, tentata per decenni. Per quanto gran parte della produzione agricola (ma non di quella mineraria) sia ormai liberalizzata, il valore dei prodotti primari in C. rimane, come nelle economie occidentali, molto al di sotto di quello garantito dalle attività di trasformazione o di servizio; di conseguenza, in un sistema che sta trasformandosi decisamente in mercato, continuerà l'attrazione esercitata dalle città industriali e terziarie, nonostante la presenza di risorse rilevantissime nelle regioni interne. Nello stesso senso agisce la crescente meccanizzazione dell'agricoltura, che aumenta la redditività, ma porta all'espulsione di grandi masse di addetti, mentre sostiene un'industria meccanica ormai molto vivace.

In sostanza, la C. rischia di dover vivere le contraddizioni proprie dei paesi a economia di mercato, a meno che l'intervento statale non riprenda il sopravvento riorientando coerentemente gli sviluppi regionali. Proprio su questo versante, però, si nutrono preoccupazioni, dato il crescente disavanzo dello Stato, prodotto dal cattivo funzionamento dell'amministrazione e dalla necessità di sostenere le imprese pubbliche in perdita per graduare chiusure ed evitare tensioni sociali.

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Politica economica e finanziaria

di Giuseppe Mureddu

tab. 2

Tra l'inizio degli anni Ottanta e la prima metà degli anni Novanta, l'economia cinese si è sviluppata a un ritmo elevatissimo (tab. 2): il tasso annuo di crescita del PIL è stato in media del 10%, con punte in qualche anno superiori al 14% e un ridimensionamento negli anni più recenti; il reddito pro capite, nonostante l'aumento della popolazione (stimata al 1998 in oltre 1260 milioni di ab.), si è quadruplicato; l'occupazione ha continuato a salire, raggiungendo i 700 milioni di occupati complessivi, con incrementi particolarmente elevati nel settore privato urbano (intorno al 20% annuo negli anni Novanta); l'inflazione, che ha registrato punte elevate (24,3% nel 1994) ma ben lontane da quella a tre cifre di altri paesi in transizione verso l'economia di mercato, è stata posta sotto controllo; le esportazioni, cresciute più rapidamente del PIL, seppure con andamento altalenante, hanno consentito, nonostante il forte aumento delle importazioni, notevoli surplus commerciali e un considerevole accumulo di riserve, collocando la C. al decimo posto nella classifica del commercio mondiale. È difficile stabilire in che misura questi straordinari risultati - che fanno della C. una grande potenza economica emergente - siano dovuti alle novità in materia di politica economica e finanziaria introdotte dalle riforme degli anni Ottanta e sperimentate dall'viii e ix Piano quinquennale (1991-95 e 1996-2000).

Uno dei cambiamenti più interessanti è consistito nell'attribuzione alla Banca del popolo della C. delle funzioni di una vera banca centrale e nella separazione delle sue funzioni sia da quelle del sistema delle banche ordinarie, progressivamente aperto ai privati, sia dall'azione del governo; parallelamente sono stati adottati strumenti che consentono di avviare, sia pure con molti limiti, una politica monetaria e creditizia simile a quella delle economie di mercato occidentali.

Tuttavia, innovazioni importanti come l'introduzione degli strumenti consueti di politica monetaria - manovra del tasso d'interesse, variazione delle riserve obbligatorie delle banche e operazioni di mercato aperto - non sono state in grado di produrre ancora effetti sensibili. Le variazioni del tasso d'interesse, sebbene importanti nel modificare l'offerta di risparmio delle famiglie, hanno mostrato una scarsa incidenza sul comportamento della domanda e dell'offerta di credito. In particolare, la manovra al rialzo del tasso è risultata poco efficace nei confronti delle imprese pubbliche, le quali, potendo scaricare direttamente o indirettamente i loro deficit sul bilancio dello Stato, non sono state incentivate a ridurre la domanda di finanziamenti presso il sistema bancario: un aumento del costo del credito si è tradotto così in un allentamento dei vincoli di bilancio per le imprese e nella conseguente emissione di moneta per conto del Tesoro. Anche l'introduzione della riserva obbligatoria (13% dei depositi) non ha mutato in sostanza il quadro degli strumenti di politica monetaria: modifiche del coefficiente di riserva sono risultate poco efficaci a causa della straordinaria ampiezza delle riserve libere detenute dalle banche per ovviare alla limitatezza del mercato interbancario e alle disfunzioni del sistema dei pagamenti. Non desta meraviglia che, anche nella politica di stabilizzazione portata avanti con successo alla fine degli anni Ottanta, i nuovi strumenti di politica economica - in particolare la manovra dei tassi d'interesse - abbiano avuto un ruolo limitato rispetto ai tradizionali metodi amministrativi (plafond per gli impieghi e congelamento di una parte dei fondi raccolti).

tab. 3

Un mutamento di politica monetaria con effetti più evidenti ha riguardato la liberalizzazione del regime dei cambi, avvenuta in concomitanza con il progressivo abbandono del sistema di gestione centralizzata del commercio estero e del monopolio statale delle valute. Tale politica di liberalizzazione fu avviata nel 1981, quando le imprese esportatrici furono autorizzate a trattenere una quota della valuta acquisita - variabile a seconda del settore e della regione - per effettuare importazioni in proprio e per offrirla quindi, attraverso l'intermediazione della Banca della C., ad altre imprese importatrici. Venne così a crearsi, accanto al cambio ufficiale che sopravvalutava la moneta cinese (lo yuan renminbi), un tasso di cambio swap. Quest'ultimo, sebbene adottato da un gruppo strettamente controllato di importatori ed esportatori, risultava già più sensibile al rapporto tra domanda e offerta di valuta e divenne ben presto il tasso di riferimento per tutti, cosicché, nel 1985, il tasso ufficiale finì con l'allinearsi a esso. Il passo successivo fu quello di consentire che la formazione del tasso di cambio swap fosse determinata non più dalla Banca della C., ma dalle forze di mercato attraverso un Centro compensazione valute, costituito nel 1987 (tab. 3). Il successo di questo nuovo meccanismo - inizialmente ad accesso limitato ma allargatosi rapidamente fino ad assorbire nel 1993 oltre l'80% di tutte le transazioni in valuta effettuate nel paese - ha costituito la premessa per abolire il sistema del doppio cambio. In breve tempo è stato abbandonato il meccanismo delle quote di detenzione dei proventi valutari delle esportazioni; sono state abolite le autorizzazioni a vendere o acquistare divise per operazioni commerciali documentate; è stato sostituito il mercato valutario swap con quello interbancario, e sono state avvicinate le condizioni necessarie per realizzare la convertibilità dello yuan renminbi. Parallelamente al processo di allentamento del controllo del cambio, la moneta cinese ha smesso di essere artificialmente sopravvalutata: la graduale ma consistente svalutazione (in 15 anni lo yuan renminbi ha perso quattro quinti del suo valore rispetto al dollaro) è stata usata come un vero e proprio strumento di politica commerciale, consentendo alle esportazioni cinesi di competere con i prodotti provenienti dagli altri paesi asiatici emergenti.

La separazione delle funzioni della banca centrale da quelle del governo ha determinato, unitamente alla riforma delle imprese statali, trasformazioni sostanziali anche nella struttura del bilancio dello Stato, sia sotto il profilo della spesa sia sotto quello delle entrate.

Il processo di privatizzazione e la relativa autonomia finanziaria acquisita dall'industria statale hanno ridimensionato l'entità dei trasferimenti e dei contributi pubblici a favore delle imprese pubbliche, mentre il progressivo abbandono del tradizionale meccanismo di finanziamento dello Stato - costituito dal trasferimento dei profitti delle imprese statali - ha reso necessaria l'adozione graduale di un sistema fiscale, forse eccessivamente decentralizzato, basato sulla tassazione del reddito e sull'IVA. Tali cambiamenti, seppure non delineabili in un disegno coerente di riforma della gestione della finanza pubblica, hanno modificato la natura della politica di bilancio con conseguenze di grande rilievo in ciò che è stato definito l'atterraggio morbido dell'economia cinese nell'ultimo quinquennio del secolo, ossia il controllo dei ritmi di sviluppo economico (con un rallentamento al di sotto del 10% medio annuo) al fine di attenuare le spinte inflazionistiche.

Non meno importanti delle politiche economiche di carattere generale sono state le strategie di intervento in alcuni settori economici chiave: in primo luogo l'agricoltura e l'energia. Le trasformazioni in campo agricolo sono state uno degli elementi portanti della prima fase delle riforme di Deng Xiaoping: l'abbandono della collettivizzazione (imprese rurali a responsabilità familiare - senza tuttavia il trasferimento della proprietà della terra - hanno rapidamente preso il posto delle 'comuni popolari') ha determinato un rinnovamento delle strutture produttive, aumentando rapidamente la produttività e consentendo uno straordinario sviluppo della produzione che ha scongiurato l'insorgere di squilibri tra domanda e offerta di prodotti alimentari di base. Vent'anni dopo l'avvio di queste riforme, l'ammodernamento delle strutture produttive e l'ulteriore crescita della produttività sono stati perseguiti incoraggiando anche lo sviluppo di grandi imprese agricole, nelle quali la proprietà privata unita a un rafforzamento del potere di controllo degli enti locali non costituisce più una barriera pregiudiziale. Alla fine degli anni Novanta la politica agricola cinese attraversava comunque una fase di ripensamento, incerta sull'opportunità di introdurre la proprietà privata, sul modo di superare le difficoltà poste dai forti aumenti dei prezzi, di completare la liberalizzazione del commercio dei prodotti agricoli, e di attenuare il crescente divario tra i redditi rurali e quelli delle aree urbane industrializzate.

Il settore energetico, da sempre considerato strategico per lo sviluppo economico, aveva posto in passato l'esigenza di finanziare massicci piani di investimenti necessari per lo sfruttamento delle risorse nazionali (relativamente abbondanti, soprattutto per quanto riguarda il carbone). La rapidità della crescita economica, rendendo presto insufficiente la produzione energetica interna rispetto al fabbisogno complessivo della C., ha sollevato nuovi problemi: ha reso insostenibile il grado di inefficienza dei consumi di energia nell'industria e nel settore civile e ha dato priorità alla sicurezza dell'approvvigionamento esterno che è diventato l'obiettivo centrale della politica commerciale e delle partecipazioni a joint ventures, multinazionali per la ricerca e lo sfruttamento di fonti energetiche nazionali ed estere.

La transizione all'economia di mercato

Il passaggio della C. all'economia di mercato ha creato imbarazzo tra i sostenitori della cosiddetta terapia d'urto, malamente sperimentata da altri paesi che hanno intrapreso lo stesso percorso. Il processo di trasformazione dell'economia cinese si è caratterizzato infatti per un approccio graduale, con esitazioni e lentezze sia nella liberalizzazione dei prezzi, sia nella formazione della proprietà privata, sia infine nel mutamento del quadro amministrativo e giuridico. Nella seconda metà degli anni Novanta, solo la metà dei prodotti veniva venduta sul libero mercato (meno di un terzo dei mezzi di produzione nell'industria): la liberalizzazione dei prezzi è proceduta assai lentamente, anche se va considerato che alla fine degli anni Settanta tutti i prezzi erano controllati direttamente dallo Stato. Assai limitata è stata inoltre la diffusione della proprietà privata, e le imprese statali, benché ridimensionate, fornivano nel 1995 ancora circa il 40% della produzione industriale. La gradualità del passaggio ai meccanismi di mercato, oltre a essere provocata dalla liberalizzazione limitata a determinate attività, è stata accentuata dalla creazione di aree privilegiate - con vantaggi fiscali, doganali o altri incentivi - autonome in vario grado dalle norme e dal potere centrali: 'zone economiche speciali', 'zone di sviluppo delle alte tecnologie', 'zone franche' o di libero commercio, 'zone di turismo di Stato'. Limitazioni settoriali e territoriali hanno costituito ambiti di sperimentazione relativamente isolati dal resto dell'economia ancora regolata con metodi amministrativi e impreparata all'impatto di tale esperienza. Lenti sono stati anche il rinnovamento o la creazione di strutture amministrative e legali compatibili con il nuovo modello di funzionamento dell'economia. E tuttavia il passaggio alla 'economia di mercato socialista' - concetto che dal 1992 è entrato nel linguaggio ufficiale - è proceduto sicuro, allargandosi a un numero crescente di settori e aree geografiche, e configurandosi come processo irreversibile.

L'aspetto più spettacolare di questo processo è stato l'apertura della C. nei riguardi dell'economia mondiale. Indicatori sintetici di tale apertura, come la somma di esportazioni e importazioni rapportata al PIL e al commercio mondiale, hanno evidenziato un aumento impressionante dall'inizio delle riforme alla seconda metà degli anni Novanta (da 4% a 23% il primo indicatore, da 1% a 4% il secondo). Le esportazioni nel 1995 (quasi 150 miliardi di dollari) erano sette volte quelle del 1982, essendo aumentate nel periodo 1982-95 a un tasso annuo del 14%; anche le importazioni sono cresciute molto velocemente, a un tasso leggermente inferiore a quello delle esportazioni.

Come si è già detto, la politica del tasso di cambio ha favorito l'espansione delle esportazioni, ma non va dimenticato che svalutazioni più ampie e più frequenti non hanno avuto alcuna efficacia in altri paesi che negli stessi anni attraversavano la fase di transizione dall'economia dirigista a quella di mercato e tentavano di inserirsi nel mercato mondiale. La riduzione dei vincoli tariffari ha rappresentato un ulteriore stimolo alla crescita delle esportazioni, ottenuta grazie anche alla partecipazione ad accordi internazionali che hanno consentito alla C. di beneficiare largamente della clausola della nazione più favorita (le importazioni sono rimaste però protette dai dazi doganali e da altre barriere non tariffarie, con eccezioni selettive riguardanti le materie prime, i prodotti intermedi e i beni di investimento necessari per lo sviluppo specialmente dei settori di esportazione): va tuttavia osservato - come mostrano altre esperienze meno riuscite - che anche la liberalizzazione degli scambi commerciali non determina automaticamente l'affermazione sui mercati esteri.

tab. 4

Le cause del sorprendente sviluppo delle esportazioni vanno ricondotte soprattutto alla 'politica della porta aperta', ossia all'insieme delle misure, introdotte progressivamente a partire dal 1978, volte a decentralizzare l'attività di esportazione con la creazione di società di commercio estero indipendenti dal governo centrale, a creare 'zone economiche speciali', e a favorire l'ingresso di capitali stranieri in particolare nella forma di investimenti diretti. In tal modo la C. non è solo un paese che ha visto aumentare rapidamente le proprie quote commerciali sul mercato mondiale, ma è divenuta anche una delle maggiori aree di attrazione dei capitali internazionali (secondo paese al mondo, dopo gli Stati Uniti, per quanto riguarda l'afflusso di investimenti diretti, tab. 4); ed è risultata, allo stesso tempo, un paese esportatore di capitale di rilievo. Essa ha seguito lo stesso modello di sviluppo - pittorescamente definito volo di oche selvatiche - osservato per altri paesi asiatici del Pacifico all'interno di un processo di integrazione regionale e nell'ambito della globalizzazione dell'economia: paesi caratterizzati da diversi stadi di sviluppo si muovono insieme come in una sorta di rincorsa, in cui quelli più avanzati accentuano la loro specializzazione in prodotti a più alto contenuto di tecnologia e di capitale umano, lasciando che i nuovi paesi emergenti del gruppo espandano le esportazioni di prodotti standardizzati e ad alta intensità di lavoro non qualificato. In questo contesto di delocalizzazione produttiva, di mobilità del capitale e di cambiamenti nel tempo dei vantaggi comparati, la C. ha potuto allargare le sue potenzialità di specializzazione in manufatti ad alta intensità di lavoro poco qualificato. Essa, tuttavia, avendo potuto contare su un grande mercato interno, sull'apporto finanziario e tecnologico degli investimenti stranieri e su strutture finanziarie moderne (nelle sue zone speciali, in Hong Kong e nei centri finanziari limitrofi), ha acquisito le caratteristiche per assumere la leadership nell'area del Pacifico asiatico. Il completamento della 'Grande Cina', con il 'ritorno' di Hong Kong nel luglio 1997, ha accelerato tale tendenza.

Per quanto le politiche economiche adottate siano state generalmente considerate inconsistenti, incerte o contraddittorie, il giudizio d'insieme su di esse non può prescindere dalla straordinarietà dei successi ottenuti dall'economia cinese nel corso degli anni Ottanta e Novanta. Tre risultati, che appaiono come altrettanti primati in campo mondiale, meritano, in particolare, di essere di nuovo sottolineati: innanzi tutto l'ampliamento del sistema produttivo e la crescita del prodotto nazionale, con un'intensità senza precedenti anche per le economie in rapido sviluppo dei paesi asiatici del Pacifico; in secondo luogo l'apertura nei confronti dell'economia internazionale, che ha consentito alla C. di conquistare un ruolo di primissimo piano negli scambi commerciali e negli investimenti diretti; infine il progressivo abbandono dei metodi amministrativi nella regolazione dell'attività economica e l'avvio di un processo di transizione verso l'utilizzo di meccanismi di mercato che, nonostante la sua incompletezza, ha superato la soglia dell'irreversibilità.

Restano certamente, accanto ai risultati innegabili, problemi aperti e gravi difficoltà. Basti pensare, al di là dei limiti e della fragilità delle politiche macroeconomiche, all'inadeguatezza dei mutamenti istituzionali, al persistere di forme di inefficienza e alle forti perdite di esercizio, dovute alla preponderanza del settore delle imprese statali, alla corruzione molto diffusa e ai danni ambientali associati al rapido sviluppo economico.

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Storia

di Giorgio Trentin

Dopo i fatti del 1989 la storia politica della Repubblica popolare cinese si è sviluppata snodandosi intorno a tre tematiche fondamentali: sviluppo economico, relazioni internazionali e ruolo politico del Partito comunista in un contesto interno in continua evoluzione. All'indomani del massacro di piazza Tien An Men, e ancor più durante l'autunno-inverno del 1989 con il crollo dei regimi comunisti nell'Europa dell'Est, gran parte dell'opinione pubblica internazionale riteneva che anche il sistema politico cinese fosse prossimo al tracollo e che il movimento studentesco dell'estate precedente non fosse che uno dei sintomi di questo imminente collasso. Gli uomini politici occidentali erano tuttavia consapevoli del fatto che il crollo del sistema cinese avrebbe provocato una crisi economica di portata mondiale, destabilizzando di conseguenza gli equilibri politici della regione asiatica: anche all'ONU si condannava duramente il disprezzo dei diritti umani dimostrato dal governo di Pechino, ma al tempo stesso si auspicava la stabilità di quello stesso governo, e il presidente degli Stati Uniti G. Bush aveva segretamente inviato, già nel primo autunno del 1989, un suo incaricato di fiducia a Pechino per rassicurare i Cinesi sulle intenzioni americane di mantenere relazioni politiche ed economiche con la Cina. Stabilità era anche la parola d'ordine che Deng Xiaoping tentava in quel periodo di imporre al dibattito politico interno per evitare che dieci anni di scelte radicali in campo economico venissero cancellati. L'ala conservatrice del partito, guidata dall'anziano Chen Yun, imputava infatti a un processo di riforme troppo veloce e decentralizzato la responsabilità principale dei fatti di Tien An Men e si apprestava a chiedere a Deng una marcia indietro su tutto il fronte. Il 22 marzo del 1990 Deng Xiaoping lasciava nelle mani del segretario generale del partito Jiang Zemin l'ultimo incarico politico che ancora rivestiva: la guida della Commissione militare dello Stato. Con questa mossa Deng tentava di rafforzare la figura di Jiang e al tempo stesso, pur allontanandosi dalla partecipazione diretta alla politica del paese, rimaneva l'uomo forte del regime.

Era necessario innanzitutto ricostruire l'immagine internazionale della Repubblica popolare, compromessa dai fatti di Tien An Men. Il lavoro capillare della diplomazia cinese e alcune offerte di maggiori aperture economiche verso l'estero diedero presto i loro risultati: quando la C. approvò la risoluzione 665 dell'ONU, che autorizzava un eventuale impiego della forza per liberare il Kuwait dall'invasione da parte dell'Iraq (paese fino a quel momento considerato 'amico' dai Cinesi), anche Bush poté convincere il Congresso americano che la politica migliore da adottare per favorire il processo di democratizzazione cinese era quella di un positivo e costante coinvolgimento della C. nelle relazioni internazionali dell'Occidente. Forte di queste prime aperture internazionali, Deng Xiaoping riuscì a difendere con maggiore incisività i benefici delle riforme dagli attacchi dei conservatori, perseguendo l'obiettivo politico di fare della C. una delle potenze economiche del terzo millennio, e disposto a tal fine a cedere ai conservatori sul terreno delle loro istanze principali, quelle concernenti la purezza ideologica del partito e del paese. La strategia del compromesso portò presto a fatti concreti: nel dicembre del 1990 decollò infatti la prima borsa di capitali a Shenzhen, seguita poco dopo da quella di Shanghai. L'emissione dei titoli riscosse un tale successo tra i Cinesi da risultare ben presto del tutto insufficiente rispetto alle richieste.

I complessi giochi di equilibrio che caratterizzavano l'azione politica di Deng cominciarono anche a ridar fiato all'ala riformatrice del partito, sbaragliata dopo i fatti di Tien An Men. Il 1° aprile 1991, durante la riunione dell'Assemblea nazionale del popolo, Deng riuscì a collocare il sessantatreenne Zhu Rongji (già sindaco di Shanghai dal 1987 e segretario locale del partito dal 1989) nel ruolo di vice primo ministro con la specifica responsabilità dell'economia; a lui spettava dunque il compito di avviare il processo di transizione dall'economia pianificata a quella di mercato.

Le scelte di Deng non vacillarono neanche quando, nell'estate del 1991, scoppiarono a Mosca i disordini che condussero in dicembre alla completa dissoluzione dell'URSS. All'attacco dei conservatori, che evocavano i disastri russi anche per la C. se si fosse proseguito in quella direzione, Deng rispose che solo una crescita della disponibilità di beni materiali poteva funzionare come valvola di sicurezza per evitare una crisi politico-sociale nel paese: si trattava di offrire ai Cinesi beni di consumo in cambio della rinuncia a qualsiasi rivendicazione democratica. Il progetto dell'anziano leader appariva fondato: i Cinesi sembravano conquistati più dai nuovi grandi centri commerciali che nascevano in ogni città, che dal desiderio di cambiamento politico emerso durante la primavera pechinese del 1989. Ma, se i Cinesi sembravano aver dimenticato la 'quinta modernizzazione', la democrazia, la disaffezione nei confronti della gestione del partito aumentava a livello esponenziale, soprattutto nelle province rurali dell'interno. La cosiddetta politica del 'doppio binario' (promuovere in un primo momento l'arricchimento delle province costiere e pensare a quelle dell'interno solo dopo il rafforzamento economico delle prime), imperante durante tutti gli anni Ottanta, cominciava a mostrare tutti i suoi difetti: nelle campagne cresceva la disoccupazione, le aree coltivabili diminuivano a vista d'occhio a causa dell'urbanizzazione crescente, un esteso fenomeno di corruzione fra i quadri del partito rendeva difficile e precaria la vita di molte imprese rurali. Ma Pechino definiva tutto ciò un problema secondario, cui sarebbe stato facile porre rimedio una volta condotto a termine il processo delle riforme.

Uno dei pilastri del processo riformatore era costituito dall'imminente ritorno, sotto la formula 'un paese due sistemi', di Hong Kong alla Cina. Eppure fu proprio da quel fronte che nel periodo successivo ai fatti di Tien An Men cominciarono a giungere segnali inquietanti. Lo shock per gli avvenimenti del giugno 1989 aveva portato nell'isola alla formazione, favorita dal governatore inglese Wilson, di diverse forze politiche di indirizzo marcatamente democratico e ostili al regime di Pechino. Questi nuovi partiti, e in particolare gli United democrats guidati da M. Lee, avevano cominciato ad affermarsi nel settembre 1991, in occasione delle votazioni per il rinnovo del Legislative Council (il Parlamento di Hong Kong), vincendo 12 seggi su 18. Si trattava di un campanello d'allarme molto preoccupante per Deng il quale, prima ancora che i conservatori potessero servirsi del pretesto delle elezioni di Hong Kong per lanciare l'ennesimo attacco alle riforme, sferrò quella che doveva essere l'offensiva definitiva: tra il 18 e il 30 gennaio 1992 compì, nelle province meridionali, un lungo viaggio che la stampa cinese definì poi "il viaggio dell'imperatore a sud". In ogni tappa Deng incitò la C. a seguire senza ripensamenti la via delle riforme e dello sviluppo e chiese alle forze produttive del paese di garantire una crescita economica del 10% invece che del 6% previsto dall'viii Piano quinquennale; e ogni volta attaccò i conservatori, citandoli per nome, accusandoli di rallentare le riforme e di sabotare lo sviluppo del paese. Pochi mesi più tardi sferrò lo stesso attacco contro quei rappresentanti delle forze armate ostili a lui e al suo progetto: più di trecento alti ufficiali furono allontanati dalle loro cariche. Il xiv Congresso del Partito comunista, che si aprì a Pechino il 12 ottobre 1992, sancì di fatto la vittoria di Deng sui conservatori.

Se il 1992 fu l'anno del trionfo di Deng Xiaoping, fu anche l'ultimo a vederlo come diretto protagonista della vita politica del paese: il 22 gennaio 1993 l'anziano leader comparve brevemente a Shanghai per le celebrazioni dell'anno del Gallo e in quell'occasione reiterò il suo appoggio a Jiang Zemin, definendolo però non come suo erede politico, ma come "perno della direzione collegiale". Poco dopo, e fu questo di fatto il 'testamento' di Deng, il potere politico passò alla troika composta da Jiang Zemin, Li Peng e Zhu Rongji. A loro spettò il compito di vegliare sul buon andamento dell'economia e soprattutto sull'ordinato ritorno di Hong Kong alla C. nel 1997.

La gestione dell'esistente presupponeva una situazione stabile sia dentro sia fuori dei confini cinesi, ma in politica estera la troika di Pechino si trovò presto a confrontarsi con vari problemi. Il 28 maggio 1993 il nuovo presidente americano B. Clinton annunciò che avrebbe subordinato la conferma della clausola commerciale detta della nazione più favorita al rispetto dei diritti umani in C. e alla cessazione della vendita di missili a paesi considerati 'a rischio' dell'area medio-orientale. Dietro questo improvviso irrigidimento di Washington si celavano considerazioni di carattere umanitario e strategico, ma anche, e forse soprattutto, di carattere economico. Il deficit commerciale statunitense nei confronti della C. aveva raggiunto fra il 1992 e il 1993 la cifra di 30 miliardi di dollari: la C. aveva negli USA il principale destinatario delle sue esportazioni, mentre le importazioni americane in C. erano poca cosa. La C. poi non riconosceva il diritto sulla proprietà intellettuale e copiava libri, dischi e software dal mercato americano per poi rivenderli su quello asiatico. Ulteriore elemento di difficoltà del paese sul piano internazionale fu l'annuncio ufficiale, dato il 23 settembre 1993, che le Olimpiadi del 2000 sarebbero state ospitate a Sidney: la C. aveva presentato la sua candidatura già anni prima e puntava su questo evento di grande richiamo per rilanciare lo sviluppo. La notizia fu un colpo durissimo per l'economia e per la stessa credibilità interna del governo cinese. Messa con le spalle al muro nei suoi rapporti internazionali, Pechino rispose in un primo momento effettuando in ottobre un esperimento nucleare nel bacino di Lop Nor, nella provincia del Xinjiang. Ma ben presto riprese la difficile via del dialogo con gli Stati Uniti sulle questioni economiche e su quelle dei diritti umani. Alla fine dell'anno, il 19 novembre, Jiang Zemin si recò negli Stati Uniti e incontrò il presidente Clinton a Seattle. L'incontro risultò positivo, molte delle controversie vennero appianate e nuovi impegni furono siglati tra i due paesi.

Tuttavia, la contrapposizione USA-Cina non riuscì a sbloccarsi del tutto. Quando, il 15 dicembre, fu stipulato il nuovo GATT (General Agreement on Trade and Tariffs), la C. ne fu esclusa proprio per volontà americana, con la motivazione dell'inadeguatezza del sistema economico cinese rispetto ai parametri richiesti dall'organizzazione internazionale. Tale congiuntura negativa, insieme a un'inflazione galoppante, da eccesso di crescita, che in alcune province sfiorava il 30%, spinse Zhu Rongji e gli economisti cinesi a intervenire con decisione nel sistema economico nazionale per cercare di adeguare il paese ai parametri finanziari richiesti dalle organizzazioni internazionali. Il duplice obiettivo da raggiungere era quello di essere inclusi tra i paesi membri della WTO (World Trade Organization) al suo avvio, nel 1995, e di prepararsi a subentrare agli Inglesi nel governo di Hong Kong. Per combattere l'inflazione furono congelati alcuni prezzi; la crescita del PIL venne bloccata d'ufficio al 9%; si cercò di rendere meno garantiti i sussidi alle imprese pubbliche, sempre più improduttive e meno competitive. Nuove banche, provviste di competenze più adeguate ai servizi richiesti dal mercato internazionale, sorsero in tutto il paese tra la primavera e l'estate del 1994. Nonostante gli interventi portati avanti con costanza da Zhu Rongji, quando la WTO mosse i primi passi, nel gennaio del 1995, la C. ne rimase fuori: a parere dei commissari della WTO il sistema di mercato dell'economia cinese non era ancora sufficientemente adeguato alle esigenze internazionali. Le critiche riguardavano principalmente il sistema delle tariffe doganali, che, nonostante le assicurazioni di tagli da parte dei rappresentanti cinesi, erano ancora spesso proibitive per le importazioni; ma toccavano anche le difficoltà di accesso al credito da parte delle imprese straniere e la pressoché totale assenza di servizi finanziari e di infrastrutture adeguate. A nulla servì nemmeno la promulgazione, poco dopo, della prima legge bancaria della C. dalla fondazione della Repubblica popolare, in base alla quale la Banca del popolo, l'istituto centrale di credito, diveniva totalmente indipendente rispetto agli altri istituti finanziari e ai governi locali. Per i Cinesi si trattava di una sorta di rivoluzione copernicana del rapporto stato-economia, per gli occidentali non era ancora abbastanza.

Alle difficoltà sul piano internazionale si accompagnarono, all'interno, altri segnali negativi. La corruzione dei funzionari pubblici, un fenomeno certamente endemico nei paesi sottoposti a improvvise impennate nello sviluppo, raggiunse livelli impressionanti coinvolgendo anche le alte sfere del Partito comunista. Il 25 aprile 1995 il sindaco di Pechino, nonché segretario del partito nella capitale, Chen Xitong, fu rimosso dall'incarico insieme al suo vice Wang Baosen con l'accusa di corruzione e di interesse privato. Il primo venne processato e condannato, il secondo si suicidò per non finire in carcere. L'occasione non fu sfruttata dall'ala ortodossa del partito, privata di leadership dalla morte del suo massimo esponente, Chen Yun. Ma anche in campo riformista la politica interna era bloccata da un patto di gestione che di fatto impediva qualsiasi scelta risolutiva.

Furono in molti ad approfittare di questa fase di apparente difficoltà della Repubblica popolare. Gli occidentali innanzitutto, che cominciarono a fare richieste economiche sempre più pressanti e sempre più vincolate alle questioni dei diritti umani e del copyright; ma anche i paesi limitrofi alla C., quelli che più temevano una sua forza eccessiva e che ritennero fosse quello il momento di ribadire la propria indipendenza rispetto alla sfera di influenza cinese. Nel maggio del 1995 giunse in C. la notizia del proposito americano di concedere a Lee Teng-hui, presidente di Taiwan, il permesso di una visita privata negli Stati Uniti. Le vibranti proteste dell'ambasciatore cinese a Washington misero in serio imbarazzo il presidente Clinton, ma non lo fecero recedere dalla sua decisione. Alla visita di Lee Teng-hui in America fecero rapidamente seguito, il 17 giugno, il ritiro dell'ambasciatore cinese negli USA, richiamato in patria per consultazioni, e forti tensioni lungo lo stretto di Taiwan. Dal 15 al 25 agosto l'Esercito popolare di liberazione organizzò una serie di esercitazioni militari nelle acque prospicienti l'isola, con lancio di missili terra-aria e minacce di imminente invasione. La crisi di Taiwan si spense lentamente con la fine dell'estate, ma solo per conoscere un'altra fase esplosiva meno di sei mesi più tardi quando, il 23 marzo 1996, nell'isola si tennero le elezioni presidenziali. Furono di nuovo organizzate esercitazioni militari per dissuadere Lee Teng-hui dalla tentazione di pronunciare dichiarazioni di indipendenza; a sua volta, rispettando il trattato di difesa USA-Taiwan del 1979, il presidente americano Clinton inviò nello stretto di Taiwan la 7ª flotta del Pacifico come elemento dissuasivo nei confronti di un eventuale uso della forza da parte cinese. I rapporti diplomatici sino-americani giunsero ancora una volta sul filo della rottura, ma alla fine la crisi rientrò: Lee Teng-hui non fece affermazioni esplicite sull'indipendenza, il cattivo tempo obbligò i Cinesi a rimandare i previsti lanci di missili dimostrativi sopra il cielo di Taipei, la flotta americana riprese la via di casa.

Anche la situazione di Hong Kong appariva delicata. Nel febbraio del 1994 il nuovo governatore Ch. Patten (subentrato a D. Wilson nel luglio del 1992) era riuscito a far passare una legge elettorale che di fatto introduceva il suffragio universale nella colonia; tale legge costituiva una minaccia quanto mai concreta per gli interessi cinesi. Il 17 settembre 1995 si tennero le elezioni per il rinnovo del Legislative Council, e i democratici conquistarono la maggioranza dei seggi. Forte di questo risultato, il loro leader Lee chiese maggiori garanzie a Pechino sui diritti umani e sulle libertà individuali quando la città fosse passata sotto il governo di Pechino, il 1° luglio 1997. Il primo segnale di risposta inviato dal governo cinese fu la condanna del dissidente Wei Jingsheng (liberato nel 1993 e poi scomparso di nuovo) a 14 anni di prigione. Il 28 dicembre 1995 venne costituito a Pechino il Comitato preparatorio: composto da 150 membri selezionati dal Partito comunista, esso doveva nominare 400 grandi elettori incaricati di scegliere il futuro capo dell'esecutivo di Hong Kong e di dar vita a una 'legislatura provvisoria' da insediare al governo della città (al posto dell'appena rinnovato Legislative Council) un minuto dopo la mezzanotte del 30 giugno 1997. Il Comitato portò a termine il suo lavoro e quando, con una cerimonia imponente presieduta dal principe di Galles per l'Inghilterra e da Jiang Zemin per la Repubblica popolare cinese, il 1° luglio 1997 Hong Kong tornò alla C., il Legislative Council dei democratici di Lee fu destituito per far posto alla 'legislatura provvisoria' voluta da Pechino.

Risultati concreti furono raggiunti dalla diplomazia cinese nell'Asia continentale. Nel 1996 Jiang Zemin firmò a Shanghai con i presidenti delle repubbliche russa, kazaka, kirghiza e tagika un trattato di distensione militare lungo i confini occidentali e settentrionali. Il trattato era molto importante, innanzitutto perché sbloccava una situazione di costante tensione alle frontiere, in secondo luogo perché permetteva alla C. di ridurre i contingenti militari di quelle regioni e di indirizzarli in altre situazioni, infine perché, oltre ad aprire la strada a rapporti di collaborazione anche economica con i paesi firmatari, rafforzava la convinzione internazionale dell'esistenza di una sorta di asse Mosca-Pechino che potesse agire come elemento di pressione nei confronti degli equilibri politici di tutta la regione asiatica.

Il 19 febbraio 1997 Deng Xiaoping morì, all'età di 92 anni. La notizia, annunciata da un quotidiano di Hong Kong e successivamente confermata da Pechino, colse la classe dirigente cinese in una fase di transizione: Hong Kong non era ancora tornata alla C. e al congresso del partito mancavano ancora diversi mesi. La morte di Deng aprì in seno al partito il problema della leadership: nei giorni successivi uomini politici usciti da tempo dalla ribalta politica riapparvero improvvisamente, e persino l'epurato Zhao Ziyang riuscì a far sentire di nuovo la sua voce grazie all'aiuto del presidente dell'Assemblea nazionale Qiao Shi. Ma, nonostante il timore di derive destabilizzatrici alimentato da un attentato dinamitardo che il 7 marzo a Pechino provocò la morte di due persone e il ferimento di altre 30, in generale la C. sembrò reagire con una relativa tranquillità alla situazione di incertezza politica. L'economia resse bene, le azioni cinesi quotate nelle diverse borse asiatiche non registrarono alcun calo significativo.

Quando l'Assemblea nazionale tenne una riunione plenaria, ai primi di marzo, fu chiaro a tutti, conservatori e riformatori, che la fase della gestione dell'esistente in attesa del ritorno di Hong Kong e del Congresso stava esaurendosi rapidamente, e che altrettanto rapidamente sarebbe stato necessario affrontare scelte radicali in campo sia economico sia, almeno indirettamente, politico. Per entrare nella WTO la C. doveva modificare sostanzialmente le tariffe doganali e i servizi all'impresa, ma anche aprire le frontiere alle esportazioni straniere e soprattutto prendere una decisione riguardo a quel gigante improduttivo costituito dalle imprese pubbliche, tenute in piedi più per motivi politici del partito che per esigenze economiche del mercato. Ciò poneva a sua volta il problema del tipo di rappresentanza politica di cui avrebbe dovuto dotarsi il Partito comunista per poter gestire queste scelte. L'ideologia marxista e il pensiero di Maozedong erano strumenti sempre meno adeguati a guidare un paese votato ormai alla scelta della prosperità economica degli individui; ancor meno adeguati se utilizzati per smantellare un sistema produttivo pubblico allo scopo di rafforzarne uno privato. Ma nessuno poteva ancora permettersi di mettere apertamente in discussione il valore dell'ideologia comunista, almeno non fino al momento in cui un'altra idea forte (il confucianesimo autoritario di Singapore e di Taiwan) non avesse pienamente dimostrato la propria adeguatezza alla situazione cinese. Non essendoci ancora dunque le condizioni per delineare una nuova identità politica del paese, una parte del gruppo dei riformisti guidata da Qiao Shi cercò di fissare alcuni punti di riferimento che non fossero patrimonio di questa o quella componente del partito, ma riguardassero l'esistenza stessa di un Partito comunista cinese nel nuovo millennio. Un primo punto fu individuato nella necessità di condurre l'azione politica nell'ambito della certezza della legge; anche a partire da tale presupposto, l'Assemblea discusse un nuovo testo di legge sulla sicurezza dello Stato, testo che proponeva in sostanza di cancellare dal codice penale il termine controrivoluzionario per sostituirlo con l'espressione attentato alla sicurezza dello Stato. Di fatto, però, tutti i reati che fino a quel momento ricadevano sotto il capitolo della attività controrivoluzionaria sarebbero rimasti in vigore. Si trattava di una parziale ma significativa rinuncia al primato dell'ideologia esercitato dal Partito comunista fino a quel momento.

Il 12 settembre 1997 si aprì a Pechino il xv Congresso del Partito comunista. Esso sancì l'incoronazione, come figura guida del partito dopo la morte di Deng, di Jiang Zemin che, confermato in tutte le cariche, nel suo discorso al congresso tentò di conciliare dal punto di vista politico il sistema di mercato con il sistema di proprietà pubblica. L'annuncio di un'imminente privatizzazione della maggior parte delle aziende pubbliche di piccole e medie dimensioni aveva infatti scosso profondamente l'opinione pubblica cinese e anche quella internazionale. Jiang Zemin affermò che lo Stato avrebbe mantenuto saldamente il controllo sulle 1000 aziende più grandi e strategicamente rilevanti e, nello stesso intervento, quasi a fugare lo spettro di milioni di dipendenti pubblici che rischiavano il lavoro, assicurò che il tasso di disoccupazione non avrebbe mai superato il 4%. La politica di snellimento avrebbe tuttavia riguardato anche l'Esercito popolare di liberazione che, in vista di un miglioramento tecnologico delle sue dotazioni, avrebbe diminuito entro 3 anni di 500.000 unità il numero dei suoi soldati. In tutto il dibattito che ebbe luogo al congresso la questione Tien An Men non trovò alcuno spazio: non fu modificato il giudizio di 'controrivoluzionario' con cui allora era stato bollato il movimento degli studenti, né si cercò di individuare tra i dirigenti del partito un colpevole su cui far ricadere la responsabilità del massacro.

La devastante crisi economica che sconvolse la maggior parte dei paesi del Sud-Est asiatico nell'estate del 1997 vide la Repubblica popolare cinese svolgere un forte ruolo riequilibratore in tutta l'area. Con le sue riserve in valuta, la C. riuscì a soccorrere il dollaro di Hong Kong e a salvarlo dalla tempesta valutaria delle borse asiatiche, impedendo così la rottura di quell'aggancio fra la moneta di Hong Kong e il dollaro americano che era una delle chiavi di volta degli scambi interregionali asiatici. In autunno Pechino offrì il suo sostegno a tutti i piani di ricostruzione varati dal Fondo monetario internazionale e nel mese di novembre stanziò un prestito di un miliardo di dollari sia alla Thailandia sia all'Indonesia, due fra i paesi più colpiti dalla crisi. Ma l'impegno più forte della C. fu sicuramente quello di evitare in ogni modo la svalutazione dello yuan, nella consapevolezza del rischio che si avviasse una spirale svalutativa generalizzata e incontrollabile, che avrebbe provocato gravi crisi nelle borse e reso vani tutti gli aiuti internazionali.

Quando, agli inizi del marzo 1998, l'Assemblea nazionale aprì le porte, grandi novità emersero sulla scena politica cinese. Zhu Rongji venne nominato primo ministro, e, con sorpresa di molti osservatori occidentali, il potente Qiao Shi fu privato della carica di presidente dell'Assemblea. Il suo posto fu preso dal premier uscente Li Peng. Nell'Assemblea, che in precedenza si limitava a svolgere un ruolo puramente coreografico nella politica cinese, il dibattito assunse un tono decisamente diverso dal passato: molti dei delegati giunti a Pechino per l'occasione manifestarono l'intenzione di assolvere fino in fondo il proprio compito di stimolo e controllo sulle attività del governo.

Nel frattempo, nell'ambito delle difficili relazioni sino-americane, negli ultimi mesi del 1997 a Washington un'inchiesta dell'FBI aveva portato alla luce uno scandalo le cui dimensioni rimasero oscure. Secondo gli investigatori, durante la campagna elettorale per le presidenziali del 1996 il presidente Clinton aveva ricevuto per il suo partito una forte somma di denaro (si parlò di 300.000 dollari), la cui provenienza sarebbe stata Pechino. La C. smentì recisamente ogni suo coinvolgimento sostenendo di non avere alcun interesse nell'interferire nella vita politica americana, ma nel maggio 1998 uno dei personaggi maggiormente coinvolti nello scandalo, il raccoglitore di fondi J. Chung, confessò alle autorità americane di aver ricevuto parte della somma giunta nelle casse dei democratici direttamente dalle mani del tenente colonnello Liu Chaoying, dell'Esercito popolare di liberazione. I repubblicani attaccarono duramente l'amministrazione Clinton, accusandola di aver svenduto il paese ai Cinesi. Non volendo compromettere con uno scandalo i rapporti con il suo principale referente in materia di investimenti stranieri ed esportazioni, il 28 ottobre 1997 Jiang Zemin, primo leader cinese dal 1985 a recarsi a Washington, compì un lungo viaggio negli Stati Uniti, per ribadire l'esistenza di rapporti più che positivi fra i due paesi. Al suo ritorno in patria, munito dell'impegno di Clinton a migliorare le relazioni sino-americane e a recarsi in C. nel giugno dell'anno successivo, come gesto distensivo Jiang fece rilasciare il veterano del dissenso Wei Jingsheng, e lo imbarcò su un aereo per gli Stati Uniti.

Il viaggio di Clinton nella Repubblica popolare (giugno 1998) rivestiva una grandissima importanza per il governo cinese e soprattutto per Jiang Zemin. Le aspettative cinesi avevano intanto spinto alcuni rappresentanti di Pechino presso le organizzazioni internazionali a fare vaghe promesse circa un'adesione della C. al trattato sulla difesa dei diritti umani, argomento ritenuto tabù fino a pochi anni prima: il 19 aprile inoltre l'ex capo del movimento studentesco Wang Dan era stato liberato anticipatamente ed espatriato in America. La missione di Clinton invece fu aspramente criticata negli Stati Uniti soprattutto dagli esponenti repubblicani del Congresso, che reclamavano da Clinton un maggior impegno nella difesa dei diritti umani e in quella degli interessi statunitensi. Gli echi di tali polemiche giunsero in C., così che, all'arrivo di Clinton, il governo cinese fece arrestare alcuni dissidenti, tra i quali il vescovo cattolico Jia Zhiguo, per dimostrare di non ammettere alcuna interferenza negli affari interni. Il 27 giugno Clinton e Jiang Zemin si incontrarono a Pechino. I due leader si confrontarono nel corso di una conferenza stampa congiunta che milioni di spettatori cinesi poterono seguire in televisione. Messo di fronte alla questione dei diritti umani, Jiang Zemin pose costantemente l'accento sul rispetto delle leggi cinesi più che sull'ideologia e, rispondendo a domande sulla repressione degli studenti nel 1989, per la prima volta parlò non di intervento "giusto" da parte del Partito comunista, ma di un intervento "necessario per la stabilità". Durante la conferenza stampa, inoltre, Clinton, pur mettendo in evidenza la diversità di interpretazioni in materia di diritti umani, sottolineò più volte il proprio apprezzamento nei confronti dell'atteggiamento tenuto dai Cinesi durante la crisi economica del 1997, e chiese al governo di Pechino di continuare sulla strada del rigore economico e del sostegno ai piani internazionali fianco a fianco con gli Stati Uniti. Dopo aver visitato Shanghai il 30 giugno, Clinton si fermò a Hong Kong prima di far ritorno negli Stati Uniti: rilasciando un'intervista a un giornale dell'isola Clinton si dichiarò sicuro che Jiang Zemin fosse il leader di cui la C. aveva bisogno, e che il paese stesse di fatto attraversando una fase politica molto positiva che lo avrebbe portato progressivamente sulla strada della democrazia.

All'inizio del mese di agosto 1998 un'improvvisa serie di piogge torrenziali portò allo straripamento dello Yangzi in diverse province della C. centrale. I morti si contarono a migliaia: almeno 500.000 residenti furono evacuati, il numero dei senza tetto risultò incalcolabile. I danni economici furono rilevantissimi: ponti crollati, centrali elettriche distrutte, milioni di ettari di terreno alluvionati. Stime ufficiose parlarono di almeno 3,6 miliardi di dollari di danni nella sola provincia dello Hubei. La tragedia cinese assunse presto preoccupanti dimensioni extranazionali. La crisi economica giapponese aveva infatti privato l'intera economia asiatica (e di conseguenza anche quella mondiale) di uno dei pilastri su cui poggiavano gli equilibri economici regionali, e la C. sembrava l'unica potenza in grado (grazie alla politica del dollaro di Hong Kong e alla relativa stabilità della sua economia) di arginare una crisi generalizzata. Ma di fronte al disastro causato dallo Yangzi molti economisti cinesi proposero di svalutare lo yuan, scelta che probabilmente avrebbe aiutato la C. nel rilancio dell'economia, ma che al tempo stesso avrebbe privato la regione del suo ultimo baluardo di stabilità, innescando il rischio di una contagiosa corsa alla svalutazione competitiva nei paesi limitrofi.

Dalla seconda metà del 1998 il governo cinese intensificò l'attività diplomatica: la visita a Pechino di T. Blair (ottobre) confermava, dopo la cessione di Honk Kong, la nuova fase dei rapporti anglo-cinesi; nel novembre Jiang si recava in Giappone, dove il mancato raggiungimento di una dichiarazione congiunta sulle responsabilità del Giappone nella politica tenuta verso la Cina nel 1937 non impedì ai due paesi di concludere importanti accordi economici e militari. Nei primi mesi del 1999 Jiang si recava in visita ufficiale in Russia (febbraio) e in Italia (marzo), mentre la visita negli Stati Uniti del premier Zhu Rongji (aprile) non conseguiva risultati positivi: la condanna pronunciata da Clinton della linea repressiva seguita dal governo di Pechino (che nel dicembre 1998 aveva portato, fra le altre misure repressive, alle dure condanne di tre dissidenti coinvolti nel tentativo di creare il primo partito d'opposizione, il Partito cinese per la democrazia) mantenne alta la tensione tra i due paesi. Segno di una possibile svolta fu l'accordo commerciale bilaterale del novembre 1999.

Bibliografia

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