Cinema

Il Libro dell'Anno 2000

Lino Miccichè

Cinema

Ieri, oggi e domani: stagioni mutevoli del cinema italiano

Verso il cinema italiano del nuovo millennio

di Lino Miccichè

18 aprile

La giuria della 53a edizione del Festival del Cinema di Cannes, per la prima volta nella storia del prestigioso concorso, esclude l'Italia dalla partecipazione alla rassegna. Secondo il responsabile della selezione, Gilles Jacob, nessun film italiano "ha il livello qualitativo necessario". La decisione, pur oggetto di critiche, induce a una seria riflessione sulle condizioni attuali del cinema italiano.

Dopo gli anni Novanta

È impossibile parlare del cinema italiano del 2000 senza procedere lungo la linea di un bilancio degli anni Novanta del 20° secolo. D'altronde, si sa: per quanto la nettezza numerica della data sembri indiscutibilmente perentoria, gli anni, i decenni, i secoli e i millenni sono un hortus conclusus solo per il Barbanera e gli altri calendari, oppure per i veggenti che si dilettano di previsioni periodiche. Per lo storico, la durata dei fenomeni non corrisponde quasi mai alle aperture e alle chiusure del calendario ed è solo per comodità espositiva che anche gli storici si adattano, talora, a parlare della letteratura dell'Ottocento, della musica del Settecento o della pittura del Seicento. Da un punto di vista effettivo la storia, come la natura, non fa 'salti' e, quando li fa, non corrispondono affatto, o non necessariamente, ai 'salti' annuali, decennali, secolari e, meno che mai, millenari. Così, molti fenomeni degli anni Novanta non sono che il proseguimento senza interruzioni degli stessi fenomeni negli anni Ottanta e continuano, ininterrotti, nel 2000 e magari oltre. Ciò vale anche per il cinema italiano: si può dire che a un periodo 1976 (sentenza della Corte Costituzionale sulla libertà di antenna)-1993 (nel 1994 viene approvata una nuova legge sul cinema, la nr. 153, che modifica profondamente la preesistente l. nr. 1213) segue un periodo 1994-2000 e oltre (cioè, il terminus ad quem non può essere oggetto di previsioni). Ma, in ogni campo, pochi si sono sottratti alla tentazione di chiudere con il 31 dicembre 1999 le dinamiche degli anni Novanta e di proporre un bilancio del decennio, come se, necessariamente, i fenomeni si fossero repentinamente interrotti in quella data e avessero presentato, dal giorno dopo, un volto rinnovato e innovativo. Ed è accaduto, com'è ovvio, anche nel cinema, il che costringe anche noi, volendo parlare del 2000, a tenere conto dei molti bilanci e consuntivi cinematografici fatti, primo fra tutti quello proposto, nella terza decade di giugno, a Pesaro.

Un cinema della transizione?

A Pesaro 2000, infatti (facendo d'altronde coerentemente seguito ai bilanci degli anni Settanta e, successivamente, degli anni Ottanta), l'Evento speciale, per la quattordicesima volta parallelo alla Mostra internazionale del nuovo cinema, giunta alla 36a edizione, è stato monograficamente dedicato al cinema italiano degli anni Novanta con una retrospettiva di oltre una sessantina di titoli, fra lunghi e cortometraggi, da quelli esplicitamente 'sperimentali', come Fiori del destino-Sorrisi asmatici di Tonino De Bernardi, Giro di lune fra terra e mare di Giuseppe M. Gaudino, Totò che visse due volte di Daniele Ciprì e Franco Maresco, alle commedie tradizionali come Ovosodo di Paolo Virzì, I laureati di Leonardo Pieraccioni, Americano rosso di Alessandro D'Alatri. Al termine, si è tenuta una tavola rotonda, affollata di autori e di critici, intitolata Elogio del cinema italiano?, dove il punto interrogativo serviva soltanto ad allentare, con l'ombra di un educato dubbio metodologico, l'implicita, e paradossale, perentorietà dell'affermazione.

A supplemento del tutto soccorreva, oltre all'ampio catalogo con le schede dei film in programma, un volume di ben 518 pagine, curato dallo stesso animatore della rassegna, Vito Zagarrio (Il cinema della transizione, Venezia, Marsilio, 2000), ricco, a parte i preziosi apparati statistici e descrittivi, di una quarantina di saggi. Ciascuno di questi, naturalmente, andava per proprio conto, a seconda dell'ispirazione del saggista, non soltanto quanto a tema scelto, metodologia critica adottata, giudizio sull'autore o sul film preso in considerazione - il che è, tutto sommato, ovvio - ma anche quanto all'esplicito, o implicito, giudizio sulla vera materia del contendere, ovvero il cinema italiano degli anni Novanta, che, d'altronde, il titolo del libro voluto dal curatore (dopo i volumi dedicati al 'cinema del riflusso' per gli anni Settanta e agli 'schermi opachi' per gli anni Ottanta) definiva, senza prendere apertamente partito, 'cinema della transizione', ma che alcuni autori giudicavano negativamente mentre altri elogiavano, comparandolo niente meno che al cinema della stagione neorealistica e a quello degli anni Sessanta.

Che gli anni Novanta siano un decennio di 'transizione' lo hanno scritto, più o meno chiaramente, in molti; ma lo ha affermato in modo particolarmente chiaro, e ben motivato, lo storico Rosario Villari, così argomentando in chiave gramsciana: "Siamo in una fase in cui sono crollate vecchie strutture, e ci stiamo muovendo alla ricerca di nuovi scenari. La chiamerei il decennio di transizione. La formula della transizione può essere facile, tutto è transizione, ovviamente. Ma per questi anni, la nozione è particolarmente calzante, perché tu vedi le strutture vecchie che sono tramontate, ma non vedi all'orizzonte quelle nuove, non vedi l'approdo. Da qui il senso del disagio, ma anche il bisogno di tanta fantasia, che ci vorrà per trasformare, in maniera non conservatrice, l'esistente".

Tuttavia la definizione degli anni Novanta come complessiva stagione di transizione - considerando, internazionalmente, il crollo definitivo del sistema comunista con cui si chiudono gli anni Ottanta, senza che l'assetto del pur trionfante capitalismo trovi nel decennio un equilibrio apprezzabilmente duraturo, e considerando, nazionalmente, il tracollo delle forze politiche che avevano dominato la prima Repubblica (DC e PSI in primo luogo, ma anche PCI e partiti minori, per quanto con meno accentuata evidenza), senza che a fine decennio siano ancora definiti gli orizzonti della seconda Repubblica - sembra adattarsi alla perfezione al complessivo quadro politico, planetario e nazionale, ma assai meno, per non dire niente affatto, al quadro cinematografico. Qui, infatti, il 'crollo delle vecchie strutture' di cui parla Villari non si è manifestato né alla fine degli anni Ottanta, né all'inizio degli anni Novanta, bensì nella seconda parte degli anni Settanta: quando la sentenza della Corte Costituzionale sulla liberalizzazione dell'etere ha dato avvio a un processo di riassetto mediologico che non appare destinato a determinare a breve equilibri nuovi e apprezzabilmente duraturi. Equilibri che non si potranno stabilire almeno fino a quando (2005? 2010?) non risulti più definito l'orizzonte domanda/offerta di beni audiovisivi, conseguente all'espansione continentale, se non planetaria, delle nuove tecnologie di veicolazione dei prodotti cinematografici, televisivi e, in generale, di immagini dinamiche sonorizzate, incluso un punto di arrivo, almeno provvisorio, della diffusione dei beni audiovisivi on-line. Basti un esempio: la trasmissione on-line di film cinematografici è già ora virtualmente possibile e, in qualche raro caso, praticata. La limitano non tanto o soltanto gli ancora rilevanti ostacoli tecnologici a una soddisfacente definizione delle immagini, per così dire, 'web-veicolate' (definizione di immagine a tutt'oggi inferiore non soltanto a quella del cinema in sala ma anche a quella teletrasmessa, a quella di un buon DVD-Rom o anche solo di un'usuale cassetta VHS), ma insormontabili questioni di diritti, che sono lontanissime dall'essere risolte, benché in molti convegni trattate e discusse senza che appaia, anche solo in nuce, una qualche soddisfacente soluzione giuridica. Tuttavia non è pensabile che l'ostacolo giuridico riesca a fermare ancora a lungo la spinta incontenibile del progresso tecnologico: inevitabilmente sarà la sovrastruttura giuridica ad adattarsi alla possente struttura di interessi economici planetari che c'è dietro il sistema. Quando ciò accadrà, questione di pochissimi anni, certamente entro il 2010, sarà una nuova rivoluzione, per il sistema offerta/domanda di beni audiovisivi e, più che mai, per il sistema cinematografico entrato in crisi negli anni Settanta, ma questa volta incluso l'impero cinematografico USA, che invece, dagli anni Settanta in poi, è andato finora rafforzando la propria egemonia - almeno apparentemente lontanissima da ogni minaccia di crisi - su tutto il pianeta. Se non è dunque un 'cinema di transizione', quello italiano degli anni Novanta, può essere definito un 'cinema della transizione', ovvero un cinema che in qualche modo rispecchia le molte incertezze - diciamo pure il 'disagio' - di una transizione storico-politica dagli esiti finali indefiniti e indefinibili? È proprio questo il punto su cui si registrano i maggiori dissensi, le opinioni divergenti, i giudizi anche radicalmente antitetici.

La crisi merceologica e il consumo televisivo

Su almeno due punti vi sono, invece, ampi margini di consenso. Il primo è la crisi, per così dire, merceologica della cinematografia nazionale. Nei primi anni Settanta, ancora sulla spinta della fioritura progressivamente sempre più notevole del decennio precedente, il cinema aveva nel nostro mercato un bacino di utenza secondo nel mondo industriale occidentale soltanto a quello degli Stati Uniti, e contava tra un minimo (1975) di 513 milioni e un massimo (1972) di 553 milioni di biglietti; e, quel che più conta, la percentuale di mercato che, sull'insieme, spettava al film italiano (e di coproduzione maggioritaria italiana) si manteneva attorno al 60%: in altre parole, sulla media di 536 milioni di biglietti annui del periodo 1970-75, poco meno di 322 milioni andavano alla cinematografia nazionale, che d'altronde offriva fra il 40,6% (1975) e il 52,2 % (1972) del totale dei titoli in circolazione. Nel corso degli anni Novanta il bacino di utenza cinematografica rappresentato dal nostro mercato ha perduto ogni primato ed è ridotto a meno di un quinto di quello dei primi anni Settanta, oscillando fra punte minime (1992) di 83 milioni e punte massime (1998) di 118 milioni di biglietti, con una media annuale, 1990-98, di 95,5 milioni; ma quel che più conta è che la percentuale di mercato che, sull'insieme, spetta al film italiano ha subito un impressionante tracollo. Già nel corso degli anni Ottanta essa era andata diminuendo, dal 43,5% del 1980 al 21,7% del 1989; nel periodo 1990-98 ha tenuto una media del 24,07% con la punta minima (1993) del 17,1% e la punta massima, isolata (1997, grazie al peso di due o tre successi natalizi), del 32,9%.

Ora, poiché il 24,07% di 95,5 milioni di biglietti - la citata media anni Novanta - equivale a poco meno di 23 milioni, la formula del tracollo merceologico del cinema italiano, dai secondi anni Settanta a oggi, è drammaticamente semplice: il cinema italiano dell'ultimo decennio ha mediamente avuto meno di un quattordicesimo degli spettatori dei primi anni Settanta, mentre lo stesso numero dei film italiani in offerta scendeva (con una sola punta del 42,1%, nel 1994) al 30-32%, essendo d'altronde ridotta la quantità dei film nazionali prodotti, che negli 1994-98 si è mantenuta costantemente sotto le 100 unità annue (punta massima 1996 con 99 film, punta minima 1995 con 75).

Ma un così significativo ridimensionamento del mercato nazionale, corrispondendo a una diminuzione assai meno rilevante - e comunque assolutamente non proporzionata - del circolante cinematografico autoctono (negli anni Novanta oscillante fra circa due quinti e circa tre quinti dei film 1970-75), implica necessariamente una vistosa perdita della redditività dei singoli film nel mercato nazionale. Secondo una valutazione statisticamente astratta, infatti, i quasi 100 titoli annui mediamente prodotti negli anni Novanta dispongono di meno di 230.000 spettatori ciascuno, mentre i meno di 250 titoli mediamente prodotti nel primo quinquennio degli anni Settanta disponevano di 1.300.000 spettatori ciascuno. Secondo una constatazione concreta, invece, i film italiani che recuperano il costo di produzione nel mercato nazionale si contano annualmente sulle dita delle mani, mentre altri recuperano soltanto grazie - oltre che alle non molte vendite all'estero - alle vendite televisive e home video. Una netta maggioranza rimane assai lontana dal recupero dei costi, e non determina catene ininterrotte di fallimenti solo grazie ai finanziamenti statali, che vengono concessi ai 'film di interesse nazionale' (virtualmente a fondo perduto, quando il mercato non consenta il recupero; l. nr. 153/1994), al giovane cinema (art. 8 della l. nr. 153) e ai 'film di produzione nazionale' (ovvero, dal 1994 al 1999: 216 titoli finanziati per 570,988 miliardi, 31 titoli finanziati per 39,44 miliardi e 107 titoli finanziati per 245,137 miliardi; in sintesi, un totale di 354 titoli, sui 556 del periodo, per complessivi 855,565 miliardi, cioè il 38,7% dei 2206,000 miliardi corrispondenti al costo complessivo della produzione cinematografica italiana del periodo).

Appare ovvio l'altro dato consensuale: che, stando così drammaticamente le cose sul piano finanziario e della redditività di mercato, l'andamento medio (e complessivo) della produzione cinematografica in Italia tende merceologicamente a guardare, uniformandovisi, al consumo televisivo (e home video) che è l'unico percorso alternativo a quello, sempre più ristretto, dei 30 milioni di spettatori-biglietto del cinema (italiano) in sala. Di qui l'immissione continua sul grande schermo, in particolare nel settore dei comici, di personaggi resi popolari dal piccolo schermo (nel 1997 Tre uomini e una gamba, con i televisivi Aldo, Giovanni e Giacomo, fu uno dei tre maggiori successi stagionali), il progressivo assestarsi della scrittura cinematografica sui canoni di una semplificata scrittura televisiva, la consegna del nostro cinema nelle mani di Mediaset e del Cecchi Gori Group, che operano con organizzazioni integrate (nonostante i timidi provvedimenti antimonopolio) e con rilevantissimi interessi televisivi. Senza che, contrariamente a quanto si andò facendo in RAI tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta, emerga un'apprezzabile politica cinematografica della televisione statale, che ridia al cinema un poco del molto che gli ha sottratto negli anni. Vero è che, proprio a tale fine, e su pressione sia politica sia delle categorie, la RAI ha promosso recentemente un'apposita società RAI-cinema, presieduta da Giuliano Montaldo, che dovrebbe operare appunto nel settore. Ma è ancora troppo presto per valutare i risultati dell'iniziativa, che appariranno chiari non prima di un paio di anni. Nell'ultimo decennio, comunque, sia la TV privata sia quella pubblica hanno continuato a prendere dal cinema e quasi mai a dare.

Una valutazione culturale

In questo stato, e nel clima sfiduciato che ne consegue, si è posto, in diverse occasioni (di cui l'Evento speciale di Pesaro è solo un esempio), il problema di una valutazione culturale del cinema italiano: discorso complesso perché se, da un lato, è quasi inevitabile che una crisi merceologica così acuta abbia anche rilevanti conseguenze sull'ispirazione degli autori, sulle scelte tematiche e problematiche dei soggetti, sulla concreta fattibilità di alcuni progetti, magari anche molto belli, ma improponibili in un sistema produttivo che può contare sulla piena redditività di mercato di non più di una decina di film nazionali, dall'altro, la severità di alcuni giudizi stranieri (l'esclusione dal Festival di Cannes del 2000 si è affiancata al costante atteggiamento reiettivo del Festival di Berlino nei confronti del nostro cinema), l'interesse estero costante verso i nostri grandi classici (gli Antonioni, i Fellini, i Visconti per i quali la domanda retrospettiva non solo non diminuisce ma cresce), e invece nettamente calante verso il contemporaneo cinema italiano, sembrano suffragare che la crisi del nostro cinema investa anche la sua qualità culturale.

D'altronde, il quadro economico-merceologico-produttivo comporta conseguenze non irrilevanti sui cosiddetti modi di produzione, ovvero, per citare da un altro lavoro del curatore della rassegna pesarese, V. Zagarrio (Cinema italiano anni novanta, Venezia, Marsilio, 1998), che sa bene di cosa parla perché è anche un regista cinematografico: conseguenze a livello di sceneggiatura, per cui "non si lavora abbastanza sul soggetto e sul trattamento, non scrivono sufficienti stesure della sceneggiatura"; a livello del lavoro con gli attori, che "il regista [...] vede magari solo il giorno della ripresa", quando "per le prove deve sottrarre tempo prezioso al rapporto con il direttore della fotografia e con il resto della troupe che ha mille problemi"; a livello della preparazione, che "praticamente non esiste: in quel precipitare improvviso la preparazione è solo un rituale frettoloso"; a livello di regia, dato che "ammesso che i basilari ci siano, il regista, una volta chiuso il pacchetto finanziario del film è già cotto. È talmente stressato da ansie inenarrabili, da umiliazioni irripetibili ma necessarie a fare partire il progetto, è talmente stanco da mesi di sceneggiatura, sfinito dalla guerriglia con la produzione, che dovrebbe (ora) andare in vacanza. E invece la fatica comincia solo adesso"; a livello di edizione che "di solito non è messa in bilancio" come se il film potesse "montarsi da sé, una volta girato, per autopoiesi. Ed è invece il momento più delicato"; per finire a livello di distribuzione, lancio, veicolazione in sala, dove tutti i nodi vengono al pettine perché per il lancio mancano i soldi (mentre - aggiungiamo noi - per un prodotto made in USA, da lanciare nel nostro mercato coloniale, il budget pubblicitario e di lancio è in genere superiore al costo di produzione medio di un intero nostro lungometraggio), perché l'esercente vede il cinema italiano con preventivo orrore e comunque appena può smonta il film, perché il pubblico diffida del film nazionale, perché non c'è più la critica, perché, infine, la televisione dedica finali di telegiornali e ampie interviste a qualsiasi trash-film americano, purché divistico e chiassoso, ma al cinema italiano non riserva neppure uno sguardo distratto.

Così stando le cose quanto a modi di produzione, e date le premesse del quadro economico-merceologico, va dunque considerato un vero e proprio miracolo il fatto che il cinema italiano, nonostante l'emarginazione interna ed esterna, sopravviva; che, nonostante tutto, siano stati realizzati e siano usciti nel periodo 1990-1999 circa 950 lungometraggi; che bene o male molti 'registi d'insuccesso' (insuccesso merceologico, s'intende) abbiano potuto continuare a lavorare; che non pochi abbiano potuto esordire (fra cui, per limitarsi ad alcuni fra i più recenti, Gabriele Muccino, Riccardo Milani, Alessandro Piva, Giovanni Davide Maderna, Nina Di Majo, Luciano Ligabue, Anna di Francisca); che alcuni esordienti di fine anni Ottanta o d'inizio anni Novanta abbiano ormai una filmografia apprezzabile (per fare qualche esempio: Silvio Soldini, Cristina Comencini, Sergio Rubini, Michele Placido, Marco Bechis, Maurizio Zaccaro, Giuseppe Piccioni, Guido Chiesa, Daniele Luchetti, Francesca Archibugi, Mario Martone, Carlo Mazzacurati, Pasquale Pozzessere, Vito Zagarrio, Umberto Marino, Massimo Martella, Francesco Calogero, Paolo Virzì, Gianluca Maria Tavarelli, Mimmo Calopresti, Leonardo Pieraccioni, Davide Ferrario, Aurelio Grimaldi, Antonio Capuano, Enzo Monteleone, Franz Wetzl, Giovanni Veronesi, Salvatore Maira, Marco Tullio Giordana, Egidio Eronico, Alessandro D'Alatri, Giacomo Campiotti); che siano sempre attivi, accanto ai classici, gli oramai quasi-classici esordienti degli anni Settanta-inizio anni Ottanta (Gianni Amelio, Luigi Faccini, Nanni Moretti, Gabriele Salvatores, Salvatore Piscicelli, Peter Del Monte, Carlo Verdone, Giuseppe Bertolucci, Giuseppe Tornatore, Marco Risi, Francesco Nuti, Alessandro Benvenuti, Roberto Benigni, Maurizio Nichetti); che esista perfino una tendenza autoriale, parzialmente o radicalmente, 'sperimentale' (Silvano Agosti, Gianni Amelio, Paolo Benvenuti, Giuseppe Bertolucci, Ciprì & Maresco, Pappi Corsicato, Tonino De Bernardi, Antonietta De Lillo, Giuseppe M. Gaudino, Gianikian & Lucchi, Franco Piavoli, Roberta Torre, per non fare che qualche nome). Naturalmente, chi afferma che il cinema italiano degli anni Novanta ha la stessa 'qualità' e lo stesso 'livello' del cinema neorealistico (quando erano nel fiore dell'attività Rossellini, Visconti, De Sica-Zavattini e si contavano capolavori come, nel 1947-48, Germania anno zero, Ladri di biciclette e La terra trema) o del cinema degli anni Sessanta (quando uscivano Rocco e i suoi fratelli e Il Gattopardo, La dolce vita e 8 e 1/2, L'avventura e La notte) dà letteralmente i numeri. Benché un cinéphile transalpino, A. Bichon, autore di un dizionarietto d'amore verso il cinema italiano (Les années Moretti, Annecy, Acadra Distribution, 1999) abbia contato fra quei 950 titoli degli anni Novanta un'impressionante messe di chefs-d'oeuvre absolus (dovuta soltanto a un uso fortemente improprio della definizione di capolavoro), il cinema italiano dello scorso decennio è lontano anni luce dai grandi capolavori (questa volta, sì!) del cinema italiano dei secondi anni Quaranta e dei due decenni successivi, né mi pare che ci siano in giro molti Antonioni, De Sica, Fellini, Rossellini o Visconti.

Tuttavia la constatazione, ancorché doverosa (e da ribadire, di fronte ai 'capolavoristi' incontrollati, pronti a vedere uno straordinario capo d'opera in ogni film magari appena dignitoso), non può motivare un giudizio negativo sulla qualità del contemporaneo cinema italiano: anche in Francia gli attuali cineasti di punta sembrano alquanto lontani dal gruppo che si affacciò tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio degli anni Sessanta (Jean-Luc Godard, François Truffaut, Alain Resnais, Eric Rohmer ecc.); e in Germania la nuova generazione cinematografica appare distante da quel nutrito novero di cineasti (da Alexander Kluge a Rainer Werner Fassbinder, da Edgar Reitz a Werner Herzog) che affollò il nuovo cinema tedesco; mentre i migliori registi britannici, da Kenneth Loach a Stephen Frears, sono della generazione che esordì, rispettivamente, agli albori degli anni Settanta e degli anni Ottanta. Insomma, nel cinema, né più né meno che nell'arte, nella musica, nella letteratura o nel teatro, vi sono stagioni quantitativamente e qualitativamente ricche di talenti e stagioni decisamente più povere, per quantità e qualità degli autori; ma questo è un dato del tutto fisiologico. Ciò che semmai più importa è la qualità media dell'ispirazione, la prevalenza media dei soggetti, la frequenza di storie, sentimenti e personaggi di un certo tipo e, soprattutto, la corrispondenza fra gli umori e i problemi reali del paese e quanto di essi trova una qualche, diretta o indiretta, specularità sugli schermi. Se questi furono decisamente opachi nel decennio che precede gli anni Ottanta, lo stesso giudizio apparirebbe ingiusto negli anni Novanta, in particolare da quando l'entrata in vigore di un nuovo sistema di sovvenzioni e finanziamenti (a partire dal 1994, cioè) ha dato un relativo nuovo impulso alla produzione, non senza qualche eco positiva anche dal mercato. Ora è ben vero che quello della produzione filmica è il terreno che più sembra risentire di venti anni di 'disimpegno sociale e morale' (Francesco Maselli) e che più sembra riflettere la realtà 'confusa, poco profonda' (Francesco Rosi) dei tempi. Il cinema, 'arte del visibile', è sempre quello che fa cogliere più e meglio lo Zeitgeist, lo spirito del tempo, anche quando i tempi sembrano molto lontani dallo spirito. Il cinema italiano, poi, con la sua tradizione (a tratti, fin troppo categorica) d'impegno - quell''etica dell'estetica' che caratterizzò il neorealismo - e con le chiarezze (a tratti, fin troppo artificiose) che per anni gli dette l'Ideologia, non poteva non risentire in modo particolare della sopravvenuta precarietà dell'etica e del crollo rovinoso delle ideologie. Di qui, credo, il 'minimalismo impegnato' che caratterizza il recente, e attuale, cinema italiano: nel duplice senso, da un lato, che si tratta in genere di piccoli temi, piccoli spunti, piccoli pensieri, piccoli sentimenti, piccole storie, piccoli personaggi, materia, mi è accaduto di scrivere altrove, di "microminimalismo che più micro di così proprio non si può"; e, dall'altro, che, nell'ormai consumata esplosione del cinema di genere (commedia inclusa, in qualche modo), non sono affatto pochi i film giocati su uno scenario sociale (si pensi, a tacer d'altro, all'intera cosiddetta scuola napoletana: Martone, Piscicelli, Corsicato, Capuano, De Lillo, Gaudino, oppure a cineasti come Faccini o Calopresti), e alla commedia ridanciana, ora cinica ora goliardica, di un tempo, è succeduta la commedia dai risvolti amari, caratterizzata da un'ironia in qualche modo pensosa (da ricordare i film di Torre, di Luchetti, di Piccioni, di Ferrario, a parte Pane e tulipani di Soldini, dove il sorriso ha una costante piega malinconica), mentre anche la rappresentazione dell'idillio (vedi il forse sopravvalutato, ma certamente non banale, Un amore di Tavarelli), per quanto generalmente coniugata su toni tardivamente adolescenziali o acerbamente postadolescenziali, appare caratterizzata dall'impossibilità e dall'invivibilità dei sentimenti. Insomma, dopo molte stagioni di postmodernismo disimpegnato, il cinema italiano più recente sembra in qualche modo volersi riagganciare alla realtà, anche se gli mancano le doti immaginifiche per trasfigurarla e la capacità visionaria di trascenderla, e se, in conseguenza, la spinta 'realistica' a capire (e rappresentare) la Storia, a saper leggere appena un po' oltre le apparenze del visibile, finisce per annacquarsi, o per perdersi del tutto, nella pochezza delle stories. Ciò pare giustificare la severità di un giudizio frontalmente negativo come quello di Mario Perniola (Il cinema e le nuove frontiere dell'arte, in Il cinema della transizione, cit.): "Il cinema italiano, con poche eccezioni [...] è per lo più un cinema di reazione alla rivoluzione informatica e al nuovo capitalismo; chiuso nel racconto di vicende private o sprofondate nell'abiezione, nostalgico, passatista, intimistico, spesso sentimentale, estraneo se non ostile a ogni prova di grandezza, non mi sembra sia riuscito ad interpretare ed esprimere il suo tempo".

Per questo, credo che il cinema di Ciprì & Maresco (Lo zio di Brooklyn, Totò che visse due volte), assieme - mutatis mutandis - a quello di Gaudino (Giro di lune fra terra e mare), sia non voglio dire il migliore (mi fanno da sempre orrore le classifiche applicate all'estetica: in ogni caso, negli anni Novanta, abbiamo opere di bella qualità come, per citare alcuni titoli: L'assedio di Bernardo Bertolucci, Il compagno di Francesco Maselli, Il principe di Homburg di Marco Bellocchio, La leggenda del pianista sull'oceano di Giuseppe Tornatore, Il dolce rumore della vita di Giuseppe Bertolucci, Il ladro di bambini di Gianni Amelio, Pane e tulipani di Silvio Soldini, La vita è bella di Roberto Benigni, Fuori dal mondo di Giuseppe Piccioni, Il corpo dell'anima di Salvatore Piscicelli, Confortorio di Paolo Benvenuti, Garage Olimpo di Marco Bechis, Caro diario di Nanni Moretti, Preferisco il rumore del mare di Mimmo Calopresti, Il segreto del bosco vecchio di Ermanno Olmi, La bella vita di Paolo Virzì e molti altri) ma il più adeguato a questi anni di transizione e di lentissimo superamento dell'impasse degli anni Ottanta. Ciprì & Maresco partono dal degrado di una Palermo postatomica e ne ricollocano le forme della rovina in un universo astratto, quasi metafisico, pur se abitato da una corporalità ostentatamente sguaiata e spesso deforme, circondata da detriti simbolici e caratterizzata da un'iconologia distorta, fatta di macerie ammucchiate, scure pozzanghere, liquami putridi, e collocata, quando non in campi desolati e sotto cieli plumbei, in gabinetti dall'aria maleodorante, in spazi trogloditici, in saloni precariamente ammobiliati, fra muri scrostati. Lo sperimentalismo esplicito del cinema di Ciprì & Maresco non autorizza ancora a parlare di uno 'stile', di una scrittura autoriale intesa come marchio, insomma di un 'mondo poetico' definitivo; ma è la prima volta, e sia pure sperimentalmente, che il degrado etico-politico di una realtà diventa degrado del visibile-narrabile e che il 'contenuto' e le sue 'forme' appaiono consustanziali. Pur nella rilevante diversità, qualcosa di approssimativamente simile fa Gaudino: l'immagine di Pozzuoli e della sua gente appare, in Giro di lune tra terra e mare, frantumata, instabile, indefinita, come la terra puteolana da un perenne bradisismo; mentre il racconto aggrega, agmaticamente, 'macchina a mano' e campo/controcampo, piani sequenza e montaggio classico, voce narrante e lunghi brani dialogici in puteolano stretto, fermi sguardi lineari e visioni 'bradisismiche' oscillanti come per un terremoto, insistite ridondanze e fulminee ellissi. Anche in questo lancinante cinema del malessere si enuncia una nuova 'etica dell'estetica' che, per la prima volta, sembra avere fatto i conti definitivi con i padri neorealistici (quanto distanti sono i, pur presenti, modelli classici, come la Sicilia viscontiana o gli orizzonti partenopei di Rosi!), proponendo un cinema anche in questo caso caratterizzato dall'impossibilità di una rappresentazione 'ordinaria'. So bene che non è sullo sperimentalismo che può ri-fondarsi una cinematografia che deve affrontare nel suo insieme il nuovo millennio. Ma è da lì, o da quelle parti, che bisogna partire: perché non è nella quiete abitudinaria, nella pacificazione nostalgica, nell'intenerimento autocontemplativo, nelle singhiozzate lacrimae rerum o nei lamentosi sussurri che questa lunga transizione verso l'inconoscibile può produrre un cinema a essa adeguato, che aiuti a capire e a vivere le stagioni oscure del presente. Se tutto sembra essere divenuto nulla, come si costruisce un cinema del nulla continuando a rappresentare qualcosa?

repertorio

La cinematografia prima del cinema

I primordi

La nascita della cinematografia può ricondursi ai numerosi esperimenti sulla visione degli oggetti in movimento sviluppatisi nel corso del 19° secolo, a partire dagli studi del fisico inglese Peter Mark Roget (1824). Un impulso importante venne dall'adozione del rotolo di pellicola trasparente e sensibile, messa a punto dallo statunitense George Eastman (1888), e dalle invenzioni di Thomas Alva Edison il quale, per interessi propriamente industriali, costruì nel 1893 il kinetoscopio, dispositivo di visione individuale, mediante una fessura protetta da una lente, di una sequenza di immagini fotografiche alla velocità di 48 al secondo. Le tavole cronofotografiche realizzate dal fotografo inglese Eadweard Muybridge per documentare le varie fasi del movimento animale e umano e le prime proiezioni con lo zooprassiscopio, apparecchio da lui ideato per la visione dei corpi in azione; il cronofotografo a lastra fissa di Étienne-Jules Marey, fisiologo francese, che traduceva in termini grafici e valori misurabili il movimento, sottraendo alle imprecisioni dell'occhio umano la mutevolezza degli organismi viventi per restituirli allo sguardo nella 'forma certa della geometria'; gli studi sul movimento geotropico delle piante del botanico Wilhelm Pfeffer, sono tutti elementi che caratterizzano il contesto dell'invenzione del cinema. Alle sue origini non vi sono progetti che riguardino l'intrattenimento o lo spettacolo né istanze estetiche. Il cinema nasce in un clima culturale permeato dalle ideologie positivistiche e scientiste, come il prodotto perfezionato di invenzioni tecniche finalizzate alla riproduzione visiva del movimento. La spinta verso l'osservazione analitica esercitata dai progressi delle scienze naturali si attua nel ricorso alla fotografia e nel tentativo di registrare le componenti del fenomeno dello spostamento dei corpi nello spazio. Punto di incrocio fra la fotografia e gli esperimenti di restituzione illusoria del movimento, il cinema viene inteso nella cultura del tempo alla stregua di mezzo di riproduzione speculare della realtà, strumento da laboratorio, di analisi, da porre al servizio di una visione critica, di un'osservazione immune da impressionismi.

La storia del cinema come spettacolo comincia nel 1895 con il successo delle prime proiezioni dei fratelli Lumière al Gran Café del Boulevard des Capucines a Parigi. Probabilmente, quando Auguste e Louis Lumière, tra i fotografi più celebri del tempo, cominciarono a usare le cineprese davanti all'uscita delle officine o nella stazione di La Ciotat riprendendo in brevi azioni documentarie soggetti o episodi tratti dalla vita quotidiana (L'uscita dalla fabbrica, L'arrivo di un treno, 1895), non immaginavano di inaugurare con le loro sequenze su schermo e per un pubblico pagante un nuovo capitolo dell'espressione umana o di essere gli iniziatori di una 'settima arte', come la definì Ricciotto Canudo: probabilmente ritenevano soltanto di estendere il campo d'azione di questo tipo di apparecchiature dall'universo dello sperimentalismo scientifico a quello dell'informazione, della comunicazione di dati visivi derivati da qualunque tipo di realtà.

Dalla scienza alla magia

Dall'operazione di messa in sequenza di inquadrature differenti nei documentari derivò ai primi cineasti la consapevolezza che - al di là delle premesse o delle intenzioni rigorosamente riproduttive degli esperimenti alla Lumière - la macchina da presa poteva porsi in modo attivo rispetto allo spazio reale: mettere a fuoco cose da diverse angolazioni, includere o escludere personaggi, riorganizzare il materiale secondo un tempo non coincidente con la durata reale delle azioni, invertire l'ordine degli eventi, restituire il movimento ma anche rallentarlo o accelerarlo. Le 'neutrali' riproduzioni di frammenti dinamici della realtà avevano la possibilità di tradursi in brevi racconti o narrazioni capaci di coinvolgere le reazioni emotive degli spettatori molto di più della loro attenzione conoscitiva. Dal semplice fatto tecnico della ripresa di oggetti in movimento si passò gradualmente alla successione di avvenimenti, poi all'intervento attivo della cinepresa e del montaggio nel definire il tempo e lo spazio, e quindi all'uso del cinema per raccontare storie.

In breve tempo al tipo di cinematografia d'attualità si contrappose la cinematografia 'fantastica' di un altro pioniere francese, Georges Méliès, ideatore di un 'teatro filmato' realizzato con molteplici trucchi. La dimensione del fantastico cominciò a interferire con l'istanza realistica, che qualificava comunque la natura del mezzo, e alle possibilità di alterazione temporale si aggiunsero quelle derivate dal progresso tecnico, connesse ai trucchi di sparizione, ubiquità, sovrimpressione, sdoppiamento, sovrapposizione onirica. Con il suo esordio nel 1896, quando fondò la Star Film, Méliès trasportò decisamente il cinema in quella dimensione del 'magico' cui alludono anche i titoli (Il viaggio nella luna, 1902; Il regno delle fate, 1903; Il viaggio attraverso l'impossibile, 1905).

Da sempre il cinema viene considerato come orientato secondo due vie: quella realistica (informativa, documentaristica, scientifica, riproduttiva) dei Lumière e quella fantastica di Méliès in un'antitesi mai superata ma carica di ambiguità perché - notava Jean-Luc Godard - la fedeltà riproduttiva può sconfinare nel territorio della ricreazione fantastica, e la non-referenzialità immaginifica può essere alla radice del 'fare' scientifico, cogliendo aspetti più veri di qualunque descrizione limitata alla superficie delle cose. Mentre l'avvento e lo sviluppo del cinema favoriranno la ricostituzione dei canoni naturalistici riproponendo i modelli della pittura e letteratura ottocentesche, proprio l'attitudine analitica delle tavole di Muybridge e delle riprese di Marey (in particolare le cronofotografie a lastra fissa che realizzavano le prime fotografie stroboscopiche, cioè analisi del movimento visualizzato sincronicamente sulla superficie di una sola immagine) segnò uno 'strappo' rispetto a questo tipo di rappresentazione, costituendo un antecedente di quella vocazione antinaturalistica che permea lo sperimentalismo delle avanguardie del Novecento.

Con il successo dei primi filmati, a partire dal 1896 si costituirono società di produzione, dapprima in Francia e negli Stati Uniti (Pathé, Gaumont, Eclair, Lumière, Edison Biograph, Vitagraph) poi negli altri paesi, favorendo il sorgere delle varie cinematografie nazionali. Sotto il profilo tecnico, le innovazioni della Scuola di Brighton (alternanza del primo piano e dei piani totali), gli espedienti formali della cinematografia italiana (uso della carrellata, soluzioni più sofisticate di montaggio) e la lezione dello statunitense David W. Griffith, ai primi del 20° secolo, diedero un'accelerazione al perfezionarsi della struttura narrativa del film. Soprattutto con Griffith la macchina da presa e il montaggio scoprono nuove forme espressive. L'introduzione del flash back e del flou (sfocatura dello sfondo su cui è situato il personaggio in primo piano), l'uso di riprese in interni ed esterni in funzione di contrasto, l'invenzione del montaggio parallelo (alternarsi di storie legate tra loro non da rapporti di spazio e tempo, ma dal significato simbolico che assume il loro accostamento), il moltiplicarsi degli angoli visuali mediante più cineprese, l'alternanza tra il racconto oggettivo e quello soggettivo - innovazioni presenti nel suo film Intolerance (1916) - trasformano il quadro della cinematografia per la complessità della trama narrativa e gli accorgimenti tecnici. È iniziata la storia del cinema come linguaggio artistico dotato di caratteristiche proprie, al pari delle arti figurative, del teatro e della letteratura.

repertorio

Il cinema italiano dalle origini agli anni Ottanta

Il cinema muto

Gli esordi del cinema italiano risalgono al 1895, anno in cui Filoteo Alberini brevettò il kinetografo, una macchina per la ripresa, la stampa e la proiezione di pellicola cinematografica. Dopo la sperimentazione iniziale di brevi filmati di carattere documentario, Alberini fondò il primo teatro di posa e girò utilizzando una gran numero di comparse La presa di Roma (1905), ricostruzione degli avvenimenti del 1870 e primo film di ambientazione storica, genere che in Italia avrà molta fortuna accanto al dramma sentimentale. Si costituirono diverse case di produzione, come per es. la Cines di Alberini, Itala, Pasquali e Ambrosio, la quale con Gli ultimi giorni di Pompei (1908) ottenne un successo internazionale. Alla moda dei film storico-spettacolari concorsero elementi socioculturali e ambientali tipicamente italiani: la facilità di ingaggiare comparse a basso prezzo in un paese sovrappopolato, con aree economicamente depresse, la memoria del passato e l'esaltazione retorica della romanità, la possibilità di ambientazione scenica entro cornici monumentali e naturali congeniali ai soggetti. Il cinema esplorò tutto il passato: la Roma imperiale, il repertorio storico-mitologico greco, le guerre del Risorgimento, con un gusto improntato a filologia ingenua e affidato a soluzioni formali spettacolari sostenute da sfarzo e gigantismo scenografico. Si rivolse anche a Omero, Dante, Alessandro Dumas, Shakespeare. Giovanni Pastrone, con il nome di Piero Fosco, realizzò La caduta di Troia (1910), il primo kolossal della storia del cinema, cui fecero seguito Quo vadis? (1913) di Enrico Guazzoni, Spartaco (1913) di Giovanni Novelli Vidali e soprattutto Cabiria (1914) di Pastrone, con didascalie firmate da D'Annunzio, film nel quale si affermò la popolare figura di Maciste e che nell'uso artistico della carrellata e nella complessità degli accorgimenti tecnico-formali e del montaggio anticipò le successive evoluzioni del cinema americano, influenzando per certi aspetti anche lo stile di Griffith. L'inferno (1909) di Giuseppe de Liguoro, con scene ispirate alle illustrazioni romantiche di Gustave Doré, si avvale di una sapiente coloritura della pellicola al fine di accentuare la luce scura e contrastata.

Il cinema italiano così lanciato si impose al pubblico internazionale, alternando il filone storico ai drammi sentimentali che dopo il 1914 segnarono la popolarità di dive come Lydia Quaranta, Italia Almirante Manzini, Francesca Bertini, Lyda Borelli, Lina Cavalieri, protagoniste poco plausibili, per gestualità esagerata e linguaggio ampolloso, di lavori ispirati ai romanzi di D'Annunzio (Carmine Gallone, La donna nuda, 1914; Avatar, 1915). Più del soggetto o dell'efficacia scenica contava la presenza di una diva celebre. Nella sua centralità la diva esercitava un controllo a tutto campo sul prodotto, aveva presso la casa di produzione propri sceneggiatori e registi. L'ipervalutazione del ruolo della protagonista si rifletteva nelle sceneggiature ingenue oppure bizzarre, con eccessi destinati ad accelerare la decadenza del genere.

Maggiore autenticità raggiunse il cinema di Nino Martoglio, animatore di un teatro dialettale siciliano su testi di Rosso di S. Secondo, Pirandello, Verga, con scelte dirette prevalentemente ai problemi sociali e una regia in cui Martoglio sperimentò l'efficacia del montaggio a contrasto.

Negli anni successivi alla Prima guerra mondiale, la cinematografia italiana andò perdendo prestigio sul mercato internazionale e andò via via esaurendo i suoi filoni: né il dramma mondano, che aveva offerto con Il fuoco di Pastrone (1915) uno dei suoi esempi più raffinati, né il film spettacolare, soppiantato dalla produzione americana, né le pellicole affidate all'intepretazione delle glorie del teatro, come Eleonora Duse o Ermete Zacconi, riuscirono a risollevare le sorti della cinematografia nazionale.

L'avvento del sonoro

Una decisiva ripresa della produzione cinematografica seguì l'introduzione del sonoro. Il primo film parlato realizzato in Italia fu La canzone dell'amore di Gennaro Righelli (1929), tratto da una novella di Pirandello. Con l'avvento del fascismo anche il cinema fu largamente influenzato da finalità propagandistiche. Si inquadrano in quest'ottica le grandiose ricostruzioni storiche romanzate di età risorgimentale (Villafranca di Giovacchino Forzano, 1933; Teresa Confalonieri di Guido Brignone, 1934) o romana (Scipione l'Africano di Carmine Gallone, 1937) e, ancor più, le rievocazioni di momenti salienti della rivoluzione fascista (Armata azzurra di Righelli, 1932; Camicia nera di Forzano, 1933) o dell'espansione coloniale (Squadrone bianco di Augusto Genina, 1936). Si affermava intanto una nuova generazione di registi, con Alessandro Blasetti, che si cimentò in molti generi diversi offrendo con 1860 (1933) una delle sue opere più interessanti, e con Mario Camerini, specializzato nella commedia leggera (Gli uomini che mascalzoni!, 1932; Il cappello a tre punte, 1934).

È interessante notare che negli anni Trenta i dati comparativi degli incassi dei film italiani e americani (la produzione statunitense è quantitativamente più presente rispetto alle europee) indicano il gradimento e il successo presso il pubblico del prodotto nazionale. Nel 1932 l'incasso medio del film USA è di lire 27.357 contro le 50.773 di quello italiano; nel 1933, a fronte di un introito medio del film americano pari a lire 28.327, si ha un rendimento di lire 55.797 per il film nazionale; nel 1934, il film statunitense incassa lire 22.193 e quello italiano 29.000. Le preferenze del pubblico verso il prodotto nazionale si fanno ancora più marcate dopo il 1938 quando l'imposizione di un regime di monopolio limita l'offerta americana.

Film e cinegiornali degli anni di guerra

Verso il realismo. Gli anni del conflitto bellico, almeno sino al 1943, sono proficui sul piano produttivo e confermano il successo della cinematografia italiana, che supera il 50% degli incassi. L'offerta internazionale non è peraltro bloccata dalle restrizioni autarchiche: film francesi, tedeschi, spagnoli, e pure inglesi e americani, circolano sino alla caduta del fascismo. I generi preferiti dalle platee e dai produttori sono la commedia leggera, con le sue varianti canore, farsesche, sentimentali, i film storici in costume, le biografie romanzate, i melodrammi, gli adattamenti di opere dell'Ottocento, le versioni filmate della narrativa popolare e d'appendice. Particolare successo ha il cinema dei 'telefoni bianchi' di derivazione hollywoodiana, genere di film di evasione così denominato per la presenza nell'arredo di telefoni bianchi, simboli snobistici di una classe sociale alto borghese proposta al pubblico come 'modello ideale': un universo oleografico e fittizio, slegato dall'attualità, irreale nell'ambientazione e nella topografia. Si tratta di storie lacrimose e contrastate o commedie da 'salotto buono' come avviene in Castelli in aria (1938) di Genina, Manon Lescaut (1938) di Gallone, Rose scarlatte (1939) con cui debutta Vittorio De Sica, Le sorprese del vagone-letto (1940) di Giampaolo Rosmino, Turbamento (1941) di Brignone.

Tuttavia già in Montevergine (1938) di Carlo Campogalliani, I grandi magazzini (1939) di Camerini, Un'avventura di Salvator Rosa (1939) di Blasetti, Oltre l'amore (1940) di Gallone, si intravede l'esigenza di percorrere nuove strade trovando una cifra più aderente al vissuto e ai tratti tipici della gente italiana. Il richiamo ad abbandonare ogni 'astrattismo' per calarsi nella realtà del paese viene anche dalla critica cinematografica del periodo, nei settimanali L'illustrazione italiana (fondato da Emilio Treves), Oggi (nato per iniziativa di Arrigo Benedetti e Mario Pannunzio) e Tempo (diretto da Arnoldo Mondadori), che sottolineano, con sfumature diverse, come sia cambiato il gusto del pubblico, più interessato ad assistere alle acrobazie di un aereo in battaglia (Conquista dell'aria di Romolo Marcellini, 1939; Un pilota ritorna di Roberto Rossellini, 1941) che a vicende artificiose e melense. La guerra accelera il processo in direzione di una svolta realistica della produzione cinematografica, suggestionata anche dai modelli francesi, insieme crudi e poetici, di Alba tragica di Marcel Carné, interpretato da Jean Gabin e ambientato in bistros malfamati e casoni popolari della periferia parigina, e Verso una vita di Jean Renoir, apprezzato per l''efficacia magistrale' con cui rende luoghi e personaggi. Da un lato la critica rifiuta i valori 'decadenti' del cinema francese e ne paventa l'aspetto sociale, perché si inquadra in 'sordidi bassifondi' intaccando la 'moralità', dall'altro sollecita i registi italiani a seguirne i moduli stilistici ed espressivi. Un medesimo atteggiamento ambivalente di attrazione/repulsione caratterizza il rapporto con il cinema americano, che esporta i film di Frank Capra, di John Ford (Ombre rosse) e i volti del divismo (Carole Lombard, Clark Gable, Gary Cooper, Katharine Hepburn): in generale si rimpiange il vecchio cinema western degli anni 1933-37, e si tende strumentalmente ad avvalorare una presunta 'caduta di qualità' nell'arco degli anni 1939-40 quando l'America viene sentita come 'paese nemico'; così pure il divismo è considerato il fenomeno tipico di una società che vive un declino dei costumi dovuto a 'troppa democrazia'.

Il bisogno di realtà sollecitato dalle cronache di guerra troverà più compiuta espressione nel film di Luchino Visconti Ossessione (1942), che segna uno spartiacque e l'esordio ufficiale del 'neorealismo'. In Ossessione è narrata per la prima volta la vita quotidiana delle classi popolari in uno stile che si richiama alla lezione del 'realismo poetico' di Renoir (di cui Visconti fu a lungo assistente in Francia), nell'ambientazione basata su toni contrastati (interni cupi ed esterni luminosi), nell'approfondimento dei personaggi e nell'analisi delle motivazioni che ne spiegano i comportamenti.

I filmati del LUCE. Le leggi del 30 aprile 1926 e quelle del 6 luglio 1940 rendono obbligatori, nelle proiezioni quotidiane, i cinegiornali e i documentari di guerra. I cinegiornali dell'Istituto LUCE (L'Unione cinematografica educativa, ente tecnico istituito nel 1924 per la propaganda politica, dipendente dal Ministero per la Cultura popolare) e i documentari della INCOM (rotocalco settimanale di informazione) assecondano anche gli indirizzi meno palesi della politica mussoliniana, pilotando l'opinione pubblica secondo le direttive del regime, a favore dapprima della 'non belligeranza' (settembre 1939-giugno 1940), successivamente (dal 1940 in poi) dell'intervento diretto a fianco della Germania.

Nel periodo della neutralità, il LUCE offre l'immagine di un paese potente, moderno, all'avanguardia sul piano industriale e nella cantieristica navale, di uno Stato attento al benessere dei cittadini, sollecito nel promuovere lo sviluppo economico e culturale. Le sue cineprese indugiano su tutti gli aspetti spettacolari della vita politica: cerimonie, celebrazioni, adunanze secondo precise tecniche e cornici scenografiche che moltiplicano le folle e danno plastico risalto alla gestualità del duce. Servizi vengono dedicati alle formazioni parascolastiche promosse dall'Opera Nazionale Balilla per l'educazione dei giovani ai valori fascisti e alla vasta attività edilizia in corso a Roma, dove si prepara l'Esposizione universale del 1942. La propaganda insiste sulla fine dell'isolamento del Meridione, dove per sopperire alla carenza di mezzi di informazione e di sale cinematografiche vengono apprestati cinema ambulanti finanziati da enti pubblici.

Dal fronte di guerra gli operatori inviano brevi documentari sulla vita quotidiana delle truppe. I servizi giornalistici accentuano la polemica contro il decreto del governo di Londra di bloccare le esportazioni e importazioni tedesche che avvengono via mare, anche attraverso porti neutrali, decisione che ostacola il rifornimento delle materie prime, anzitutto il carbone, e insiste sulle difficoltà e sulla mancanza di prospettive dell'Inghilterra. Tendenzialmente la politica del regime mira a oscurare le notizie allarmanti (per es. il blocco di tredici navi italiane) e a calamitare l'attenzione su iniziative, anche fittizie, in campo industriale e sociale (strade, case coloniche, nuovi impianti e cantieri, simbolo del futuro benessere).

Nei primi mesi del conflitto mondiale e nella situazione di neutralità, i resoconti degli inviati italiani dalla linea Maginot o dalla linea Sigfrido sembrano mantenere nelle immagini e nei commenti un'equidistanza dai contendenti, riconfermando tuttavia un ambiguo ossequio all'Asse; l'incontro del Brennero del marzo 1940 e la decisione di entrare in guerra (11 giugno 1940) spostano poi l'informazione nettamente a favore della Germania. I cinegiornali diffondono filmati sull'avanzata tedesca nei vari paesi d'Europa (Paesi Bassi, Francia) e celebrano la potenza militare e l'invincibilità della Germania. La campagna di Russia dell'inverno del 1941-42 è presentata in termini di crociata antibolscevica, come una lotta della civiltà contro la barbarie: la vittoria è garantita dalla 'superiorità della razza', dall''efficienza dell'equipaggiamento', dall''entusiasmo' dei soldati e dall''unità di intenti' nel cameratismo dell'Asse. L'ostentazione di miti e parole è smentita dalla realtà degli eventi. L'ideologia anticomunista trova riscontro nelle sequenze di film, girati tra il 1940 e il 1943, come Orizzonte di sangue di Righelli, Noi vivi e Addio Kira di Goffredo Alessandrini, Ucraina rossa di Vittorio Carpignano e, in un rapporto più ambiguo con gli usuali modelli della propaganda, L'uomo dalla croce di Roberto Rossellini.

Chiudono gli anni del fascismo i cinegiornali con le immagini di Mussolini nella Repubblica di Salò, degli ultimi incontri con Hitler a Klessheim e Goerlitz vicino ai quartieri generali tedeschi e delle giornate milanesi del duce (dicembre 1944), inquadrato in un'effimera atmosfera di euforia e consenso popolare.

Il neorealismo

Prima ancora della caduta del fascismo si andò formando in Italia una scuola, il neorealismo, che proponeva la creazione di un cinema 'vero', popolare e nazionale. L'interesse era per un cinema 'antropomorfico', per storie di 'uomini vivi' in quanto "il peso dell'essere umano, la sua presenza, è la sola cosa che colmi il fotogramma" (Visconti in Cinema, nr. 173-74, 1943). Nel 1942, lo stesso anno in cui uscì Ossessione di Visconti, venivano realizzati, entrambi su sceneggiatura di Cesare Zavattini, I bambini ci guardano di De Sica, una critica dei costumi matrimoniali, e Quattro passi tra le nuvole di Blasetti, che temperava la commedia brillante con notazioni realistiche e popolari. Due film di Rossellini, Roma città aperta (1945), girato subito dopo la Liberazione sui luoghi stessi dell'azione, e Paisà (1946), con sei episodi della guerra in Italia dal 1943 al 1945, si imposero al pubblico internazionale per la carica di attualità e autenticità con cui diffondevano, in uno stile immediato, privo di retorica, l'immagine di un'Italia non allineata con il fascismo, impegnata nel ripristino della democrazia. Alla stagione del neorealismo appartengono Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Umberto D (1951) di De Sica e Zavattini, quadro dell'Italia del dopoguerra in cui all'incisività della denuncia sociale si unisce una forte carica umanitaria. Si affermava anche una produzione di argomento resistenziale (Il bandito di Alberto Lattuada, 1946). Nel 1948 Visconti realizzava La terra trema, primo di una trilogia (non portata a termine) sulla Sicilia, cui seguirono numerosi lavori incentrati sul tema dei rapporti tra il mondo degli affetti e dei legami familiari e la struttura sociale. Con sfumature e da angolazioni diverse, il cinema italiano si metteva sulla via di un coinvolgimento diretto con le realtà umane e sociali, portando in primo piano "uomini e regioni conosciuti imperfettamente dalla geografia, erroneamente dalla storia, sommariamente o affatto dalla cultura umanistica" (G. Puccini in Bianco e nero, aprile 1948). Con il racconto epico della Resistenza e la denuncia dei problemi del paese il cinema faceva proprio il concetto gramsciano di cultura, ponendosi programmaticamente come 'nazionale' e 'popolare', legato alla cronaca, alle vicende del paese, agli aspetti consolidati del costume.

In alternativa alla cinematografia standardizzata di tipo hollywoodiano fondata sul divismo dell'attore, sull'anonimità del 'prodotto', sull'alto costo del film connesso al gigantismo proprio della produzione monopolistica, il neorealismo propone un diverso modello di cinema. Il basso livello dei costi coincide con il rifiuto di considerare il film come un prodotto commerciale qualsiasi, nel quale vengano accolti richiami di natura pubblicitaria e 'persuasiva': il film è inteso alla stregua di un mezzo a disposizione di chiunque voglia esprimere un proprio atteggiamento di fronte al reale. Il cinema a basso costo viene allora a coincidere con l'idea del film d'autore, con una forma di utilizzazione del mezzo regolata soltanto dalle ragioni espressive del regista: al divismo dell'attore si sostituisce il divismo dell'autore.

Nell'ambito del neorealismo si formano i due autori che insieme a Visconti e Rossellini saranno gli esponenti più rappresentativi del cinema del dopoguerra: Federico Fellini, che già agli esordi rivela un immaginario personale in cui si integrano realismo e onirismo (Lo sceicco bianco, 1952; I vitelloni, 1953; Le notti di Cabiria, 1957), e Michelangelo Antonioni, che apre il cinema italiano ai temi esistenziali della cultura europea (la crisi del rapporto intersoggettivo, la 'malattia dei sentimenti', l'incomunicabilità: Cronaca di un amore, 1950; Il grido, 1957; la trilogia successiva L'avventura, 1959; La notte, 1960; L'eclisse, 1962) e più tardi della società industriale (Deserto rosso, 1964). Intanto una nuova generazione di cineasti, provenienti dal Centro sperimentale di cinematografia, si va affermando con Luciano Emmer (Una domenica d'agosto, 1949, tenue arabesco della vacanza di un giorno sulla spiaggia di alcune famiglie romane), Giuseppe De Santis (Caccia tragica, di argomento resistenziale, 1948; Riso amaro, 1950, rappresentazione della vita delle mondine), Pietro Germi (dal neorealistico In nome della legge, 1949, quadro della Sicilia e della mafia, ai film più intimisti Il ferroviere, 1956, e L'uomo di paglia, 1958, fino alla commedia satirica Divorzio all'italiana, 1962, il suo maggior successo).

La commedia di costume

Negli anni Cinquanta la spinta al rinnovamento emersa nell'immediato dopoguerra, con le poetiche del primo neorealismo, si esaurisce nella commedia di costume ('neorealismo rosa': Pane, amore e fantasia, 1953, di Luigi Comencini; Poveri ma belli, 1956, di Dino Risi), nel melodramma ('neorealismo popolare': Tormento, 1951, L'angelo bianco, 1955, di Raffaello Matarazzo), nel bozzetto regionale e satirico (di cui fu notevole protagonista Totò, creatore di un patrimonio comico o di una nuova 'commedia dell'arte' di eccezionali doti mimiche). Si ha al contempo un grande sviluppo del mercato cinematografico che vede l'imporsi all'estero di uno star system nazionale (Anna Magnani, Sofia Loren, Gina Lollobrigida, Silvana Mangano). L'affermazione dopo la grande stagione del neorealismo di questi generi commerciali si spiega con la ristrutturazione della cinematografia italiana (parallela a quella economica del paese) che cerca il consenso di un vasto pubblico attraverso la messa in scena di situazioni e personaggi rispondenti alla nuova realtà (l'industrializzazione, l'urbanesimo, le contraddizioni tra retaggio contadino e modernizzazione, l'emergere di nuovi soggetti sociali, della piccola e media borghesia e del proletariato urbano), in una cifra tranquillizzante che si ispira alla tradizione comica italiana. La scelta di fondo del cinema italiano non è il 'realismo critico' ma la commedia di costume, la satira bonaria e accomodante (ma che diviene a volte problematica, amara e sferzante, come nei film di Mario Monicelli, Guardie e ladri, 1951, I soliti ignoti, 1958, e La grande guerra, 1959), che offre al pubblico un'immagine sdrammatizzata dei problemi. Questo filone, molto popolare e redditizio, tipizzerà in modo peculiare la produzione italiana, limitando altre proposte e linguaggi. Se si eccettuano Visconti, Rossellini e Antonioni, che sviluppano altre poetiche, un rinnovamento tematico e stilistico verrà negli anni Sessanta con Marco Bellocchio, i fratelli Paolo e Vittorio Taviani, Pier Paolo Pasolini, autori di film più elitari, di non vasto consumo.

Esaurito in patria, il neorealismo fa scuola altrove, preparando i movimenti del Free cinema inglese e della Nouvelle vague francese, degli inizi degli anni Sessanta: vi si ispireranno nella proposta di un cinema d'autore, svincolato dai clichés spettacolari, ancorato a una visione problematica e spregiudicata della realtà e a un linguaggio per molti versi inedito, ponendo le premesse delle soluzioni dei decenni successivi.

Un altro fenomeno interessa in questa fase la cinematografia italiana come quella internazionale in genere: l'avvento della televisione, che si diffonde su ampia scala, negli Stati Uniti con alcuni anni di anticipo rispetto al resto del mondo, aprendo nuove prospettive nel mercato e avviando una trasformazione che ancora oggi è lontana dall'essere conclusa.

Tendenze degli ultimi decenni

Gli anni Sessanta e Settanta sono stati per il cinema densi di proposte. La più significativa rimanda a quel movimento, definito 'Nuovo cinema', che si protrae per l'intero decennio Sessanta, si svolge o in parallelo al cinema tradizionale oppure esautorandolo completamente, e interessa numerosi paesi (Nouvelle vague, Free cinema, New American cinema ecc.). I principi guida (non comuni tuttavia a tutti gli autori) sono il rifiuto dei canoni tradizionali del racconto, il tramutarsi dell'impegno ideologico in impegno che, pur muovendo da presupposti politici, si esprime in cifre traslate e soggettive (si è parlato di depoliticizzazione), la creazione di strutture produttive a basso costo, per favorire una diffusione alternativa secondo prospettive socioculturali e non solo essenzialmente economiche. L'autofinanziamento messo in atto da alcuni autori consente una certa indipendenza nella realizzazione di film. In misura più o meno evidente, i giovani registi vogliono infrangere gli schemi del cinema classico, sia portando sullo schermo personaggi e ambienti che riflettono direttamente o indirettamente la propria vita, sia destrutturando il racconto e inventando di volta in volta le regole necessarie alla costruzione di un film del tutto personale. Ne derivano un autobiografismo sfumato e una rappresentazione prospettica, sfaccettata, polemica, di fatti e problemi della società contemporanea.

In Italia aprono gli anni Sessanta Antonioni, Fellini, Visconti, con tre opere maggiori, La notte, La dolce vita, Rocco e i suoi fratelli, confermando l'autonomia della loro personalità, mentre Rossellini comincia a sperimentare programmi storico-didattici per la televisione, dichiarandosi polemicamente estraneo ai soggettivismi del tempo. Le tendenze del Nuovo cinema sono rappresentate da Bellocchio (I pugni in tasca, 1965), Ermanno Olmi (Il posto, 1961; successivamente L'albero degli zoccoli, 1977), Marco Ferreri (La donna scimmia, 1963; Dillinger è morto, 1969; La grande abbuffata, 1973), Bernardo Bertolucci (Partner, 1968; La strategia del ragno, 1970; Ultimo tango a Parigi, 1972), i fratelli Taviani (San Michele aveva un gallo, 1971; Allonsanfàn, 1974) e Pasolini, con il suo 'cinema di poesia', libero di reinterpretare la realtà nei modi e nelle forme di una continua invenzione estetica (Accattone, 1961; Mamma Roma, 1962; Il vangelo secondo Matteo, 1964; Uccellacci e uccellini, 1966; Edipo re, 1968; Teorema, 1969). In questi autori, molto attivi anche nei decenni successivi, il recupero di uno stile e di una dimensione personali avviene senza trascurare i temi della vita contemporanea, con riflessi anche politici e sociali.

Si perfeziona nel frattempo la commedia di costume, caleidoscopio grottesco e satirico nel quale si riflettono (grazie anche ad autori-attori come Vittorio Gassman, Alberto Sordi, Nino Manfredi, Ugo Tognazzi) i rapidi e continui cambiamenti del costume di una società che da contadina è diventata industriale.

Tra i registi più versatili, Dino Risi (Il sorpasso, I mostri, entrambi del 1963), Antonio Pietrangeli (Adua e le compagne, 1960; Il magnifico cornuto, 1964); Mario Monicelli (L'armata Brancaleone, 1966; Amici miei, 1975), Vittorio Zurlini (dopo l'esordio con Le ragazze di San Frediano, 1955, Cronaca familiare, 1962; La prima notte di quiete, 1972; Il deserto dei Tartari, 1976); sulla linea di un cinema di denuncia e di indagine politica e sociale operano poi Gillo Pontecorvo (Kapò, 1959; La battaglia di Algeri, 1966; Queimada!, 1969), Francesco Rosi (Salvatore Giuliano, 1961; Le mani sulla città, 1963; Il caso Mattei, 1971; Cadaveri eccellenti, 1976), Elio Petri (A ciascuno il suo, 1967; Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, 1970; La classe operaia va in Paradiso, 1971; Todo modo, 1975).

Con lo pseudonimo di Bob Robertson, Sergio Leone inaugura il 'western all'italiana' (Per un pugno di dollari, 1964), che si differenzia dai prototipi americani per un'accentuazione della violenza e della suspense e per l'ironica elusione dei miti della giustizia e libertà, ricorrenti nei western classici. Viene poi precisando quel gusto per un cinema epico e spettacolare, dai tempi dilatati e solenni (Per qualche dollaro in più, 1965; Il buono, il brutto e il cattivo, 1966), il quale trova compiuta espressione in C'era una volta il West (1968) e Giù la testa (1971). Dario Argento si inserisce originalmente nel filone del giallo ('giallo all'italiana') con L'uccello dalle piume di cristallo (1970), Il gatto a nove code (1971), Profondo rosso (1975), esasperando via via gli elementi di violenza gratuita e l'utilizzo degli effetti speciali (Suspiria, 1976).

Nella seconda metà degli anni Settanta, mentre i grandi autori del dopoguerra continuano a dare testimonianza della loro creatività (Antonioni con Professione reporter, 1975; Fellini con Il Casanova, 1976; Prova d'orchestra, 1978), Visconti (dopo Morte a Venezia, 1970, e Ludwig, 1973, L'innocente, 1976, tutti di gusto estetizzante), si ha l'esordio di una nuova generazione di registi come Nanni Moretti (Io sono un autarchico, 1976; Ecce bombo, 1977; Bianca, 1983), Gianni Amelio (Il piccolo Archimede, 1979; Colpire al cuore, 1982; I ragazzi di via Panisperna, 1988) e, negli anni Ottanta, di autori-attori provenienti dal cabaret e dalla televisione, come Roberto Benigni (Il piccolo diavolo, 1987), Massimo Troisi (Ricomincio da tre, 1980; Scusate il ritardo, 1982). Il cinema si trova a operare in una realtà condizionata dal proliferare incontrollato dell'emittenza televisiva liberalizzata nel 1976, cui si devono la contrazione del mercato e la difficoltà degli spazi di sperimentazione. Accanto a una cinematografia (prevalente) di interesse esclusivamente commerciale, si segnalano alcuni, sporadici film d'autore: La notte di S. Lorenzo (1982) dei fratelli Taviani, Ballando ballando di Ettore Scola (1984), La nave va di Fellini (1983) e L'ultimo imperatore di Bertolucci (1986).

Il dominio dell'esercizio televisivo, le innovazioni tecnologiche, il moltiplicarsi dispersivo delle emittenti, il consumo audiovisivo esteso all'intero spazio del quotidiano (audiovisivi della ricerca scientifica, della progettazione ambientale, dell'archivio e della memoria, dell'interazione psicologica e della formazione professionale; il documentario e il cinema giornalistico, quello didattico e quello saggistico, quello pubblicitario) e l'uso del cinema stesso messo in atto dalla programmazione televisiva modificano la nozione di 'spettacolo' mettendo in ombra la dimensione dell'opera, del 'testo chiuso', del film. Il rapporto con l'immagine e i prodotti assume la caratteristica di un contatto continuo, con rinuncia al 'narrativo' (per forme più discorsive subordinate a finalità concrete) e all'aspetto 'cultuale' del cinema (il cinema come luogo di 'festività sociale'). Contro le abitudini, la piattezza e la ripetitività della messa in onda televisiva il cinema reagisce (e nel far ciò quello americano si pone al primo posto) amplificando oltre misura le sue risorse spettacolari e semplificando al contempo gli aspetti narrativi, con film basati su effetti speciali (maestro Carlo Rambaldi) e un'abile sintesi di fiaba, avventura, fantascienza.

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