CINEMATOGRAFIA Innovazioni tecniche

Enciclopedia Italiana - IV Appendice (1978)

CINEMATOGRAFIA Innovazioni tecniche

Emilio Ugoletti
Gian Luigi Rondi

CINEMATOGRAFIA (cinematografo: X, p. 335; App. I, p. 420; II, 1, p. 592; III, 1, p. 384)

Innovazioni tecniche. - Dal 1960 a oggi non si registrano innovazioni tecniche di rivoluzionaria importanza, tuttavia sono state introdotte nuove soluzioni atte a migliorare la qualità del prodotto cinematografico o a semplificare i metodi di lavorazione. Le innovazioni più rilevanti riguardano i formati sia di proiezione che di ripresa, e il montaggio per l'uso generalizzato della pressa "Catozzo".

Formati. - Se gli anni Sessanta hanno conosciuto il trionfo della cosiddetta "visione panoramica", ottenuta con i vari sistemi, sempre più sofisticati, quali il cinemascope, il cinerama, il Todd-A O, ecc., gli anni Settanta hanno visto, specie in Europa, un ritorno su formati meno spettacolari.

Le proporzioni dell'immagine che nei vari sistemi panoramici era circa di 2,5-2,35: 1, ora torna su rapporti del tipo 1,66-1,85: 1, ottenuti non già per mezzo di tecniche elaborate, ma attraverso la semplice rinuncia a impressionare il bordo superiore e inferiore del fotogramma. Questi bordi neri saranno tanto più alti quanto più si vorrà aumentare il rapporto dell'immagine nella sua larghezza, rapporto che nella pienezza del fotogramma sarebbe di 1,33: 1, quello usato in TV. Comunque per film particolarmente spettacolari, specie di produzione americana, sono ancora usate le tecniche che permettono una visione panoramica molto ampia e una particolare brillantezza dell'immagine. Accanto ai summenzionati procedimenti di c. spettacolare, sono nati il Techniscope, il Technirama, il Super Panavision 70, il Super Technirama.

Techniscope. - Il negativo è un 35 mm normale ma con 2 perforazioni per fotogramma; il positivo è un 35 mm, 4 perforazioni per fotogramma, ottenuto con stampatrice ottica e obiettivo anamorfico di stampa con rapporto 2:1. L'immagine si presenta sullo schermo con il rapporto 2,35:1. Questo sistema permette un grande risparmio di pellicola in fase di ripresa (esattamente il 50%).

Technirama. - Il negativo è del tipo Vistavision (v. App. III, 1, p. 385) ma ripreso con obiettivo anamorfico di rapporto 1,5:1. Il positivo è un normale 35 mm ottenuto per riduzione ottica con ulteriore anamorfosi sferica nel rapporto 2:1. L'immagine si presenta sullo schermo nel rapporto di 2,35:1.

Superpanavision. - Il negativo è di 65 mm. 5 perforazioni per fotogramma. Il positivo è di formato 70 mm, 5 perforazioni per fotogramma ed è ottenuto per stampa a contatto. L'immagine sullo schermo ha il rapporto 2,21:1.

Super Technirama. - Il negativo è ripreso con la stessa tecnica del Technirama; il positivo è ottenuto con stampatrice ottica su pellicola 70 mm, 5 perforazioni per fotogramma; rapporto dell'immagine sullo schermo è di 2,21:1.

Super 8. - Una vera rivoluzione nel campo dei formati è rappresentata dal formato Super 8 che è stato lanciato sul mercato mondiale dalla Kodak una decina di anni fa e rappresenta dal punto di vista tecnico un miglioramento del formato standard 8 mm perché, pur essendo stata mantenuta inalterata la larghezza della pellicola, appunto di 8 mm, sono stati distribuiti meglio gli spazi in modo da ridurre quello a disposizione della perforazione a vantaggio di quello a disposizione dell'immagine, la cui superficie (fig. 1) risulta aumentata di circa il 50%. Questo significa un miglioramento della qualità fotografica dell'immagine, maggiore possibilità d'ingrandimento in proiezione, minore granulosità a ingrandimento pari.

Il Super 8 mm, nato come formato cinematoriale, è a poco a poco entrato nel campo del formato sub-standard amatoriale professionale, tanto che ora è in via di adozione anche da parte di alcune reti televisive nord americane, in sostituzione del 16 mm, per le pubblicità e le attualità.

La sonorizzazione del Super 8 mm è stata all'inizio imposta con pista magnetica a somiglianza di quanto si faceva con l'8 mm. Recentemente è comparso il Super 8 mm anche con colonna sonora ottica, come per il 35 mm e il 16 mm, a conferma di quanto dicevamo poco fa che questo formato sta sempre più entrando nel campo del professionismo cinematografico.

I vantaggi della colonna sonora ottica, cioè fotografica, inalterabile, incancellabile, nei confronti di quella magnetica, che può essere distaccata, asportata, cancellata parzialmente o totalmente, sono evidenti e intuitivi. Come risposta dinamica, i perfezionamenti raggiunti dalle apparecchiature di registrazione fanno sì che la colonna sonora ottica sia qualitativamente molto vicina ai livelli della pista magnetica.

Anche grandi fabbriche di proiettori come la Elmo, la Bauer, La Bell Howell, la Philips, la Technicolor, la Fairchild, la Microtecnica e altre, costruiscono correntemente proiettori sonori Super 8 mm con lettura sia magnetica sia ottica oppure soltanto ottica.

Per quanto riguarda la lavorazione in laboratorio di questo tipo di pellicola è da notare che partendo da un'immagine 35 mm o da un'immagine 16 mm si possono stampare contemporaneamente quattro immagini ridotte a super 8 su pellicola 35 mm.

Super 16. - Il Super 16, nato nel 1967 per iniziativa di tecnici svedesi, in particolare di R. Ericson, rappresenta un nuovo procedimento economico di ripresa dove il film 16 mm a perforazione unilaterale è utilizzato allo scopo di ottenere delle immagini negative su una superficie superiore a quella ottenuta con il 16 mm classico; ciò unicamente al fine di permettere riprese per mezzo di cineprese autoblimpate leggere 16 mm e successiva stampa ottica (con ingrandimento) su positivo 35 mm. Le possibilità offerte da una ripresa in super 16 sono molte: poco personale, grande mobilità, facilità di sistemazione sul posto di lavoro, minor costo del negativo rispetto al 35 mm; in conclusione, poca spesa. Per tutti questi motivi il tentativo d'ingrandire immagini 16 mm in 35 mm è di lunga data, ma per lo scarso successo qualitativo delle immagini, tale procedimento era stato impiegato solo in casi particolari.

Il Super 16 tende a risolvere questo problema di qualità: per un ingrandimento al 35 mm nel rapporto 1,66, il formato Super 16 risulta avere un'area utile del 40% superiore a quello del 16 standard. Naturalmente, per quanto migliorata la qualità, il risultato non reggerebbe il confronto con il procedimento classico del 35 mm, ma con l'avvento dei più recenti negativi a grana fine, e l'ingrandimento diretto su negativo intermedio, si sono ottenuti risultati veramente buoni. Recentemente sono stati realizzati in Super 16 diversi film a lungometraggio.

Macchine da presa. - Le innovazioni apportate alle macchine da presa vertono soprattutto sulla maneggevolezza e silenziosità delle stesse e su sistemi tendenti ad assicurare una frequenza costante nello scorrimento della pellicola allo scopo di ottenere riprese sincrone di alta qualità.

Arriflex 35 BL. - La tedesca occidentale Arriflex ha realizzato una macchina da presa 35 mm con appoggio a spalla, isolata acusticamente per consentire la registrazione diretta del suono sincrono. Pesa circa 10 kg, caricatore da 120 metri, velocità da 24 a 90 fps e motore sincrono a 24 o 25 fps; otturatore a specchio a due pale apertura 180; trascinamento con griffa doppia a due perforazioni e controgriffa doppia; marcia avanti e indietro; rumore di fondo 39 dB a un metro davanti all'obiettivo. Un dispositivo ferma automaticamente l'otturatore in posizione di visione a ogni arresto di macchina.

Eclair-Debrie. - Cinecamera professionale 16 e super 16 mm, tipo ACL. Peso ridottissimo: 3,5 kg. Caricatore coassiale da 70 o 30 metri ad agganciamento rapido. Motore controllato a quarzo per frequenze di 24 o 25 fps. È forse la più silenziosa delle moderne macchine da presa.

La moderna tendenza alla riduzione dell'ingombro e del peso si fa evidente anche nelle nuove Mitchell che rispetto alle precedenti hanno un ingombro e un peso inferiore del 30%.

Obiettivi. - La novità di maggior rilievo nel campo degli obiettivi per la c. è costituta dalla realizzazione di trasfocatori di qualità tale da poter sostituire tutta la serie degli obiettivi di una macchina da presa conservando la stessa luminosità e definizione dei migliori obiettivi a lunghezza focale fissa.

Trasfocatori di questo tipo sono stati realizzati tra gli altri dalla francese Angenieux e dalla inglese Cook (Rank Taylor Hobson); la prima specializzata da sempre in trasfocatori, la seconda nella realizzazione di obiettivi a focale fissa della migliore qualità in commercio.

Il trasfocatore della Cook destinato alle cineprese professionali 35 mm, ha le seguenti caratteristiche: ÷20-120; f/2,8; T/3,2; messa a fuoco minima 0,70 m. Dopo la realizzazione di questo trasfocatore la Cook ha sospeso la produzione degli obiettivi a focale fissa.

Il trasfocatore della Angenieux per macchine professionali 35 mm ha le seguenti caratteristiche: F 20 ÷ 120 mm; f/2,6; messa a fuoco minima 1 metro.

Trasfocatori dalle caratteristiche simili sono stati costruiti anche per il 16 mm.

Videoanalizzatore - La tecnica comunemente impiegata sino ad oggi per la stampa di film a colori consente di conseguire il risultato voluto soltanto con una serie di costosi provini di stampa e di correzioni successive; con questo procedimento solo con la terza, quarta copia di un film il risultato diviene totalmente accettabile. La difficoltà nell'applicazione delle successive correzioni dipende in massima parte dall'impossibilità, anche per gli esperti, d'immaginare chiaramente quale sarà sul positivo il risultato dovuto a una determinata filtrazione cromatica correttiva. In soccorso a questa situazione sono stati perciò realizzati degli analizzatori elettronici per la correzione rapida dei colori (video color analyser). Tali analizzatori sono apparecchiature che consentono, su uno schermo televisivo a colori, la visione diretta e in positivo di un'immagine ingrandita generata da un negativo. Sullo schermo televisivo il colore è del tutto uguale a quello di un positivo che abbia già subito il trattamento e che si veda in proiezione.

Dall'esame di questa immagine così ottenuta, manovrando delle manopole tarate in serie di colori additivi e sottrattivi e in serie di punti stampa con valori perfettamente corrispondenti a quelli usati per le macchine da stampa per il colore, si traggono i suggerimenti per variare la sua luminosità (luminanza), il suo colore (crominanza) e il suo contrasto, fino a ottenere il risultato voluto, in una maniera alquanto simile a quella che si verifica in un comune televisore a colori domestico nella sua messa a punto quotidiana. I valori forniti dalle manopole vengono registrati su nastro perforato e di qui alle macchine da stampa.

Montaggio. - L'uso della giuntatrice a nastro autoadesivo detta "Pressa Catozzo" dal nome dell'inventore che è anche titolare del brevetto in tutto il mondo, ha enormemente influenzato la tecnica del montaggio. Questo tipo di giuntatrice permette giunte di rapida esecuzione sulla copia di lavorazione e senza la perdita di quel fotogramma che con la tecnica precedente era inevitabile a ogni giunta. Ciò ha dato la possibilità al montatore di effettuare prove e di realizzare attacchi vari ed estremamente precisi.

Da questa facilità di esecuzione delle giunte deriva il maggior numero di tagli che caratterizza i film moderni; già in fase di ripresa il regista può "girare" una scena con un alto numero d'inquadrature prevedendo che in fase di montaggio sarà agevole combinarle insieme dopo aver scelto le più efficaci. Oggi un film medio, a prescindere dalle esigenze estetiche della regia, presenta un numero di tagli quattro, cinque volte superiore di quanto avvenisse in passato; il racconto cinematografico ha così acquistato una maggior vivacità. Per quanto riguarda le regole del montaggio, c'è da rilevare che oggi fanno parte della norma "attacchi" che fino a qualche tempo fa erano giudicati un errore come, per es., il taglio eseguito su una scena in movimento, durante una carrellata o uno zoom, o la ripetizione quasi impercettibile del gesto di un attore nell'inquadratura a seguire.

Proiettori. - Le lampade allo xenon hanno quasi completamente soppiantato il vecchio sistema d'illuminazione ad arco voltaico. Rispetto a questo le lampade allo xenon offrono il vantaggio di una manutenzione notevolmente ridotta e di una proiezione sempre omogenea, e lo svantaggio, secondo alcuni, di una luce più fredda, e quindi meno gradevole.

In Italia abbiamo importanti fabbriche di proiettori che già da anni si sono messe con successo sulla strada dell'automazione più o meno spinta. Tra queste ricordiamo la Cinemeccanica, la Prevost, la Pio Pion, la Angiolo Fedi, molto apprezzate anche all'estero tanto che i cinema multipli esistenti sono quasi tutti attrezzati con proiettori altamente automatizzati di queste ditte.

La Philips offre un programmatore adattabile a tutti i proiettori, purché funzionanti con lampada allo xenon, articolato su tre bobinatori. Da uno di questi il film si svolge partendo dal centro, passa in macchina di proiezione e si riavvolge sul secondo bobinatore, pronto per il successivo spettacolo; il terzo bobinatore serve per ricevere il film alla fine della programmazione, quando lo si deve riconsegnare alla ditta distributrice.

Sale cinematografiche. - Da quarant'anni a oggi l'esercizio ci- nematografico italiano ha limitato le proprie trasformazioni a rammodernamenti di ordine estetico delle sale e ad aggiornamenti tecnici per quanto riguarda l'automazione dei proiettori e la resa qualitativa degli stessi. Molte piccole sale di terzo e quart'ordine si sono trasformate in salette di prima visione.

All'estero, dove la concorrenza televisiva e il conseguente calo di spettatori hanno assunto proporzioni ben più vistose di quanto non sia avvenuto in Italia, sono state cercate formule nuove per richiamare al cinema il pubblico perduto. Una di queste nuove formule è il Metro Drive-In (ne esiste uno anche in Italia, ma è rimasto un caso isolato) che ha avuto particolare fortuna negli Stati Uniti.

In Svezia ha incontrato il favore del pubblico il mini-cinema, saletta da 70,80 posti a prezzi elevati e l'atmosfera da club-privé. Non mancano neppure le formule stravaganti come i cinema piscina del Sud Africa, i cinema-ristoranti inglesi o i cinema caffè della Rep. Dem. Tedesca. La formula più interessante è comunque quella dei "cinema multipli". Si tratta della trasformazione di sale da 2000-3000 posti in più sale da 2-300 posti. Questa esperienza risale al 1966 con la trasformazione del cinema "Metro" di Kansas City; da allora questo processo di trasformazione si è esteso ad altri centri statunitensi e di qui in Inghilterra, Francia, Belgio. Il vantaggio di questa formula consiste nell'offrire al potenziale spettatore la scelta, concentrata in un unico locale, di cinque, sei film diversi ponendolo nella stessa situazione psicologica di un cliente di un supermarket che attratto dalla varietà e dalla quantità della merce esposta, finisce spesso per comprare anche se inizialmente non ne aveva l'intenzione.

Altro vantaggio delle sale multiple è la riduzione relativa dei costi d'esercizio: grazie all'automazione molto spinta dei proiettori e alla dislocazione della cabina di proiezione che può essere la stessa per tutti i locali serviti, un solo operatore può sorvegliare e mandare avanti gli spettacoli di più sale. L'automazione, in queste salette multiple, normalmente si spinge oltre quella che riguarda il funzionamento dei proiettori, impegnando altre prestazioni tipiche dell'esercizio come l'accensione e lo spegnimento graduale delle luci in sala, l'apertura della tenda che protegge lo schermo, l'avvio e l'arresto di una musica di sottofondo durante gl'intervalli, ecc. Questi cinema multipli con un funzionamento automatizzato così spinto rappresentano la quintessenza della razionalizzazione delle spese di esercizio, ridotte al minimo anche per la centralizzazione dei servizi, unico ingresso, unica cassa, unico impianto di condizionamento d'aria, unico complesso di servizi igienici.

Economia. - In questi ultimi anni le frequenze nelle sale cinematografiche hanno subito un enorme calo. Ciò è particolarmente vero per i paesi industrializzati, per quei paesi cioè dove lo spettacolo televisivo e la motorizzazione hanno avuto uno sviluppo tale da costituire la grande alternativa al cinema nell'impiego del tempo libero. Così al progressivo calo della vendita dei biglietti fa riscontro una sempre maggiore diffusione degli apparecchi televisivi e di mezzi di trasporto individuale. Il mercato cinematografico italiano comunque, è, tra i mercati dei paesi industrializzati, quello che ha tenuto di più.

Dagli 819 milioni di biglietti venduti in Italia nel 1955 si è passati ai 663 milioni nel 1965 e ai 545 milioni nel 1975. In Francia, Inghilterra, Germania e Giappone, che dopo Stati Uniti e Italia sono i mercati cinematografici più interessanti, il numero dei biglietti venduti si è ridotto di circa la metà rispetto agli anni Sessanta.

Negli Stati Uniti l'industria cinematografica ha cercato di contrastare la concorrenza televisiva offrendo al pubblico prodotti che la televisione, proprio per i suoi limiti tecnici, non avrebbe potuto programmare, e cioè film altamente spettacolari, sia per quanto riguarda la realizzazione scenica, sia per quanto riguarda ritrovati tecnici sempre più sofisticati per dare all'immagine proiettata particolare ampiezza e una particolare brillantezza di colori. Ciò ha portato alla realizzazione di film di altissimo costo, film che solo le grandi industrie statunitensi erano in grado di realizzare e distribuire in tutto il mondo. Tra le industrie cinematografiche europee l'industria italiana è stata quella che meglio delle altre ha saputo contrastare lo strapotere dell'industria cinematografica statunitense. Potendo contare su un mercato che più degli altri aveva tenuto nei confronti della crisi e non potendo invece contare su grossi impegni finanziari per la realizzazione di film, l'Italia ha puntato. su film di costo medio o basso (rispetto al costo medio dei film americani) affidati a registi, tecnici e autori in grado di offrire comunque prodotti di alta qualità artistica o commerciale che sia.

Al fine di difendere la propria industria cinematografica i vari paesi europei ed extraeuropei hanno sviluppato una legislazione che da una parte sottopone a regolamentazione l'importazione di film stranieri, dall'altra favorisce il prodotto cinematografico nazionale attraverso la programmazione obbligatoria dei film dichiarati nazionali e il rimborso di parte dell'aliquota prelevata dal fisco sull'incasso al botteghino, in favore degli esercenti che programmano film dichiarati nazionali e in favore delle ditte produttrici di tali film. In Italia la legge n. 1213 che è quella relativa alla cinematografia, s'ispira a tali criteri.

Oggi il mercato di nessun paese può, da solo, offrire garanzie sufficienti di adeguato sfruttamento di un prodotto cinematografico nazionale. Perciò ha avuto e ha grande importanza l'istituto della cooproduzione.

In base a tale prassi un film viene prodotto da industrie di diversi paesi, da ognuno dei quali viene riconosciuto nazionale. Un film di cooproduzione viene così a godere dei vantaggi riservati ai film nazionali in ogni paese di appartenenza delle ditte che hanno partecipato alla realizzazione del film. Precise norme regolano i rapporti di cooproduzione tra paese e paese. In questi ultimi anni l'Italia ha cooprodotto film principalmente con la Francia, la Spagna e la Germania.

Vedi tav. f. t.

Bibl.: Note di tecnica cinematografica, Roma, Annate 1965-76; La nuova legge del cinema, in Quaderno dell'Amica, n. 1, ivi 1965; P. Uccello, Il montaggio e gli elementi espressivi del film, ivi 1966; N. Bau, Il Super 8. Single 8, Doppio Super 8, Milano 1968; M. Bongiovanni, Il linguaggio delle immagini, Torino 1968.

Storia del cinema.

Gli anni Sessanta e Settanta sono stati, per il cinema, particolarmente ricchi di proposte nuove. La più tipica è quel movimento che, protraendosi quasi per l'intero decennio Sessanta e svolgendosi ora parallelo al cinema tradizionale, ora, in taluni casi, sostituendolo radicalmente, è stato un po' dappertutto definito "Nuovo cinema" o "Cinema giovane".

Nasce, questo Nuovo cinema, in opposizione al cinema degli anni Cinquanta il cui fine era soprattutto lo spettacolo e che gli autori nuovi, per distinguersene, definiscono "cinema di papà", preferendogliene un altro tutto soggettivo, volutamente estraneo all'oggettività delle varie scuole realistiche fiorite nei precedenti vent'anni. Lo portano avanti, in Francia la Nouvelle vague, in Cecoslovacchia la Nova vlná, negli Stati Uniti il New american cinema, in Brasile il Cinema nôvo, in Germania il Giovane cinema tedesco, ma si estende e s'impone anche in molti altri paesi, tra i quali l'Ungheria, la Polonia, il Giappone, l'India, l'Unione Sovietica, la Svizzera, il Canada, la Svezia, la Iugoslavia.

Sue caratteristiche principali (anche se non comuni a tutti gli autori, in tutti i paesi): il rifiuto dei tradizionali canoni del racconto cinematografico, a cominciare dall'intreccio, sostituito dal punto di vista narrativo dall'ellissi, e dal punto di vista tecnico dal piano-sequenza al posto del montaggio a stacchi brevi; la trasformazione degl'impegni ideologici del realismo in impegni che, pur partendo spesso anche da presupposti politici, si esprimono soprattutto attraverso cifre traslate e soggettive; e la creazione, finalmente, dal punto di vista della produzione, di strutture diverse, per favorire una diffusione alternativa, secondo prospettive socio-culturali, e non solo, come prima, essenzialmente economiche.

Gli autori che dànno vita in Francia alla Nouvelle vague, sono, a partire dal 1958-59, soprattutto C. Chabrol (Le beau Serge, 1958; Les cousins, 1959), F. Truffaut (Les quatre cent coups, 1959), A. Resnais (Hiroshima, mon amour, 1959), J. L. Godard (A bout de souffle, 1959; Le petit soldat, 1960; Une femme est une femme, 1961; Vivre sa vie, 1962; Pierrot le Fou, 1965), J. Rivette (Paris nous appartient, 1958-60; L'amour fou, 1967-68) e, più tardi, L. Malle (Zazie dans le métro, 1960) ed E. Rohmer (La carrière de Suzanne, 1963; La collectionneuse, 1966). Vengono, la maggior parte, dal periodico cinematografico Les Cahiers du cinéma in cui hanno teorizzato una "politica degli autori" riconoscendo, come loro maestri, Renoir, Rossellini, Bresson e, per il cinema americano, Hitchcock. Caposcuola è Godard che anche quando la Nouvelle vague, dopo il 1968, tenderà a farsi riassorbire dal cinema tradizionale, proseguirà da solo nelle proprie sperimentazioni, sempre intento a nuove ricerche, sorrette da uno stile scarno e disadorno, nemico di qualsiasi concessione (fino al più recente Numéro deux, 1976).

La Nova vlná, in Cecoslovacchia, fiorisce attorno ad autori come M. Forman e I. Passer, poi emigrati negli Stati Uniti, come E. Schorm. e J. Němec, e come Š. Uher, J. Jakubisko, E. Havetta, tutti e tre, questi ultimi, della scuola di Bratislava. Forman si rivela nel 1963 con L'asso di picche e definitivamente s'impone con Gli amori di una bionda (1965) e Al fuoco i pompieri (1967), una trilogia sullo scontro fra generazioni in cifre ironiche e amare. Passer (Grigio pomeriggio, 1964; Illuminazione intima, 1965) segue le orme di Forman in una ritrattistica di vita provinciale rappresentata però più attraverso il filtro dello sconforto che non attraverso quello dell'ironia; Schorm si risolve in un arco che va da Il coraggio quotidiano (1963), una storia d'amore carica di un pessimismo tutto problematico, a Settimo giorno, ottava notte (1968-69), un "grottesco" esistenziale denso di allusioni politiche. Tra i film di Němec (oggi esule a sua volta) La festa e gli invitati (1965); tra quelli della scuola di Bratislava, la trilogia di Jakubisko (Gli anni di Cristo, 1966; Il disertore e i nomadi, 1967; Uccellini, orfani e pazzi, 1969), di esemplari qualità stilistiche, Festa al giardino botanico (1968) di Havetta, sorretto da fervide doti visionarie, e Il sole nella rete (1962) e Tre ragazze (1968) di Uher, considerato l'iniziatore della scuola, pur non essendone forse l'autore più ispirato.

Il New american cinema, nato dal cinema americano underground degli anni Cinquanta e dalle avanguardie storiche (dal primo R. Clair e dal primo Buñuel, a Léger, a Cocteau, a M. Ray), si sviluppa, di pari passo con la beat generation, in armonia con quella cultura alternativa avviata, negli Stati Uniti, da opere quali Sulla strada di J. Kerouac e L'urlo di A. Ginzberg. I suoi autori più celebrati, oggi anch'essi in gran parte riassorbiti dalle strutture del cinema merceologico, sono S. Brankhage (The art of vision, 1965), J. Mekas (New York diaries, 1949-68; The brig, 1964; Circus Notebook, 1966; G. Markopoulos (Twice a man, 1963; Illiac passion, 1967); A. Warhol (Tarzan and Jane regarded sort of, 1964; Sleep, 1964; Afternoon, 1966); The Chelsea girl, 1966; The nude restaurant, 1967, e - insieme con P. Morissey - Flesh, 1968; Trash, 1970; L'amour, 1970; Women in revolt, 1971; Heat, 1972). Il manifesto dal quale, nel 1960, erano partiti, diceva: "Non vogliamo film mistificatori, ben fatti, persuasivi, ma film grezzi e mal fatti, purché vitali. Siamo contro il cinema roseo, siamo per il cinema rosso sangue".

Rispetto, però, al cinema americano vero e proprio, e a differenza di quello che accade in altri paesi, il New american cinema è di tipo unicamente alternativo; l'altro cinema non solo non se ne fa sostituire ma, dal punto di vista tecnico e linguistico, gli tiene testa con successo, grazie ai veterani di Hollywood e via via, fra il 1960 e il 1970, anche alle nuove leve. Fra i veterani: R. Brooks (soprattutto con Elmer gantry, 1960, e Sweet bird of youth, 1962), J. Huston (da The unforgiven, 1960, a Reflections in a golden eye, 1967), E. Kazan, specie con la trilogia Wild river (1960), Splendor in the grass (1961), America, America (1963), B. Wilder, con le due commedie The apartment (1960) e One two three (1961) e il "musical" Irma la douce (1963). Fra le nuove leve: J. Schlesinger, emigrato dall'Inghilterra (Billy liar, 1963; Darling, 1965; Far from the madding crowd, 1967; Midnight cowboy, 1969; Sunday, bloody sunday, 1971), S. Kubrick, con Spartacus (1960), Dr. Strangelove (1964), 2001 A space odyssey (1968), A clockwork orange (1971), S. Peckinpah (The wild bunch, 1969; Tbe ballad of Cable Hogue, 1969), S. Pollack (They shoot horses dont they?, 1969, Jeremiah Johnson, 1971) e, finalmente, R. Altman che, prima di diventare uno degli autori di punta del cinema americano anni Settanta, dà come suo contributo agli anni Sessanta, film quali Countdown (1968) e That cold day in the park (1969).

Nuovo cinema, frattanto, anche in Brasile, il cinema nôvo, con un manifesto che, in modo forse un po' meno perentorio del New american cinema, si limita ad affermare: "Non pretendiamo di essere come Eisenstein, Rossellini, Ford, Fellini e Bergman. Il nostro cinema è 'nuovo' perché l'uomo brasiliano è nuovo, la problematica del Brasile è nuova, la nostra luce è nuova; per questo i nostri film sono diversi da quelli degli europei". Gli autori che di questi principi fanno la loro bandiera sono, soprattutto, N. Pereira dos Santos (Rio quarenta graus, 1954; Rio, zona morte, 1957; Mandacaru vermelho, 1961; O Bôca de Ouro, 1962; Vidas sêcas, 1963; El Justicero, 1967; Fome de amor, 1968; Um asilo muito louco, 1969), G. Rocha (Barravento, 1962; Deus e o diablo na terra do sol, 1964; Terra em transe, 1967; Antonio-das-Mortes, 1969) e R. Guerra (Os Cafajestes, 1962; Os Fuzis, 1964, Sweet Hunters, 1969); tutti ispirati a quella "estetica della fame e della violenza" che, saldamente radicata alla cultura nazionale, si trasforma via via in un'ardente riflessione critica sulla storia e la società brasiliane.

Un manifesto (Oberhausen, 1962) è alla base anche del Giovane cinema tedesco. "Il nostro cinema - sancisce - vuole libertà nuove. Libertà dalle esperienze convenzionali, libertà dalle coercizioni dell'industria, libertà dalle influenze di gruppi esterni. Nei confronti di quello che dovrà essere il nuovo cinema tedesco abbiamo delle idee chiare, spirituali, estetiche, sociali, e siamo pronti ad assumerne tutti i rischi. Il vecchio cinema è morto. Crediamo in quello nuovo". Tra i firmatari, A. Kluge, Leone d'oro a venezia nel 1968 con Artisti sotto la tenda del circo: perplessi, v. Schlöndorff (I tormenti del giovane Törless, 1966, Michael Kohlhaas, der Rebel, 1969), U. Schamoni (Es, 1965; Alle Jahre wieder, 1967), P. Fleischmann (Scene di caccia in Bassa Baviera, 1968). Autori che, presenti e attivissimi anche nel Settanta, non tarderanno a portare nuovamente il cinema tedesco a livelli internazionali. Come ai tempi di Murnau e di Lang.

In Ungheria il Nuovo cinema è rappresentato con particolare prestigio da M. Jancsó con I disperati di Sandor, 1965; L'armata a cavallo, 1967; Silenzio e grido, 1968; Venti lucenti, 1968, opere affidate tutte a una cifra stilistica di alta qualità visiva; da A. Kovács, con Gli intrattabili, 1965; Giorni freddi; 1965, I muri, 1966; Staffetta, 1970, in raro equilibrio tra ideologia e poesia; e da I. Szabó, con L'età delle illusioni, 1965; Il padre, 1966; Film d'amore, 1970, in cifre di lirismo visionario e soggettivo. In Polonia, dai film della seconda generazione cinematografica (succeduta alla prima di A. Ford e di W. Jakuboska): Fortuna da vendere, 1960, e La passeggera, di A. Munk; Madre Giovanna degli Angeli, 1961, di J. Kawalerovicz; Samson, 1961, Ceneri, 1965, e Paesaggio dopo la battaglia, 1970, di A. Wajda; seguiti, di recente, da quelli della terza generazione, avviata da K. Zanussi con il mediometraggio Morte di un padre provinciale (1967) e con Struttura di cristallo (1969), due film che hanno rivelato un autore oggi fra i più ispirati e rigorosi del suo paese (la riconferma: Illuminazione, 1972, e Bilancio di una quarantenne, 1975, votati, soprattutto il primo, a un tipo di racconto cinematografico a più piani, in cui l'ideologia e le tecniche si sublimano in poesia).

In Giappone, il Nuovo cinema si afferma invece soprattutto attraverso l'opera di un solo autore, Nasiga Oshima, alternativa a quel cinema commerciale che, dopo il Cinquanta, aveva sostituito il cinema eroico di Akira Kurosawa e di Kenji Mizoguchi (dal Quartiere dell'amore e della speranza, 1959, a Notte e nebbia del Giappone, 1960, fino ai più recenti Il bambino, 1968, La cerimonia, 1971, Sorellina d'estate, 1972). In India, attraverso i film di Satyajit Ray dopo la trilogia neorealistica di Apu (Pather Panchali, 1956; Aparajito, 1957; Apur Sansar, 1958), da Devi, 1961, a Charulata, 1964 e alle Avventure di Goophy e Bagha, 1969, e i film impegnati e polemici di Mrinal Sen da Neel Akashern, 1959, alla trilogia di Calcutta (Interview, 1971; Calcutta 71, 1972; Padatik, 1973).

In Unione Sovietica, l'affermazione del Nuovo cinema va di pari passo con quella di uno dei maggiori poeti del cinema contemporaneo, A. Tarkovskij (L'infanzia di Ivan, 1962; Andrej Roublev, 1966-69; Solaris, 1972; Lo specchio, 1975), teso, fra non pochi contrasti esterni, alla ricerca di una nuova estetica con basi ancora realistiche ma totalmente soggettive e affidate solo all'introspezione e alla memoria. Contemporaneamente con l'affermazione, a fianco del cinema tradizionale realizzato negli studi di Mosca e di Leningrado, del cinema giovane delle repubbliche asiatiche e transcaucasiche sovietiche: in Georgia, S. Paradjanov (L'ombra degli avi dimenticati, 1965), T. Abuldadze (La supplica, 1968), O. Ioseliani (La caduta delle foglie, 1967; C'era una volta un merlo canterino, 1973); in Lituania, V. Zalakjavicius (Nessuno voleva morire, 1965); nell'Uzbekistan, E. Ishmukkamedov (Tenerezza, 1966); nel Kirghizistan, il moscovita A. Michalkov-Koncialovskij (Il primo maestro, 1966), e i chirghisi B. Shamshiev (I papaveri rossi di Issik-kul, 1972) e T. Okeev (Questi sono i cavalli, 1965; Il cielo della nostra infanzia, 1967). Un cinema senza artifici, a contatto diretto con la natura, in equilibrio tra la saga e il canto.

In Svizzera, al centro del movimento di rinnovamento, linguistico e creativo, ci sono tre autori di lingua francese che debbono inizialmente alla televisione romanda non solo la loro autonomia espressiva, ma la libertà da ogni struttura industriale: A. Tanner, M. Soutter, C. Goretta, il Groupe 5 di Ginevra. Rigoroso e teorico, Tanner (Charles mort ou vif, 1969; La salamandre, 1971; Le retour d'Afrique, 1972-73; Le milieu du monde, 1974); realistico e "comportamentistico", Soutter (La lune avec les dents, 1966; Haschisch, 1968; La pomme, 1969; James ou pas, 1971-72; L'escapade, 1973-74); animato da affanni esistenziali ma non estraneo alla cronaca minuta, Goretta (Jean-Luc persecuté, 1968; Vivre ici, 1969; Le fou, 1970; L'invitation, 1973). Cui, più di recente, si sono aggiunti due autori di lingua tedesca, l'espressionistico e neo-romantico D. Schmid (Questa notte o mai più, 1972; La Paloma, 1974; L'ombra degli angeli, 1976) e il lucido e quasi rigido T. Koerfer con il "grottesco" La morte del direttore del circo delle pulci (1973) e Il factotum (1975), carico di sarcasmi kafkiani sul mondo impiegatizio.

In Canada, invece, la scuola (in cui consiste quasi per intero il cinema canadese francofono) è composta da un gruppo animoso di autori del Québec tra i quali soprattutto si distinguono J.-P. Lefebvre, M. Brault, G. Carle, C. Jutra, P. Perrault, G. Groulx, taluni portando avanti con successo le esperienze tradizionalmente canadesi del "cinema diretto" (Brault e Perrault), altri trovando, per il racconto a soggetto, nuovi moduli espressivi di solida efficacia (specialmente il Lefebvre di Le révolutionnaire, 1965, di Jusqu'au coeur, 1968, de La chambre blanche, 1969, di Q-bec my love, 1970, di Ultimatum, 1971-73, e, più di recente, di Les dernières fiançailles, 1974, e de L'amour blessé, 1975).

In Svezia, parallela al grande cinema di I. Bergman, tutto stretto attorno alla sua personalità irripetibile, s'impone l'attività di alcuni autori fermamente decisi a rompere con la tradizione (sia estetica, sia tecnica, sia morale): v. Sjöman, per primo, con le sue opere intenzionalmente provocatorie ma stilisticamente meditate e innovatrici (491, 1964; Il letto della sorella 1782, 1966; Sono curiosa, giallo, 1967; Sono curiosa, blu, 1968; Voi mentite, 1969), ma anche, insieme con lui, J. Troell, con il suo respiro epico-corale (Ecco la tua vita, 1966; Gli emigranti, 1971; I pionieri, 1972) e B. Widerberg, in equilibrio fra lirismo e impegno politico-sociale (Elvira Madigan, 1966; Adalen 31, 1969; Joe Hill, 1971).

In Italia si ripete, sotto certi aspetti, la situazione svedese: alcuni grandi autori da una parte - Antonioni, Fellini, Visconti - che aprono gli anni Sessanta con tre opere maggiori come, rispettivamente, L'avventura, La dolce vita, Rocco e i suoi fratelli, in cui, confermandosi l'autonomia della loro personalità, solo molto indirettamente possono dirsi influenzati dal Nuovo cinema; mentre, quasi contemporaneamente, Rossellini, preparandosi a un'attività televisiva che lo porta, con conseguenza neorealistica, a reinventare una nuova oggettività cinematografica, si rivela polemicamente estraneo ai soggettivismi di quegli anni. Dall'altra parte, dei giovani che, come B. Bertolucci (Partner, 1968), mostrano invece scopertamente di sentire, almeno in quegli anni, l'influenza delle nuove scuole e soprattutto di Godard. Fianco a fianco di un cinema di qualità edificato però più dalle ispirazioni singole degli autori che non dai suggerimenti di questa o quella corrente: P. P. Pasolini e il suo "cinema di poesia" (Accattone, 1961; Mamma Roma, 1962; Il vangelo secondo Matteo, 1964; Uccellacci e uccellini, 1966; Edipo re, 1968; Teorema, 1969), E. Petri, F. Rosi, G. Pontecorvo e il loro "cinema civile", M. Ferreri e la sua poetica del grottesco e dell'assurdo (dalla Donna scimmia, 1963, a Dillinger è morto, 1969), i fratelli Taviani e le loro esplorazioni ideologiche e stilistiche nei regni di utopia (Sotto il segno dello Scorpione, 1969).

In Iugoslavia, lo slancio innovatore dura solo una brevissima stagione che vede operare autori quali D. Makavejev (L'uomo non è un uccello, 1965; Un affare di cuore, 1967; Verginità indifesa, 1968), A. Petrovič (Due, 1961; Giorni, 1963; Tre, 1965; Ho anche incontrato degli zingari felici, 1967; Piove nel mio villaggio, 1969), P. Diordjevič (Il primo cittadino della piccola città, 1961; Il mattino, 1967; Ciclisti, 1969); Živojin Pavlovič (Il risveglio dei topi, 1967; Quando sarò morto e bianco, 1968), V. Mimica (Un avvenimento, 1969) e F. Štiglic (Il nono cerchio, 1960; Ballata per una tromba e per per una nuvola, 1961). Urn cinema spesso fuori dagli schemi, non solo quanto a ispirazioni, ma anche quanto a tecniche, che non tarda a incontrare difficoltà e ostacoli, soprattutto di natura ideologica; finendo, negli anni Settanta, per rientrare quasi totalmente nei ranghi. Come molto Nuovo cinema, del resto: in alcuni paesi sotto la pressione degli apparati burocratici, in altri sotto quella degli apparati industriali.

Lo sostituisce, nei paesi industrializzati, un cinema che, tornando al racconto tradizionale e a tutti gli elementi di richiamo, tende a ripagare gl'imprenditori degl'insuccessi finanziari cui li aveva esposti il Nuovo cinema (negli Stati Uniti soprattutto e in Francia, con la sola eccezione dell'Inghilterra in cui, al contrario, gli anni Sessanta avevano già visto spegnersi lo slancio innovatore del Free cinema del 1956, nonostante il T. Richardson di The loneliness of the long distance runner, il K. Reisz di Saturday night and Sunday morning e il L. Anderson di If). Affiancato adesso, questo cinema tradizionale, da un nuovo tipo di cinema alternativo (il cosiddetto "cinema militante") che, frantumando polemicamente i soggettivismi del Nuovo cinema, li trasfoma radicalmente in un'oggettività addirittura documentaria messa quasi sempre al servizio dell'ideologia.

Il ritorno alla tradizione, però, se per un verso autorizza esasperate punte commerciali (i nuovi filoni hollywoodiani dell'orrore, dai film "disastri" a quelli parapsicologici, e il recente diffondersi, sull'onda della nuova permissività, del cinema pornografico, hardcore e soft), per un altro verso non si rivela sempre avversario di nuove sperimentazioni, sia culturali, sia linguistiche. Lo testimoniano, negli Stati Uniti, i successi validissimi di R. Altman con Images (1972), Thieves like us (1973), Nashville (1975), di S. Lumet con Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975), di M. Forman con Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975); lo testimoniano in Francia film come Lacombe Lucien (1973) di L. Malle, e Histoire d'Adèle H. (1975) di F. Truffaut, e in Italia, oltre allo stesso Amarcord (1973) e Casanova (1976), di F. Fellini, gli ultimi film di L. Visconti (Morte a Venezia, 1970; Ludwig, 1973; Gruppo di famiglia in un interno, 1974; L'innocente, 1976), Cadaveri eccellenti (1976) di F. Rosi e, quasi programmaticamente, quel Novecento (1976) in cui B. Bertolucci, teorizzando il rifiuto del soggettivismo (anche del proprio in Partner), parte alla scoperta di un'oggettività che, nel suo ambito, gli permette comunque d'inventare: approdando con fortuna a un genere nuovo per il cinema italiano, la saga.

Contemporanei al fiorire del Nuovo cinema nel Sessanta o, dopo, al suo rifluire nel Settanta in schemi tradizionali, la nascita o il consolidamento, in alcuni paesi afro-asiatici e dell'America latina, delle singole cinematografie nazionali.

Nell'Africa nera, per es., è O. Sembene, nel 1966, a realizzare, nel Senegal, il primo lungometraggio africano, La noire de..., liberandosi sia dal mito della négritude, teorizzato proprio in Senegal dal poeta L. Sédar Senghor, presidente dello Stato, sia dal cinema etnografico di J. Rouch (proseguendo, sempre più solidamente, con Le Mandat, 1968; Emitai, 1971; Xala, 1974). Seguito, più tardi, da D. Écaré (Costa d'Avorio), con il suo Concerto pour un exilé, da O. Ganda (Niger), con Cabascado, e da Med Hondo (Mauritania), con Soleil d'O, un film in stupefacente equilibrio tra fantasia visiva e realtà quotidiana.

Nei paesi arabi, dopo le esperienze tradizionalistiche di Salah Abou Sei e la scuola marxista di Tewfiq Salah, si afferma, in Egitto, un autore come Shadi Abdel Salah (La mummia, 1968, e il cortometraggio Il contadino loquace, 1969) con una personalità in cui felicemente s'incontrano la modernità e la tradizione. Affiancato, in Algeria, da autori come M. Lakhdar Hamina (Chronique des années de braise, 1974), Abdelaziz Tolbi (Noua, 1972), Slim Raid (Vent du Sud, 1975); in Marocco da Souhel Ben Barka, ex allievo del Centro sperimentale di Roma (La guerre du pétrole n'aura pas lieu, 1974) e da Moumen Smihi (El Cherqui, 1975); in Siria da O. Amiraly (La vie quotidienne dans un village de Syrie, 1975); nel Kuwait da Khalid Siddik (Mare crudele, 1972; Il matrimonio di Zien, 1975); nello Sri Lanka da Lester James Peries, regista, fra il 1960 e il 1970, di una decina di film di colto impegno tra i quali Nidhanaya (1971), presentato a Venezia, e Madol Duwa (1974). Mentre, fra il 1968 e il 1975, esplode in Iran un cinema che non tarda a richiamare l'attenzione ammirata anche della critica occidentale: per un rigore realistico sempre felicemente sorretto da una colta e meditata ispirazione figurativa; in particolare: D. Mehrjui: La vacca, 1969-70; L'ingenuo, 1971; Il postino, 1971; Mina Cycle, 1974; e Sohrab Shadid-Saless: Un avvenimento semplice, 1973; Natura morta, 1974; All'estero, 1975.

In America latina nasce, a metà degli anni Sessanta, il cinema cubano: S. Alvárez (Hanoi, martes 13; La guerra olvidada) che assimila e matura in modo autonomo la lezione di D. Vertov e di J. Ivens; T. Guitiérrez Alea (soprattutto con Memorias del subdesarrollo, un film di particolare ricchezza espressiva), H. Solás, con il trittico Lucia (1966), J. Fraga (La Odissea del Generale José, 1969), M. O. Gómez, autore, quest'ultimo, di un'opera traboccante d'invenzioni visive, La primera carga al machete, 1969, in cui la storia viene attualizzata e rivissuta attraverso un'elaborata ma vitalissima operazione di stile. E nascono anche, pur tra difficoltà economiche e politiche, il cinema cileno di M. Littin, di R. Ruiz, di A. Francia e di H. Soto, e il cinema boliviano di J. Sanjinés (Ukamau, 1968; Sangue di condor, 1969), sorretto da un impegno che, pur privilegiando la politica sopra qualsiasi altro elemento, non si separa mai da un discorso culturale; soprattutto in Littin, apprezzato non solo per i suoi due film cileni, El chacal de Nahueltoro (1970) e Tierra prometida (1971), ma anche per il recente Actas de Marusia (1975), realizzato in esilio al Messico, dopo la caduta di Allende.

La prima metà degli anni Settanta, comunque, insieme con le nascite, le involuzioni, i ripensamenti, e insieme con i successi americani e italiani, vede anche due altre cinematografie riproporsi con sicuro fondamento: quella tedesca che, grazie alle esperienze solo in minima parte accantonate del Giovane cinema, si affaccia alla ribalta internazionale con opere mature d'indiscusso prestigio (Ognuno per sé e Dio contro tutti, 1975, di W. Herzog; L'onore perduto di Katharina Blum, 1975, di V. Schlöndorff, Der Starke Ferdinand, 1976, di A. Kluge) e quella spagnola in cui, a fianco di L. Berlanga, di C. Saura, di J. Camino e della pugnace scuola di Barcellona (v. Aranda, G. Suárez, C. Durán, J. Nunes) si rivelano degli esordienti (come R. Franco: Pascual Duarte, 1976) intenti a sperimentare con coraggio vie nuove e meditate. Nell'ambito, anch'essi, di quella restaurata oggettività che sembra ormai imporsi e definirsi come il segno tipico del cinema degli anni Settanta. Vedi tav. f. t.

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