CINEMATOGRAFIA

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1991)

CINEMATOGRAFIA

Mario Calzini
Lorenzo Quaglietti
Lorenzo Quaglietti
Mino Argentieri
Gian Luigi Rondi
Stefania Parigi-Angela Prudenzi-Roberto Silvestri
Virgilio Tosi
Mino Argentieri
Valentina Valentini
Mino Argentieri
Mino Argentieri

(v. cinematografo, X, p. 335; App. I, p. 420; II, I, p. 592; III, I, p. 384; cinematografia, IV, I, p. 446)

Aspetti tecnici

Innovazioni tecnologiche. - Benché il sistema di riproduzione dell'immagine e del suono abbia da tempo raggiunto un altissimo grado di qualità, negli ultimi anni sono state realizzate innovazioni che hanno fatto compiere alla c. ulteriori passi avanti sia nel campo dell'economia della produzione, sia in quello puramente tecnico. La stessa qualità dell'immagine e del suono si è modificata e già si può prevedere, in seguito al prepotente ingresso dell'elettronica nel cinematografo, una sorta di connubio tra video e film.

Macchine da presa. − Senza presentare grandi novità nel campo della meccanica, le nuove macchine da presa si distinguono per una maggiore compattezza e per una serie di piccole innovazioni che facilitano il lavoro dell'operatore (contatori e conta-fotogrammi digitali, regolazione elettronica della velocità, pratici sistemi di sincronizzazione con i registratori di suono, sistemi di guida dei movimenti della camera programmati da computer, ecc.).

È inoltre ora possibile applicare alle moderne camere un sistema (video control) che permette la visione della scena registrata sulla pellicola mediante il classico mirino e, contemporaneamente, su di un monitor: questo consente al regista di seguire l'inquadratura anche durante i movimenti di macchina. In alcuni casi si registra la scena su nastro magnetico per disporne subito e iniziare un primo montaggio.

Emulsioni sensibili. − Nel campo delle emulsioni, in particolare di quelle negative per il colore, l'uso di nuove tecniche nella formazione dei cristalli dell'alogenuro di argento ha portato a pellicole più sensibili e con minore granulosità. Ne risulta una assai maggiore definizione dei dettagli e una riduzione fino a quattro volte della quantità di luce richiesta durante le riprese negli studi. A questi miglioramenti si aggiungono coloranti più puri, una grande stabilità dell'immagine nel tempo, un migliore rendimento acustico del negativo per la registrazione del suono.

Doppiaggio e mixage elettronici. − L'uso del telecinema permette di trasferire le scene registrate con la pellicola cinematografica sul più economico e riutilizzabile nastro magnetico, del quale proficuamente ci si serve anche per il doppiaggio e per il mixage elettronici. Naturalmente si tratta di fasi intermedie (off line), dal momento che la qualità dell'immagine elettronica non è ancora all'altezza di quella cinematografica: il nastro, in sostanza, viene utilizzato come una copia di lavorazione. Dopo la trascrizione a mezzo telecinema la copia magnetica diviene copia di lavoro per i doppiatori o i fonici di mixage, i quali pertanto operano davanti a un monitor o allo schermo elettronico.

Ciò consente di sostituire ai vecchi ''anelli'' di pellicola dei semplici segnali elettrici di riferimento, da punto a punto, per mezzo dei quali viene programmato lo scorrimento del nastro da un certo fotogramma a un altro per essere poi rapidamente riavvolto, in modo da presentarsi pronto per un successivo passaggio. Eseguite in tal modo le varie prove, nel caso del doppiaggio si registra definitivamente il dialogo relativo a quel determinato frammento di film; nel caso del mixage si registrano, dosandone l'intensità e il tono, parole, musica ed effetti, componendo così il master magnetico definitivo. Parallelamente, liberata la copia di lavorazione su pellicola, il laboratorio di sviluppo e stampa può procedere al montaggio del negativo-scena in accordo con le sequenze previste dal montatore. Il master magnetico, dopo il mixage, viene infine trasferito su pellicola (negativo-suono) per essere accoppiato al negativo dell'immagine nella fase di stampa.

Il sistema presenta numerosi vantaggi pratici ed economici. Oltre a quello di snellire notevolmente il lavoro, esso evita lo spezzettamento fisico della copia di lavorazione cinematografica, o di un suo duplicato, in altrettanti frammenti o ''anelli'' di pellicola per il doppiaggio e la loro successiva ricostruzione per il mixage. Esso inoltre rende possibile il lavoro contemporaneo di più operatori: l'utilizzazione di copie magnetiche a basso costo (cassette video) consente al traduttore e adattatore dei dialoghi di lavorare con un comune registratore video domestico. Lo stesso possono fare il compositore delle musiche e il rumorista per predisporre gli effetti sonori. Tale maggiore flessibilità, oltre a ridurre i costi, favorisce la creatività degli autori e la qualità estetica del film.

Montaggio elettronico. − Consiste sostanzialmente in un sistema di ri-registrazione da uno o più nastri-sorgente a un nastro ricevente sul quale vengono riportate, in sequenza, le parti utili delle varie riprese: diciamo ciò senza entrare nei dettagli di una lavorazione tipicamente televisiva. Il cinema se ne può avvalere trasferendo le varie scene originali dalla pellicola al video e ricorrendo al montaggio elettronico. Una volta ottenuta la copia di lavorazione magnetica, questa, attraverso riferimenti quali il Key-Code o data-code può essere utilizzata per il taglio e il montaggio del negativo originale. Il sistema ha il vantaggio di evitare la lavorazione di una grande massa di pellicola e di poter fare varie prove di montaggio con tagli e incollature ''virtuali'', ottenuti premendo semplicemente un bottone.

Animazione. − In questo campo l'informatica ha praticamente rivoluzionato il metodo di lavoro, anche se alcuni autori sono rimasti fedeli al sistema classico. Riducendo o eliminando il lavoro manuale, complesso e difficile, che caratterizzava queste creazioni, è divenuto possibile generare immagini di oggetti o personaggi fantastici attraverso il computer. Si possono distinguere due tipi di lavorazione.

Un primo metodo, il più semplice, propone l'uso di macchinari a basso costo. Nel caso, per esempio, di dover animare l'immagine di un personaggio che corre e che è seguìto in carrello, si comunicano al computer i dati essenziali della scenografia che il personaggio dovrà attraversare, con le coordinate tridimensionali dei punti fondamentali del disegno. In questo modo, quando si immettono le coordinate di un qualsiasi punto di vista, la macchina fornisce, attraverso dei calcoli di geometria proiettiva, uno schema 3D dell'ambiente (detto, per l'essenzialità delle linee, a fil di ferro) che diventa il canovaccio di guida per completare il disegno manualmente.

Un secondo sistema, più complesso, richiede macchinari più sofisticati e dotati di grande memoria. Si utilizza una tavoletta grafica sulla quale si ''scrive'' con una penna elettronica che genera sul video, e poi registra su nastro, un disegno che può essere anche molto complesso, linee più o meno sfumate, ombre e riflessi creati automaticamente, coloritura con un semplice tocco di penna delle zone delimitate dalle linee di contorno. I colori e le densità disponibili sono in numero enorme (è possibile ottenere 16 milioni di sfumature differenti), il disegno può essere corretto con grande facilità, tanto che il pittore elettronico ha le stesse facilità espressive di quello classico, ma con maggiore immediatezza e semplicità nella creazione.

Nell'animazione l'aiuto maggiore del computer si ha comunque nella generazione del movimento: impostata una prima immagine nella quale si vuole introdurre un movimento, si può comandare alla macchina di creare altre immagini analoghe alla prima ma con alcuni elementi spostati di un determinato valore. Più sono le immagini intermedie tra la prima e l'ultima predisposta, più lento sarà il movimento.

Naturalmente, per l'uso cinematografico del sistema, non si può utilizzare lo standard televisivo a 625 linee, data la ridotta definizione che si otterrebbe sullo schermo, una volta trasferita l'animazione su pellicola. Un quadro video standard contiene infatti circa 270.000 pixels (informazioni elementari) contro le quasi dieci volte tanto ottenibili su fotogramma cinematografico. La limitazione del video è dovuta alla difficoltà di trasmettere via etere un numero di informazioni più elevato delle 270.000 x 25 al secondo attualmente possibili. Ma poiché nella registrazione delle immagini animate non è necessaria la trasmissione via etere, basta solo registrare sul nastro, con uno standard più sofisticato, tutte le informazioni che il computer ha elaborato e poi trasferirle progressivamente su pellicola, anche assai lentamente, fotogramma per fotogramma, senza bisogno di trattare un numero di informazioni elevatissimo nell'unità di tempo, senza cioè operare ''in tempo reale'' in modo da ottenere alla fine su film tutti i dettagli disegnati elettronicamente.

La trascrizione avviene con macchine speciali quali il laser beam recording o l'electronic beam recording, che, rispettivamente, con un raggio laser o con un pennello di raggi elettronici, riportano sulla pellicola le informazioni registrate sul nastro magnetico.

Effetti speciali. − Pur non potendo ancora dichiarare obsoleti sistemi classici di lavorazione sul film come il travelling matte (Blue-back) e il front projection, anche in questo campo l'elettronica viene in aiuto al film con sistemi che renderanno più semplice ed economica la produzione di effetti complessi. La televisione ha reso di uso corrente la manipolazione delle immagini, rotazioni, ingrandimenti, rimpicciolimenti, sovrapposizioni o aggiunta di fondali (croma-key), realizzati da una console, premendo alcuni bottoni. Anche in questo caso, la difficoltà non consiste tanto nella creazione degli effetti registrati su nastro, quanto nella ridotta definizione del video standard rispetto alle esigenze dello schermo cinematografico. Si ricorre perciò, come per l'animazione, a successive trascrizioni non ''in tempo reale'' o a nuovi standard in alta definizione in grado di migliorare la riproduzione dei dettagli e rendere l'effetto speciale il più realistico possibile. Uno dei sistemi in uso, sia pure in via sperimentale, consiste nella utilizzazione del nuovo standard detto HDTV (Hight Definition Television), per cui vedi oltre, o di standard ancora più definiti.

Apparati sonori. − Il miglioramento di qualità della pellicola per il negativo-suono ha consentito di ottenere una riproduzione assai superiore a quella dei primi anni Ottanta. I moderni negativi-suono consentono la registrazione di frequenze al di sopra dei 12.000÷13.000 Hz, estendendo la banda del 30÷40%. La colonna sonora ha potuto cos'i riprodurre nei cinema, senza distorcerli, suoni di frequenze assai superiori ai 7÷8000 Hz di un tempo.

Oltre all'allargamento della banda di frequenze registrabili si ha un nuovo sistema per ridurre il rumore di fondo che si aggiunge a ognuna delle trascrizioni, da nastro a nastro, a cui si è obbligati durante il doppiaggio, la realizzazione degli effetti e soprattutto in fase di mixage. Grazie a tale sistema all'atto della trascrizione si rinforzano i segnali più deboli in modo che vengono registrati a un livello superiore al rumore di fondo. Operando una distorsione inversa, all'atto della riproduzione, si riportano i segnali deboli a un più basso livello, riducendo contemporaneamente il rumore di fondo fino al punto di annullarlo. Il sistema (Dolby System) è brevettato e porta il nome del suo ideatore, R. Dolby, ma sistemi analoghi sono apparsi sul mercato eludendo più o meno il brevetto originale.

Un altro notevole passo nel campo del suono è stato fatto con la realizzazione della stereofonia cinematografica.

Pur rimanendo in uso il sistema delle piste magnetiche per il 70 mm, il 35 mm si avvale, dalla fine degli anni Settanta, di una tecnologia che utilizza, con opportune modifiche, lo spazio e il sistema ottico di stampa della colonna sonora classica: su di essa sono impresse due piste parallele e indipendenti che modulano la luce per eccitare due diverse cellule solari. Si hanno così due segnali separati che contengono, oltre alla modulazione del suono, anche alcuni segnali ausiliari.

Un processore acquisisce questi segnali e compone il suono smistandolo ai vari altoparlanti, tre dietro lo schermo e un certo numero sui lati e sul fondo della sala cinematografica. Mentre ai riproduttori posti dietro lo schermo è affidato il compito di dare l'effetto stereofonico (al centrale, in genere, è affidato il dialogo), quelli lungo il perimetro della sala entrano in funzione, comandati dal processore, in determinati momenti dell'azione, per dare allo spettatore la sensazione di essere al centro dell'azione, e non semplicemente davanti.

Sale speciali. − Col proposito di riportare lo spettatore dalla visione televisiva domestica del film a quella pubblica, anche la sala si viene modificando. Un sistema detto IMAX propone uno schermo di grandissime dimensioni (250 m2, come un campo di tennis), posto davanti a un anfiteatro, che consente agli spettatori di godere di un grande angolo visuale. La pellicola è del formato 70 mm ma lo scorrimento orizzontale e il passo pari a 15 perforazioni. Questo porta a una superficie del fotogramma di 3500 circa mm2, contro i meno dei 300 mm2 del fotogramma classico 35 mm: sono intuibili il numero di dettagli riprodotti e l'efficacia dello spettacolo.

Il sistema OMNIMAX si distingue dal precedente per avere uno schermo emisferico. Gli spettatori sono, questa volta, posti su poltrone che possono essere reclinate in modo da avere una visione quasi verticale, come nei planetari. Gli obbiettivi utilizzati sia per la ripresa sia per la proiezione sono del tipo fish-eye, che permettono di correggere e adattare l'immagine alla sfericità dello schermo. Altri sistemi particolari di proiezione sono lo show-scan e il cine 2000.

HDTV, la televisione per il cinema. − Nei primi anni Ottanta è stato creato in Giappone un sistema televisivo a 1125 linee, mentre sulla fine del decennio in Europa si è realizzato un sistema a 1250 linee. Lo scopo è quello di fornire al teleutente una trasmissione da satellite o da cavo di alta qualità. Non essendo ancora codificati gli standard di trasmissione, ed essendo realizzata solo in Giappone la trasmissione regolare da satellite (in Europa solo sperimentale), si è utilizzato il sistema per il cinema, con telecamere ad alta definizione al posto delle macchine da presa. I nastri magnetici ottenuti sono stati montati elettronicamente e il master finale è stato trascritto su pellicola. Anche se il risultato non è lontano da quello ottenuto con il film, notevoli difficoltà economiche e tecniche impediscono, ancora per un certo tempo, l'uso regolare del sistema.

Bibl.: Journal of SMPTE, annate 1970-90: P. Uccello, Cinema, tecnica e linguaggio, Roma 19872.

Coproduzione. - La coproduzione consiste nella realizzazione di un film mediante il concorso di capitali, artisti, tecnici e servizi di due (coproduzione bipartita) o più (coproduzione tripartita, quadripartita, ecc.) paesi, sulla base di accordi tra governi (in mancanza si ha la pura e semplice compartecipazione) e, in teoria almeno, vincolanti per quanto concerne le modalità e le misure degli apporti finanziari, organizzativi, tecnici e creativi.

In rapporto alla consistenza di tali elementi, si possono avere coproduzioni maggioritarie, minoritarie ed equilibrate, a seconda che la partecipazione finanziaria di uno dei paesi sia superiore o inferiore al 50% (con un minimo, di norma, del 30%) ovvero sia paritetica. Le coproduzioni maggioritarie e minoritarie richiedono il cosiddetto ''gemellaggio'': alla coproduzione maggioritaria o minoritaria di un paese deve cioè corrisponderne una, a sua volta alternativamente minoritaria o maggioritaria, dell'altro o degli altri paesi. Nelle coproduzioni equilibrate, il capitale finanziario è al 50%; esse sono conseguentemente esenti da ogni obbligo di ''gemellaggio'', così come di regola lo sono i film riconosciuti ''d'importanza artistica eccezionale'', per i quali la quota minoritaria può scendere al 20% del costo del film. Caratteristica essenziale (e ragione d'essere) del film di coproduzione è di poter fruire di tutte le agevolazioni e le provvidenze previste dalla legislazione dei paesi coproduttori dei quali esso assume automaticamente la nazionalità.

Il primo accordo di coproduzione è stato stipulato tra l'Italia e la Francia il 19 ottobre 1949; intese analoghe sono successivamente intervenute con l'Argentina, l'Austria, il Belgio, il Brasile, la Bulgaria, il Canada, la Cecoslovacchia, la Gran Bretagna e l'Irlanda, il Messico, la Repubblica Federale di Germania, la Romania, l'Unione Sovietica, la Spagna e la Svezia.

Contrastata polemicamente al suo nascere da quanti, non del tutto a torto, paventavano che il film perdesse la sua identità culturale, la coproduzione si è largamente affermata in Italia, in Francia, in Spagna e nella Repubblica Federale di Germania, in particolare negli anni Cinquanta e Sessanta. Indubbiamente vantaggiosa dal punto di vista economico e spesso utile sotto il profilo artistico (non pochi film d'autore hanno visto la luce grazie alle possibilità di finanziamento e di sfruttamento aperte dagli accordi di questo tipo), la coproduzione ha dato tuttavia spazio a numerose e gravi forme di deviazione e di stravolgimento delle iniziali finalità, al punto da richiedere indagini da parte delle autorità competenti.

La sua non dichiarata ma pur esistente intenzione concorrenziale con il prodotto cinematografico hollywoodiano è stata del resto vanificata dall'abile politica delle succursali europee delle case nord-americane, inseritesi con profitto nel giro speculativo del sistema. La crisi generale del cinema da un lato, le non poche critiche sollevate in Italia e soprattutto in Francia dall'altro, nonché i molti inconvenienti pratici connessi con la clausola del ''gemellaggio'' hanno a poco a poco disincentivato l'istituto della coproduzione. La normativa CEE al riguardo ne ha d'altronde assorbito in gran parte i moventi e le funzioni

Distribuzione. - La distribuzione, o noleggio, è il settore dell'attività cinematografica che si pone tra la produzione e l'esercizio con il compito di curare per conto della prima il noleggio dei film presso il secondo, alle migliori condizioni possibili di rendimento economico. A tal fine essa impone (se ne ha la forza e se la legge non disciplina la pattuizione tra le parti) oppure contratta condizioni (cessione del film a percentuale sugli incassi o a prezzo fisso) e metodi che possono essere: cessione del film dopo preventiva visione; ''a scatola chiusa'', sulla base del titolo e dei nomi del regista e degli interpreti; ''in blocco'', vale a dire più film contemporaneamente, uno solo dei quali richiesto dall'esercente. Tali modalità, pur diverse nei particolari da paese a paese, sono, nel mondo occidentale, sostanzialmente analoghe. Il noleggiatore può peraltro acquistare dal produttore tutti i diritti di sfruttamento del film e distribuirlo in proprio, a suo esclusivo interesse; a sua volta il produttore può anche svolgere, sia pure con strutture autonome, l'attività di noleggiatore. Così è stato per la Pathé e la Gaumont in Francia, l'Ufa in Germania, la Sasp di S. Pittaluga prima e poi Titanus, la Lux, la Scalera, ecc. in Italia; e per tutte le grandi case (majors) hollywoodiane sul mercato domestico e nel mondo.

A cominciare dagli anni Settanta, le case distributrici come diretta emanazione della produzione si sono andate riducendo e oggi sono pressoché scomparse: le stesse majors statunitensi, alle quali è d'obbligo riferirsi come al modello classico di integrazione tra produzione e noleggio (ed esercizio) si sono trasformate in noleggiatrici (su scala planetaria, e questo le contraddistingue) di film di produttori terzi, ancorché da esse finanziati.

Nata quando la produzione, con la scomparsa del cinema ambulante e il diffondersi delle sale cinematografiche, trovò più conveniente noleggiare i film all'esercente anziché venderglieli a un tanto il metro, la distribuzione ha assunto un ruolo sempre più determinante specie laddove, come in Italia, l'alto rischio dell'investimento ha reso difficile il reperimento dei capitali necessari alla produzione. La distribuzione, mediante il cosiddetto ''minimo garantito'' (corresponsione anticipata al produttore di una somma da recuperarsi sugli introiti del film, se e in quanto i risultati economici complessivi lo consentano), è venuta partecipando allo stesso processo produttivo attraverso una forma anticipata di finanziamento. Ciò in taluni casi ha condizionato negativamente anche le scelte tematiche dei film, in omaggio a un concetto di commercialità che ha come obiettivo la reiterazione di schemi narrativi già collaudati e favorevolmente accolti dal pubblico, provocando in tal modo un calo di qualità. Se un'influenza tanto estesa e profonda è innegabile (la storia del cinema ha conosciuto numerose intromissioni della distribuzione che talvolta hanno alterato perfino l'intreccio dei film), è doveroso riconoscere per contro il contributo talvolta recato dalla distribuzione alla sopravvivenza e anche all'affermazione di talune c. nazionali e di nuovi autori.

Ristorno. - È il contributo finanziario che lo stato assegna ai film prodotti con il concorso determinante di laboratori, teatri di posa, maestranze, personale tecnico e artistico aventi nazionalità italiana. Introdotto nel 1931 e soppresso nel 1933, fu ripristinato nel 1938 e sospeso durante il regime della repubblica di Salò. È stato reintrodotto nel 1949, con l. 29 dicembre n. 958. Consiste in una sovvenzione calcolata in proporzione agli incassi dei film, secondo una percentuale che, nel corso degli anni, ha avuto variazioni. Il meccanismo predisposto dai legislatori, connesso com'è all'andamento del mercato, ha sempre favorito i film di maggior successo commerciale, a prescindere dai loro valori culturali e artistici. Il sistema è stato adottato anche da altri paesi dell'Europa occidentale. Il progetto di legge sul cinema presentato in Italia nel 1989 ne prevede l'abolizione.

Bibl.: L. Bizzarri, L. Solaroli, L'industria cinematografica italiana, Firenze 1958; L. Quaglietti, Storia economico-politica del cinema italiano 1945-1980, Roma 1980; P. Bafile, Le regalie dello Stato, in Cinemasessanta, 162, ivi 1985.

Storia del Cinema

Il cinema negli anni Ottanta ha quasi dovunque continuato a rispecchiare la situazione generale delineatasi negli anni Settanta: un ritorno alla tradizione (nel linguaggio, nei temi), sia per far fronte, da una parte, alle delusioni dell'industria dopo le impennate estetiche del cinema degli anni Sessanta (quelle nouvelles vagues cui aveva arriso solo il consenso della critica, con scarse risposte da parte del pubblico), sia per riuscire a opporsi, da un'altra parte, al crescente successo dello spettacolo televisivo cui, in molti paesi, aveva addirittura corrisposto una caduta verticale delle affluenze degli spettatori nei cinematografi. Da qui i grandi spettacoli, suscettibili di attirare vistosamente l'attenzione del pubblico, e in molte occasioni, di conseguenza, l'esasperazione di certi generi (come nel caso di quel cinema ''demenziale'', negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, che, in modo quasi surreale, portava alle estreme conseguenze il cinema comico tradizionale).

Il primo a dar segni di voler continuare su questa linea, dopo quanto accaduto negli anni Settanta, è stato, ancora una volta, il cinema statunitense, con numerosi filoni destinati a catturare facilmente l'interesse delle platee. Su questa linea sono soprattutto registi come G. Lucas e S. Spielberg, da soli o in collaborazione, che danno spazio sia alla fantascienza, come già negli anni Settanta (The empire strikes back, L'impero colpisce ancora, 1982, séguito di Star wars, Guerre stellari, 1977; E.T. The extraterrestrian, E.T. L'extraterrestre, 1982), sia alla grande avventura (Indiana Jones and the temple of doom, Indiana Jones e il tempio maledetto, 1984); affiancati da tutta una serie di operazioni commerciali fortunatissime o costruite su personaggi di abituale richiamo, come di nuovo James Bond o, adesso, i cicli di Rambo con S. Stallone e quelli, altrettanto violenti, affidati alle interpretazioni di H. Schwarzenegger. Senza, con questo, accantonare del tutto il cinema d'autore, ancora rappresentato da J. Huston (Prizzi's honour, L'onore dei Prizzi, 1985; The dead, 1987, uscito postumo) e dai più giovani M. Scorsese (Raging bull, Toro scatenato, 1980; The king of comedy, Re per una notte, 1982; The last temptation of Christ, L'ultima tentazione di Cristo, 1988), L. Kasdan (The big chill, Il grande freddo, 1984; Silverado, 1985), J. Landis, esponente del ''demenziale'' (The Blues brothers, I fratelli Blues, 1980; An American werewolf in London, Un lupo mannaro americano a Londra, 1983); cui sul finire del decennio si è venuta aggiungendo una moltitudine di altri registi, tutti sempre attenti, però, dopo le difficili esperienze degli anni Sessanta, a non perdere il contatto con il pubblico (A. Burns, D. Mamet, O. Stone, B. Edwards, S. Parker); con un posto a parte, e non solo negli ultimi anni degli Ottanta, per W. Allen che, più di tutti e sopra tutti, ha continuato a proporsi come l'autore più personale, completo e ispirato del cinema statunitense con opere quali Stardust memories (1980), decisamente bergmaniano, Zelig (1983), The purple rose of Cairo, La rosa purpurea del Cairo (1985).

Meno influenzato che non in passato dal cinema americano, il cinema inglese invece ha goduto negli anni Ottanta di una nuova ''rinascenza'' culturale che, pur favorita in parte anche da apporti televisivi (soprattutto il Channel Four), estranei però a preoccupazioni commerciali, ha consentito il fiorire di piccoli film di qualità, tutti contraddistinti da un'osservazione spesso acre e polemica della società britannica o da ricerche sull'immagine e sul cinema portate non di rado, pur attraverso l'analisi della realtà, fino al barocco (tra i primi S. Frears e D. Jarman, tra i secondi P. Greenaway), lasciando però anche spazi alle abituali divagazioni di K. Russel (Gothic, 1986), e alla costante ricerca culturale e letteraria di J. Ivory: Quartet (1981); Heat and dust, Calore e polvere (1982); The Bostonians, I Bostoniani (1984); Maurice, da H. Foster (1987).

Senza una linea precisa, al contrario, ma con autori che hanno continuato a maturare all'interno di carriere in cui si erano felicemente distinti in passato, è il cinema francese, dove soprattutto L. Malle (Au revoir mes enfants, Arrivederci ragazzi, 1987), ma anche, nei suoi ultimi film, F. Truffaut (Le dernier métro, L'ultimo metrò, 1980; Vivement dimanche, Finalmente domenica, 1982), A. Resnais (La vie est un roman, La vita è un romanzo, 1983) e B. Tavernier (Un dimanche à la campagne, Una domenica in campagna, 1984), hanno potuto portare avanti delle ricerche personali che, isolandoli nel contesto di una produzione sempre più facile, hanno dato loro priorità estetiche qualificatissime. Come, a cavallo tra cinema francese e cinema svizzero, il loro collega J. L. Godard, sempre più chiuso in se stesso ma prodigo di invenzioni linguistiche incontestabilmente suggestive (Prénom Carmen, 1983; Je vous salue Marie, 1984; Detective, 1985).

Una situazione quasi analoga nel cinema italiano (v. italia: Cinema, in questa App.), da una parte solo attento a esigenze di cassetta, da un'altra stretto attorno a un gruppo di autori che, morti nel precedente decennio V. De Sica, R. Rossellini, L. Visconti, ne hanno continuato l'eredità con felice autonomia, soprattutto P. e V. Taviani, con il film più significativo degli anni Ottanta, La notte di San Lorenzo (1982), splendido incontro fra il cinema, la musica, la cronaca, il teatro, e il Fellini de La nave va (1983), di Ginger e Fred (1985) e de La voce della Luna (1989), sempre infiammato da una fantasiosa, nostalgica visionarietà, con altissimo stile. Affiancati da B. Bertolucci con il trionfo internazionale dell'Ultimo Imperatore (1988), da F. Rosi (Tre fratelli, 1981), da E. Scola (Il mondo nuovo, 1982; Ballando ballando, 1983; Che ora è, 1989) e, sempre proficuamente sulla breccia, specie in cifre d'umorismo, da M. Monicelli (Amici miei Atto II, 1982).

Voci anche più isolate nelle altre c. maggiori. In quella tedesca, quasi in declino dopo i fulgori ormai lontani del suo Giovane Cinema, si impone forse soltanto W. Wenders (Der Stand der Dinge, Lo stato delle cose, 1982; Der Himmel über Berlin, Il cielo sopra Berlino, 1986); la svedese resta ferma a I. Bergman, e all'ultimo grande film della sua carriera cinematografica, Fanny och Alexander, Fanny e Alexander (1983); quella giapponese, tornato in secondo piano Nagisa Oshima, si affida unicamente all'anziano ma sempre splendido Akira Kurosawa, con due film di largo respiro epico e corale, Kagemusha (1980) e Ran (1985); quella sovietica, non ancora rincuorata dalla perestrojka di Gorbačëv, si propone ancora con A. Tarkovskij, anche se il suo ultimo film, dopo Nostalghia (1983), Offret/Sacrificatio, Sacrificio (1987), sarà realizzato all'interno dell'industria cinematografica svedese; quella polacca continua a costruirsi attorno ad A. Wajda (Czlowiek z marmuru, L'uomo di marmo, 1976; Czlowiek z zelaza, L'uomo di ferro, 1981) e K. Zanussi (Illuminacja, Illuminazione, 1973; Struktura Krysztatu, Struttura di cristallo, 1979), con la nuova proposta di K. Kielowski (Dekalog, Decalogo, 1989). Voci giovani e nuove, però, si fanno avanti negli anni Ottanta all'interno delle c. africane: nel Mali, in Etiopia, nel Burkina Faso, in Tunisia. Mentre in Spagna, morto L. Buñuel (1983), si affaccerà, pur discusso, un suo altrettanto sulfureo successore: P. Almodóvar. Vedi tav. f.t.

Bibl.: A. Tassone, Kurosawa, Firenze 1981; G. P. Brunetta, Storia del cinema italiano dal 1945 agli anni Ottanta, Roma 1982; Cinemasia, 1986; H. Dumont, Histoire du cinéma suisse, Losanna 1987; R. Fischer, J. Nembus, P. Taggi, Il nuovo cinema tedesco 1960/1986, Roma 1987; G. Fofi, M. Morandini, G. Volpi, Storia del cinema, Milano 1988; M. Guidorizzi, Cinema americano 1960-1988, Verona 1988; G. Rondolino, Storia del cinema, Torino 19882.

Cinematografie nazionali. - Diamo qui di seguito, suddiviso per aree continentali e paesi, un resoconto delle c. nazionali per quegli stati che non hanno, in questa Appendice, trattazioni relative ad altri settori di attività culturale e artistica. Per i rimanenti stati si rinvia alla sezione ''cinema'' delle singole voci.

Africa. − Angola. − La nascita e lo sviluppo della c. in Angola seguono l'evolversi delle vicende politiche del paese, indipendente dal 1975. I primi documenti filmati si devono a cineasti legati al Movimento per la liberazione, come S. Maldoror. Suo è il lungometraggio che ha dato un notevole impulso al nascente cinema angolano, Sambizanga (1972), girato in Congo e proiettato in Angola soltanto dopo l'indipendenza. A partire dal 1975 la c. ha avuto un considerevole sviluppo, grazie anche all'impegno dell'Istituto di Cinema; tra il 1976 e il 1982 si sono prodotti molti medio e cortometraggi, soprattutto a carattere documentaristico. L'impegno politico per la costruzione di una società moderna e la custodia delle tradizioni sono i temi che ora si intrecciano ora si oppongono nella produzione cinematografica angolana.

Tra le personalità di rilievo spiccano A. Olez, A. Rebelo e R. Duarte de Carvalho. Il primo, pittore e regista nato nel 1951, è autore di due significativi documentari: Carnaval (1978) e No caminho das estrelas (Il cammino delle stelle, 1980), omaggio poetico alla figura di Agostinho Neto. R. Duarte è invece il regista di dieci documentari sulle tradizioni del popolo dei Mumulia raccolti sotto il titolo unitario Presente angolano/Tempo Mumulia (1979-81), e di quello che viene considerato il miglior film realizzato in Angola, Nelisita (1982), dove fondendo documentarismo e fiction si narra la leggenda di un giovane che affronta gli spettri pur di salvare il proprio villaggio. Benché altri autori si siano affacciati alla ribalta − O. Fortunato, C. Henriques, J. Jardim, F. Henriques − la produzione di film dal 1982 si è pressoché fermata per le enormi difficoltà organizzative ed economiche, e il concomitante affievolirsi dell'impegno politico.

Benin. - La c. del Benin segue le linee di sviluppo degli altri paesi dell'Africa francofona: agli interessi etnologici degli stranieri corrisponde la nascita di un documentarismo locale, legato all'attualità. Sotto l'apprendistato francese si formano i primi registi: P. Abikanlou e R. De Medeiros. Abikanlou realizza, nel 1974, il primo lungometraggio nazionale, Sous le signe du Voudou, la storia di un contadino che trasgredisce ai rituali del dio Voudou e ne subisce la vendetta. Dopo aver girato i cortometraggi Le roi est mort (1970), sulle vicende di Behanzin, ultimo sovrano del Dahomey, e Silence et feu de brousse (1972), sullo scontro tra cultura occidentale e cultura africana, anche De Medeiros realizza il primo lungometraggio, Le nouveau venu (1976), sui contrasti generazionali.

La svolta marxista-leninista del governo militare salito al potere nel 1972 porta, nel 1974, al mutamento del nome del paese (da Dahomey a Benin) e di conseguenza a quello delle istituzioni: l'organismo statale preposto alla promozione cinematografica, l'ONACIDA, diventa l'OBESI.

La nazionalizzazione del cinema, sottoposto a pesanti direttive di regime, conduce verso la regressione e la crisi. Abikanlou lascia il paese mentre De Medeiros deve smettere di lavorare. Negli anni Ottanta si segnala soltanto un nuovo regista, F. Okioh, che, dopo alcuni documentari, gira nel 1985 Ironou, un film coraggioso sullo scontro tra opposizione e potere costituito.

Burkina Faso. − Prima dell'indipendenza (1960) in Alto Volta vengono girati quasi soltanto documentari firmati da registi francesi con prevalenti interessi antropologici: J. Capron, S. Ricci, J. Rouch. Nel 1961 il ministero dell'Informazione è dotato di una Sezione Cinema per la realizzazione di cortometraggi didattici sull'educazione sanitaria, l'alimentazione, l'agricoltura. È tuttavia la Francia che continua a controllare l'esigua produzione così avviata. Ancora nel 1969 le uniche sei sale esistenti nel paese appartengono a società francesi, la SECMA e la COMACICO. Soltanto nel 1970 si procede alla nazionalizzazione dell'esercizio creando la SONAVOCI (Société Nationale Voltaïque du Cinéma), mentre il monopolio della distribuzione resta in mano ai Francesi. Un fondo per la promozione e lo sviluppo del cinema voltaico, costituito utilizzando una percentuale degli incassi (10%), consente di realizzare, nel 1972, il primo lungometraggio di finzione, Le sang des parias, di Djim Mamadou Kola, sul problema della divisione in caste. Nei dieci anni seguenti vengono prodotti soltanto altri due lungometraggi: M'Ba Raogo (1975), un film sullo scontro tra tradizioni rurali e modernizzazione, di A. Roch T. Taoko, e Sur le chemin de la réconciliation (1976) di R.-B. Yonli, che ha per tema le lotte elettorali. Nel frattempo Ouagadougou, la capitale del paese, diviene sede di istituzioni e strutture interafricane quali il CIDC (Consortium Interafricain de Distribution Cinématographique, 1972) e il CIPROFILMS (Centre Interafricain de Production de Films, 1974). Vero e proprio centro irradiatore per l'intero cinema africano, Ouagadougou ospita anche, dal 1969, un festival permanente, il FESPACO. È sede inoltre, dal 1985, della FEPACI (Fédération Panafricaine des Cinéastes) e, dal 1976, della prima scuola di formazione professionale del continente, chiusa nel 1987. Qui si trovano infine gli stabilimenti della CINAFRIC, una società di produzione dotata di studios abbastanza attrezzati da cui usciranno i maggiori film degli anni Ottanta.

Nel 1979 il governo istituisce il Centre National de Cinéma affidandone la direzione a G. Kaboré, con il compito di produrre film educativi e didattici. Sotto l'auspicio del Centro riprende, dal 1982, anche la produzione di lungometraggi di finzione: Wênd Kûuni ("Dono di Dio", 1982), storia di un trovatello adottato da una famiglia di contadini, dello stesso G. Kaboré, che riceve molti riconoscimenti di pubblico e di critica a livello internazionale; Paweogo ("L'emigrante", 1982) di Sanou Kollo, sulle disavventure di un giovane contadino che vuole emigrare in Costa d'Avorio, e Jours de tourmente (1983) di P. Zoumbara, che ha per tema il contrasto tra tradizione e modernizzazione nelle campagne. La ripresa produttiva raggiunge il proprio acme a partire dal colpo di stato del 1984 che cambia il nome dell'Alto Volta in Burkina Faso. Per interesse diretto del presidente, T. Sankara, il cinema nazionale conosce infatti un notevole sviluppo industriale e culturale. Si segnalano nuovi, promettenti, esordi. Nel 1987 I. Ouedraogo vince un premio al Festival di Taormina con Yam Daabo ("La scelta", 1987), storia di una famiglia contadina che ha ''scelto'' di abbandonare le terre aride del Sahel per trasferirsi in campagne più fertili. E. Kalifa Sanon firma una cooproduzione cubano-burkinabè, Desebagato ("Il piantagrane", 1987), sulla lotta contro lo sfruttamento in fabbrica di un contadino appena inurbato.

Burundi.- I primi film girati in Burundi risalgono all'epoca coloniale. Si tratta principalmente di documentari sui Watussi e sul folklore locale realizzati da registi stranieri e da missionari. Fino al 1978, anno in cui viene istituito un Service du Cinéma in seno al ministero dell'Informazione, non esistono né organismi statali né leggi specifiche sulla cinematografia. L'unico intervento governativo passa attraverso la commissione di censura. L'esercizio è in mano a privati. Le sale sonso scarse, circa una decina, concentrate per la maggior parte nella capitale, Bujumbara.

Non esiste ancora la televisione e mancano sia i tecnici sia le attrezzature, oltre alla volontà politica, per la nascita di una c. nazionale. L'unica personalità emergente è J. Hussi Nyamusimba (n. 1952), che ha studiato a Kinshasa e all'IDHEC di Parigi. Il suo saggio di diploma, Nini (1980), pur essendo un cortometraggio girato in 16 mm, costituisce il primo e pressoché solo film di fiction girato da un regista indigeno.

Camerun. − All'inizio degli anni Sessanta U. Dia-Moukouri e J.-P. N'gassa realizzano i primi film camerunensi. Nel 1967 si costituisce il Fond de Développement de l'Industrie Cinématographique (FODIC), l'unico organismo statale per il finanziamento della produzione nazionale, in un panorama altrimenti caratterizzato dall'indifferenza e dal disinteresse delle autorità ufficiali. Tuttavia la maggior parte dei film vengono realizzati con l'aiuto del ministero francese della Cooperazione e sono girati in lingua francese per ovviare all'estrema frammentazione linguistica del paese che conta oltre 400 idiomi. Il legame con Parigi è strettissimo non solamente perché qui hanno studiato la maggior parte dei registi camerunensi, ma perché alcuni di essi continuano periodicamente a recarvisi e altri vi si sono definitivamente trasferiti. È il caso, per esempio, di A. Beni, specializzato in generi commerciali, e di J.M. Teno che lavora soprattutto come montatore e gira negli anni Ottanta alcuni cortometraggi di notevole spessore poetico. Il primo lungometraggio a soggetto, Muna Moto ("Il figlio dell'altro"), viene realizzato in Camerun nel 1975 ad opera di J.-P. Dikongue-Pipa che insieme a D. Kamwa rappresenta il protagonista indiscusso del panorama nazionale. Sia Muna Moto, sia Pousse-pousse, il film di Kamwa uscito l'anno successivo, hanno come oggetto il problema della dote e della condizione femminile, uno dei temi più frequentati da tutto il giovane cinema africano. Pousse-pousse è costruito sui registri della commedia leggera e per questo ottiene un grande successo commerciale. Anche Dikongue-Pipa cercherà in futuro forme di espressione più popolari proseguendo con Le prix de la liberté (1978) il proprio discorso sulla donna africana. D. Kamwa invece ridurrà la sua attività quasi esclusivamente alla produzione di documentari.

Negli anni Ottanta emergono nuovi giovani registi: J. Tackam che tenta la strada del cinema di genere, sulla scia di Beni, realizzando L'appât du gain (1981), una storia di spionaggio; A. Si Bita, autore di Les coopérants (1983), dove si raccontano le peripezie di un gruppo di giovani cittadini che decidono di aiutare una comunità rurale; J.-C. Tchuilen che gira a Parigi un film d'azione, Suicides (1983), ambientato tra i giovani africani non integrati nella vita della metropoli europea.

Centro Africana, Repubblica. − La Repubblica Centro Africana sta muovendo i primi passi nel mondo del cinema e appare in ritardo rispetto ad altri paesi dell'Africa. Nonostante abbia cominciato a produrre negli anni Settanta, l'industria cinematografica stenta tuttora a trovare una propria via ed è ancora oggi circoscritta alla produzione di pochi documentari. Né l'adesione al Consortium Interafricain de Distribution Cinématographique, avvenuta nel 1979, ha dato i risultati sperati. Legato alla Francia, di cui è stato a lungo una colonia, il Centro Africa guarda ancora come punto di riferimento culturale a Parigi. Nella capitale francese hanno studiato i tre maggiori cineasti: D. P. Fila, L. Yangba Zowe e J. Akouissone. Quest'ultimo è considerato il regista più promettente, autore tra l'altro dell'interessante documentario Zo-Kwe Zo (1981), una riflessione sul cammino verso l'indipendenza dei paesi africani basata sull'analisi della storia del Centro Africa prima e durante il regno di Bokassa.

Ciad. − Da lunghi anni paralizzato dalla guerra civile e neocoloniale, il Ciad ebbe tuttavia alla fine degli anni Sessanta una personalità cinematografica di un certo interesse, il documentarista, regista e operatore E. Sailly, con una formazione tecnica parigina. Tra i suoi lavori (tutti in 35 mm) ricordiamo I pescatori di chari, Les abattoirs de Forcha, Il lago Ciad, Largeau e Salam El Kébir del 1965 (l'unico girato a colori); Il terzo giorno (un bel poema visuale sugli stati d'animo di un pescatore in lutto) e Il balletto del Ciad (1966), Il bambino del Ciad (1969) e A la découverte du Tchad (1972). Nell'agosto del 1974 fu realizzato in super 8 un documentario sulla lotta del FROLINAT contro il regime neocoloniale di Tombalbaye. Titolo Ciad, 40 minuti, colore.

Congo, Repubblica Popolare. − I primi titoli del cinema congolese appaiono dopo l'indipendenza ad opera di S. Kamba che, formatosi a Parigi, inizia a lavorare per la televisione realizzando nel 1965 Le Peuple du Congo-léo vaincra, un cortometraggio sulla lotta anticolonialista dell'ex Congo belga, l'attuale Zaire. L'anno successivo Kamba gira un altro cortometraggio, Kaka-Yo, in collegamento con il cine-club di Brazzaville, nato negli anni Sessanta all'interno del Centro culturale francese. Il suo primo e unico lungometraggio a soggetto risale al 1974, si intitola La rançon d'une alliance e narra in modo melodrammatico la storia di una rivalità tra due clan. Contemporaneamente egli continua l'attività per la televisione e la produzione di documentari, realizzando nel 1976 De l'esprit et du corps, un film sul rapporto tra medicina moderna e medicina tradizionale.

Nel 1979 viene fondato l'Office National du Cinéma (ONACI), un organismo governativo preposto alla produzione, alla distribuzione e all'esercizio. Il direttore, J.-M. Tchissoukou (m. 1989) è il secondo regista attivo in Congo. Dopo un certo numero di documentari e cortometraggi egli gira due lungometraggi a soggetto: La chapelle (1980), satira sui missionari, che vince un premio al Festival di Ouagadougou del 1981, e M'Pongo ("I lottatori", 1982), sulla tradizione della lotta rituale.

Costa d'Avorio. − Come in tutti i paesi africani sotto regime coloniale, le prime forme di c. arrivano in Costa d'Avorio dall'estero, per opera di registi europei con predominanti interessi etnografici e documentaristici. La presenza dei francesi R. Vautier e J. Rouch, già prima dell'indipendenza (1960), favorisce la nascita di un cinema nazionale. È infatti in stretto contatto con una società parigina che nei primi anni Sessanta si istituisce un servizio di cine attualità diffuso in tutto il territorio per mezzo di cinebus, ovvero di cinema ambulanti. Nel 1962 nasce la Société Ivorienne de Cinéma (SIC), un organismo parastatale − dal 1971 sotto il controllo totale del governo − con lo scopo di produrre attualità, corto e mediometraggi educativi e di propaganda, pubblicità, e di fornire finanziamenti parziali o totali per lungometraggi. Alla SIC spetta inoltre il compito di stipulare cooproduzioni con la Francia.

Gli anni Sessanta sono caratterizzati da una intensa produzione di documentari e dal primo kolossal nazionale prodotto dalla televisione: Korogo (1964) di G. Keita, ispirato a una leggenda indigena. Sul finire del decennio esordiscono nel lungometraggio H. Duparc, con Mouna ou le rêve d'un artiste (1969) che racconta i miti e le ossessioni di uno scultore incompreso; D. Ecaré con A nous deux, France (1970), una commedia sul matrimonio tra europei e africani, e B. Timité con La femme au couteau (1970), una storia a sfondo psicanalitico sugli incubi di un giovane appena tornato dall'Europa. Si tratta di autori che si sono formati in scuole francesi e appaiono accomunati da un'idea di cinema fortemente intellettuale, in cui i problemi della realtà africana vengono affrontati indirettamente, attraverso un linguaggio non del tutto accessibile al grande pubblico. Sporadici prodotti più popolari escono nei primi anni Settanta, sulla linea di un pronunciato impegno sociale. Si ricordano Abusuan ("La famiglia", 1972) di Duparc, sul problema dell'esodo dalla campagna in città, e i corto e mediometraggi di due registi provenienti dalla televisione, R. Gnoam M'Bala e E. N'Dabian Vodio. È soltanto con gli anni Ottanta che la produzione, ormai prevalentemente in mano al settore privato − la SIC ha cessato la sua attività nel 1979 − riprende un po' di vigore. Esce finalmente Visages de femmes (1985), il film di Ecaré rimasto in cantiere per dieci anni e divenuto famoso per le sue scene erotiche. E insieme alla vecchia guardia si segnalano nuove leve come Moussa Dosso, J.-L. Koula, Y. Kozoloa, K. Touré e F. Kramo Lanciné autore di Djeli ("Una storia d'oggi", 1980), un film sul problema della divisione in caste che è considerato il capolavoro del cinema ivoriano degli ultimi anni.

Gabon. − Si deve a P. Mory la nascita di una c. nazionale in Gabon. Formatosi in Francia e rientrato in patria all'inizio degli anni Sessanta, egli fonda la prima casa di produzione, la Compagnie Cinématographique du Gabon (1962) che, insieme a una società francese, coproduce La Cage (1963), un film sulla magia, i sogni e le allucinazioni diretto da R. Darène, ma unanimemente considerato un lavoro di Mory, che ne ha scritto la sceneggiatura. Dopo lunghi anni passati in prigione a causa della sua opposizione al regime di M'Ba, Mory ricompare in scena nel 1970, quando fonda una nuova casa di produzione, la SOGAFILM (Société Gabonaise du Film), con la quale finanzia Les Tam Tams se sont tus (1971), un'opera che affronta il rapporto tra modernità e tradizione, di cui è attore oltre che sceneggiatore e regista.

Frattanto, nell'assenza assoluta di strutture e infrastrutture cinematografiche, la televisione, installata in Gabon dal 1963, diviene luogo di formazione e di lancio per nuovi registi. Si segnala S. Augé che nel 1971 gira, insieme ad A. Ferrari, un feuilleton in tredici puntate, Où vas-tu Koumba?, di cui prepara una doppia versione, televisiva e cinematografica. Nel 1972 firma inoltre Il était une fois Libreville, un film di montaggio sulla storia della città. Nello stesso anno P.-M. Dong dirige il suo primo lungometraggio, Identité, un racconto autobiografico sullo scontro tra vecchio e nuovo, tra occidentalizzazione e retaggi ancestrali. Successivamente Dong diventa il regista personale del presidente Bongo, adattando per il cinema due soggetti della moglie Joséphine, Obali (1976) e Ayouma (1977), con la coregia di C. Mensah. Demain un jour nouveau, uscito nel 1978 e diretto dal solo Dong, si ispira invece all'autobiografia del presidente stesso. Per l'occasione Bongo promuove una casa di produzione statale, Le Film Gabonais, e finanzia la creazione delle infrastrutture tecniche necessarie. Così anche Mensah può girare, insieme a Ch. Gavarry, un nuovo film, Ilombé (1979), sulle vicende fantastiche di un giovane contadino turbato dalle apparizioni di una donna misteriosa.

A questo momento di discreto impulso produttivo che consente al Gabon di partecipare a festival internazionali e interafricani, seguono anni di assoluto silenzio. I maggiori registi vengono assorbiti nelle istituzioni statali: il CENACI (Centre National du Cinéma), creato nel 1975, rimane del tutto inattivo; Le Film Gabonais si trasforma nella Nkoussou Production, una società che si occupa in prevalenza di audiovisivi, libri, dischi, ecc. Nei primi anni Ottanta si tenta, con esiti poco felici, una politica di coproduzioni con la Francia da cui nasce Equateur (1983), tratto da un romanzo di G. Simenon e diretto da S. Gainsbourg. Piccoli segnali di ripresa si manifestano a partire dal 1985 quando S. Augé, presidente dal 1982 della ACG (Association Cinéastes Gabonais), prende la direzione del CENACI, producendo due cortometraggi: Le singe fou e Raphia, diretti da due giovani e promettenti registi, rispettivamente H. J. Koumba Bididi e D. P. Mouketa.

Gambia. − È uno dei paesi al mondo cinematograficamente più sottosviluppati. Nel 1975 non esistevano in tutto lo stato che 4 sale cinematografiche, tutte gestite da siriolibanesi. L'unico nome finora da ricordare è quello di un inglese, A. Lathan, che ha realizzato in 16 mm una decina di documentari didattici e di propaganda, dal 1969, tutti di una durata tra 5 e 25 minuti e generalmente a colori. Tra questi New look for police e Vegetables for heath.

Ghana. − Le prime strutture cinematografiche nazionali vengono create dagli Inglesi durante la dominazione coloniale. Nel 1948 nasce la Ghana Film Industry Corporation, che può contare su studi per la ripresa e laboratori di sviluppo e montaggio. Nello stesso anno si costituisce anche una scuola di cinema che diventerà successivamente il NAFTI (National Film and Television Institute). Funziona inoltre la sezione nazionale della Colonial Film Unit, che si irradia in tutti i paesi dell'Africa anglofona. Sotto la guida di S. Graham, ex assistente di J. Grierson, la Ghana Film Unit si pone sulla scia della grande tradizione del documentarismo britannico. A questa scuola si formano alcuni dei maggiori registi ghanensi come S. Aryeety e E. Adjesu. Il primo produce nel 1966 un cortometraggio di A. Yarney, Panoply of Ghana, considerato il primo film nazionale, e nel 1969 realizza il primo lungometraggio della sua filmografia oltre che del cinema ghanense, No tears for Ananse. Girato in inglese e in lingua akan, l'opera sviluppa un soggetto del folklore popolare, la storia del ragno magico Ananse. L'anno successivo esordisce nel lungometraggio anche Adjesu con I told you so, un musical. Il suo esempio viene seguito da B. Odidja, autore di Doing their thing (1971), un'altra commedia musicale che ha per soggetto la storia di un cantante.

Sebbene ancora esigua, la produzione cinematografica del Ghana appare una delle più rilevanti dell'Africa anglofona. Tra gli anni Settanta e Ottanta emergono i registi K. Ampaw, Kwaw Paintsil Ansah, T. Ribeiro. Il primo, formatosi nelle scuole di Potsdam, Vienna e Monaco, esordisce nella Germania Federale con They called it love (1972), un film sul razzismo, e prosegue la sua carriera con due coproduzioni ghanensi-tedesche, Kukurantumi (1983), un melodramma populista, e Juju (1986), sul rapporto tra tradizione e innovazione nelle campagne. Ansah, formatosi a Londra e poi a Hollywood e attivo inizialmente come regista teatrale, gira nel 1980 uno dei film ghanensi più famosi all'estero, Love brewed in the African pot, un melodramma che prendendo spunto da una leggenda popolare racconta l'amore ostacolato di due giovani appartenenti a classi sociali diverse.

Guinea. - Subito dopo l'indipendenza (1958) si comincia a costituire un'industria cinematografica nazionale con l'edificazione di studios e la dotazione delle prime attrezzature tecniche. Registi e tecnici sono inviati a studiare nelle scuole statunitensi, francesi, sovietiche e iugoslave. Viene anche fondata una casa di produzione e distribuzione statale, la Sily-Films, e negli anni Sessanta si realizzano diversi corto e mediometraggi, documentari e di fiction, a opera di Alpha Adama, Sekou Oumar Barry, Sekou Amadou Camara, Costa Diagne. A Mohammed Lamine Akin si deve il primo lungometraggio, Le sergent Bakary Woolèn (1966), storia di un reduce dell'Armée che viene rifiutato dalla sua promessa sposa. Il regista verrà imprigionato negli anni Settanta insieme a Costa Diagne, poi esiliato in Costa d'Avorio; è autore, nel 1968, di Hier, aujourd'hui, demain, un mediometraggio di fiction sulle vicende storiche guineane, dalla dominazione coloniale ai tempi attuali. Nel 1982 è stato prodotto il lungometraggio Naïtou ("L'orfanella"), di Moussa Kemoko Diakité, un cineasta formatosi nella Germania Federale e attivo fin dall'inizio degli anni Settanta. Versione cinematografica di un noto balletto del teatro tradizionale guineano, Naïtou è una commedia musicale che sviluppa un vecchio racconto popolare, la storia di un'orfanella perseguitata dalla matrigna.

Guinea Bissau. - Durante la lotta di liberazione viene istituita una piccola unità cinematografica all'interno del PAIGC (Parti Africain pour l'Indépendance de la Guinée-Bissau et des îles du Cap-Vert) e alcuni cineasti stranieri prestano la loro opera al servizio della causa anticoloniale. Nel 1967 S. Maldoror, proveniente dal Guadalupe, gira con aiuti algerini un lungometraggio che non vedrà mai la luce, Des fusils pour Banta.

Il primo organismo cinematografico nazionale, l'Istituto del Cinema, nasce nel 1977, tre anni dopo l'indipendenza. Ad esso si devono una serie di documentari militanti realizzati con l'aiuto di finanziamenti svedesi e un cortometraggio di finzione, Les jours d'Ancono (1978) diretto da Sana Na N'Hada in collaborazione con S. Michel e L. Henry, sulle vicende di un bambino dell'etnìa dei Bijagos che impara a leggere e a scrivere. Soltanto dieci anni più tardi vede la luce il primo lungometraggio di finzione, in un paese ancora privo di studios e delle attrezzature più elementari. Mortu Nega, di F. Gomes, presentato al Festival di Venezia nel 1988, viene infatti realizzato con l'aiuto di tecnici francesi e successivamente montato a Parigi. Sostenuto da una specie di sottoscrizione nazionale, il film segna l'atto di nascita della c. guineana. Si avvale di attori non professionisti a eccezione della protagonista, B. Gomes (una ballerina del balletto nazionale), e narra in forma non documentaria il periodo a cavallo tra la fine della lotta di liberazione e i primi anni dell'indipendenza.

Kenya. - La c. kenyota è caratterizzata durante gli anni Sessanta e Settanta dalla produzione di cortometraggi prevalentemente a carattere documentaristico. Soltanto nel decennio successivo, nei limiti delle risorse economiche disponibili, si producono con regolarità lungometraggi e cortometraggi di fiction, pur rimanendo il documentario il genere più praticato. Un notevole impulso alla c. è stato dato dalla Germania Federale, che con aiuti economici e tecnici ne ha favorito lo sviluppo, senza tuttavia influire sulle scelte tematiche e stilistiche. In altri casi il cinema kenyota ha subìto l'influenza di culture lontane ed estranee, come quella indiana. Emblematico il caso del regista Ramesh Shah, che in Kenya ha girato alcuni film adattando la struttura dei melodrammi indiani a storie e paesaggi tipicamente africani. Questi film hanno avuto un tale successo che la produzione media del paese ha finito per risentirne, diventando sempre più commerciale. Molti registi continuano peraltro a cercare nelle tradizioni le radici dei problemi reali del paese. Particolarmente significativo è il cinema di Sao Gamba, che in Kolormask (1986) ha raccontato con sguardo lucido e al tempo stesso poetico il difficile ritorno in patria di un medico che in Europa ha sposato una donna bianca.

Liberia. − La televisione liberiana diffonde programmi di produzione statunitense per il 90% dei palinsesti. E anche il controllo delle sale cinematografiche è statunitense. Fa capo al ministero dell'Informazione un servizio cinema che fornisce tuttavia il rimanente 10% dei programmi televisivi. Il cineasta più importante è H. Pratt, che nel 1962 ha realizzato La campagna della speranza su un lebbrosario in piena foresta tropicale (1962), Prosperità nella foresta, premiato al festival della natura di Madrid del 1966, tre cortometraggi: Liberia paese del domani, Gli anni di un destino (sulla storia del paese e della liberazione coloniale) e Il raduno (sul pluralismo tribale).

Madagascar. − Affacciatosi alla ribalta nei primi anni Settanta, il cinema malgascio può contare già su alcuni cineasti di sicuro talento, formatisi prevalentemente in Francia. La maggior parte dei registi, che ha frequentato le scuole di cinema francesi, dimostra d'aver appreso con successo le regole della narrazione documentaristica applicata alla fiction.

Molti dei cortometraggi e lungometraggi sono infatti opere di finzione costruite con il linguaggio tipico del documentario. Fitampoha (1980), per es., di J.-C. Rahaga, è un documentario che ricostruisce un antico rito che si consuma sulle rive dell'oceano sin dal 17° secolo. Di estremo interesse sono inoltre le opere di quegli autori che attraverso il cinema indagano la società malgascia, come Dahalo-dahalo (1984) di B. Ramampy, che mette in scena gli inevitabili scontri tra chi crede nella legge dello stato e chi, al contrario, fa riferimento alla giustizia voluta dalle antiche tradizioni; o Very Remby (1974) di I.-S. Randrasana, che racconta il dramma dei contadini inurbati costretti a tornare nelle campagne. Particolarmente importante è, in questi ultimi anni, l'attività del Centro malgascio di produzione di film educativi, impegnato nella realizzazione di cortometraggi e documentari.

Nel 1988 ha ottenuto il primo successo nei festival internazionali il regista R. Rajaonarivelo, con il film Tabatara, ambientato nel 1746 in un piccolo villaggio isolato durante la lotta per l'indipendenza nazionale.

Mali. - Appena due anni dopo l'indipendenza (1960), il governo del Mali si è adoperato perché l'industria cinematografica prendesse piede e si sviluppasse nel paese. Aiutati finanziariamente dalla Iugoslavia, e in misura minore dalla Francia, gli organi ufficiali hanno infatti fondato nel 1962 l'Office du Cinéma Malien (OCINAM), da cui nel 1977 si è distaccato diventando autonomo il Centre National de Production. A questi due organismi si deve la maggior parte della produzione cinematografica in Mali, anche se con disagi e disfunzioni nella distribuzione dei finanziamenti. Soprattutto gli inizi sono stati difficili, per la scarsità delle risorse economiche e per la mancanza di sale. Negli anni Sessanta infatti i luoghi di proiezione erano meno di cinque, mentre negli anni Ottanta si è saliti a più di trenta, un dato estremamente positivo se si pensa che il Mali è un territorio vasto e rurale, con pochi insediamenti urbani. Molti sono i registi che, formatisi all'estero − Iugoslavia, Francia, URSS −, tornati in patria hanno contribuito a far conoscere nel mondo il cinema maliano. Negli anni Sessanta hanno esordito D. Kouyaté, C. H. Keita, S. Cissé, nel decennio successivo S. Coulibaly, A. Kaba, mentre negli ultimi anni sono emersi C. O. Sissoko e A. Drabo. La figura di maggior spicco è certamente S. Cissé, messosi in luce in più di una edizione del festival di Ouagadougou, ma che soltanto nel 1987, grazie a Yeelen ("La luce"), è stato compreso dalla critica fra i migliori cineasti africani. Yeelen, incentrato sui conflitti tra tradizioni magiche e arcaiche e cultura moderna nell'Africa di oggi, ha vinto a Cannes (1987) il premio speciale della giuria.

Mauritania. − Simile a quella di molti paesi africani, la storia della c. della Mauritania è un susseguirsi di sforzi economici, oltre che creativi, messi in atto per recuperare tramite un mezzo espressivo ancora poco conosciuto come il cinema le eredità del passato e le tradizioni culturali. Già negli anni Sessanta vedono la luce cortometraggi e lungometraggi che hanno per oggetto la liberazione dal colonialismo, le lunghe e difficili lotte per la conquista della libertà e la riconquista di un'identità nazionale. La personalità più illustre è Med Hondo, il cui lungometraggio d'esordio, Soleil O (1969), fu presentato nel 1970 alla Semaine de la Critique di Cannes. Dello stesso autore va ricordato Sarraounia (1986), una metafora sulla liberazione dal colonialismo. Altri giovani cineasti hanno debuttato a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta; il più promettente fra questi è S. Sokhona, i cui primi film, Nationalité: immigré (1975) e Safrana (1977), hanno trattato con notevole lucidità il tema dell'emigrazione africana in Francia.

Maurizio, Isole. − Negli anni Settanta si è affermato R. Tekoit, prima col cortometraggio turistico Isole Maurizio una perla nell'oceano indiano (1973), poi col primo lungometraggio di finzione del paese, Et le sourir revient (1978), fotoromanzo patinato sugli amori di una giovane che rientra in patria dopo l'emigrazione. Hanno realizzato cortometraggi a metà tra fiction e documento anche H. Anenden, L'argile et la flamme (1981); G. L. Hossen, Immigrés en France; K. Noyau, La charrette (1981), e M. Valaydon, Obiectif énergie. Del 1989 è L'ambiente, realtà, problemi, del regista televisivo V. Seedoyal.

Mozambico. − Il Mozambico, come l'Angola paese appartenente all'Africa lusofona, ha stentato a lungo prima di raggiungere una propria dimensione culturale in campo cinematografico, nonostante che il cinema fin dagli anni Settanta sia stato considerato il mezzo di comunicazione più diretto per affermare le ragioni dell'indipendenza. Nel 1975 fu fondato l'Istituto Nazionale del Cinema, che oltre a preparare tecnici e registi è responsabile di un circuito di sale − alcune mobili − nelle quali si proiettano le poche ore di filmati che ogni anno il Mozambico riesce a produrre. La guerriglia e la lotta ispirata ai principi marxisti-leninisti sono i temi più celebrati dai registi, ma non mancano film ispirati alla tradizione musicale popolare, come testimonia una delle migliori opere realizzate negli ultimi anni: Canta meu irmao, ajudame a cantar (1982), di J. Cardoso. Tra i molti registi brasiliani che hanno realizzato nel paese film militanti, il più noto è R. Guerra, peraltro originario del Mozambico. Il suo Mueda, memoria e massacro (1979) è forse il risultato più alto raggiunto dalla produzione mozambese.

Niger. − I primi cineasti del Niger si formano alla scuola di J. Rouch, attivo presso il Centre Culturel Français a Niamey. Ai cortometraggi di M. Alassane (Le piroguier, Le pileuse de mil, Aouré, del 1962) si fa risalire l'inizio della c. nazionale. Dopo uno stage in Canada, dove lavora con N. McLaren, il regista africano alterna film d'animazione e documentari giungendo nel 1972 al suo primo lungometraggio a soggetto, F.V.V.A., satira dell'arrivismo delle classi emergenti, cui seguono, nel 1974, Toulà ou les Génies des eaux, una storia africana sul problema della siccità, e, nel 1982, Kankaba, un film poliziesco.

L'altro grande regista del Niger, O. Ganda, comincia la propria carriera cinematografica come attore principale in Moi, un Noir (1959) di Rouch; nel 1968 realizza il primo mediometraggio a soggetto, Cabascabo ("Il duro"), sul rientro in patria di un reduce della guerra d'Indocina, seguìto nel 1970 da Le Wazzou polygame ("La morale poligama"), una ironica denuncia della poligamia. Prima della morte, avvenuta nel 1981, realizza due lungometraggi: Saïtane (1973), contro gli abusi dei marabutti, e L'exilé (1980), in cui racconta una leggenda africana sulla fedeltà alla parola data.

Negli anni Settanta e Ottanta il cinema del Niger, pur producendo soprattutto documentari e cortometraggi, si segnala come uno dei più vitali dell'Africa nera. La televisione (ORTN) svolge un ruolo importante in quanto produttrice e coproduttrice di film. Accanto ai due pionieri emergono nuovi registi: M. Bakabé, autore di Si les cavaliers... (1982), che ricostruisce un episodio della lotta contro i Francesi nel 1906; M. Diop, autore di Le médecin de Gafiré (1983), sul rapporto tra medicina e magia; Djingareye Abdoulaye Maïga, che nel lungometraggio Nuages noires (1979) affronta il problema della bigamia e della libertà sessuale.

Nigeria. − Indipendente dal 1960, è uno degli stati africani in cui il governo ha poco favorito lo sviluppo della c. nazionale, benché abbia trasformato le preesistenti strutture cinematografiche coloniali nel Federal Film Unit. Non a caso i primi debutti nel lungometraggio di fiction, risalenti ai tardi anni Sessanta e agli anni Settanta, risentono fortemente dell'influenza del cinema commerciale, melodrammi indiani e vecchi film USA di seconda qualità, mentre i rari tentativi di proporre film di un certo impegno e con una forte identità nazionale non incontrano i favori del pubblico. Successo invece ottengono le opere di Ola Balogun, un autore interessante, che pur partendo da un'idea di cinema di chiara matrice spettacolare e leggera è riuscito a fondere la comicità con l'analisi del presente nigeriano, la musica e i canti popolari con l'impegno politico e sociale. Suo è Ajani-Ogun (1975), che oltre a essere molto amato dal pubblico ha dato vita a quello che potrebbe essere definito il ''musical nigeriano''. Accanto a Balogun negli altimi anni sono apparsi altri validi registi: E. Ugbomah, S. Dosunmu, B. Bello. Nonostante il crescente sviluppo, la c. nigeriana deve comunque superare ancora enormi problemi, soprattutto perché manca di scuole per la formazione dei quadri tecnici.[Ang. Pr.]

Ruanda. − La realtà cinematografica del Ruanda è tra le più arretrate di tutta l'Africa nera. La totale assenza di una politica culturale a favore della produzione fa sì che le poche iniziative che animano il cinema nascano grazie agli interventi di cineasti europei, in special modo documentaristi. Per le sue bellezze naturali e per la ricchissima fauna, il Ruanda è uno dei paesi più amati dai documentaristi. I loro film non sono però mai finanziati con capitale nazionale, e soltanto raramente risultano coprodotti. Il governo ha invece prodotto documentazioni filmate sugli sforzi compiuti per avviare il paese verso il progresso, particolarmente interessanti non per la qualità tecnica, ma perché commentate in lingua kinyarwanda, anziché in francese. L'unico film di fiction di un certo rilievo rimane Manirafashwa, girato da G. Mabiyambere nel 1986. Non migliore è la situazione della distribuzione. Nelle sale del paese si proiettano prevalentemente pellicole commerciali provenienti dall'India: i pochi film di qualità che riescono a circolare si possono vedere soltanto presso le ambasciate estere o le associazioni culturali.

Senegal. − Il cinema si sviluppa in Senegal prima e più largamente che negli altri paesi dell'Africa nera. Afrique-sur-Seine, un cortometraggio sull'immigrazione realizzato a Parigi nel 1955 da un collettivo senegalese, è certamente uno dei primi film girati da neri africani. Dopo l'indipendenza (1960), accanto all'attività documentaristica comincia ad avviarsi la produzione di lungometraggi a soggetto. Il primo, girato nel 1966 da O. Sembène, si intitola La noire de... e racconta la drammatica storia di una cameriera senegalese in Francia, culminata nel suicidio. Sembène si afferma ben presto come il più importante regista nazionale e il più noto all'estero, per il taglio personale del suo cinema, capace di coniugare il discorso estetico con quello sociale e culturale, legato ai problemi, ai valori e all'identità del popolo africano. Dopo Mandabi ("Il vaglia"), presentato alla Mostra di Venezia nel 1968 e girato in due versioni (lingua wolof e lingua francese), realizza Emitaï ("Dio del tuono", 1971), che ricostruisce un episodio della rivolta contadina contro i colonialisti francesi avvenuto nel 1942. Successivamente gira Xala ("L'impotenza sessuale contemporanea", 1975), una commedia satirica sulla nuova borghesia africana, e Ceddo (1977), una riflessione sul ruolo della ''parola'' nella tradizione culturale africana. Nel 1988 la mostra veneziana presenta il suo Camps de Thiaroye, sulla sanguinosa repressione a opera dei Francesi di una rivolta di soldati senegalesi nel 1944. Accanto a Sembène, si afferma come uno dei pionieri del cinema nazionale P. Soumanou Vieyra (m. 1989). Dopo aver partecipato ad Afrique-sur-Seine egli si dedicò all'attività critica documentaristica e nel 1981 realizzò il suo unico lungometraggio, En résidence sourveillée, storia di un complotto straniero contro il presidente di uno stato africano.

Osteggiato sovente dalla censura, poco protetto dal governo (che soltanto dal 1974 al 1976, con la Société Nationale du Cinéma, assume le vesti di produttore), il cinema senegalese offre comunque un panorama variegato di generi e di autori. Tra le personalità maggiori si segnala, fin dai primi anni Settanta, Mahama Johnson Traoré che esordisce con due film (Diankha-Bi, "La ragazza", 1969, e Diegue-Bi, "La donna", 1970) dedicati alla condizione femminile e firma opere di forte critica sociale come Lambaayé ("Accattonaggio", 1972) e N'Diangane (1974). Ababacar Samb Makharam, ex allievo del Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma, gira nel 1971 il suo film più importate, Kodou, in cui analizza, attraverso la storia di una ragazza, il difficile e scottante rapporto fra tradizione e modernità nella società africana. Djibril Diop Mambety inizia la carriera registica con corto e mediometraggi comici e nel 1973 realizza il suo primo e unico lungometraggio, Touki Bouki, storia di due giovani africani che sognano di far fortuna all'estero. Nel 1974 Cheikh Tidiane Aw è autore di un gangster-film, Le bracelet de bronze. Nello stesso anno esce anche L'option, primo lungometraggio a soggetto di Thierno Faty Sow, un regista che proviene dalla televisione e ha prevalenti interessi etnografici. Moussa Yoro Bathily, già assistente di Sembène, gira nel 1978 Tiyabu Biru ("La circoncisione"), sul rito della circoncisione, mentre al tema della poligamia è legato l'unico lungometraggio di Ben Diogaye Beye, Seye Seyeti / Un homme, des femmes (1980). Safi Faye, un'africana che ha a lungo studiato in Europa e collaborato con Rouch, si afferma come la prima regista di un lungometraggio a soggetto dell'Africa nera, Kaddu Beykat ("Lettera contadina"). Girato nel 1976 ricorrendo ai modi del documentario etnografico, il film offre un ritratto del villaggio natale dell'autrice. Da segnalare anche l'attività di Cheikh N'Gaido Bah, autore di Xew Xew/La fête commence (1982), un ritratto della gioventù di Dakar, e la produzione di Momar Thiam che esordisce negli anni Sessanta come regista di cortometraggi e realizza nel 1971 il suo primo lungometraggio, Karim, sul rapporto fra tradizione e modernità.

Sierra Leone. − Tra i più fragili nell'industria audiovisuale dell'intero continente africano, anche se ha una delle televisioni più antiche. Possiede negli archivi solamente documentari in 16 mm in bianco e nero o a colori di argomento per lo più turistico e folkloristico (nel 1970 fu presentato al festival di Ifé un ottimo documentario sulla danza tradizionale) e pochissimi lavori di fiction, il primo dei quali è Concert, studio psicologico su un musicista, girato nel 1968. È Ph. Rhodes il decano dei cineasti del paese.

Somalia. − Rimasta per lungo tempo in ombra rispetto ad altre c. africane, quella somala si è negli ultimi anni imposta all'attenzione dimostrando grande vitalità. Alla conoscenza del cinema somalo hanno contribuito in modo determinante una serie di iniziative culturali messe in atto dal governo, la più importante delle quali è senza dubbio l'istituzione, avvenuta nel 1981, del Symposium del Film Pan-afroarabo di Mogadiscio. Il Symposium, che ha cadenza biennale, si propone, accanto a quello di Ouagadougou, di far conoscere il cinema dell'Africa in generale e in particolare quello dell'Africa anglofona. È dagli anni Sessanta che in Somalia si produce con una certa regolarità e con risultati spesso sorprendenti, come nel caso di Miyo iyo magalo, "Villaggio e città" (1968) di M. H. Giumale, storia di un venditore di cammelli che riesce ad affrancarsi dalla propria umile condizione e a diventare ufficiale dell'esercito, o ancora di Dan iyo xarago, "Tra realtà e mito" (1973) di I. H. Dirie, che narra le traversie di un uomo qualunque coinvolto suo malgrado in un intrigo politico.

Negli anni Ottanta si segnalano Artan Abdourahmane, autore di It is not a joke (1985), vicenda ricca di humor che ruota attorno a due uomini soli alle prese con i problemi della casa, e Said Salah, che nel 1984 ha firmato una superproduzione costata tre miliardi di lire, una biografia patinata dell'eroe nazionale Mohamed Abdullah Hassan. Molti dei cineasti somali hanno frequentato corsi di regia in Inghilterra, ma i contatti con la cultura europea solitamente non traspaiono nelle opere, che rimangono aderenti alla realtà sociale e alle tradizioni del paese.

Sudan. − La c. sudanese, negli anni che precedono l'indipendenza (1956), si limita a una modesta produzione di cortometraggi. Nel Sud del paese, abitato dalle popolazioni nere animiste, viene fondata nei primi anni Cinquanta la Sudan Film Unit, a opera di Gubara Gadallah e Ibrahim Shedad, due registi che hanno studiato a Londra e in America. Ma soltanto nel 1982 Gadallah firma il primo lungometraggio del Sud nero, Tajouj, una storia d'amore che si svolge tra le popolazioni nomadi di fronte al Mar Rosso. Un secondo lungometraggio viene realizzato nel 1984, per mano di Anouar Hachem: Le voyage des yeux, un'altra storia d'amore ambientata al Cairo, che riprende i modi dei melodrammi egiziani.

Nel Nord del paese, a maggioranza arabo-islamica, il primo lungometraggio viene invece prodotto nel 1968: Hope and dreams, ancora una storia d'amore all'egiziana firmata da Rachidi Medi. Dopo la rivoluzione del maggio 1970 il governo nazionalizza la distribuzione e l'importazione, istituendo un Organismo statale per il cinema che esercita anche la censura. Tra i molti autori attivi recentemente nel campo del documentario e del cortometraggio si ricordano: Ali Abdel Gaom, Souleiman M. Ibrahim, Taieb Mehdi, Sami Saoui e soprattutto Ibrahim Shedad, premiato al festival di Lille del 1980 per The camel, storia fantastica di un cammello che sogna di mettere la bardatura al proprio padrone.

Tanzania. − La Tanzania è tra gli stati africani in cui la cultura nazionale ha avuto minori occasioni di esprimersi, a causa dei lunghi anni di dominazione. Il primo prodotto cinematografico porta la data del 1977: si tratta di un documentario dal titolo Living together firmato da C. Kaunga. Gli anni Ottanta sono caratterizzati da un lento sviluppo condizionato dai problemi economici del paese. Tra gli autori che sono riusciti a mettersi in luce è M.R. M'Hando, autore di Yomba Yomba (1987).

Togo. − La nascita del cinema togolese è legata al settimanale di cineattualità realizzato in cooperazione con il Consortium audiovisuel international fin dalla metà degli anni Sessanta. Del 1967 è il documentario Togo di Ch. Lacoste, presentato all'esposizione universale di Montreal. K. Goncalves e J. Quenum Do-Kokou sono tra i pochi cineasti emersi negli anni Settanta da uno degli stati africani più chiusi politicamente e meno estroversi culturalmente. Do-Kokou (n. 1943), dopo due film in 8 mm, ha realizzato nel 1975 il mediometraggio Kouami: la storia di una ragazza che segue il suo uomo in città per trovare ricchezza e felicità ma, delusa dall'ambiente corrotto (trovano solo sfruttamento, prostituzione e criminalità obbligatoria), tornerà al villaggio. Il documentarista Goncalves nel 1979 ha firmato il cortometraggio a colori in 16 mm, Au rendez-vous du reve Abéti.

Negli anni Ottanta si impone uno dei pochissimi autori africani subsahariani nel settore dell'animazione, C.-C. Lawson, che firma nel 1982 Voyage en Metropotamie, una satira della metropolitana parigina. Del 1987 è infine il lungometraggio di finzione Histoire d'Orokia di Fr.-J. Sou, le sventure di una ragazza perseguitata dalla società (coregista J. Oppenheim). In Togo esistono 7 sale cinematografiche nella capitale e 10 nel resto del paese. La TV in bianco e nero è nata nel 1973, quella a colori nel 1978. Gli apparecchi sono passati da circa 8000 nel 1985 a 200.000 nel 1990 per una popolazione di poco più di 3 milioni di abitanti e una copertura dell'87% del paese. Il documentarista televisivo più conosciuto è D'Almeyda Ayicoé Ghan, specializzato in film sui riti sacri e voudou.

Zaire. − Repubblica indipendente dal 1960, l'ex Congo belga non ha sviluppato una soddisfacente industria cinematografica nazionale. Quanti volessero operare nel cinema sono stati costretti a emigrare per frequentare gli istituti per il cinema di Bruxelles o Parigi. Negli ultimi anni Settanta e Ottanta sono peraltro emerse alcune personalità degne di nota: Kwami Mambu Zinga − autore di Moseke (1972), premiato al festival di Ouagadougou − , Mbugi Yahana Mulamba, e soprattutto Mweze N'Gangura, che nel 1987 ha diretto in collaborazione con il belga B. Lamy un film interessante, La vie est belle, una storia d'amore interpretata dal cantante africano Papa Wemba.

Zambia. − È uno stato sottosviluppato dal punto di vista del cinema e della televisione. Possiamo ricordare solo i due primi film realizzati dopo l'indipendenza, Kuom bako, cortometraggio del 1965, e Luapula, altro ''corto'' del 1967

Zimbabwe. − Prima della fine del governo razzista di I. Smith furono almeno tre i film militanti importanti realizzati clandestinamente nel paese: dall'inglese M. Raeburn, Rhodesia conto alla rovescia, nel 1970 (mediometraggio di finzione); Per uno Zimbabwe libero, girato dal regista gahanese Kwate Nee Owoo, e il corto Le glas di R. Vautier. Negli ultimi anni Harare ha iniziato a investire di più nel cinema dopo decenni di priorità televisiva (atteggiamento tipico di quasi tutte le ex colonie inglesi: qui la TV è nata nel 1960, esistono tre canali e oltre 100.000 apparecchi) e sono emersi una serie di giovani documentaristi di smaliziato tocco fiction. Tra i cineasti televisivi, da ricordare J. Jonhera che nel 1978 ha avuto successo col ''serial'' The Mukadota family. Tra i documentaristi si segnalano A. Chimedza con Fight for Indipendence (1981); l'attore Cl. Merezda, che ha lavorato con l'esule sudafricano Ch. Austin in House of anger, dal romanzo di D. Marechela del 1978, con il corto Marurwa del 1983 (sugli insetti commestibili); O. Maruma coi lungometraggi Quest for freedom, del 1981, e The Assegai (una pièce teatrale filmata), del 1982, con Consequence (1988), mediometraggio di fiction, il primo realizzato con mezzi ed équipe locale, e col video After the hunger and drought del 1986; B. Rusere, con il corto Hunger for self reliance (1986), inchiesta tra gli scrittori e poeti neri che vivono in Inghilterra. E. Spicer nel 1987 ha diretto il video politico Biko: breaking the silence, sull'assassinio del militante anti apartheid, comprendente scene girate sul set del film di R. Attenborough Cry freedom (Grido di libertà). Più popolare e commerciale Fr. Mambo, che nel 1982 girò una commedia populista, il mediometraggio X...X. Nel 1990 sono stati realizzati i primi lungometraggi di fiction: Jit, di M. Reaburn, interpretato dalla star afro-rock O. Mturudzi, e Dark city di Chr. Curling.

America. - Honduras. - Totalmente dominato dalla presenza della produzione statunitense, il mercato cinematografico hondureño è di fatto chiuso ai prodotti nazionali. Tra enormi difficoltà nel paese si producono alcuni film sperimentali, documentari, e assai raramente lungometraggi o cortometraggi di fiction. L'unico autore rappresentativo è S. Kafati, che a partire dai primi anni Sessanta si è trasformato in regista, sceneggiatore, produttore, riuscendo in questo modo, pur tra enormi difficoltà, a realizzare alcuni film. La nascita di un dipartimento di cinema, voluto dal ministero della Cultura e dell'informazione, avvenuta nel 1977, non ha cambiato di molto le cose. Si continua a produrre pochissimo e i pochi tentativi di investire denaro in un lungometraggio portano a esiti forzatamente sperimentali, come nel caso di El Reyecito o el mero mero (1979), di F. Bendeck.

Panama. − Il primo film panamense di cui si conserva notizia risale al 1949: Cuando muere la ilución, di C. Ruiz e J. Espinosa. Della produzione successiva, negli anni Cinquanta e Sessanta, si hanno soltanto indicazioni lacunose giacché le opere sono andate in gran parte distrutte e mancano adeguati supporti storiografici. Soltanto negli anni Settanta ci si comincia a muovere nella direzione di un cinema nazionale, esteticamente e culturalmente caratterizzato. Su questa linea opera il gruppo Ariel che produce una quindicina di cortometraggi tra cui La tierra prometida e Cuartos, di A. Mora, El canillita e Underground Panama, di C. Montúfar. Emergono inoltre documentaristi come J. H. Heymann e J. de Castro. Nel 1972 viene creato, con l'appoggio del presidente Torrijos, il Gruppo Sperimentale di Cinema Universitario (GECU) cui si deve l'aperta teorizzazione di un cinema autenticamente panamense, capace di porsi come luogo della coscienza nazionale. Il GECU realizza numerosi documentari e crea un circuito di cineclub per assicurarne la distribuzione, in un mercato monopolizzato dai prodotti statunitensi. Tuttavia il cinema nazionale, ancora privo di una legislazione e ancora scarsamente articolato a livello industriale, stenta a darsi una fisionomia. Mentre viene fondata una nuova associazione, la Procine, e sollecitanti impulsi arrivano dalla televisione e dal mercato del video, la produzione non riesce, negli anni Ottanta, a superare una lunga fase di stagnazione. Tra i pochi registi in attività si ricordano P. Rivera, direttore del GECU, L. Franco, A. Monzón e O. López.

Portorico. − Nato ufficialmente nel 1916, anno in cui si realizza il film di 'fiction' Un drama en Puerto Rico, il cinema è subito accolto con estremo favore dal pubblico. Tuttavia l'entusiasmo degli spettatori non basta a garantire lo sviluppo dell'industria nazionale, frenata per decenni dai capitali stranieri investiti nel paese e dai due conflitti mondiali. In questo lungo periodo di buio, una momentanea ripresa si ha negli anni Trenta con l'apparizione del sonoro, introdotto nel 1934 da Romance Tropical del poeta L. Palés Matos. Nuove prospettive si aprono alla fine della seconda guerra mondiale, quando il Partito popolare democratico che governa il paese favorisce economicamente l'industria cinematografica. Sino alla fine degli anni Cinquanta, grazie agli interventi governativi, viene così prodotto un gran numero di documentari, realizzati nell'intento di raccogliere su pellicola una testimonianza sulle tradizioni, i costumi, i valori nazionali. Negli anni Sessanta la produzione di lungometraggi a soggetto si sviluppa pienamente, ottenendo risultati dignitosi seppur all'interno del cinema di genere. Molto amati dagli spettatori sono infatti i film sentimentali come Romance en Puerto Rico (1961) di D. Rosa, e Amor perdoname (1967) di J. Jussin, come pure quelli di spionaggio e di ambiente malavitoso come El agente cero en Nueva York, El jibaro milionario, interpretati dal divo del piccolo schermo A. Rodriguez, tipici prodotti di evasione. Soltanto nel decennio successivo le problematiche politiche e sociali sono oggetto di attenzione da parte dei registi, che si orientano verso una narrazione a metà tra il documentario e la fiction. Tra i cineasti attivi a partire dagli anni Settanta emergono J. M. Umpierre, apprezzato critico cinematografico e autore del notevole documentario Violencia en Puerto Rico, e M. Vissepo, le cui opere sono fortemente legate alla tradizione letteraria nazionale.

Asia. - Afghānistān. − Sul finire degli anni Ottanta la c. nazionale non si è ancora pienamente sviluppata. Esiste peraltro una struttura governativa per la produzione di attualità e fiction, l'Afghān Film, che soltanto dal 1968 ha cominciato a finanziare i primi, sporadici, lungometraggi a soggetto.

Dopo il colpo di stato del 1973 il governo ha nazionalizzato la distribuzione dedicandosi soprattutto all'importazione di pellicole indiane e producendo un solo film, Rozhai dushwar ("Giorni difficili") di W. Latifi, nel 1974. Nello stesso anno esce anche il primo film realizzato da una società indipendente, Rabhi Balkhie, un'opera storica ambientata nel decimo secolo, mai distribuita fuori del paese. Ne firmano la regia quattro autori: A. K. Halil, D. Farani, A. Shadan, M. Nazir, che partecipa anche come produttore, e T. Shafaq. Un'altra società indipendente, la Aryana Films, produce nel 1976 Mujesama makandad ("Le statue ridono"), un racconto melodrammatico sulla malavita e la droga, diretto da Shafaq, la più importante personalità del cinema afghano. Dopo aver lavorato fin dal 1963 al ministero dell'Informazione e cultura, Shafaq si è diplomato in montaggio alla scuola di Poona, in India, e nel 1968 ha collaborato con J. Frankenheimer al film Horsemen. Nel panorama abbastanza povero e desolato dell'Afghānistān postrivoluzionario, egli è l'unico regista che lavora con una certa continuità. Nel 1977-78 ha realizzato Ghulam ishq ("Schiava d'amore"), la storia di una rivolta contadina, e nel 1979-80 Yanayat karan ("Criminali").

Il regime filosovietico di Amin, prima, e di Karmal, poi, non ha creato, sull'esempio dei paesi socialisti, un nuovo cinema rivoluzionario. La produzione resta per la maggior parte nelle mani delle società non governative. All'Aryana Films si aggiungono nei primi anni Ottanta la Aparsin Films e la Gulistans Films. Sotto marchio indipendente vengono realizzate le opere di A. Shaban (Siamoi wa Jallali, "Siamoi e Jallali", e Gharatgaran, "Ladri") e di E. Latif (Gunah, House n. 555, Achtare maskara, "Achtar il clown"). Nel frattempo l'Afghān Film ha finalmente approvato un progetto ormai storico, Tora, sulla vita di un eroe rivoluzionario, scritto negli anni Settanta e a lungo respinto dal governo.

Bangla Desh. − Assoggettato all'India fino al 1947 e poi al Pakistan fino al 1971, il Bangla Desh fa sforzi notevoli per recuperare una propria identità culturale anche attraverso la produzione cinematografica a lungo influenzata dai film indiani. In assenza di scuole di cinema e di istituzioni statali adeguate, gli esiti sono tuttavia modestissimi. Nemmeno la creazione, nel 1959, del Film Development Corporation Studio ha migliorato le cose; lo stato dei laboratori e degli studi è tale da non permettere buoni risultati artistici nemmeno dal punto di vista tecnico. Dal 1971, anno dell'indipendenza, accanto ai melodrammi hanno tuttavia preso posto film sulla guerra civile e la realtà sociale del paese. Tra le personalità di maggior interesse si contano Baby Islam, Alamgir Kabir, Subash Dutta, Abdus Samad, che hanno realizzato opere accolte con favore dal pubblico. I buoni esiti commerciali di questi film non bastano tuttavia a tenere in vita una c. che pure produce annualmente più di 60 lungometraggi. Una legge del 1985 ha favorito l'importazione di film dall'India, non soggetti a tasse.

Filippine.- A parte alcune vedute di Manila e di altri luoghi pittoreschi del paese, prima del 1910 nelle Filippine non fu girato nulla di particolarmente interessante. Sono infatti del 1910 i due primi lungometraggi, ispirati entrambi alla figura dell'eroe nazionale José Rizal: El Fusilamiento, di Yearsley, e La Vida de Rizal, di Brown. Pochi anni dopo Nepomuceno realizza Dalagang Bukid ("Una giovane contadina", 1919), tratto da una zarzuela popolare. Questo film, non molto significativo dal punto di vista estetico, è tuttavia importante poiché inaugura il genere della zarzuela che diventa il più frequentato dai registi filippini fino all'inizio della seconda guerra mondiale. Dopo il 1944 gli studi riaprono producendo opere di carattere comico e popolare, con l'evidente scopo di lucrare profitti a scapito della qualità delle realizzazioni. Non mancano tuttavia, anche durante gli anni Cinquanta, film di notevole interesse, come l'affresco storico Gengis Khan (1950) di M. Conde, presentato alla Mostra di Venezia. Gli anni Sessanta sono invece caratterizzati da un fenomeno particolare: le sale sono prese d'assalto da un pubblico chiamato bakya, composto quasi interamente da diseredati che fanno degli attori dei veri e propri oggetti di culto. Tale fenomeno acuisce ancora di più la già pesante crisi di idee che domina la c., crisi da cui con slancio e forze nuove tentano di uscire i cineasti della generazione immediatamente successiva. In effetti gli anni Settanta sono contraddistinti da grandi fermenti innovativi, tanto che anche i film commerciali lasciano sempre con maggior frequenza posto a pellicole di impegno politico e civile. Il nome più noto della nouvelle vague è L. Brocka. Proveniente dal cinema commerciale, Brocka percorre ben presto le strade della denuncia, raggiungendo risultati di rilievo. I temi trattati rendono Brocka inviso alle autorità militari, che vietano la proiezione dei suoi film, più conosciuti all'estero che in patria. Insiang, per esempio, apprezzato al Festival di Cannes del 1977, ha avuto una scarsissima distribuzione. Il film più noto di Brocka è forse Jaguar (1979), drammatica storia di un giovane delinquente che tenta invano di riscattarsi attraverso l'amore, pagando con la vita i propri errori. Del 1989 è il suo polemico Les Insumis, che contesta il regime della Aquino.

Benché gli anni Ottanta vedano il ritorno a una produzione commerciale caratterizzata soprattutto da pellicole cariche di violenza o pornografia, alcuni film prendono le distanze dal cinema di genere: Oro, plata, mata (1983) di Gallaga, una storia di guerra con implicazioni religiose; Himala ("Miracolo", 1983) di Bernal, una pellicola sulle gesta dei numerosi gruppi di guerriglieri nascosti in moltissime isole dell'arcipelago; Takaw Tukso ("Portati alla tentazione", 1986) di Pascual, una tragica vicenda d'amore che ha per protagonisti quattro ragazzi.

Hong Kong. - Dopo un avvio abbastanza modesto nell'epoca del muto, il cinema hongkonghese acquista un organico assetto industriale con l'avvento del sonoro, a opera delle maggiori case di Shanghai che aprono a Hong Kong le proprie filiali. Fin dagli anni Trenta la produzione è segnata da un costante dualismo tra opere in dialetto cantonese e opere in lingua mandarina. Il cinema cantonese appare strettamente legato alla cultura popolare, e ricalca dal teatro tradizionale i propri generi: film operistico (si intitola Gelù qingchao, "Gli amanti canterini", il primo film sonoro realizzato nel 1933 da Zhao Shuxin), film comico, melodramma musicale, gongfu e wuxia, che rappresentano le due varianti del film di arti marziali. Il primo è legato alle mitologie popolari dei campioni pugilistici del tempio di Shaolin, il secondo alle tradizioni cavalleresche di cappa e spada. In entrambi i casi questi generi, profondamente radicati nella letteratura d'appendice, si basano su storie eroiche, avvolte in atmosfere magiche e fiabesche, che evocano un Oriente feudale e confuciano, dove il bene finisce sempre per trionfare.

Il cinema in lingua mandarina, al contrario, appare più aperto agli influssi occidentali e all'innesto dei generi hollywoodiani sui filoni tradizionali. Nel dopoguerra le majors di Shanghai (controllate dagli impresari Shaw e Cathay) avviano un processo di mandarinizzazione e internazionalizzazione del cinema di Hong Kong, a cui si guarda come a una sorta di Hollywood dell'Oriente. Tuttavia il cinema cantonese, con le sue radici regionalistiche e artigianali, resiste brillantemente in mano alle piccole società, registrando una graduale ascesa almeno fino alla metà degli anni Cinquanta. All'interno di una produzione prevalentemente seriale domina il melodramma attraverso i film di Qin Jian (Nanxiong nandi, "Fratelli nelle avversità", 1959), di Li Tie (Tianchang dijiu, "Un amore eterno come cielo e terra", 1955), di Li Chenfeng (Hanye, "Gelide notti", 1955). Ren Pengnian e Hu Peng si dedicano ai generi gongfu e wuxia. Hu Peng dirige tra il 1949 e il 1970 un'ottantina di film gongfu centrati sulla figura di Huang Feihong, eroe molto popolare, protettore dei deboli e difensore della morale confuciana.

Negli anni Sessanta la produzione mandarina schiaccia nettamente quella cantonese, appropriandosi dei suoi generi canonici e trasformandoli. Il melodramma mandarino si avvicina così alla commedia idilliaca, inclina verso il fiabesco, perdendo la vena popolare, che contraddistingueva il melodramma classico cantonese, a favore di un manierismo dei buoni sentimenti intriso di venature moralistiche. Tra i più fecondi autori mandarini, attivi in vari filoni, emergono Li Pingqian e Zhu Shilin.

Il passaggio negli anni Sessanta dei registi cantonesi alle compagnie e ai moduli del cinema mandarino favorisce una crescente omologazione della produzione e la progressiva disintegrazione e contaminazione dei generi, che raggiungerà il culmine nel decennio successivo. Tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta domina la figura di B. Lee nei film di Kungfu. Fenomeno divistico senza precedenti, questo attore apre al filone i mercati internazionali, delineando il mito di un eroe giustiziere, dotato di straordinarie qualità atletiche.

Successivamente Liu Jialiang opera una personale rielaborazione del gongfu coniugando la vecchia tradizione con modi moderni di rappresentazione (Shendal, "Il pugilato degli spiriti", 1975; Zhangbeil, "L'anziana della famiglia", 1981). Nel genere wuxia opera invece, nell'ultimo ventennio, King Hu imprimendovi una marca decisamente d'autore (Xianü, "La fanciulla cavaliere errante", 1971; Kongshan lingyu, "Pioggia opportuna sulla montagna vuota", 1979). Da non dimenticare infine l'apporto al film in costume di Li Hanxiang (Da junfa, "Il grande signore della guerra", 1972), attivo dal 1954 con la compagnia Shaw.

A partire dal 1978 si afferma la cosiddetta nouvelle vague hongkonghese, ambiguamente sospesa tra ricerche d'autore e concessioni al mercato. I suoi giovani rappresentanti provengono in gran parte dalla televisione: M. Hui, che reinventa originalmente il genere comico-satirico (Tien-tsai yu paichih, "Il genio e l'idiota", 1976), Ann Hui (Fengjie, "Folle assalto", 1979), A. Fog (Fuzi Qing, "Sentimenti tra padre e figlio", 1981) e Tsui Hark (Diebian, "Gli omicidi-farfalla", 1979) che si rifanno al cinema popolare cantonese. Accanto a questi autori, attivissimi negli anni Ottanta, vanno ricordati anche P. Tam (Aisha, "Assassini d'amore", 1981) e Yim Ho (Si shui liu nian, "Ritorno a casa", 1984). Si segnalano inoltre, in un panorama vivace e ricco di esordienti, i nomi di Luis Tan (1/2-Duang qing, "Infatuazione", 1986), Fong Ling Ching (Yu dafu chanqi, "Fiori di ciliegio", 1988), Angie Chang e Clifford Choi.

Kuwait. - Nel 1954 viene fondata la Società nazionale per le importazioni e per la distribuzione che rimane, a tutt'oggi, l'unica proprietaria delle sale cinematografiche − una decina − presenti nel paese. A questo impegno sul fronte della distribuzione e dell'esercizio non corrisponde un'adeguata politica governativa nel settore della produzione. In assenza di strutture e infrastrutture cinematografiche di stato, oltre che di una imprenditoria privata sviluppata, fin dagli anni Sessanta la produzione si limita quasi esclusivamente ai film televisivi. Tra questi si ricordano soprattutto La tempesta (1964) di Mohammed Al Sanusi, Il falco (1972) di Badr Al Muduf, e La caduta (1975) di Abdullah Al Muhilani. Soltanto nel 1972 esce il primo lungometraggio a soggetto della c. nazionale: Bas ya bahr ("Il mare crudele"), diretto e prodotto da Khaled Al Seddik, proprietario della compagnia Alsakr. Presentato con successo al Festival di Damasco, il film racconta, attraverso un linguaggio scarno e realistico, la storia di una famiglia di pescatori prima della scoperta del petrolio, quando la pesca delle perle rappresentava ancora la principale risorsa economica del paese. Seddik, che proviene dal documentarismo e ha studiato in India, si afferma ben presto come il solitario protagonista del cinema del Kuwait, riscuotendo ampi riconoscimenti da parte della critica internazionale. Dopo Bas ya bahr realizza Urs Zayn ("Le nozze di Zayn", 1976, tratto da un romanzo dello scrittore sudanese Tayyib Salah) e gira in India Shanin (1985), ispirato a una novella del Boccaccio e coprodotto dalla televisione italiana.

Malaysia. - Risale agli anni Trenta il primo lungometraggio a soggetto di cui si è conservata notizia: Lela Majnum, una storia d'amore diretta dal padre del cinema malese, B. S. Rajhans, e interpretata da noti attori del teatro dell'epoca. Sempre negli anni Trenta i fratelli Shaw costruiscono le prime fondamenta di una industria cinematografica nazionale stabilendo i propri studios a Singapore. Nel dopoguerra la società dei fratelli Shaw, che prende il nome di Malay Film Production (MFP), continua a detenere il monopolio del commercio cinematografico, potendo contare su un'industria a ciclo completo. Escluse le opere di Rajhans, quasi tutti i film prodotti dalla MFP sono diretti da registi indiani (L. Krishnam, S. Ramanathan) e filippini (R. Estella, R. Bayer, B. Avalana); si avvalgono di grandi star nazionali come K. Booty, un'attrice proveniente dal teatro, e P. Ramlee, attore, cantante e compositore, che dal 1954 diviene a sua volta regista. I generi predominanti sono le storie con danze e canzoni, sul modello dei film indiani, e i drammi sentimentali che sovente traggono i propri soggetti dal repertorio teatrale o dalla tradizione locale.

Negli anni Cinquanta vanno segnalate anche l'attività della Nusantara Film Company che, a differenza della MFP, promuove soltanto autori nazionali, e della Cathay Keris Film, l'unica società in grado di competere con quella dei fratelli Shaw. Tutti i teatri di posa sono concentrati a Singapore. Negli anni Sessanta i registi indiani e filippini cedono il campo agli autori malesi: alla MFP, oltre a P. Ramlee, si affermano O. Rojik, S. Kadarisman e soprattutto J. Sulong (segnalatosi nel 1958 con l'opera d'esordio Batu Belah Batu Bertangkup), che confluiscono dopo il 1967 nella Merdek Film Production, la nuova società controllata dai fratelli Shaw con sede a Kuala Lumpur. Alla Cathay lavorano invece, tra gli altri, S. Roomai Nur, M. Amin e N. Ahmad.

Negli anni Settanta il cinema malese attraversa una progressiva crisi: la chiusura delle esportazioni e il restringimento del mercato interno inducono molti registi a lavorare per la televisione. Nel 1981 lo stato crea un organismo, la FINAS, con lo scopo di proteggere e sviluppare l'industria nazionale ancora monopolizzata dai due colossi Shaw e Cathay. Tra i registi degli ultimi anni, oltre al veterano J. Shamsuddin (attivo dalla fine degli anni Sessanta e autore nel 1981 di un grande successo commerciale come Bukit Kepong), si segnalano nuove personalità quali R. Razali (Abang, "Fratello maggiore", 1980), Y. Sallek (Dia Ibuku, 1981) e S. Mohd (Langit Petang, 1982).

Nepal. - Il primo film interamente nepalese è Amma ("Madre"), diretto nel 1960 da Hira Singh, un regista che otto anni prima aveva girato in India Raja Harishchandra, con cast indiano-nepalese. Questo esordio, tuttavia, non segna l'inizio di una produzione stabile e continuativa. Sono pochissimi i lungometraggi realizzati negli anni Sessanta, in parte con il finanziamento statale, in parte con capitali privati. Nel 1971 viene fondata la Royal Nepal Film Corporation (RNFC), un'istituzione governativa che ha il compito di sostenere e sviluppare l'industria nazionale, cui si deve la produzione di cinegiornali, di documentari e di non molti lungometraggi a soggetto, realizzati spesso con il concorso di compagnie straniere. Scarsamente dinamico appare anche il settore dell'imprenditoria privata. Tra i pochi registi nepalesi attivi negli anni Ottanta si segnalano: Laxmi Nath Sharma, autore di Badlindo Aakash ("Cambiando orizzonte"), sul rapporto tra i costumi sociali nepalesi del passato e quelli attuali; Hem B. Lama che firma Aadarsha Naari ("La donna ideale"), una drammatica storia familiare; Shambhu Pradham che dirige Mayalu ("Amato"), un triste racconto d'amore; Tulshi Gimere (Kusume Rumal, "Un fazzoletto colorato"), Pradeep Rinal (Ke ghar ke dera, "Di una casa e di un appartamento in affitto"), Aleer Shah (25 Basant, "25 anni di Basant"). Nei primi anni Ottanta esordisce nella regia anche Neer Shaw, noto attore di molti film nepalesi, che con Basudev ("Un lettore"), tratto da un romanzo di Dhruba Chandra Gautam, firma una delle opere più significative del cinema nazionale.

Singapore. − Dopo la proclamazione dell'indipendenza dall'Inghilterra (1957) a Singapore continuano a funzionare le compagnie cinematografiche preesistenti, soprattutto la Cathay Organisation e la Shaw Brothers. Tuttavia le case di produzione locali incontrano subito notevoli difficoltà perché raramente coprono i costi, dato l'insufficiente numero di spettatori (circa tre milioni) e la difficoltà di imbastire storie capaci di interessare le diverse comunità di lingua malese, indiana, cinese e inglese. Le uniche pellicole che riescono a imporsi sul mercato sono quelle di arti marziali come Ring of Fury (1972) − incorso nelle maglie della censura per la sua violenza − o alcune commedie come Two nuts (1975), che ottiene un buon incasso anche in Malesia. Tuttavia questi successi sporadici non bastano a sostenere l'industria: la conseguenza è che molti studi sono costretti a chiudere e a trasferirsi in Malesia. La sola Cathay lavora sino alla fine degli anni Settanta, ma dovendo fronteggiare le industrie di Hong Kong e Taiwan ben presto punta sulla produzione pubblicitaria, filone fiorente per l'enorme numero di spot che ogni anno molte società straniere realizzano sullo sfondo delle bellezze naturali di Singapore.

Negli anni Ottanta la produzione di film a soggetto, che pure mai aveva raggiunto quantità significative, tocca i minimi storici: in alcuni anni non è stato prodotto nemmeno un film. Sempre più fiorente è invece il mercato delle videocassette: già nel 1980 circolavano nel paese oltre 10.000 cassette con i più disparati programmi, una cifra notevole se rapportata al numero di abitanti.

Taiwan. − Anno di nascita del cinema di Taiwan è considerato il 1955, in cui viene realizzato il primo film in dialetto taiwanese, Liu caizi Xixiang ji ("Sei giovani d'ingegno: Storie del Padiglione Occidentale"). Prima di allora non era stato prodotto nulla di riconducibile interamente alla cultura nazionale, sia perché fino alla seconda guerra mondiale Taiwan era un protettorato giapponese, sia per la lenta ripresa dell'apparato industriale dopo il conflitto e la riconquistata indipendenza. A partire dal 1955 si assiste a un vero boom della c.: nel solo 1966 si producono ben 257 film a soggetto, una cifra che fa di Taiwan il terzo paese produttore al mondo dopo Giappone e India, anche se la qualità delle pellicole è assai bassa. Si tratta infatti di film quasi esclusivamente commerciali ispirati al repertorio operistico e canzonettistico nazionale, o che narrano vicende melodrammatiche, antiche leggende, storie di cappa e spada. Sul finire degli anni Sessanta inizia l'epopea del personaggio più conosciuto del cinema taiwanese: B. Lee. I film da lui interpretati diventano un fenomeno di costume in tutto il mondo e a Taiwan realizzano incassi mai ottenuti nel paese, costituendo il massimo investimento industriale del cinema taiwanese.

Dal 1974 in poi l'industria cinematografica si avvia verso un lento declino, provocato dalla maggiore capacità di produrre spettacolo acquisita dalla rivale Hong Kong e dall'immissione massiccia sul mercato di videocassette, che allontanano in breve tempo migliaia di spettatori dalle sale. Soltanto dopo il 1982, anche grazie agli sforzi della casa produttrice governativa (Zhongyang dianying pongsi), si assiste a una rinascita del cinema taiwanese. Una nuova generazione di registi, abbandonato il cinema commerciale, affronta temi innovatori, narrando con particolare predilezione storie incentrate sul passaggio all'età adulta. Nel tema della crescita vissuta alla luce degli insegnamenti del passato, molti hanno visto il desiderio di raccontare le vicende storiche di Taiwan. Maestro indiscusso del nuovo cinema taiwanese è Hou Xiaoxian, autore di film di non facile lettura che pure sono riusciti a ottenere un buon successo di pubblico, quali Fenggui laide ren ("Quelli di Fenggui", 1984) e Niluohe nûer ("La figlia del Nilo", 1987). Nel 1989 Hou Xiaoxian ha vinto il Leone d'oro alla Mostra di Venezia con Beiqing chengshi ("Città dolente"). [Ang.Pr.]

Europa. − Islanda. − Benché la prima produzione islandese, Saga Borgaroettarinnar ("Storia di una famiglia di Borg"), risalga al 1919, il suo regista G. Sommerfelt era originario della Danimarca. Solamente nei tardi anni Venti la c. islandese riesce ad affrontare temi e situazioni nazionali, liberandosi dell'influenza dei paesi vicini, in special modo Svezia e Danimarca. Tra la prima e la seconda guerra mondiale vengono prodotti soprattutto documentari, mentre la fiction comincia a prendere piede negli anni Cinquanta, periodo che corrisponde al maggior sviluppo del cinema islandese. Autore incontrastato del decennio è Ò. Gislason, regista assai prolifico che alterna film comici (Reykjavíkuroevintýri bakkabroeöra, "I Bakka-Brothers a Reykjavik", 1950) e drammatici (Agirnd, "Avido", 1952) a film di impronta realista (Nýtt hlutverk, "Nuovo ruolo", 1954). Per quanto riguarda invece il documentario, la figura di maggior spicco è O. Knudsen. Negli anni Sessanta e Settanta la televisione, pur non influenzando il mercato cinematografico, frena la produzione di lungometraggi preferendo finanziare documentari. Non a caso l'Islanda può vantare in campo documentaristico un altissimo livello qualitativo. Grazie anche ai provvedimenti governativi, la situazione è andata lentamente mutando negli anni Ottanta, quando si sono prodotti molti film interamente islandesi che hanno con successo arginato la forte presenza sul mercato di pellicole straniere (americane, danesi e svedesi). Citiamo Land og Synir ("Terra e figli", 1979), Utlaginn ("I fuorilegge", 1981), Med allt a hreinu ("In su", 1983) di A. Gudmundsson, e Okkar a milli ("Inter nos", 1983) di H. Gunnlaugsson.

Lussemburgo. − Il Lussemburgo presenta un buon circuito di sale commerciali e d'essai, una vivace e importante Cinémathèque Municipale che opera dal 1977, un festival annuale dedicato al nuovo cinema tedesco, un mercato sviluppato degli audiovisivi. A questo fervore di cultura cinematografica corrisponde molto tardivamente un analogo impegno a livello produttivo. Soltanto nel 1980 esce il primo lungometraggio a soggetto lussemburghese, in dialetto locale: Wât huet e gesôt ("Che cosa ha detto?") di P. Scheuer, che racconta la vita quotidiana di un gruppo di studenti. Precedentemente erano stati prodotti esclusivamente rari documentari e qualche sex-movie. Nel 1983 Scheuer realizza il suo secondo lungometraggio, Congé fir e Mord ("L'assassino si prende un giorno di libertà"), una commedia nera che riscuote grande successo di critica e di pubblico. In contrasto con i bassi costi di questi film, prodotti dalla AFO, viene realizzata nel 1985 la megaproduzione Di Zwéi vum Bierg ("Due amici"), di cui si appronta anche una versione televisiva. In essa i registi M. Bodson e M. Olinger descrivono l'occupazione nazista nel Nord del paese dal 1940 al 1945. Tra le opere più interessanti della giovanissima c. si segnala nel 1984 il mediometraggio One-Reel Picture Show, un omaggio all'espressionismo tedesco che A. Bausch realizza ispirandosi a una novella di Poe. Nel 1986 Bausch gira in bianco e nero e in 16 mm il lungometraggio Gwyncilla, rivisitazione del Medioevo leggendario e fantastico. Nel 1987 esordiscono nella regia F. Hoffmann e P. Kieffer firmando Die Reise das Land, una storia ambientata nella Russia dell'Ottocento e ispirata agli scritti di Turgenev e Poe. Con questo e altri film, che vengono invitati ai festival europei e americani, il giovane cinema lussemburghese comincia a segnalare la propria presenza sulla scena internazionale.

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Cinematografia scientifica. - Negli ultimi decenni l'espressione cinematografia scientifica ha assunto significati più ampi rispetto al passato, quando si riferiva a film di argomento strettamente scientifico: un'operazione chirurgica o un documentario sulla vita degli animali o un film realizzato con tecniche speciali, come i raggi X o le alte velocità di ripresa. Grazie anche alla creazione, nel 1947, dell'Association Internationale du Cinéma Scientifique/International Scientific Film Association, affiliata all'UNESCO, viene ormai definito cinema scientifico quello che fa un uso razionale del linguaggio delle immagini in movimento con qualsiasi tecnica realizzato e per i più diversi scopi. Il cinema scientifico, rispetto al film spettacolare/narrativo, corrisponde − in questa ampia accezione − alla saggistica nei confronti della letteratura narrativa e poetica. Le ricerche storiche sulle origini della c. hanno d'altronde dimostrato che, nel secolo scorso, "la registrazione cinematografica è nata dalle esigenze della ricerca scientifica" (J. Vivié), ben prima di venir utilizzata per fini di spettacolo.

Le principali applicazioni della c. scientifica si hanno fondamentalmente nella ricerca (e sua documentazione), nell'insegnamento e nella divulgazione. Per la ricerca e documentazione scientifica le tecniche normali e speciali della c. (e di tutte le successive nuove tecnologie) hanno costituito, fin dal secolo scorso, uno strumento di indagine che ha permesso di estendere le conoscenze umane al di là di confini che sembravano invalicabili, rivelando la sostanza di fenomeni fino ad allora inafferrabili perché troppo piccoli o troppo grandi, troppo lenti o troppo rapidi.

Con un'espressione sintetica si può dire che il cinema scientifico ci ha permesso di ''vedere l'invisibile''. Numerosi premi Nobel per le scienze sono stati assegnati per scoperte effettuate anche con l'uso di tecniche cinematografiche. In uno dei settori più recenti del lavoro scientifico, le ricerche spaziali, appare evidente come molte delle nuove conoscenze acquisite siano dovute all'apporto diretto delle documentazioni cinematografiche: per realizzarle sono state addirittura costruite speciali apparecchiature le cui caratteristiche tecnologiche d'avanguardia hanno poi trovato impiego nella produzione corrente di cineprese e di altri strumenti di registrazione di immagini.

Allo stesso modo, per una delle scienze più antiche, l'astronomia, il cinema scientifico ha fornito strumentazioni speciali (per es. il filtro di Lyot- unito alle riprese intervallate − utilizzato per registrare le immagini delle cosiddette ''fiamme solari'' e in genere per lo studio della cromosfera) e continua a fornirne anche con l'integrazione e l'interazione tra tecniche cinematografiche e ordinatori elettronici per il miglioramento di immagini critiche e la loro analisi. Le scienze biologiche sono state tra quelle che più hanno beneficiato dell'intervento della c. nella ricerca e nella documentazione. Il microscopio unito alla cinepresa (e con l'uso di altre tecniche speciali, come l'alta velocità, le riprese intervallate [time-lapse], pellicole sensibili a particolari radiazioni, ecc.) ha permesso di studiare e comprendere molti fenomeni vitali (normali e patologici) della cellula e dello sviluppo embrionale (si ricordano tra i pionieri J. Comandon di Parigi, l'inglese R. G. Canti, W. Kuhl di Francoforte). In botanica, le tecniche cinematografiche sono state fondamentali per lo studio dei foto- e geotropismi delle piante (da ricordare i lavori pionieristici di W. Pfeffer di Lipsia e J. Calábek di Brno). Per la zoologia, il cinema scientifico ha permesso di scoprire e documentare molti aspetti della vita animale: la locomozione su terra e in acqua, il volo degli uccelli (fig. 1), predazione, riproduzione (fig. 2), e in genere tutti gli aspetti comportamentali. Sono state create raccolte di film di tipo enciclopedico, costituite da migliaia di documenti, che possono essere consultate anche in modo comparativo. In un settore specifico come quello del mondo subacqueo, basti pensare all'immensa quantità di documentari realizzati dal solo I. Y. Cousteau, francese (v. in questa App.), dal 1939 in poi. Le scienze medico-chirurgiche si sono servite delle tecniche della c. scientifica fin dai suoi inizi e ancora oggi questi filmati sono numerosissimi, sia per la ricerca sia per l'insegnamento. Il pioniere francese E. L. Doyen teorizzava, già prima della fine del 19° secolo, l'importanza del cinema perché gli permetteva di migliorare la tecnica operatoria, studiando i filmati dei suoi interventi. I raggi X (scoperti nel 1895) furono subito utilizzati nella roentgencinematografia, così come successivamente avranno applicazioni filmiche i più diversi sistemi di visualizzazione termografica, sonografica, ecc. L'endoscopia, accoppiata con le tecniche cinematografiche (recentemente sfruttando soprattutto le fibre ottiche), ha permesso molte nuove scoperte e favorito numerosi interventi chirurgici. Le scienze fisiologiche − con l'inestimabile opera di E.-J. Marey e di E. Muybridge − hanno contribuito alla nascita stessa del cinema scientifico e quindi ne hanno tratto immenso vantaggio, anche nel settore della fisiologia e della psicologia delle discipline sportive. Le scienze fisiche e della terra hanno trovato nel cinema scientifico possibilità prima inesistenti per la ricerca sperimentale e la documentazione. I progressi della geografia moderna sono legati alla documentazione e all'analisi cinematografica, anche con tecniche speciali come l'aerofotogrammetria. Le scienze ingegneristiche (in particolare la dinamica dei fluidi) e militari (come la balistica) hanno compiuto grandi progressi esclusivamente per merito delle tecniche speciali del cinema scientifico, così come campi specializzati quali la cristallografia, la metallografia, lo studio dei processi di corrosione, ecc. Particolari applicazioni hanno avuto, in tutti questi settori, le tecniche di fotocinematografia ultraveloce che permettono oggi di registrare e analizzare eventi di durata inferiore al milionesimo di secondo (da ricordare tra i primi pionieri L. Bull, allievo di Marey e, tra i più moderni, H. E. Edgerton del Massachusetts Institute of Technology).

Le scienze umane, contrariamente a quel che si potrebbe superficialmente immaginare, sono tra le grandi utilizzatrici del cinema scientifico. In campo etnologico, ancor prima che il cinema di Lumière si diffondesse, il pioniere francese F. Regnault usava i cronofotografi di Marey e teorizzava l'indispensabilità di una documentazione filmica in ogni museo etnografico. Oggi esistono cattedre di antropologia visuale e si parla di urgent anthropology per indicare la necessità di documentare col cinema eventi e tradizioni destinati a scomparire. In psicologia e psichiatria il cinema è molto usato, in particolare per la psicologia infantile.

Il sovietico I. P. Pavlov se ne servì negli anni Venti, anche con la collaborazione del regista V. I. Pudovkin, così come l'americano A. Gesell a Yale, che coniò il termine di cinemanalysis. Nel campo del comportamento umano in genere, molte applicazioni ha avuto la tecnica della candid camera (''cinepresa nascosta''), in particolare anche per il lavoro di ricerca svolto da A. C. Kinsey sul comportamento sessuale umano.

La tecnica cinematografica in sé e per sé, oppure con speciali applicazioni, è servita in parecchi casi come stimolo sperimentale per le ricerche sulla percezione visiva e sui movimenti oculari. Anche le più moderne tecniche di grafica computerizzata trovano origine e utilizzazioni sempre più sofisticate in campo scientifico. Le tecniche speciali del cinema scientifico applicate alla ricerca sono spesso usate nei diversi laboratori alla stregua di altri strumenti di indagine. Ma esistono anche istituzioni centralizzate che riuniscono le più costose attrezzature speciali, mettendole a disposizione di ricercatori e altri enti scientifici (per es. l'Institut für den Wissenschaftlichen Film di Gottinga e l'Istituto di FotoCinematografia scientifica dell'università di Mosca).

Un importante settore della c. scientifica è costituito dalle sue applicazioni all'insegnamento. Accanto ai classici film didattici che trattavano in forma sistematica un argomento, si sono affermati, in particolare, i piccoli formati dell'8 mm e poi del Super 8 e, con speciali proiettori a cartuccia, i cosiddetti single concept films (''film uniconcettuali''), brevi filmati di pochi minuti, generalmente muti, dedicati alla trattazione di un solo fenomeno.

Questi film hanno la caratteristica di potersi inserire senza problemi e con il massimo di efficacia nel momento giusto della lezione tradizionale, integrando con il linguaggio delle immagini particolarmente esplicativo il discorso del docente. Per la loro brevità, i film uniconcettuali erano generalmente confezionati ad anello senza fine (film-loop) e potevano quindi essere proiettati più volte di seguito, anche soffermandosi su un singolo fotogramma. Con i moderni sistemi televisivi delle videocassette, questa metodologia di introduzione di brevi filmati scientifici uniconcettuali nell'ambito della lezione sta largamente diffondendosi, anche perché la manualità e le apparecchiature tecniche si sono molto semplificate. L'introduzione dei videodischi a lettura laser e di altre nuove similari tecnologie, vere e proprie banche-dati di immagini fisse e in movimento, consultabili in forma sistematica o mirata, porteranno a un ancor più ampio e capillare impiego delle produzioni di cinema scientifico nella didattica di ogni livello. Già oggi largo uso di audiovisivi si ha in settori particolari come quelli dei corsi di formazione, addestramento, riqualificazione e aggiornamento tecnico e professionale. Un uso peculiare del linguaggio delle immagini in movimento nell'insegnamento si ha con la tecnica del microteaching. I neo-insegnanti che devono familiarizzarsi con la pratica didattica svolgono una ''microlezione'', di fronte ad alcuni studenti, che viene registrata. Il filmato relativo sarà oggetto di discussioni tra il neo-insegnante e i suoi docenti e colleghi.

Tra le recenti applicazioni della c. scientifica nella didattica un cenno particolare va riservato alle numerose iniziative di insegnamento a distanza, la più nota delle quali è la Open University britannica: pur non essendo basate esclusivamente sulle tecniche audiovisive, anzi predisponendo l'uso di manuali e testi appositamente preparati, è da sottolineare che questi corsi si affidano in genere ai filmati di tipo scientifico per comunicare tutte quelle conoscenze che possono essere trasmesse più efficacemente per mezzo del linguaggio delle immagini che non con la parola o la stampa.

Il terzo grande settore di applicazione del cinema scientifico è quello della divulgazione. Fin dai suoi inizi pionieristici, lo spettacolo cinematografico popolare comprendeva spesso alcuni brevi filmati di carattere direttamente o indirettamente scientifico: film ''esotici'' su usi e costumi di paesi lontani, scene di vita animale, curiosità della natura, ecc. Ben presto si sviluppò una produzione specializzata di veri e propri documentari di divulgazione scientifica, anche con l'uso di tecniche speciali, come la microcinematografia. Nei decenni successivi si radicherà la tradizione, talvolta anche prevista dalle apposite leggi sul cinema, di includere in ogni spettacolo anche un complemento di programma, costituito quasi sempre da un documentario culturale o scientifico. Grande fu l'importanza educativa di tale programmazione se si pensa al numero incalcolabile di spettatori cinematografici che hanno frequentato per decenni le sale di proiezione quando il cinema era in assoluto la più popolare e più diffusa forma di divertimento.

Nella storia del cinema si ricordano altresì alcuni autori e scuole che si sono caratterizzati per un approccio educativo e/o scientifico: il sovietico D. Vertov con la sua teoria del ''cine-occhio'' e i suoi documentari ispirati a una drammaturgia scientifica del cinema; l'americano R. Flaherty con i suoi film dedicati alla ricostruzione della vita e dei costumi di etnie al limite del mondo moderno (si ricordi in particolare Nanook of the North, 1922); il britannico J. Grierson promotore e animatore prima della scuola documentaristica britannica e poi del cinema canadese; la scuola sovietica di documentari sulla natura e sulla vita degli animali (tra i cui esponenti vanno ricordati B. Dolin e A. Zguridi). Anche l'americano W. Disney, a fianco dei suoi noti film a disegni animati, promosse la realizzazione di numerosi film sulle meraviglie della natura e sul mondo animale: ma la sua concezione dello spettacolo basata sulla drammatizzazione e sull'interpretazione antropomorfica ha fatto sì che la maggior parte di questi film, pur realizzati con l'uso di tecniche speciali tipiche del cinema scientifico, non fossero considerati né scientifici né divulgativi. Lo sono diventati, invece, quando questi filmati sono stati smontati e riutilizzati in forma di film uniconcettuali.

Nei tempi più recenti la televisione ha assunto in proprio ed esteso l'opera di divulgazione scientifica già svolta in passato nell'ambito dello spettacolo cinematografico. Molte sono le trasmissioni televisive di carattere scientifico che ottengono indici di gradimento molto elevati, talvolta in grado di competere con programmi di intrattenimento e svago. Ma è da segnalare, ormai, che le tecniche speciali del cinema scientifico sono entrate nelle nostre abitudini quotidiane, senza che quasi ce ne rendiamo più conto. Si pensi alla possibilità che ci è data, dopo un evento sportivo o di qualunque altro genere, di analizzarne le immagini, nel tempo e nello spazio, come all'occhio non è consentito. Vedi tav. f. t.

Bibl.: F.P. Liesegang, K. Kieser, O. Polimanti, Wissenschaftliche Kinematographie, Lipsia 1920; J. Vivié, Traité général de technique du cinéma, Parigi 1946; P. Thevenard, G. Tassel, Le cinéma scientifique français, ivi 1948; M. Tichonov, Kino na sluzbe nauki, Mosca 1954; A.R. Michaelis, Research films in biology, anthropology, psychology and medicine, New York 1955; G. Wolf, Der Wissenschaftliche Dokumentationsfilm und die Encyclopaedia Cinematographica, Monaco 1967; J. Rieck, Technik der Wissenschaftlichen Kinematographie, ivi 1968; V. Tosi, Il ''concept film'', Roma 1970; UNESCO, New trends in the utilization of educational technology for science education, Parigi 1974; G. Wolf, Scientific film in the Federal Republic of Germany, Bonn 1975; Metodi ed esperienze di informazione audio-visiva nella ricerca e nell'insegnamento delle scienze, a cura di V. Tosi, in Annuario 1976 della Enciclopedia della scienza e della tecnica, Milano 1976; A. Zguridi, Ekran, Nauka, Žizn, Mosca 1983; V. Tosi, Il cinema prima di Lumière, Roma 1984; Id., Il linguaggio delle immagini in movimento, ivi 1986.

Documentario. - È un tipo di film, a predominante fine informativo, che illustra la cronaca, la realtà sociale, i comportamenti dei singoli e delle moltitudini, la vita della natura, il progresso tecnico e scientifico, il patrimonio artistico e culturale. ''Documentario'' è all'inizio sinonimo di ''ripresa dal vero'', ma più tardi, nel dibattito teorico, lo si assume come forma diretta di osservazione contrapposta agli artifizi e alle magie del teatro di posa. Un interesse spiccato verso questo settore della c. hanno sempre avuto le istituzioni pubbliche, i grandi complessi industriali, i governi. Nonostante le strumentali tutele del potere politico ed economico, i migliori documentaristi non si sono mai sottomessi alla priorità dello scopo conoscitivo o propagandistico rispetto alla ricerca e alla sperimentazione linguistica.

È il caso del sovietico D. Vertov che, soprattutto con i lungometraggi Šestaja čast'mira ("La sesta parte del mondo", 1926), Odinadcatyj ("L'undicesimo", 1928), Simfonija Dobassa ("Sinfonia del Donbass", 1930), ha imbastito poemi visivi costruiti alla maniera di composizioni musicali. Čelovek s kinoapparatom ("L'uomo con la macchina da presa", 1929), oltre a essere il caleidoscopio di una metropoli sovietica, ha offerto un geniale saggio sulla ricchezza del linguaggio cinematografico.

Esente da preoccupazioni mercantili, il documentario ha attratto molti artisti d'avanguardia, tra cui si ricorda l'olandese J. Ivens, trascorso dalle squisite e virtuosistiche strutturazioni formali di De brug ("Il ponte", 1928) e Regen ("Pioggia", 1929) alle tematiche sociali e civili in Borinage (1934), Zuiderzee (1934), Spanish earth ("Terra di Spagna", 1937). Gli furono compagni di percorso il francese J. Vigo, il cui A propos de Nice ("A proposito di Nizza", 1929) è una corrosiva demistificazione del mito turistico di Nizza, e il surrealista spagnolo L. Buñuel, autore di Las Hurdes (1932), crudo spaccato della povertà nelle montagne della Spagna centrale.

Il rapporto tra l'uomo e l'ambiente naturale nelle aree geografiche lontane dalla civiltà industriale è stato indagato, a cavallo tra gli anni Venti e Trenta, dall'americano R. Flaherty in Nanook of the North ("Nanook l'esquimese", 1922), Moana ("L'ultimo Eden", 1926), The man of Aran ("L'uomo di Aran", 1934), con un possente afflato lirico e impiegando procedimenti di drammatizzazione. Richiamandosi alle esperienze di Flaherty, lo scozzese J. Grierson, dopo aver diretto Drifters ("Pescherecci", 1929), ha costituito in Inghilterra una scuola documentaristica a cui appartennero B. Wright, P. Rotha, H. Watt, E. Anstey, S. Legg, A. Cavalcanti, H. Jannings.

I valori della democrazia, della partecipazione e della comunità furono lumeggiati in piccoli film che prospettavano con un taglio avvincente situazioni di ogni giorno. Da questo ceppo discenderanno gli apporti canadesi del National Film Board e, alla vigilia del decennio Sessanta, le pungenti proposte dei britannici T. Richardson, L. Anderson, K. Reisz, J. Schlesinger.

Particolare rilievo ha assunto in Francia il fenomeno del cinéma verité, soprattutto per merito di J. Rouch che, in Moi, un noir ("Io, un negro", 1957), La pyramide humaine ("La piramide umana", 1959), Chronique d'un été ("Cronaca di una estate", 1960), Chasse au lion à l'arc ("Caccia al leone con l'arco", 1964), ricorrendo all'impiego dell'intervista e alla valorizzazione della parola, ha consentito di compiere indagini approfondite sotto il profilo psicologico, fenomenologico ed etnografico. Negli Stati Uniti, le risorse di una tecnologia agile sono state fruttuosamente impiegate da R. Leacock, S. Meyers, D. A. Pennebaker nel cinema diretto, espressione di un giornalismo vivace, fluido e incisivo. In Italia, grazie a F. Pasinetti, G. Pozzi Bellini, M. Antonioni, G. Paolucci, F. Cerchio, e dal secondo dopoguerra in poi per merito di F. Maselli, C. Lizzani, M. Gandin, V. Zurlini, R. Renzi, M. Mida, N. Risi, L. Comencini, F. Vancini, L. Emmer, V. De Seta, L. Di Gianni, R. Andreassi, C. Di Carlo, G. Guerrasio, G. Mingozzi, G. Pellegrini, P. e V. Taviani, F. Quilici, V. Tosi, si è avuta una ragguardevole fioritura documentaristica. Un po' dovunque, il documentario ha concorso allo svecchiamento linguistico e influito sui registi del cinema di finzione.

Bibl.: P. Rotha, Documentary film, Londra 1936-66; J. Grierson, Documentario e realtà, trad. it., Roma 1950; E. Barnow, Documentary: a history of the non fiction film, New York-Londra 1974; R. Nepoti, Storia del documentario, Bologna 1988.

Cinema underground. - Il cinema underground è un fenomeno storicamente pertinente a un periodo delimitato della storia del cinema, in rapporto alla generale rivoluzione dei linguaggi, delle istituzioni culturali e dell'industria dello spettacolo operata dalle neoavanguardie negli anni Settanta. Nasce dalle esperienze statunitensi di S. Brakhage e J. Mekas, dal modello produttivo inventato nella factory di A. Warhol (cfr. App. IV, iii, p. 852). I suoi caratteri distintivi sono: un apparato di produzione ''leggero'', grazie alla diffusione del Super 8 e della telecamera portatile; il ricorso a una piccola troupe e ad attori non professionisti; uso del mezzo in situazioni informali, fuori dal set e dagli apparati di produzione e distribuzione dell'industria cinematografica; la tendenza alla ''riappropriazione'' del cinema come strumento di espressione individuale e di conoscenza. La produzione del cinema underground è alternativa in quanto reinventa una nuova pratica e una nuova estetica filmica i cui soggetti privilegiati sono le situazioni di violenza ed emarginazione sociale e culturale (le donne, gli anziani, i tossicodipendenti, gli omosessuali). È un cinema diretto ''militante'', ''partecipato'', finalizzato ad attivare processi di consapevolezza in situazioni sociali particolari, come le istituzioni chiuse − le carceri, i manicomi (tipico in tal senso Matti da slegare, 1978, di M. Bellocchio) −, i ghetti urbani.

La generazione post-warholiana degli autori di film underground come M. Snow (Wavelenght, 1967), K. Jacobs, E. Gehr (Reverberation, 1966), G. Landow, è influenzata dalle esperienze di minimal art, e dall'expanded cinema di G. Youngblood che ha portato il film ''strutturale'' a fondersi con gli eventi intermediali nelle multivisioni degli spettacoli off. Sulla metà degli anni Settanta, la new wave punk reagisce al cinema delle neo-avanguardie con film giocati sul revival di generi e autori riconosciuti che parodizzano la cultura di massa, come quelli di A. Poe (The Foreigner, 1978, e Subway Riders, 1980), di E. Mitchell, di J. Jarmush.

Vero esordio di successo del film underground in Italia è stato il film Anna (1972-73) di A. Grifi e M. Sarchielli, girato in video e riversato in pellicola, e Io sono un autarchico (1977) di N. Moretti, girato in Super 8. Esiste tutt'oggi una produzione fuori standard e fuori dai circuiti ufficiali, ma non è collocabile nell'ambito storicamente circostanziato del cinema underground.

Bibl.: The new American cinema, a cura di G. Battcock, New York 1967; S. Renan, The American underground film, ivi 1967; G. Youngblood, Expanded cinema, ivi 1969; S. Brakhage, Metafore della visione, trad. it., Milano 1970; J. Mitry, Storia del cinema sperimentale, trad. it., ivi 1971; A. Aprà, E. Ungari, Il cinema di Andy Warhol, Roma 1978; R. Milani, Il cinema underground americano, Messina-Firenze 1979; Cinema off e videoarte a New York, a cura di E. de Miro, Genova 1981.

Thriller. - Secondo i dizionari inglesi, thriller è ciò che, nella vita o in una struttura narrativa, provoca una forte emozione e dunque evoca qualcosa di sensazionale e vibrante. Correlata ai prodotti del cinema, della letteratura e dello spettacolo, la definizione non indica tanto un genere avente propri caratteri e specificità quanto un insieme di elementi introdotti nello sviluppo di una trama. Il thriller poggia su dati costitutivi facilmente riconoscibili: l'inatteso, il sospetto, l'inganno, l'innocenza non creduta, la crisi di identità che attanaglia il protagonista bersagliato da circostanze avverse e dapprima inspiegabili. Né difettano altre componenti: il pericolo, la violenza e la morte in agguato, il mistero, la paura incontrollabile, la solitudine delle vittime, la fuga, il caos, la vertigine, l'insicurezza e l'instabilità in un universo apparentemente tranquillo e ordinato.

Nel thriller di solito non v'è una netta demarcazione fra le forze del bene e del male e ogni accorgimento ha l'obiettivo di impressionare e inquietare il pubblico per poi rassicurarlo. L'eroe talvolta partecipa di un'ambiguità che è assai diffusa nelle vicende spionistiche, e vive in modo esaltante le stesse vicissitudini dei criminali. Regista di thrillers per antonomasia è A. Hitchcock, che nel 1935 ha trasposto su pellicola The thirty-nine steps (Il club dei trentanove) di J. Buchan e nel 1960 ha diretto Psycho, desunto dall'omonimo romanzo di R. Bloch. L'esempio di Hitchcock chiarisce come il thriller entri continuamente in commistione con altri comparti della fiction cinematografica: il giallo, il poliziesco, il nero, l'horror, la fantascienza, l'avventuroso, il musicale (''thriller-jazz'' è stato rubricato dalla pubblicità, nel 1988, Stormy monday, di M. Figgis).

La critica internazionale non esita a inserire nella schiera dei cineasti più esperti nell'amministrazione di emozioni e angosce l'italiano D. Argento (L'uccello dalle piume di cristallo, 1970; Quattro mosche di velluto grigio, 1972; Tenebre, 1982), gli americani J. Carpenter (Assault on Precinct 13, Distretto 13°: le brigate della morte, 1976), G. A. Romero (Night of the living dead, La notte dei morti viventi, 1968; Zombie, 1978), B. De Palma (Obsession, Complesso di colpa, 1976; Carrie, 1976; Dressed to kill, Vestito per uccidere, 1981), il polacco R. Polanski (Repulsion, 1965; Le locataire, L'inquilino del terzo piano, 1976; Frantic, 1988), il tedesco F. Lang (Man hunt, Duello mortale, 1941; Ministry of fear, Prigioniero del terrore, 1944; The big heat, Il grande caldo, 1953), e nell'elenco dei film più significativi sono inclusi Duel di S. Spielberg (1971) e Shining di S. Kubrick (1981).

È un ventaglio che nella eterogeneità dei nomi, dei titoli e degli stili, dimostra come sia arduo stabilire le linee di confine che contraddistinguono un thriller da un componimento apparentabile. Tuttavia nella ricerca dell'effetto si coglie la misura artistica di ogni autore. Nel thriller i riferimenti alla realtà meritano di essere intesi in senso lato. Osserva R. Harper in un suo acuto studio: "il thriller non è solo frutto di immaginazione, e neppure della ragione, ma rivela il mondo interiore di motivi, aspirazioni e conflitti, utilizzando rappresentazioni del mondo esterno solo come mezzi per esprimerlo... Quando indaghiamo nelle nostre ansie e confusioni scopriamo cosa nascondono: questo processo non dovrebbe essere chiamato evasione, ma ripresentazione del reale".

Bibl.: L. Hammond, Thrillers movies, New York 1975; R. Harper, Il mondo del thriller, trad. it., Napoli 1977; D. Soare, Il cinema thrilling, Roma 1982.

Premi Oscar. - Si tratta dei premi attribuiti annualmente negli Stati Uniti ai film ritenuti tra i più meritevoli e rappresentativi. Tali premi consistono in statuette ricoperte d'oro, disegnate dallo scenografo e art director C. Gibbons. I premi sono stati istituiti nel 1929 dall'Academy of Motion Picture Arts and Sciences, l'Academy Award, l'organizzazione promossa nel 1927 dal produttore L. B. Mayer. Sotto la sigla dell'AMPAS, uno dei maggiori esponenti dell'industria cinematografica americana intendeva raccogliere le principali categorie interessate alla realizzazione di film, perseguendo il fine di evitare attriti di natura sindacale e avendo in animo di intraprendere iniziative che miravano a favorire l'innalzamento dei livelli produttivi e tecnici a Hollywood. Dissidi intestini hanno finito per svuotare le ambizioni di L. B. Mayer e indurre i registi, gli sceneggiatori, i tecnici e gli attori a organizzarsi autonomamente. All'AMPAS non è restato che il compito di celebrare, ogni primavera, il rito della consegna degli Oscar.

Con questa denominazione dal 1931 si identificano altrettanti premi, che hanno raggiunto il ragguardevole numero di venticinque, destinati annualmente a gratificare oltre che i film anche le diverse componenti che a diverso titolo hanno contribuito alla creazione cinematografica statunitense distinguendosi nel rispettivo campo: regia, interpretazione maschile e femminile, prestazioni di attori e attrici secondari, soggetto e sceneggiatura, scenografia e costumi, musica, cortometraggio e lungometraggio documentario, effetti speciali, ecc. Un premio è stato altresì introdotto nel 1947 a favore del miglior film straniero e ne hanno goduto fra gli altri: Ladri di biciclette di V. De Sica (1949), Rashomon di Akira Kurosawa (1950), La strada di F. Fellini (1956), Mon oncle di J. Tati (1958), Vojna i mir (Guerra e pace) di S. F. Bondarčuk (1968), Le charme discret de la bourgeoisie (Il fascino discreto della borghesia) di L. Buñuel (1972), Fanny och Alexander (Fanny e Alexander) di I. Bergman (1983), Nuovo Cinema Paradiso di G. Tornatore (1990).

Alla proclamazione dei vincitori si giunge grazie a un agile meccanismo. I dirigenti dei diversi settori dell'AMPAS, cui aderiscono 5000 soci ripartiti tra le diverse professioni del cinema, procedono a una prima scelta che culmina nella proposta di cinque nomi o titoli per ciascun premio in palio. Sono queste le nominations, che rappresentano già di per sé motivo di soddisfazione per i candidati poiché le indicazioni dei selezionatori già costituiscono un riconoscimento di professionalità. Successivamente i membri dell'AMPAS votano le liste dei nomi e dei titoli loro sottoposti. Il rilievo assunto dall'assegnazione degli Oscar è tale da rivitalizzare commercialmente i film insigniti. Anche gli Oscar, così come altri premi, non sono esenti da colpe e omissioni imperdonabili. Nell'elenco dei dimenticati figurano Ch. Chaplin, G. Garbo, J. von Sternberg, K. Vidor, M. Dietrich, E. Lubitsch, H. Hawks.

L'aspirazione a segnalare i più alti valori artistici e culturali non è mai stata dominante all'interno dell'AMPAS. Il criterio prevalente è stato quello di premiare film che conciliassero un livello culturale dignitoso con l'inappuntabile qualità tecnica dei prodotti, le esigenze dello spettacolo e di una comunicazione avvincente, l'aderenza agli umori del tempo.

Nel novero delle consacrazioni più indicative rientrano quelle di All quiet on the western front (All'ovest niente di nuovo) di L. Milestone (1929-30), Gone with the wind (Via col vento) di V. Fleming (1939), Casablanca di M. Curtiz (1943), The lost week end (Giorni perduti) di B. Wilder (1945), Marty di D. Mann (1955), Ben Hur di W. Wyler (1959), Lawrence of Arabia (Lawrence d'Arabia) di D. Lean (1962), Rocky di J.G. Avidelsen (1976), Annie Hall (Io e Annie) di W. Allen (1977), Amadeus di M. Forman (1984), Dance with wolves (Balla coi lupi) di K. Costner (1991).

Bibl.: G. C. Likeness, The Oscar people, Mendota 1965; A. Thevenet, Cine sonoro americano: y los Oscars de Hollywood, Buenos Aires 1975; R. Pickard, The Oscar movie from A. to Z., Londra 1977; T. Simonet, Oscar: a pictorial history of the Academy Awards, Bromley 1983; E. Lancia, I premi del cinema (1927-1990), Roma 1991.

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