MONTEVERDI, Claudio

Enciclopedia Italiana (1934)

MONTEVERDI, Claudio

Gian Francesco MALIPIERO
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Compositore, nato a Cremona (figlio del medico Baldassarre), il 15 maggio 1567, morto a Venezia il 29 novembre 1643. Nella sua città natale, dove studiò contrappunto e viola con il celebre polifonista Marcantonio Ingegneri, visse sino ai 22 anni, componendovi le sue prime musiche religiose (Sacrae Cantiunculae e Canzonette a tre voci). Subito dopo passò alla corte dei duchi di Mantova come semplice sonatore di viola, componendovi, tra il 1589 e il 1613, quattro libri di madrigali (dal II al V), gli Scherzi musicali a tre voci, l'Orfeo e l'Arianna. Ottenne il posto di maestro di cappella soltanto nel 1603, dopo molte lotte e amare delusioni. Dai Gonzaga del resto ebbe sempre scarso compenso e per riscuotere la non larga pensione assegnatagli dovette poi ricorrere a suppliche e implorazioni. Nel 1613 entrò al servizio della repubblica di Venezia e vi divenne maestro della cappella di S. Marco, posto che tenne fino alla morte. Di quando in quando ebbe occasione di compiere viaggi; quelli fatti al seguito del duca Vincenzo Gonzaga in Ungheria e nelle Fiandre poterono avere effetti anche nella sua produzione artistica. Durante il secondo viaggio egli ebbe occasione di conoscere direttamente la musica francese e fiamminga, della cui influenza è traccia in alcuni Scherzi musicali e Canzonette. Fu poi a Roma, Milano, Bologna, spinto da varie circostanze private. D'altra parte i procuratori di S. Marco cercavano tutti i pretesti per opporsi alle sue assenze da Venezia, temendo ch'egli non ritornasse, mentre per alimentare il suo attaccamento lo ricompensavano con alti stipendî. Della sua vita privata conosciamo del resto molto poco: soltanto quello che emerge dalle lettere. Importante avvenimento fra tutti, tale da procurargli il più grande dolore della sua vita, fu la morte della moglie, la cantatrice Claudia Cattaneo, morte avvenuta nel 1607. Egli reagì esprimendo il suo strazio nel celebre Lamento d'Arianna, innalzando alla sua compagna un monumento imperituro. Da Claudia aveva avuto due figli: Francesco e Massimiliano, dei quali il primo si dedicò anch'egli alla musica.

Già nei lavori giovanili, fino dai tempi cremonesi, M. si volgeva a concentrare in una voce l'espressione canora, servendosi delle altre voci (come più tardi si servì degli strumenti) per creare intorno a essa un'atmosfera sinfonica. Da principio l'espressione musicale della melodia viene intensificata con le risorse fornite dall'armonia, presso M. assai raffinata; man mano poi che la melodia vocale andava conquistando esplicito predominio, il maestro rinunziava a tutto ciò che poteva ostacolare l'evidenza del canto e si potrebbe dire in un certo senso che, pure disdegnando facili effetti vocali, egli sia stato, in ciò, precursore dello stile melodrammatico italiano dell'Ottocento. Carattere tipico dell'arte monteverdiana è una genialità non schiava delle teorie e che segue soltanto un'aspirazione: raggiungere la massima espressione nella massima semplicità. Alla novità del suo stile si mosse infatti grande guerra da parte dei teorici suoi contemporanei; fra tutti acerrimo quell'abate Artusi che si diede a vituperare l'ardimento stilistico dei madrigali in libelli firmati ora con il suo vero nome, ora con lo pseudonimo di "Antonio Braccino da Todi". Guerra che non poté però impedire la diffusione e il trionfo di quell'arte. L'elemento della tecnica monteverdiana che più determinò queste animosità era contenuto nell'armonia. Pure richiamandosi ai modi medievali, il M. contribuiva con l'uso coerente di dissonanze attaccate senza preparazione, a sviluppare il senso delle funzioni che poi si dovevano congegnare nel meccanismo tonale moderno. Di questa evoluzione armonica e in genere dell'evoluzione della scrittura monteverdiana verso una più grande libertà nel movimento e nella disposizione delle parti, troviamo tracce già nei madrigali dal II libro in poi, mentre la fioritura massima avverrà nell'VIII libro e nelle opere teatrali.

Madrigali. - Il I libro di madrigali, a cinque voci, mostra un cromatismo non molto spinto, che può ricordare, come suggerisce il Prunières, il cromatismo dell'Ingegneri; affronta però di continuo arditezze armoniche: quinte e ottave parallele e intense dissonanze. La melodia si lancia spesso in ampî intervalli di nona e di undecima; sempre in regime di compattezza polifonica, trova però modo di emergere l'espressione delle parole più importanti. Il II, pubblicato nel 1590, contiene composizioni mai più sorpassate da altri artisti, né per la forma, né per la melodia, né per l'armonia: musiche di un'immateriale perfezione. Di solito i madrigali di questo libro hanno un carattere più grave e una maggiore ampiezza di quelli del primo, e tra l'uno e l'altro si distinguono per varietà di forme, alcune più tradizionali, altre in cui già si sente l'annuncio del rinnovamento: in queste ultime affiora già lo schema ternario che distinguerà nel corso dei tempi tante forme moderne di composizione, dall'Aria alla Sonata, ecc. In questo libro si trova uno dei primi capolavori monteverdiani: Ecco mormorar l'onde, ancora oggi celebre. Nel III libro (1592) si rileva l'indirizzo verso la tonalità moderna e verso la prevalenza di una voce sulle altre. Qua e là vi si nota qualche passo di recitativo; uso, questo, per l'epoca e per il genere, ancora assai audace.

Contro il IV e il V libro, che già prima della loro pubblicazione (rispettivamente 1603 e 1606) circolavano in manoscritto tra i musicisti e gli umanisti, si levò per la prima volta la critica feroce dell'Artusi, il quale già nel 1600 pubblicò il suo dialogo sulle Imperfettioni della musica moderna, facendo seguire nel 1603 la Seconda parte. L'altro assalto dell'Artusi contro il M. si diede nel 1608 sotto il titolo di Discorso secondo musicale di Antonio Braccino da Todi. Il succo della critica era in fondo questo: tendenza della musica moderna rappresentata dal Monteverdi essere il disprezzo della ragione e delle buone norme tradizionali; solo ai sensi esser data soddisfazione. Inoltre il teorico biasimava quella che egli chiamava violazione delle norme più sacre concernenti la modulazione, e soprattutto la preparazione delle dissonanze. M. nella prefazione al quinto libro annunciò una risposta intitolata Seconda prattica overo perfettione della musica moderna; ma certamente per incuranza e disdegno non diede mai corso a questa risposta. Nel IV libro intanto si riscontrano in abbondanza le false relazioni, gli accordi di 5ª aumentata e di 9ª e il carattere quasi strumentale della scrittura vocale, che tanto spiacevano all'Artusi. Nel V si attaccano le 7e e le 9e di dominante, il tritono, la 5ª minore e la 7ª diminuita senza più alcuna preparazione e le si conducono a determinare cadenze tonali. La trasformazione della tonalità è virtualmente compiuta. La foga e l'ebbrezza espressive del IV libro si continuano e anzi maggiormente si esplicano nel V; soprattutto nel V si afferma la massima libertà nella disposizione delle voci, come anche spiccata tendenza formale verso l'Aria e la Cantata. Il recitativo, già nel IV diffuso, nel V assume nuova coerenza. Il VI libro, pubblicato nel 1614, contiene, oltre il Lamento di Arianna, trascritto a 5 voci, e la sestina (cioè serie di 6 madrigali concatenati) Lagrime d'Amante al sepolcro dell'Amata, alcuni "Concertati", sorta di dialoghi o monologhi commentati qua e là e conclusi dal coro (trattato omofonicamente o anche - specialmente nelle conclusioni - in sobrio contrappunto). Strumenti sostengono in varia misura le voci. Oltre i concertati: Una donna tra l'altre; A Dio Florida bella, Qui rise Tirsi, Misero Alceo, e Batto qui pianse, tutti a 5 voci, particolarmente sviluppato il dialogo concertato a 7, intitolato Presso un fiume tranquillo, che è già il madrigale drammatico da cui deriverà la Cantata: il coro racconta la vicenda, i personaggi parlano per bocca dei solisti; si succedono nel corso della partitura duetti in scrittura spesso assai fiorita di vocalizzi e un magnifico passo in contrappunto a 7 voci conclude l'opera. Nel VII libro, pubblicato nel 1619, si hanno composizioni di carattere piuttosto leggiero, come le canzonette a due voci, di stile brillante e piacevole, insieme con composizioni di grande profondità espressiva (quali la Lettera amorosa a voce sola in genere rappresentativo e la Partenza amorosa che le tiene dietro) e alcuni concertati di grande interesse per la novità e l'estrosa libertà della disposizione delle parti. Menzioniamo tra questi: A quest'olmo, a 6; Con che soavità, a 1 voce e 9 strumenti (divisi in tre chori di archi e due chitarroni, clavicembalo, spinetta); Chiome d'oro a 2 voci con due violini, chitarrone o spinetta; Amor che deggio far, a 4 con violino; Tirsi e Cloe, balletto a 5 voci e strumenti. Nell'VIII, pubblicato nel 1638, si contengono i celebri Madrigali guerrieri ed amorosi, di estrema varietà di voci e di forme. Il contrappunto non si dà di frequente a grandi sfoggi e il coro generalmente si dispone in accordi verticali, tra i quali corrono passi monodici, o in dialoghi a 2 o a 3. Inoltre vi si contengono pezzi a 2 e a 3 voci in stile più leggiero, che risentono, come nota il Prunikres, dell'influenza francese (air de cour). Tra le composizioni più importanti sono da ricordare il prologo a 6 voci, 4 viole, 2 violini e spinetta; il balletto cantato Monete al mio bel suon, e soprattutto il Ballo delle ingrate e il Combattimento di Tancredi e Clorinda, ambedue saggi di stile esplicitamente rappresentativo, ma dei quali il secondo può essere eseguito anche in sede di concerto, in virtù della presenza di una voce (quasi di Storico) che narra lo svolgersi della tenzone. Tancredi e Clorinda parlano per bocca di due solisti; l'orchestra è composta di archi sostenuti dal continuo. Nella prefazione l'autore dichiara quel ch'egli intese fare immaginando uno stile concitato: rendere cioè in piena evidenza musicale l'impeto di fatti o di passioni di singolare veemenza, come immaginava usassero gli antichi Greci con il loro "tempo piricchio (sic) o veloce" adatto alle "saltationi belliche". Inoltre il M. avverte che "gli ustrimenti... doveranno essere tocchi ad immitatione delle passioni dell'oratione" e su questa dipendenza del discorso musicale da queste passioni egli insiste a più riprese e per diverse occasioni (come si vede, la constatazione dell'Artusi era esatta: con il M. la musica rivendicava i suoi fini unicamente e totalmente espressivi fuori da qualsiasi astratto formalismo). Interessanti sono le note apposte dal M. nel corso della partitura, come testimonianze della cura che il compositore si prendeva dell'esecuzione e quanto egli si attendesse dall'espressione strumentale: notiamo, p. es., le seguenti: "Qui si lascia l'arco e si strappano le corde con duoi diti", "Qui si ripiglia l'arco", "Arcata sola" (e sotto a quelle parole: "forte, piano"), "Questa ultima nota va in arcata morendo", ecc.

Altri madrigali e arie in recitativo, canzonette e madrigali a 2 e 3 voci, apparvero quindi sotto varî titoli nel 1632 e poi nel 1651, cioè anche dopo la morte dell'autore.

Teatro. - Non è possibile di dare in breve notizie sufficienti riguardo alla struttura delle grandi opere del maestro, poiché le innovazioni vi sono molto numerose e importanti e si manifestano anche nelle minuzie della scrittura e del trattamento di ogni scena. In ogni modo è da notare che già nella prima opera composta dal M., cioè nell'Orfeo, su libretto di Ottavio Rinuccini, rappresentato in Mantova nel 1607, il melodramma dopo pochi anni dal suo inizio raggiungeva di colpo un'altezza artistica difficilmente superabile, specialmente per il meraviglioso equilibrio estetico tra le zone esplicitamente agogiche, drammatiche e quelle di lirica espansione; le quali l'una nell'altra si risolvono senza apparente discontinuità. Il recitativo continuo, che avevano vagheggiato gl'iniziatori del melodramma da Emilio del Cavaliere a I. Peri e a Giulio Caccini, trova esso stesso insospettata gagliardia musicale; liberato dalla pedissequa espressione del valore di ogni parola e soprattutto abbandonato il servaggio alle inflessioni del parlare comune, il declamato sviluppa in maggiore ricchezza melodica le curve più libere dell'Arioso; esprimendo, più che la singola parola, la piena di affetti generatrice dell'intera frase e dell'intera situazione drammatica. Pari ricchezza musicale si nota del resto non soltanto nella scrittura vocale, ma anche nella varia disposizione delle masse e dei toni in tutta l'architettura dell'opera; ove si alternano - sempre a fini espressivi, ma intanto coefficienti della costruzione e dello spettacolo - al canto a solo quello a più voci, alla coralità omofonica quella contrappuntistica, al dialogo il monologo, alla prevalenza vocale la prevalenza strumentale. Tra atto e atto, tra scena e scena, nel corso dell'azione, gli strumenti in gran copia intervengono, sia soli, sia per accompagnamento delle voci. Il M. manifesta in questo Orfeo tutta la sua sensibilità strumentale, ben rispondente al carattere della musica dell'Italia settentrionale, e specialmente di quella scuola veneziana che con i due Gabrieli e Claudio Merulo rappresentava fino dal Cinquecento il regno del colorito e dello splendore fonico: gli strumenti che si avvicendano a rialzare il tono espressivo delle varie scene dell'Orfeo sono i seguenti: "Duoi gravicembani, duoi contrabassi de viola, 10 viole de brazzo, 1 arpa doppia, 2 violini piccoli alla franzese (la prima volta che il nome di violini è menzionato in una partitura teatrale), 2 chitarroni, 2 organi di legno, 3 bassi da gamba, 4 tromboni, 1 regale (organo portativo senza canne), 2 cornetti, i flautino alla vigesima seconda, 1 clarino con 3 trombe sordine". Della seconda opera, cioè dell'Arianna, rappresentata a Mantova nel 1609, la musica è andata perduta, tranne la scena del Lamento, di cui l'invocazione: Lasciatemi morire, dalla prima esecuzione fino a oggi non ha perduto alcunché del suo incanto. Questa scena è infatti sufficiente a testimoniare della purezza veramente classica cui era giunta la pur fervidissima e intensa espressione dell'arioso monteverdiano, purezza cui nella produzione ulteriore il M. ritornò del resto più di una volta: basti ricordare l'arioso delle Ingrate alla fine del citato balletto, nell'VIII libro dei Madrigali. L'orchestra dell'Arianna sembra essere stata assai ricca: erano quelli gli ultimi tempi favorevoli alle grandi masse corali e strumentali a teatro. Col passaggio a Venezia il M. dovrà ridurre di molto queste risorse: nel Ritorno di Ulisse (1641), partitura del resto sontuosa, ma in alcune parti un po' affrettata, gli strumenti posti a disposizione dell'operista non erano probabilmente molti: un clavicembalo, pochi violini e viole, tiorbe e bassi di viole dovevano bastare. Nella successiva opera L'incoronazione di Poppea (1642), di coro vero e proprio non si può più legittimamente parlare, ma in compenso vi sono concertati vocali di sublime potenza espressiva; fra tutti notiamo la mirabile scena della morte di Seneca, ove i familiari intorno al filosofo si stringono elevando le loro voci in un'ascendente implorazione. E anche qui gli strumenti erano assai scarsi. Il M. compensa la deficienza materiale dei timbri e della varietà dei coloriti con una nuova varietà tra forme chiuse e stile recitativo, con un'intensificazione, spinta alla temerità, del linguaggio armonico, e soprattutto con la più ricca invenzione melodica. Con L'incoronazione di Poppea il dramma musicale raggiungeva una complessità di gran lunga superiore a quella che poteva essere nella purissima e semplice favola pastorale d'Orfeo: nuovi elementi vengono tra loro a contrasto, e soprattutto il tragico e il comico vi si avvicendano con felicità di rappresentazione scenica. Nel genere comico il M. introduce nell'opera la levità vivace che già aveva dato alla Canzonetta negli Scherzi musicali e nel VII libro dei Madrigali, ma soprattutto in questo dramma si afferma per la prima volta la caratterizzazione del personaggio in tutta la sua fisionomia e non già in una rappresentazione, per così dire, dal di fuori e unilaterale, bensì in tutta la complessità dei suoi moti affettivi; tutti elementi, questi, che giustificano il paragone da molti studiosi avanzato tra L'incoronazione di Poppea e il tipo drammatico shakespeariano. Cosicché il capolavoro monteverdiano può essere considerato come una delle pietre miliari del dramma musicale attraverso i secoli. Al modello dell'opera monteverdiana s'ispirarono i grandi Veneziani del Seicento, da Pietro Francesco Cavalli, per tanto tempo vicino al M. come cantore e poi come organista in San Marco, a G. Rovetta, per giungere a M. A. Cesti, a G. Legrenzi e via via.

Perdute sono le musiche dei lavori teatrali: La finta pazza Licori, Mercurio e Marte, Vittoria d'Amore, Adone, Le nozze di Enea con Lavinia; dell'Andromeda, composta in collabor., rimane una pagina del prologo.

Musica sacra. - Molto ricca è la produzione sacra e religiosa del Monteverdi: la prima pubblicazione è il libro di Sacrae Cantiunculae tribus vocibus (Venezia, A. Gargano, 1582), che risale alla primissima giovinezza del musicista, cui si accenna - a titolo di scusa (... prae pueritia mea) - nella breve dedica al can. S. Canini-Valcarenghi; la seconda, che aduna la Sanctissimae Virginis Missa senis vocibus con nonnullis sacris concentibus (Venezia, R. Amadino, 1610, ded. a Paolo V) è invece frutto di anni maturi, posteriore com'essa è - almeno nella pubblicazione - ad opere come il V libro dei Madrigali e l'Orfeo.

Già in molte di queste musiche emergono alcuni valori tali da destare attenzione: certo le Cantiunculae, precedenti le prime raccolte profane, si muovono con una correttezza assai cauta e sorvegliata, bene spiegabile nei primi passi del quindicenne nel mondo musicale. Anche di influenze particolari è difficile scorgere traccia, in un eloquio piuttosto comune alle scuole del tempo; alcuni accenni melodici, tutt'al più, potrebbero ricordare spunti di pagine minori (anche profane) di Orlando di Lasso, ma quanto diluiti! La scrittura è di solito sillabica, salvi gli abituali melismi sulle parole veni, surge, gloria, gaudium e negli Alleluia; né l'armonia esce mai dal giro più ordinato. Ma alcuni dei 26 canti, come, p. es., il XVII (Pater, venit hora) col suo tono d'implorazione, a frasi tronche o sollevate in appelli, talvolta melismatici, e poi mestamente reclinate, o come il XXV (Qui vult venire ad me) così energico, misticamente risoluto (p. es., alle parole et tollat crucem suam), ci sembrano sufficienti a distinguere la musicalità vivida e sensuosa del giovane Monteverdi.

Ma ben altrimenti preziosa è la raccolta del 1610, con i suoi ravvicinamenti tra opere quant'altre mai dissimili in stile; tra la Messa alla Beata Vergine da una parte e, dall'altra, il vespro Domine ad adiuvandum, il Dixit Dominus, il Magnificat a 7 voci e 6 strumenti, ecc. Percorrendo le quali pagine notiamo la coesistenza, nella vita creativa del Monteverdi, di due valori storici: l'uno di essi, di solito lasciato nell'ombra, è concretato in opere che per intenzioni e stile segnano l'ultima fioritura della polifonia severa, l'altro è quello delle opere novatrici. Ecco nella messa del 1610 (e anche in quella a 4 voci pubblicata nel 1650) lo sviluppo rigoglioso di tale monteverdiana riassunzione di stilistiche già dissuete. La stessa materia tematica è tratta, secondo i vecchi costumi, dal canto di un mottetto (In illo tempore) di N. Gombert, un allievo di Josquin Després, i cui varî frammenti (dieci) s'intrecciano, nella vasta composizione, in un discorso polifonico d'una estrema complessità, in stile arcaicizzante, se pure non in ritardo di un secolo come scrisse il Prunières.

E anche in tale regime di severità il M. riesce a farsi sentire, sia nella venustà melodica di certe frasi (la bella ascesa del cantus - dall'8° motivo del Gombert - alle parole Et resurrexit, nel Crucifixus a 4 voci), sia in subite illuminazioni, splendenti come scintille, quali i gioiosi melismi dell'Hosanna. L'altra Messa, del 1641, ha tonalità moderna e sviluppi a progressione; un solo tema di 6 note serve a tutti gli sviluppi scolastici immaginabili. Ma certo nell'ordinata costruzione della Messa il tono monteverdiano è più involuto: i colori orientali dello stile veneziano non appaiono in chiara luce, e soltanto li vediamo nella nostra fantasia eccitata dalla sinuosa voluta delle melodie.

Non così nella maggior parte dei Sacri concentus che tengono dietro, nella raccolta del 1610, alla Messa In illo tempore. Dalla severità della Messa meno si allontanano il Nisi Dominus a 10 voci, l'Audi Coelum a 6 e il Lauda Ierusalem a 7, ma il rapporto è suggerito soprattutto dalla calma cui s'informa il tessuto armonistico, mentre la struttura formale è abbastanza varia, passando dall'antifona all'insieme bicorale, dai soli - ricchi di vocalizzi e ad eco tra loro - alla massa. Ma di solito questi concerti sacri si slanciano ben più focosi, nell'impeto dei ritmi, nel sorprendente mutarsi della disposizione fonica, nel vivace giuoco delle voci e degli strumenti: secondo un intento chiaramente decorativo che ci richiama ai grandi pittori veneziani. Pagine troppo poco considerate dagli storici, forse appunto per questo loro carattere decorativo, quasi che la decorazione non fosse anch'essa un fatto artistico e quindi lirico. Ma in ogni modo è da notare come l'ardimento architettonico e il fantasioso colorito di composizioni quali il Laudate pueri, il Pulchra es, il Laetatus sum, il Duo Seraphim e, fra tutti, il Magnificat a 7 voci e 6 strumenti (ma anche l'ingegnosissimo Magnificat a 6 v.) non trovino il loro eguale - nella produzione anteriore - che nell'Orfeo, pur essendo già annunciati in alcuni madrigali del V libro (Ahi, come a un vago sol e i successivi fino a Questi vaghi concenti); musiche, d'altra parte, per altri valori ancora più preziose. Così che nello svolgimento della carriera creativa del M. un passo d'importanza capitale viene a compiersi non solo nella madrigalistica del V libro e nel teatro, ma in un gruppo che oltre a queste musiche più note comprende a uguale diritto una serie di composizioni religiose, anteriori al periodo veneziano e pure già ricche di quella libertà di eloquio, di quella strumentalità (non solo nelle parti dei violini, dei cornetti, ecc., ma anche nelle parti dei cantori; come si nota, p. es., nel Laudate pueri e nei due Magnificat: II, Misericordia e Deposuit) che ammiriamo in opere profane anche di molto posteriori.

Per molto tempo il grande M. restò, dopo il Seicento, più un nome illustre che un autore eseguito. La sua opera fu quasi dimenticata, e solo alcuni storici (tra i quali il padre Martini) ne citano di tanto in tanto l'esempio. Col fiorire degli studi musicologici verso la fine del sec. XIX si ricomincia a considerare l'autore dei Madrigali, dell'Orfeo e dell'Incoronazione, come un artista tuttora capace d'imporsi all'universale ammirazione. E, dopo la lunga parentesi d'oblio, dovuta forse al desiderio di musiche nuove che distinse la vita musicale del '700, la nuova scuola italiana sente di ritrovare in M. uno dei suoi maestri, preziosi per tutte le generazioni.

Ediz. moderne: Oltre varie pubblicazioni parziali (V. D'Indy, G. Orefice, H. Leichtentritt, ecc.) è oggi quasi ultimata l'edizione integrale (in 15 volumi) di tutte le opere, a cura di G. F. Malipiero, presso il Vittoriale degl'Italiani.

Bibl.: G. M. Artusi, L'Artusi ovvero delle imperfettioni della musica moderna, Venezia 1600; parte 2ª, 1603; A. Braccino da Todi (pseudonimo dell'Artusi), Discorso secondo musicale, ivi 1608; G. B. Marinoni, Fiori poetici, ivi 1644; F. Caffi, Storia della musica sacra nella già ducale cappella di San Marco in Venezia, ivi 1858; S. Davari, Notizie biografiche del distinto maestro di musica C. M., Mantova 1885; G. Sommi Picenardi, C. M. e Cremona, Milano 1898; L. Schneider, M., Parigi 1921; H. Prunières, La vie et l'øuvre de C. M., Parigi 1926; G. F. Malipiero, C. M., Milano 1930.