Clausole di tregua [dir. lav.]

Diritto on line (2014)

Luisa Corazza

Abstract

Lo scritto analizza le clausole di tregua sindacale, con le quali il contratto collettivo disciplina l’esercizio del diritto di sciopero. Dopo un’introduzione sul rapporto tra contratto collettivo e conflitto, lo scritto espone l’evoluzione delle clausole di tregua nella contrattazione collettiva italiana. Successivamente lo scritto affronta la questione dell’efficacia delle clausole di tregua sindacale e dei rimedi previsti in caso di violazione delle stesse.

Gli obblighi di tregua sindacale e il rapporto tra contratto collettivo e conflitto

La disciplina delle clausole di tregua sindacale, ovvero di quelle clausole del contratto collettivo che regolano l’esercizio del diritto di sciopero, riflette il modo in cui viene concepito, in ciascun ordinamento, il rapporto tra contratto collettivo e conflitto. La regolazione della tregua sindacale indica il grado di intangibilità che ciascun ordinamento assegna al diritto di sciopero, nonché il livello di vincolatività del contratto collettivo rispetto all’azione collettiva.

Un primo indice spia di come ciascun ordinamento concepisce il rapporto tra contratto collettivo e conflitto è dato dalla disciplina degli obblighi impliciti ed espliciti di tregua sindacale.

Vi sono, invero, ordinamenti in cui dalla stipulazione del contratto collettivo discende un obbligo implicito di tregua (o pace) sindacale. In questi casi – un esempio è rinvenibile nell’ordinamento tedesco –, l’obbligo di tregua scaturisce direttamente dalla stipulazione del contratto collettivo e non deve essere esplicitato in appositi patti: il sorgere di tale obbligo è una conseguenza immanente della conclusione del contratto collettivo, che produce l’effetto di inibire il conflitto collettivo sulle materie da esso regolate e per tutta la sua durata.

Altri richiedono, per l’insorgere di vincoli all’esercizio del diritto di sciopero, la stipulazione di apposite clausole, dette appunto clausole di tregua sindacale. Con tali clausole le parti disciplinano l’esercizio del diritto di sciopero.

L’impegno a non scioperare che consegue alla stipulazione delle clausole di tregua, detto anche obbligo di pace sindacale, può essere limitato, nell’oggetto, alle materie regolate del contratto collettivo e, nel tempo, alla vigenza dello stesso. Si parla, in tal caso, di clausole di tregua relative. Si parla, invece, di clausole di tregua assolute quando il vincolo a non scioperare si estende anche a materie eccedenti l’oggetto del contratto collettivo o perdura (ma quest’ultima è solo un’ipotesi di scuola) oltre la durata dello stesso. È stato poi messo a fuoco un tertium genus di clausole di tregua, dette «procedurali» per la loro attitudine a regolare il conflitto nell’ambito di procedure di soluzione delle controversie di tipo conciliativo o arbitrale (Giugni, G., L’obbligo di tregua: valutazioni di diritto comparato, in Riv. dir. lav., 1973, 23 ss.).

Negli ordinamenti in cui vige l’obbligo implicito di pace sindacale le clausole (esplicite) di tregua sindacale hanno carattere assoluto, ovvero svolgono la funzione di estendere l’obbligo di pace anche oltre quanto previsto dal contratto collettivo – in questi sistemi l’obbligo di non scioperare nelle materie regolate dal contratto collettivo discende direttamente dalla stipulazione dello stesso –. Negli ordinamenti dove, invece, il dovere di pace sindacale non è immanente alla stipulazione del contratto collettivo, ed è quindi necessario stipulare appositi patti per vincolare le parti alla tregua sindacale, è possibile rinvenire, nei testi contrattuali, sia clausole di tregua relative, che clausole di tregua assolute. Laddove non vige un obbligo implicito di tregua, è infatti necessario stipulare il vincolo di pace mediante apposite clausole anche per limitare il ricorso allo sciopero con riferimento alle tematiche trattate nel contratto collettivo.

Il tema della tregua sindacale è per vero strettamente legato alla concezione del contratto collettivo in uso nei diversi ordinamenti giuridici. Si spiega così perché in ordinamenti, come quello inglese, dove l’accordo collettivo è concepito come un gentlements agreement, non è possibile ammettere obblighi impliciti di pace sindacale e ciò nonostante la riconduzione dello sciopero al sistema delle immunità. Per contro, in ordinamenti come quello tedesco, dove la conclusione del contratto vincola le parti anche al dovere implicito di pace, è solo con riferimento al dovere assoluto di pace che si può parlare di clausole che sanciscono un obbligo esplicito di tregua sindacale.

Nell’ordinamento italiano ha finora prevalso un’interpretazione del rapporto tra contratto collettivo e conflitto tale da richiedere la stipulazione degli obblighi di tregua sindacale attraverso clausole esplicite. Nonostante autorevoli voci dissenzienti (Mengoni, L., Il contratto collettivo nell’ordinamento giuridico italiano, in Jus, 1975, 167 ss.; l’autore sostenne sempre la sussistenza di un dovere implicito di pace sindacale quale corrispettivo dell’aspettativa del datore di lavoro di fare riferimento al contratto collettivo come base affidabile per il calcolo dei costi di produzione, invocando il principio di causalità delle promesse obbligatorie), hanno prevalso argomenti di tipo giuridico-sistematico (Ghezzi, G., La responsabilità contrattuale delle associazioni sindacali, Milano, 1963), e politico-sindacale (Giugni, G.-Mancini, F., Movimento sindacale e contrattazione collettiva, in Riv. giur. lav., 1972, 325 ss.), in base ai quali è stata affermata l’incompatibilità degli obblighi impliciti di tregua sindacale con l’ordinamento giuridico italiano. Sulla scorta di questi ragionamenti – che hanno fatto leva, da un lato, sulla previsione costituzionale del diritto di sciopero nell’art. 40, e d’altro lato, sull’inesistenza di indicazioni, nei prodotti dell’ordinamento intersindacale, dell’intenzione delle parti di assumersi, con la stipulazione del contratto collettivo, l’impegno a rispettare un obbligo implicito di pace sindacale – ha prevalso in Italia l’idea che la tregua sindacale dovesse essere materia di esplicita contrattazione e che il contratto collettivo avesse la funzione di porre termine al solo conflitto in atto, e non a futuri ed eventuali conflitti.

Negli ultimi anni, la questione del rapporto tra contratto e conflitto collettivo è stata rilanciata con forza, e con essa il tema dei limiti che il contratto collettivo incontra nella regolazione dello sciopero. La stessa autonomia collettiva ha affrontato il problema del vincolo introdotto dal contratto collettivo sull’esercizio del diritto di sciopero, ponendo il problema della “esigibilità” del contratto collettivo. Con tale termine, le parti fanno riferimento all’impegno dei contraenti nei confronti di quanto pattuito con il contratto. L’esigibilità viene intesa come vincolo delle parti a rispettare ciò che è stato pattuito con il contratto collettivo, e a non dar luogo, di conseguenza, ad azioni collettive che ne mettano in discussione il contenuto.

Il fatto che l’esigibilità del contratto collettivo sia invocata con forza nella produzione dell’autonomia collettiva degli ultimi anni (si v., oltre alla contrattazione del gruppo Fiat del 2010, soprattutto l’Accordo interconfederale del 28.6.2011, il Protocollo d’intesa del 31.5.2013 e il Testo unico sulla rappresentanza del 10.1.2014) è il segno di un’esigenza nuova, emersa nell’ordinamento intersindacale, che invoca una diversa concezione del rapporto tra contratto collettivo e conflitto, nella quale al primo sia consentita le regolazione del secondo non solo mediante la stipulazione di apposite clausole ma anche quale conseguenza della stipulazione dello stesso contratto collettivo.

La tregua sindacale nella contrattazione collettiva italiana

Per cogliere appieno il significato e la portata delle clausole di tregua nell’ordinamento giuridico italiano è necessario partire dall’esame della concreta diffusione delle clausole di tregua nella contrattazione collettiva italiana.

Le clausole di tregua iniziano ad assumere un ruolo di rilievo nella contrattazione collettiva all’inizio degli anni ’60, nell’ambito della cd. contrattazione articolata, dove le clausole di tregua e le clausole di rinvio si ponevano in una relazione di reciproca sinallagmaticità, e la funzione delle prime era quella di garantire il rispetto della divisione di competenze tracciata dal contratto collettivo di livello superiore.

Dopo questa breve stagione prevalse tuttavia uno schema di contrattazione non vincolata, nel quale le clausole di tregua persero progressivamente importanza, fino a ridursi a clausole di stile. In questa fase, sviluppatasi a partire dall’autunno «caldo» del 1969, si affermò una concezione del contratto collettivo come strumento funzionale alla cessazione del conflitto in atto e non al contenimento di eventuali conflitti futuri. Di conseguenza, la contrattazione poteva essere riproposta in qualsiasi sede e per qualsiasi materia, in un quadro che è stato definito di «conflittualità permanente» (Giugni, G., L’autunno caldo sindacale, in Il Mulino, 1970, 34 ss.).

L’esigenza di governare il conflitto mediante lo strumento del contratto collettivo riemerse a partire dagli anni ’80, quando tecniche di controllo della conflittualità vennero riproposte a partire dall’Accordo Scotti del 1983, e, soprattutto, all’interno del Protocollo IRI del 1984-86, dove le procedure di regolazione del conflitto si ponevano in corrispettività con gli obblighi di informazione sindacale.

Lo strumento della tregua sindacale ricompare poi nel Protocollo del 23.7.1993, a presidio di un periodo di raffreddamento del conflitto nella fase precedente alla scadenza del contratto (tre mesi), e in quella successiva (un mese). È da segnalare in questo caso la combinazione tra clausole di tregua e indennità di vacanza contrattuale, mediante il meccanismo di slittamento o anticipazione dell’erogazione di quest’ultima a carico della parte che è ricorsa all’azione diretta violando la clausola di tregua.

Il tema della tregua sindacale ha riacquisito un ruolo centrale con la riforma della contrattazione collettiva del 2009, i successivi accordi del gruppo Fiat a partire dal 2010 e la produzione regolativa di livello interconfederale oggetto dei contratti della stagione 2011-2014. In questo nuovo scenario, diviene prioritario per le parti disegnare un sistema regolato di relazioni industriali, all’interno del quale è necessario fissare regole volte a garantire l’esigibilità del contratto collettivo.

Di questa nuova stagione si intravvedono i germi già nella riforma della contrattazione del 2009, nella quale vengono riproposti gli strumenti della tregua sindacale uniti a meccanismi di conciliazione e arbitrato per garantire il corretto funzionamento della macchina contrattuale (Accordo quadro 22.1.2009; accordo interconfederale Confindustria 15.4.2009).

Ma è soprattutto con gli accordi che, a partire dal 2010, si affermano nel gruppo Fiat, che il tema della esigibilità del contratto collettivo si pone prepotentemente all’attenzione delle parti sociali. Gli accordi del gruppo Fiat conclusi a partire dal 2010 nei singoli stabilimenti a partire da Pomigliano e sfociati nel nuovo contratto collettivo specifico di primo livello siglato il 13.12.2011 hanno riportato il tema delle clausole di tregua sindacale al centro del dibattito sulle relazioni industriali italiane, dando luogo anche a forti discussioni: già dalle prime versioni di questi accordi sono state previste «clausole di responsabilità» e «clausole integrative del contratto individuale di lavoro». Le prime costituiscono un esempio di clausole di tregua sindacale a sanzione tipizzata, che si spingono a specificare le sanzioni previste a carico delle organizzazioni sindacali in caso di inadempimento. Le seconde, che nelle versioni successive del contratto Fiat sono state rinominate «clausole di inscindibilità delle disposizioni contrattuali», sono clausole con le quali il contenuto del contratto collettivo viene «innestato» nel contratto individuale di lavoro, di modo che la violazione da parte del lavoratore di una delle clausole del contratto collettivo accorda all’azienda la possibilità di ricorrere al potere disciplinare. A causa della loro formulazione per la verità ambigua, queste ultime non possono essere qualificate come vere e proprie clausole di tregua, dato che l’obbligo di astenersi dall’esercizio del diritto di sciopero non è formulato in modo esplicito (Liso, F., Appunti su alcuni profili giuridici delle recenti vicende Fiat, in dir. lav. rel. ind., 2011, 321 ss.). Esse hanno rivestito tuttavia un ruolo importante nel rilanciare il tema della tregua sindacale nel dibattito sul contratto collettivo come strumento di governo del conflitto.

L’esigibilità del contratto collettivo, e con essa le clausole di tregua, è al centro di un significativo percorso compiuto dalle parti sociali nel settore industriale con l’Accordo interconfederale del 28.6.2011, il Protocollo d’intesa del 31.5.2013 e, infine, il Testo unico sulla rappresentanza del 10.1.2014, che dei due accordi precedenti costituisce attuazione, nella direzione di un sistema di contrattazione collettiva “regolato”. Con questi accordi, seppure in un determinato settore dell’economia italiana, l’autonomia collettiva si è dotata di un sistema di norme fondato sulla regolazione per via negoziale del diritto di sciopero. Quest’ultima si realizza sul duplice piano degli obblighi impliciti e delle clausole esplicite di tregua sindacale.

Sotto il primo profilo, la contrattazione di livello interconfederale sancisce un impegno delle parti a dare piena applicazione agli accordi e a non promuovere iniziative di contrasto agli stessi: in tal modo, le parti si assumono un impegno “a monte” che assomiglia più ad un obbligo implicito di pace che alle classiche clausole di tregua, in quanto esso è vincolante anche in assenza di clausola di tregua esplicitamente stipulate all’interno dei contratti collettivi conclusi in attuazione del protocollo. Sotto il secondo profilo, la regolazione dello sciopero per mezzo del contratto collettivo si articola, nel Testo unico sulla rappresentanza del 10.1.2014, in una complessa rete di procedure di raffreddamento, che sembra tendere ad un sistema istituzionale di governo del conflitto, in cui alle clausole di tregua si affiancano procedure di conciliazione e arbitrato.

Gli effetti delle clausole di tregua

Il ruolo delle clausole di tregua in un dato ordinamento giuridico dipende in gran parte dagli effetti che le stesse producono: se le clausole di tregua vincolano all’obbligo di non scioperare anche i singoli lavoratori, o se piuttosto tale vincolo si produce solo nei confronti dei soggetti collettivi. Nel primo caso, la violazione delle clausole di tregua produce conseguenze sul rapporto individuale di lavoro; nel secondo caso, tale violazione produce effetti solo nei confronti delle parti collettive.

La questione degli effetti delle clausole di tregua si intreccia, poi, con il nodo della titolarità del diritto di sciopero. Se si aderisce alla tesi della titolarità individuale del diritto di sciopero gli effetti dei patti di tregua sindacale restano confinati all’ambito dei rapporti tra i soggetti collettivi. Se, al contrario, si concepisce lo sciopero come un diritto a titolarità collettiva, non vi sono ostacoli ad ammettere clausole di tregua produttive di effetti nei confronti dei singoli lavoratori.

La revisione dei rapporti tra contratto collettivo e sciopero ha riguardato, negli ultimi anni, anche il problema degli effetti delle clausole di tregua, aprendo la strada a nuove interpretazioni dottrinali in punto a titolarità del diritto di sciopero.

Dopo un breve periodo, collocabile nel momento successivo all’adozione della Carta costituzionale, in cui prevalsero le tesi di sostegno alla titolarità collettiva del diritto, l’opinione largamente prevalente presso la dottrina italiana è stata quella che ha inquadrato lo sciopero come diritto a titolarità individuale, e, di conseguenza, ha riconosciuto alle clausole di tregua la possibilità di produrre effetti solamente nei confronti delle parti collettive. Nella prospettiva che si era affermata all’indomani dell’entrata in vigore della Carta costituzionale, ai fini della configurazione della fattispecie a cui ricollegare l’effetto sospensivo dell’obbligazione di lavoro, assumeva significato determinante la proclamazione sindacale (nell’ambito di queste teorie, deve essere segnalata soprattutto la posizione di Calamandrei, P., Significato costituzionale del diritto di sciopero, in Riv. giur. lav., 1952, I, 221 ss., che assegnava un rilievo significativo anche alla prospettiva individuale e approdava ad una sorta di «cotitolarità», riconoscendo la titolarità dello sciopero sia in capo al singolo che in capo al sindacato). Ben presto, tuttavia, e soprattutto a partire dagli anni ‘60 e ’70, si è affermata in dottrina la tesi della titolarità individuale del diritto di sciopero. In questa prospettiva, la dimensione collettiva del conflitto è stata recuperata con riferimento alla sola fase attuativa dello sciopero, definito come “diritto individuale ad esercizio collettivo”.

In questo quadro, che ha offerto un inquadramento teorico alla fase storica della cd. conflittualità permanente, le clausole di tregua sono state per lo più ritenute produttive di effetti nei confronti dei soggetti collettivi e non dei singoli lavoratori.

Negli anni ottanta, di fronte agli eccessi di conflittualità emersi soprattutto nell’ambito dello sciopero nei servizi pubblici essenziali dove entrano in gioco i diritti fondamentali degli utenti, è stata rilanciata in dottrina la prospettiva della titolarità collettiva del diritto di sciopero. Nonostante tale prospettiva abbia trovato sostenitori fino agli anni più recenti (Zoppoli, A., La titolarità sindacale del diritto di sciopero, Napoli, 2006), essa non è riuscita a scalfire il successo della tesi della titolarità individuale, che è rimasta fino a pochi anni or sono largamente maggioritaria (v. Carinci, F., Il diritto di sciopero: la nouvelle vague all’assalto della titolarità individuale, in dir. lav. rel. ind., 2009, 423 ss.; Ballestrero, M.V., A proposito della titolarità del diritto di sciopero, in AA. VV., Il contributo di Mario Rusciano all’evoluzione teorica del diritto del lavoro. Studi in onore, Torino, 2013, 383 ss.). Questa impostazione sembra, poi, prevalere anche presso l’autonomia collettiva – nei casi in cui di recente si è pronunciata sul punto – (l’Accordo interconfederale 28.6.2011, in ciò richiamato dal Testo unico sulla rappresentanza 10.1.2014 afferma che le clausole di tregua sindacale inserite nei contratti aziendali stipulati ai sensi dell’accordo producono effetti limitatamente alle parti collettive e non nei confronti dei singoli lavoratori).

Nel nuovo scenario delle relazioni industriali, caratterizzato, da un lato, dalla frammentazione della rappresentanza, e, d’altro lato, dall’esigenza di individuare strumenti teorici che consentano di governare lo sciopero mediante il contratto collettivo, tale impostazione viene messa tuttavia nuovamente alla prova, e questa volta da tesi che tentano di superare la secca alternativa tra titolarità individuale e collettiva dello sciopero.

In questa direzione si è collocato chi ha ritenuto possibile – anche sulla scorta dell’unica pronuncia della Corte di cassazione sulla materia (Cass., 10.2.1971, n. 357) – riconoscere efficacia interindividuale alle clausole di tregua a prescindere dall’opzione sulla titolarità del diritto di sciopero, ma fondando il proprio ragionamento sulla distinzione tra regolazione e disposizione dello sciopero. Se le clausole di tregua sindacale danno luogo ad una regolazione, o disciplina, del diritto di sciopero, non si produce alcuna disposizione del diritto, di tal ché la limitazione dello sciopero per mezzo del contratto collettivo risulta compatibile con la titolarità individuale dello stesso (Magnani, M., Contrattazione collettiva e governo del conflitto, in dir. lav. rel. ind., 1990, 687 ss.; Treu, T., Il conflitto e le regole, in dir. lav. rel. ind., 2000, 326 ss.).

Più di recente devono essere segnalate alcune proposte che hanno offerto una nuova lettura del problema, valorizzando la duplice natura – individuale e collettiva – del diritto di sciopero. In particolare, Edoardo Ghera (Ghera, E., Titolarità del diritto di sciopero, tregua o pace sindacale (spunti critici e di metodo), in Nogler, L.-Corazza, L., a cura di, Risistemare il diritto del lavoro. Liber amicorum Marcello Pedrazzoli, Milano, 2012) ha sottolineato la doppia valenza dello sciopero nell’ordinamento statuale (dove si configura come un diritto a titolarità individuale) e nell’ordinamento intersindacale (dove assume invece titolarità collettiva). Luca Nogler (Nogler, L., La titolarità congiunta del diritto di sciopero, in Corazza, L.-Romei, R., Diritto del lavoro in trasformazione, Bologna, 2014) ha invece proposto una rilettura dello sciopero come diritto a titolarità congiunta, all’interno di un ragionamento sul bilanciamento tra principi costituzionali.

La revisione del rapporto tra contratto collettivo e conflitto in atto negli ultimi anni ha interessato, dunque, anche il tema della titolarità del diritto di sciopero. La questione si inserisce nella più ampia discussione sulla tenuta dalla teoria della rappresentanza quale modello di riferimento del contratto collettivo, che è stato, com’è noto, sottoposto ad un serrato processo di revisione critica. La revisione della concezione individualistica del contratto collettivo alla base del modello della rappresentanza ha portato con sé, pertanto, un profondo ripensamento del tema dello sciopero, sia del dibattito dottrinale, che nei recenti sviluppi dell’autonomia collettiva (v. supra § 2).

Tale processo di ripensamento si inserisce, peraltro in un più ampio contesto internazionale, dove al diritto di sciopero è stato di recente riconosciuto il rango di diritto fondamentale (C. eur. dir. uomo, 21.4.2009, Enerji Yapi c. Yol Sen v. Turkey, 68959/01) (sul significato di tale riconoscimento con riferimento alle clausole di tregua v. Corazza, L., Il nuovo conflitto collettivo. Clausole di tregua, conciliazione e arbitrato nel declino dello sciopero, Milano, 2012, 110 ss.).

I rimedi per la violazione delle clausole di tregua

Le conseguenze sanzionatorie applicabili in caso di violazione delle clausole di tregua possono essere riassunte nei due strumenti della responsabilità risarcitoria (a carico dei sindacati) e dell’eccezione di inadempimento. A questi devono aggiungersi, poi, i rimedi di carattere solutorio che intervengono sul contratto, quale la risoluzione per inadempimento.

I rimedi sopra esposti si sono tuttavia dimostrati deboli alla prova dell’effettività, e ciò per varie ragioni. L’azione di responsabilità con richiesta di risarcimento del danno ha dimostrato di essere un rimedio poco adeguato in ragione dell’incompatibilità tra la durata della ordinaria tutela giurisdizionale e l’urgenza che caratterizza la dinamica dei rapporti intersindacali, oltre che per la difficoltà di determinare l’entità dei danni risarcibili.

Più efficace è apparso il rimedio fondato sull’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 c.c., che può avere ad oggetto i diritti spettanti al sindacato in forza delle clausole obbligatorie del contratto collettivo, come ad esempio la raccolta dei contributi sindacali. Si segnala tuttavia un orientamento giurisprudenziale secondo il quale il principio inadimplenti non est adimplendum opera anche con riferimento ad obbligazioni diverse, purché riferibili al medesimo rapporto, ammettendo così un travaso tra contenuti obbligatori e contenuti normativi del contratto collettivo (Cass., 23.12.1992, n. 13620; Pret. Milano, 10.3.1993, in Orient. giur. lav., 1993, 297 ss.).

La questione della coercibilità degli obblighi che scaturiscono dalla parte obbligatoria del contratto collettivo attraverso l’apparato rimediale dell’ordinamento statuale è da tempo un problema aperto. Il che può essere confermato dal fatto che, nella prassi della contrattazione collettiva, è frequente la pattuizione di clausole non azionabili in sede di giurisdizione statale ma rimesse a meccanismi sanzionatori dell’ordinamento intersindacale. Nella contrattazione collettiva sono frequenti clausole di tregua a sanzione tipizzata, che prevedono specifiche sanzioni per l’inadempimento.

In ogni caso, i rimedi utilizzabili in caso di violazione delle clausole di tregua dipendono dalla soluzione adottata con riferimento agli effetti delle stesse. Il prevalere della tesi che ha limitato l’effetto delle clausole di tregua alla sfera dei rapporti collettivi ha precluso sinora il ricorso a rimedi che coinvolgono il rapporto individuale di lavoro, come il potere disciplinare. Non è tuttavia escluso che, nell’attuale scenario di revisione del rapporto tra contratto collettivo e sciopero, sia dato allargare la rassegna dei rimedi previsti per la violazione delle clausole di tregua sindacale, includendovi anche sanzioni che coinvolgono il rapporto individuale di lavoro.

Fonti normative

Art. 40 Cost.

Bibliografia essenziale

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