COMMEDIA

Enciclopedia Italiana (1931)

COMMEDIA (κωμῳδία, comoedia)

Ettore ROMAGNOLI
Giuseppe TOFFANIN
Andrea DELLA CORTE
G. Co.

La commedia greca. - La commedia greca ha vita assai lunga. Da Cratino, suo grandissimo corifeo, quasi un Eschilo della commedia (muore poco prima del 420 a. C.), giunge a Menandro, con cui può dirsi conclusa (342-291). E dall'uno all'altro si svolge senza interruzione, costellandosi di nomi gloriosi, e trasformandosi via via, sino a perdere quasi interamente, e nel contenuto e nella forma, le sembianze originali. Di tutta questa ricchissima fioritura, che comprendeva migliaia di lavori, non ci rimangono che undici commedie integre di Aristofane; poi un grandissimo numero di frammenti di tutti gli altri poeti comici massimi e minori, da Cratino ad Eupoli, Cratete, Ferecrate, Ermippo, Platone, Antifane, Difilo. Qualche anno fa furono scoperte fra le sabbie d'Egitto lunghe scene di Menandro.

Un luogo famoso di Aristotele afferma che, come la tragedia ebbe origine dal ditirambo, così la commedia crebbe dalle cerimonie falliche "che tuttora sono rimaste in uso in parecchie città greche". Ora, in che consistevano queste cerimonie falliche? A noi ne rimane una abbreviata ma pur vivace immagine in due caratteristiche figurazioni vascolari. Sopra due specie di macchine rappresentanti con ingegnosa stilizzazione il segno della fecondità, e portate a spalla rispettivamente da sette e da sei uomini, vediamo qui un sileno, lì un altro demone panciuto. Sulla groppa del primo sta a cavalcioni un uomo, con in pugno il corno dell'abbondanza. Sono veri e proprî carri carnascialeschi. Oltre che per le strade, le falloforie si celebravano anche nei teatri, o almeno, questi erano la loro meta.

Parti costitutive di queste falloforie erano: 1. un ingresso a passo ritmico; 2. un invito agli spettatori che facciano largo al nume; 3. inno al nume; 4. beffe agli spettatori. Se ora guardiamo alle commedie di Aristofane, vediamo che esse sono quasi tutte divise alla metà da una specie di lungo intermezzo, detto parabasi, nel quale i coreuti, frangendo l'illusione comica, uscendo dalla cornice della commedia, si volgevano agli spettatori, e parlavano, non più come personaggio della commedia, bensì come coreuti indipendenti. Or questa parabasi, nella sua forma integra, che a mano a mano, con lo svolgersi della commedia verso nuove forme, si va lentamente alterando, presentava le seguenti parti obbligate: 1. breve introduzione in anapesti, cioè in ritmo di marcia; 2. lungo discorso agli spettatori, quasi sempre in nome del poeta; 3. inni a qualche divinità; 4. beffe rivolte agli spettatori. Qui pure, svolti artisticamente, gli stessi elementi delle cerimonie falloforiche.

Difficilmente potrebbero sussistere dubbî. La parabasi è, nella commedia, l'equivalente della parodos nella tragedia. È la primitiva cerimonia falloforica, che via via agglomera intorno a sé gli elementi drammatici, rimanendo nel centro di essi, come nocciolo, segno e sigillo dell'origine falloforica. Ma donde derivano gli elementi drammatici? Derivano da un tipo caratteristico di commedia popolare, che sin dai tempi più antichi fiorì sul suolo di Grecia, e le cui origini si perdono fra il buio di un'antichità assai più remota. E testimonianze antiche, e ravvicinamenti, e, innanzi tutto, un gran numero di rappresentazioni ceramiche, ci permettono di formarci un'idea abbastanza precisa di questa commediola.

Gli attori erano girovaghi. Andavano qua e là per le borgate e le città, costruivano un minuscolo palcoscenico, chiuso in fondo da una scena rudimentale e comunicante sul davanti del terreno mediante una scaletta. Gli attori si nascondevano e si abbigliavano di dietro. E, cominciata l'azione, alcuni, quelli che si supponeva risiedessero nel luogo della scena, entravano dal fondo: altri, che si figurava giungessero da lontano, compievano un piccolo giro, e salivano per la scaletta. Questi attori erano maschere, e avevano un costume obbligatorio. Pantaloni attillati, stretti in fondo da laccioli, lunghi sino ai piedi, ora ignudi, ora calzati in sandali di varia foggia. Un camiciotto largo, serrato alla vita da una cintola, con un'ampia rimboccatura, scende poco oltre il principio delle cosce. Il cappello, quando lo portano, è un cappuccio. Insomma, i veri e autentici predecessori del nostro Pulcinella.

In essi s'incarnavano gli eterni tipi di tutti i teatri popolari: ladruncoli, servi furbi, servi citrulli, medici ciarlatani, gabbamondi d'ogni genere, vecchi arzilli, vecchi barbogi, giovanotti allegri, donnine scaltre, fanfaroni, ecc.

E, conformi ai personaggi, i dialoghi e le azioni: turpiloquio, ubbriachezze, fame da lupi, furti, fuggi fuggi, salti a ballonzoli, contraffazioni e imitazioni di voci e lingue fantastiche, scalciamenti agli usci, sbarbificazioni cruente, stupidaggini e scorbacchiamenti, uscite pompose e fanfaronesche, spampanate, tirate buffamente tragiche, iperboli mastodontiche, filastrocche inconcludenti, e giuochi di parole e bizzarrie verbali. E poi, bastonate, bastonate e bastonate, che era come il motivo principale e dominante. Insomma, quei poveri girovaghi svolgevano su per giù il repertorio medesimo che svolgono tuttora, o almeno svolgevano sino a una ventina di anni fa le infime compagnie pulcinellesche.

Se non che i pulcinelli greci non si limitavano alle farse mimiche; ma svolgevano soggetti mitici con una predilezione che riesce già evidente dalla semplice preponderanza che hanno i soggetti mitici fra le rappresentazioni ceramiche. Giove ed Ermete, Ercole e Apollo, Elena e Ulisse, Priamo e Neottolemo, Chirone e Antigone, Dioniso e Alcesti ci appaiono a volta a volta tra gli attori pulcinelleschi, coinvolti nelle avventure ascritte ad essi dalla tradizione mitica, o in altre inventate dalla irriverente fantasia di quei primitivi commediografi. Il Pulcinella dell'antichità non si contentò della terra: volle levarsi fino alle sedi bronzee d'Olimpo.

L'analisi dell'opera di Aristofane e dei frammenti degli altri commediografi ci mostra dunque sicuramente che la commedia attica risulta composta dalla fusione dei canti falloforici con la commediola popolare. Tale fusione avvenne probabilmente così: in occasione delle feste dionisiache, come nelle grandi città si celebravano le fastose cerimonie ditirambiche, così per i villaggi si celebravano le più modeste falloforie. Nelle medesime solennità dovevano capitare in questi villaggi compagnie di attori girovaghi, che rappresentavano le loro farsette. Queste e quelle erano di carattere burlesco; e tale somiglianza poté suggerire e agevolare la fusione. Ben presto poeti d'arte videro in quelle composizioni ibride e rozze, ma fresche, libere, vivaci, una preziosa materia da plasmare coi modi dell'arte. Del resto, è inutile strizzare troppo le magre notizie degli antichi per derivarne immagini o ricostruzioni, necessariamente ipotetiche, dei primi prodotti di tale fusione. Piuttosto dobbiamo osservare che in Atene, le prime elaborazioni artistiche di cui ci rimangono esempî, cioè le commedie di Aristofane e i frammenti di Cratino, Eupoli, Cratete, Ferecrate, non attingono direttamente dall'elemento drammatico popolaresco; bensì ne colgono, almeno in parte, elaborazioni già fini e artistiche nell'opera del siciliano Epicarmo (che fiorisce intorno al 486 a. C.).

Infatti, dai frammenti che ci rimangono, assai scarsi, dell'opera di Epicarmo, vediamo che la sua commedia già presentava i tratti principali che dovevano poi caratterizzare la commedia attica. Tre principalmente. È specchio della vita; e in ciò risiede un carattere precipuo della commedia epicarmea, illanguidito poi nel grande impeto della commedia politica di Atene. Esercita anche la critica politica e la critica artistica e morale, rivolge le sue frecce specialmente contro i filosofi e le loro sottigliezze dialettiche, nocive alla verità, e, per riflesso, al vivere civile. Né si limita alla satira generica, bensì discende alle beffe personali, che nella commedia attica dovevano poi infierire sino a provocare proibizioni legali.

Anche simili a quelli che frequentavano le scene attiche sono i tipi che intravediamo nei frammenti epicarmei. Simili non della somiglianza generica derivante dalla comune origine popolaresca, bensì di quella più precisa e segnata, che deriva dalla vera e propria elaborazione artistica. Ecco le indovine ciurmatrici, che mettono in mezzo le donnette credenzone, esigendo, quale cinque spiccioli, quale mezza libbra, e quale una libbra d'argento. Ecco i cuochi con le loro infinite filastrocche di cibarie, che poi nella commedia attica assumeranno proporzioni mastodontiche. Ecco il mangione, tanto caro alle scene attiche. In Epicarmo lo troviamo camuffato da Ercole. Ed ecco i parassiti, ecco i filosofi acchiappanuvole. E se scendiamo ai più minuti intrecci della trama, ecco una quantità di atteggiamenti in tutto simili a quelli che dànno sapore e carattere alla commedia attica. Ecco gli eikásmata, le comparazioni burlesche, tanto care ad Aristofane e ai suoi emuli ateniesi, e le bizzarre personificazioni, e gli artificiosi incatenamenti d'immagini e di concetti, e le domande burlescamente esemplificatrici, e l'irrigidirsi delle risposte di un personaggio in una forma unica irritante, e le lunghe enumerazioni, evocatrici, agli occhi degli spettatori, di pittoresche sequele d'immagini, che dovevano poi nella commedia attica raggiungere proporzioni infinite.

Del contenuto delle parodie mitiche di Epicarmo non sappiamo nulla. Ma è assai probabile che i suoi Ercoli, i suoi Ermeti, i suoi Giovi offrissero il modello a quelli che troviamo in Aristofane: alle scene di Ercole, Iride e Posidone mgli Uccelli, di Dioniso nelle Rane, di Ermete nella Pace. Venendo da ultimo alla forma, vediamo che Epicarmo adopera trimetri giambici (ritmicamente corrispondenti ai nostri endecasillabi) e tetrametri trocaici (ottonarî doppî). Secondo un'altra notizia, scrisse due commedie in tetrametri anapestici. Manca, poiché manca il coro, la grande varietà ritmica, che, dispiegandosi nelle parti corali della commedia, la illumina di così viva policromia. Ma nel tessuto drammatico la commedia di Epicarmo precede anche riguardo ai ritmi, e sembra porgere il modello alla commedia attica.

Dei primordî della commedia attica non rimangono che nomi. E, così all'ingrosso, un primo periodo si può caratterizzare con quelli di Chionide, Magnete, Alcimene, Eufrone, Ecfantide. E sarà difficile escludere l'influenza di Epicarmo (550-460). Ma poco dopo le guerre persiane avvenne un fatto che aprì nuove possibilità ai poeti. Nell'anno 488-87 l'arconte eponimo bandì per le feste dionisie cittadine un concorso per le commedie, come già c'era per la tragedia: questo significava, a parte l'importanza conferita dal riconoscimento ufficiale, che il poeta comico, che finora s'era dovuto contentare di teatrucoli di campagna, di attori improvvisati, di vestiti miseri e spesso cenciosi, adesso aveva a sua disposizione grandi e magnifici teatri, turbe di spettatori, coreuti bene addestrati, allestimenti scenici e vestiti di prim'ordine. S'intende facilmente che cosa significhino queste possibilità per la fantasia d'un poeta di teatro. Tutta la parte lirica (i cori, in fondo: canti, suoni, danze) prese un enorme sviluppo, dando un'impronta essenzialissima alla commedia, sia per il carattere che questa andò sempre più assumendo di elevatezza e di bellezza estetica, sia per il contrasto che derivò da tale squisitezza con le scurrilità che la parte propriamente drammatica derivava dall'originaria commedia popolare. E, insieme con gli elementi lirici, presero singolare sviluppo gli elementi fantastici, che del resto erano stati già assunti dalla commedia (lo provano figurazioni vascolari che sembrano risalire circa al 520).

Poi la commedia cominciò ad emulare in qualche modo la sua sorella maggiore, la tragedia. E da un lato ne tolse molti dei suoi procedimenti formali, dall'altro scimmiottò molti dei suoi atteggiamenti sostanziali; e così uno dei caratteri principali della commedia attica fu la parodia. Ma l'elemento che più impronta di sé la commedia antica nel suo più grande periodo che coincide col fiore di Cratino, d'Eupoli e d'Aristofane, sino su per giù alla Lisistrata (411), è la politica. Fu difatti paragonata a un giornale politico. E ne ebbe infatti, in qualche modo, il carattere, le funzioni, gli effetti.

Dei più antichi poeti comici di Attica non rimane, oltre ai nomi già ricordati, se non il titolo di qualche commedia. Parecchi frammenti possediamo invece di Cratino (v.). Riportarono poi vittorie nelle gare e acquistarono rinomanza Cratete, che da principio fu attore di Cratino (riportò la prima vittoria nel 449), Ferecrate, e, in una linea un po' inferiore, Teleclide ed Ermippo, tutti contemporanei più giovani di Cratino. Maggior fama degli altri, sino a rivaleggiare con Aristofane, acquistò Eupoli, nato nel 446, e morto probabilmente nel 411. Poi si devono ricordare Frinico, Platone comico, Callia, Amipsia, Aristomene, Leucone, Licide, Lisippo, Metagene, Diocle, Filillio.

La diminuita o soppressa libertà politica e l'impoverimento della cittadinanza ateniese produssero un profondo mutamento nella commedia. Essa non fu più un fattore politico, ma un mezzo di trattenimento e di svago. Sparite le allusioni politiche, temperata la satira personale, eliminati, o quasi, gli elementi fantastici, essa dové ritornare quale era prima dell'ascesa, al tipo epicarmeo, modificato naturalmente, e arricchito delle esperienze di tanti nobili artisti.

La trasformazione è già visibile nel teatro d'Aristofane, a cominciare, su per giù, dalle Tesmoforiazuse (411), sino al Pluto, ultima delle sue commedie sopravvissute, e che appare già ben lontana dalle commedie politiche e fantastiche del periodo centrale.

Dopo Aristofane e i corifei della commedia antica, c'è ancora una lunghissima fioritura di commedie, di contenuto e di forma assai differenti. I grammatici più antichi conglobarono tutte queste produzioni sotto il titolo di commedia nuova, distinta dall'antica da caratteri negativi, principali la mancanza di elementi politici, di violenti attacchi personali, e di elementi fantastici.

I grammatici più recenti distinsero anche una commedia di mezzo differente dalla nuova, perché mostrava una viva predilezione per le nascoste allusioni, per le parodie e per la canzonatura dei filosofi, dei poeti, della mitologia, mentre la nuova si volse tutta a meglio disegnare gli intrecci ed equilibrare gli svolgimenti, e, soprattutto, a studiare e rappresentare i caratteri.

Premesso che le interferenze fra i varî tipi sono continue e capricciose, si può ritenere che tali differenze fossero rilevate con finezza da quei grammatici, che possedevano per intero un materiale a noi giunto solamente in briciole.

I più famosi poeti della commedia di mezzo furono Antifane, che si sarebbe presentato nell'agone drammatico intorno al 388-5 e avrebbe scritto circa 300 commedie (noi possediamo frammenti di 140); Anassandride di Rodi (nato intorno al 400) che lasciò 65 commedie; e Alesside, di Turi, il più celebre dopo Antifane. Nato intorno al 387, sarebbe morto, quasi secolare, sulle scene, lasciando 245 commedie. A noi restano titoli di 113. Dai suoi frammenti appare una più stretta dipendenza da Epicarmo. Altri poeti della commedia di mezzo furono Archippo, Araro e Nicostrato, figli di Aristofane, Amfide, Anassila, Efippo, Enioco, Stefano, Timocle, Filetero, Nicocare. Delle opere di tutti ci son pervenuti numerosissimi frammenti, e molti, per non dire quasi tutti, di gran bellezza. Ma, per farci un'idea della commedia di mezzo nel suo complesso, dobbiamo ancora ricorrere, da un lato al Pluto di Aristofane, dall'altro all'Anfitrione di Plauto.

Fino a poco fa ci trovavamo nelle medesime condizioni di fronte alla commedia nuova; non ne rimanevano che frammenti. Ma adesso una serie di fortunate scoperte nei papiri d'Egitto ci ha fatto conoscere lunghe scene di parecchie commedie, e, precisamente, un seicento versi dell'Arbitro ('Επιτρέποντες), quasi tutti integri, e contenenti le parti più caratteristiche della commedia; de La donna di Samo circa quattrocento versi, fra i quali moltissimi tetrametri trocaici, cioè versi assai lunghi; circa cinquecento de La chioma recisa; un centinaio rispettivamente del Bifolco e del Parassita. E parecchi altri frammenti minori.

Ma, anche dopo il ricuperamento di questo materiale, ci sembra che per avere un'idea un po' ampia della commedia nuova dobbiamo rivolgerci alle commedie latine. Esaminati e studiati col debito discernimento, Plauto e, specialmente, Terenzio ci fanno intravedere, meglio che i brani degli altri poeti comici da Aristofane a Menandro, su che linea si compié la trasformazione che dalla fantasiosa commedia di Aristofane condusse, per il tramite di Menandro e dei Latini, alla commedia classica moderna.

Vero studio di caratteri nel significato moderno non c'è. Ci sono variazioni di tipi convenzionali, fissati non solo dalla tradizione scenica, ma anche dalla tradizione letteraria. Un vero manualetto di tipi scenici, forse per uso dei commediografi, sono i Caratteri di Teofrasto; e un'eco permane nell'Arte poetica di Orazio.

Questi tipi sono ben noti perché l'imitazione li ha trasportati anche nella "commedia classica" italiana. Ci sono i due vecchi, il buon diavolo e il brontolone, i quali si rassomigliano però nella mania, per noi incomprensibile, di far ammogliare i figlioli il più presto possibile. C'è il giovanotto che non vuole sposare la ragazza scelta dal padre, ed è invece innamorato di qualche trovatella o di qualche furba cortigiana. E c'è la ragazza, in genere una brava figliola, che spesso è ingenua, ma che quasi sempre ha bisogno urgente di trovar marito. Ecco il soldato fanfarone che sciorina le sue prodezze e le sue grandezze; ed ecco, alla coda sua, o di qualche altro gonzo, il parassita che finge di bere grosso, approva, loda, si meraviglia, e scrocca pranzi a bizzeffe. La cortigiana furba tira a spennacchiare più che può i suoi merli, e la fida ancella l'incoraggia all'opera meritoria. I servi, piatto forte di queste comiche imbandigioni, sono furbi, hanno sempre appetito, bevono come spugne, negano la verità conosciuta, smentiscono cose asseverate un minuto prima. Sono in genere calvi e panciuti. Se la commedia finisce senza che abbiano toccato un diluvio di busse, è certo un miracolo. Completavano la serie un'altra quantità di tipi, maliziosamente classificati dai trattatisti antichi: un cuoco paesano e un cuoco forestiero (Cicala), una vecchia pasciuta e una vecchia tutta grinze; una femmina ciarliera, un ficcanaso, un paraninfo, ed altri ancora, dei quali possiamo intravedere le piacevoli sembianze in statuette, in bassorilievi, in pitture murali dell'età greca e romana. Da commedia a commedia codesta gaia brigata vi torna dinanzi; e vi par sempre la medesima, anche perché neppure i nomi cambiano troppo. Le belle si chiamano in genere Glicera, cioè la dolce, i giovanotti Moschione (Vitellino) o Carino (Grazioso). I vecchi, se non sono Demea (Tuttopopolo), saranno Cremilo (Scaracchia). I servi, che erano schiavi di paesi barbari, si chiamavano col loro nome d'origine, per esempio Davo, o Geta. Un po' più di fantasia si sfoggiava nei nomi dei parassiti e dei rodomonti: sì che c'erano per esempio, Gnatone (Ganasciasoda) e Gastrone (Tuttopancia) e Artotrogo (Rodipagnotta) e Polemone (Attaccazuffe) e Pirgopolinice (Scavezzalarocca). Veramente chi badasse ai titoli delle commedie menandree, potrebbe pensare a una ricchezza maggiore di caratteri, o, almeno, di tipi: il superstizioso, il misogino, il pauroso, il bugiardo, l'atrabiliare. Ma l'autocarnefice (Heautontimorumenos) di Terenzio, e il fanfarone (Miles gloriosus) di Plauto, che non sarà di Menandro, ma è di quella scuola, ci ammoniscono a non farci troppe illusioni. Le prime scene sono piantate bene: ma quando incominciamo a sperare che sorga infine e giganteggi, fra tanti abbozzi, un carattere compiuto, ecco i soliti giovanotti, i soliti intrighetti e amoretti: e in mezzo a quel tritume la visione originale si sgretola, si dissolve in fumo.

Anche maggiore è la monotonia dei soggetti. Due case sulla scena, una a dritta, d'un vecchio padre del giovanotto, l'altra a manca, del non meno vecchio genitore della ragazza. O il giovanotto, o la ragazza, o l'uno e l'altra, furono esposti da bambini, ed ora sono o servi, o adottati nella casa del proprio babbo o nell'altra. E solo al fine della commedia avviene il riconoscimento, ché nume tutelare di queste commedie è l'Agnoia, l'Inscienza, che in una delle commedie di Menandro (La chioma recisa) è addirittura personificata, e viene a dire il prologo. E anche in omaggio a questo principio, il giovine ha sedotto la fanciulla senza sapere chi seducesse, in una delle feste notturne celebrate dalle donne. In altri casi invece la conosce, ma non vuole sposarla, perché irretito nell'amore di una cortigiana, o perché il babbo vuole appioppargli la ricca ereditiera. Infine però tutto si appiana e un legittimo matrimonio salva la moralità. Questi elementi, disposti in tutte le combinazioni possibili, dànno altrettanti eccellenti intrecci di commedie nuove.

Del resto, l'intreccio non è se non lo schema di cui si serve il drammaturgo per fare incontrare e cozzare i caratteri. Ma s'intende che, dati i tipi della commedia terenziana-menandrea, non possiamo aspettarci veri conflitti. Infatti quasi sempre vi è cicaleccio meglio che contrasto drammatico. E tale, in fondo, era il concetto che nell'epoca classica si dové avere del dialogo comico. Orazio esaltava sugli altri poeti comici dell'età sua Fondano, che empiva di arguti chiacchericci le sue commedie.

Assai debole è anche la tecnica scenica, e piena di quelle goffaggini che non tanto sono indici di ingenuità primitiva quanto di ineliminabile cattivo gusto e di scarso senso drammatico. Quasi tutti i personaggi, appena giunti sulla scena, spiegano minutamente chi sono, donde giungono e che cosa sono venuti a fare. E che cosa vanno a fare dicono in genere anche prima di andarsene. Il personaggio che esce dall'uscio di una casa, se per avventura vi risparmia l'iniziale monologo informativo, vi farà sapere qualche antefatto o qualche concomitanza all'azione, rivolgendo alcune parole di congedo a un supposto interlocutore che rimane in casa. Non mancano, sempre per quella benedetta necessità di spiegare antefatti, i confidenti, che dovevano poi trovare sì largo favore nelle paludate e papaveriche tragedie neoclassiche. Se c'è bisogno di mandar via un personaggio divenuto superfluo, lo si spedisce a vedere se Tizio o Caio abbiano compiuta la tale o la talaltra missione. Se poi l'azione non può andare avanti senza la presenza di questo o di quel personaggio, eccolo arrivare fresco fresco, come da uno scatolino. Spesso attori che sono sulla scena non vedono altri attori anche presenti, e non ne sono veduti: parlano e non sono uditi; né sempre s'intende come fosse possibile questa reciproca invisibilità. Spesso un personaggio esprime riflessioni intime che nella vita reale rimarrebbero pensieri, e questo è legittimo; ma assai goffo è che un secondo personaggio, nascosto, oda queste che nel mondo scenico non sono altro se non mute riflessioni. Abbiamo insomma quella tecnica scenica che vuole essere logica e dar ragione di tutto, vuole che ogni particolare dell'impalcatura scenica sia chiaro, vuole mascherare tutte le lacune quasi ineliminabili da ogni organismo scenico; e non fa che richiamare l'attenzione su quelle lacune.

Davvero stranissimo è poi, per il sentimento moderno, il mondo descritto nella commedia menandrea. Esporre i bambini è la cosa più naturale, più ovvia, più comune; e impagabile è la disinvoltura con cui venerandi vecchioni confessano di avere, per cause talora frivole, abbandonato i loro bambini (v. per esempio, l'Heautontimorumenos, v. 660). Il passatempo più comune e più gradito ai giovanotti di buona famiglia è sedurre, per lo più in feste notturne, giovinette del loro ceto. E queste, rese madri, senza sapere da chi, vanno spose al primo che capita. Bimbi nascono, e il marito non se ne accorge; o gli gabellano per figli suoi, concepiti e nati in casa, marmocchi presi di qui o di lì. Fanciulle trovatelle crescono, purissimi gigli, in case di mala fama, e di qui muovono a nozze, e nessuno ci trova a ridire, né gli sposi, né i babbi che s'affrettano ad accordare il consenso. Anche poi se la figliola abbandonata ha preso mala piega, ed è divenuta cortigiana, spudorata, scialacquatrice, poco male: una brava agnizione rimedia a tutto, e un buon marito non le mancherà. I giovanotti poi sono perle di figlioli; ma se mantengono una cortigiana, non si fanno scrupolo di ammettere un terzo a sostenere le spese di casa (Eunuco, 1073). Il figlio di Simone, nell'Andria, frequenta assiduamente la casa dell'etera Criside; ma siccome risulta che si limita ad assistere ai banchetti e agli svaghi che essa si piglia con tre suoi amanti, senza aspirare a una posizione più intima, guadagna così alta riputazione, che il padre di una ricca ereditiera lo vagheggia come l'ideale marito della propria figlia, e lo va a chiedere al padre.

Gli antichi, in genere, istituendo un confronto fra Aristofane e Menandro, davano la palma al secondo. Cioè, in fondo, alla commedia nuova sull'antica. Non importa qui risolvere, anzi neanche proporre la questione. Ma se cerchiamo quale poté essere la principale causa di quella preferenza, la troviamo facilmente nel fatto che la commedia nuova, abbandonato risolutamente ogni altro elemento, si volse tutta alla osservazione della realtà, fu verista in un tempo in cui il verismo era una novità. Menandro imitò la vita - chiedeva un antico - o la vita imitò Menandro?

Ed è proprio così, per Menandro, e per tutte le reliquie, greche o voltate in latino, della commedia nuova. Quegli omuncoli, quelle donnicciole, quei vecchi brontoloni, quei figli rompicolli, quei servi furbi e quelle scaltre cortigiane, oggi, dopo tanti secoli, ci sembra ancora di sentirli chiaccherare. Alle volte magari c'infastidiscono. Ma parlano, chiaccherano sul serio, non dissertano accademicamente, come tanti dei loro discendenti nelle soporifere commedie classiche moderne. A questa costante aderenza con la realtà si dové certo il successo che accompagnava fedele le commedie di Menandro, in un tempo in cui la dotta filologia già cominciava a trascinare via la letteratura dai campi e dalle agore, e la conduceva a morir di tanfo e di tedio fra le mura delle biblioteche e le risse degli eruditi.

Ediz.: I frammenti della commedia attica sono in: Kock, Com. attie. fragm., Lipsia 1884-88, voll. 3, dopo l'edizione di A. Meineke, ancora utile. I frammenti della commedia dorica sono in: G. Kaibel, Com. graec. fragm., Berlino 1899 segg., e A. Olivieri, Frammenti della Commedia e del Mimo nella Sicilia e nella Magna Grecia, Napoli 1930, edizione veramente esemplare.

Bibl.: E. du Méril, Histoire de la comédie ancienne, Parigi 1864-1869; J. Denis, La Comédie grecque, Parigi 1886; P. Mazon, Essai sur la composition des comédies d'Aristophane, Parigi 1904; A. Körte, Die griechische Komödie, Lipsia 1914; T. Zielinski, Die Gliederung der altattischen Komödie, Lipsia 1885; Ph. Legrand, Daos, Parigi 1910; J. W. White, The verse of greek comedy, Londra 1912; P. Geissler, Chronologie der altattischen Komödie, Berlino 1925; E. Romagnoli, Nel regno di Dioniso, Bologna 1918; id., Il teatro greco, Milano 1918; id., Musica e poesia nell'antica Grecia, Bari 1911; G. Pasquali, Perché s'intenda l'arte di Menandro, in Atene e Roma, XX (1917), p. 177 segg.; XXI (1918), p. 11 segg.; id., Menandro ed Euripide, ibid., p. 87 segg.

La commedia romana. - Forme di una drammatica popolare erano già in Roma prima che sorgesse il dramma comico letterario. Il mimo proveniva dalla Magna Grecia, ma solo più tardi sostituì, assurto a forma letteraria, l'atellana come exodium delle rappresentazioni tragiche. L'atellana e il mimo e forse anche la satura influirono sulla formazione della commedia latina, ma in particolare modo i contatti di Roma con la Magna Grecia e la Grecia. Il traduttore della Odyssia rappresentò nel 240 (v. andronico) una sua commedia durante i Ludi romani; egli stesso fu autore e direttore di scena dei suoi drammi tragici e comici, tradotti dal greco. La notizia tramandataci dalla Cronaca di Cassiodoro è credibile e la data, abbastanza precisa, conferma pienamente l'influenza dei nuovi rapporti di Roma col mondo estraitalico sulle origini del dramma romano. Commedie di Nevio, come Acontizomenos, Agrypnuntes, tradiscono nel titolo la dipendenza da originali greci, e l'attività di tutti i poeti romani di questo primo periodo si volse in gran parte allo studio della drammatica greca. Da Livio in poi non solo nei Ludi romani, ma anche nei Ludi plebeii e nei Ludi apollinares e nei Ludi funerarii, si rappresentavano commedie. Il dominus gregis (impresario-direttore) acquistava dagli autori i drammi e ne curava la messa in scena insieme con i curatores ludorum e con lo stesso poeta, ma altre notizie informano che anche gli edili e il pretore avevano talvolta facoltà di provvedere alle cure del teatro.

I poeti del dramma comico romano sono: Andronico, Nevio, Plauto, Ennio, Trabea, Licinio Imbrice, Attilio, Iuvenzio, Cecilio Stazio, Vatronio, Luscio Lanuvino, Terenzio, Plauto, Turpilio. E anche nella commedia romana, come nella greca, sono riconoscibili due maniere, l'antica e la nuova; l'antica che è in più stretto contatto col pubblico e che cerca di adattare ai suoi gusti argomenti della commedia greca; la nuova che perde quel contatto, anzi lo trascura, e cerca invece d'interessare le sfere più colte, i circoli ellenizzanti di Roma. Il problema di come presentare al pubblico romano commedie di argomeuto greco se lo pose per primo Livio Andronico; ma noi non sappiamo come egli lo risolvesse, sebbene tutto induca a credere che l'opera di Livio tendesse piuttosto a destare interesse intorno alla letteratura greca che ad altro. Un poeta come Nevio andò oltre Livio, poiché, se è vero quello che ci narra la tradizione, egli avrebbe attaccato la famiglia dei Metelli dalla scena, avrebbe cioè tentato d'introdurre elementi romani nel dramma comico.

Ma in Roma non era possibile che dalla scena venissero attaccati personaggi della politica contemporanea, e Nevio non fu imitato. Era dunque naturale che i poeti del dramma comico romano imitassero non la commedia attica antica, ma la commedia nuova o la cosiddetta commedia di mezzo. D'altra parte gli argomenti della commedia attica antica erano troppo lontani dal gusto dei Romani, i quali mostrarono interesse piuttosto per la letteratura greca dal quarto secolo in poi, specialmente nel campo della drammatica: per capire Aristofane erano necessarie conoscenze che pochi potevano procurarsi. La scelta cadeva dunque su Menandro, Difilo, Filemone, Apollodoro, Posidippo, e, crediamo, anche su Antifane, Alesside, Eubulo. Aulo Gellio (II, 23, 1) scrive: comoedias lectitamus nostrorum poetarum sumptas ac versas de Graecis Menandro aut Posidippo aut Apollodoro aut Alexide, et quibusdam item aliis comicis, e però sembra legittimo dedurne che la cosiddetta commedia di mezzo, la quale certamente era più ricca di azione e di maschere che di caratteri, fosse studiata e imitata dai commediografi romani. Prima di Terenzio, la commedia romana presenta questo carattere, di essere specialmente ricca di azione, come dovevano esserlo le commedie di Alesside, di Eubulo e di Antifane, per dir solo dei maggiori rappresentanti della commedia di mezzo, o meglio del primo periodo della commedia nuova. Si crede di solito che l'Amphitruo plautino si riattacchi alla tradizione della commedia rintonica che pare fosse imitata anche nel Sisyphus di Pomponio e nelle Phoenissae di Novio; ma che sappiamo noi delle commedie parodistiche greche, delle tante commedie fiorite tra l'antica e la nuova, per poter supporre che alla rintonica Plauto si riattacchi e non alle commedie parodistiche? La commedia di mezzo conosceva argomenti desunti dalla bassa e mala vita dei lupanari, anzi preferiva proprio quegli argomenti, magari nobilitando i personaggi di quell'ambiente in un'azione a lieto fine, immaginando amorazzi che diventano amori, o giocando sul ridicolo esito di amori senili, di gelosia fra padre e figlio per un'etera: la commedia di Plauto ci presenta molto spesso ambienti siffatti e le sue Bacchides riportano, sia pure attraverso un'abile contaminatio, a quel tipo di commedia piuttosto che alla commedia menandrea. Allo stato attuale delle nostre conoscenze, oggi che non possediamo se non frammenti della commedia premenandrea, dobbiamo confessare di non possedere elementi sufficienti per un sicuro giudizio.

La commedia romana si divide in due grandi categorie: la palliata e la togata. Palliata è la commedia che imita argomenti greci adattandoli bene o male all'ambiente romano; togata è invece la commedia che tratta di argomenti romani. Turpilio si può dire che sia l'ultimo poeta della palliata, poiché con Titinio, Atta e Afranio siamo in piena togata; titoli come Cinerarius, Augur, Fullonia, Brundisinae, Ferentinatis appartengono alla togata, che di solito pone la scena in Roma o in altre città dell'Italia, e dà ai personaggi nomi italici. Ma anche in questo caso giova procedere cautamente, poiché noi non abbiamo nessuna commedia togata, mentre sorge naturale il sospetto che l'intreccio di tali commedie non dovesse essere gran che diverso dall'intreccio delle palliate, anche se l'influsso dell'atellana e delle forme della drammatica popolare fu più forte nelle prime che nelle seconde. In un certo senso e dentro determinati limiti, possiamo dire che Plauto precorra e prepari la commedia togata. Plauto anche nelle immagini derivate dal mito e nelle metafore segue interpretazioni romane, mostra di non comprendere affatto alcuni particolari della vita ellenistica; insomma si può dire che egli svuoti del loro contenuto drammatico gli originali e molto spesso distemperi una scena in più scene riuscendo a una certa disorganicità che forse fu anche in poeti della commedia greca, in Difilo a esempio, ma non certo così palese come appare in Plauto attraverso la deficienza dei mezzi tecnici.

Comunque sia, la commedia romana sembra polarizzarsi intorno ai due astri maggiori, che sono Plauto e Terenzio. Del primo abbiamo già detto quali siano le caratteristiche. Egli si distingue da Terenzio per questa sua costante originalità d'interpretazione del mondo greco, originalità che investe anche i particolari e bene spesso perfino il nome dei personaggi. Un grande studioso di Plauto, E. Fraenkel, ha dimostrato di recente che il canticum di Chrysalus nelle Bacchides è un'interpretazione del mito troiano notevolmente romana, e ha limpidamente e con decisivi argomenti e con ricchezza di prove difeso l'originalità di questo grande poeta italico, il quale fu l'interprete migliore del mondo latino contemporaneo. Anche la metrica di Plauto è un'opera d'arte, poiché in Plauto i personaggi non parlano come in Terenzio sempre in senarî e in tetrametri, ma spesso in metri lirici, anapesti bacchei cretici. Tali cantica non hanno affinità con i canti ellenistici, come si è creduto fino a pochissimi anni or sono in seguito alla scoperta del canto ellenistico "Il lamento della donna abbandonata" (fragmentum Grenfellianum) e all'ipotesi del Leo, ma dipendono direttamente dalla tragedia romana poiché anche in Ennio c'è un'analoga trasformazione di versi recitativi in canti lirici. I cantica plautini sono legati all'azione, non hanno struttura fissa che nel solo Miles gloriosus, mancano soltanto nell'Asinaria, e poiché il loro impiego non trova esempio in Grecia, essi confermano la grande originalità di Plauto. Terenzio invece sviluppa poco l'elemento lirico, e preferisce il dialogo; il monologo dei suoi personaggi, come il menandreo, si distingue per la pura oratio, per l'eleganza stilistica, ma né nel dialogo né nel monologo troviamo quell'aderenza della parlata all'ambiente che distingue Menandro dagli altri commediografi e per cui diverso è lo stile del servo da quello del padrone, diverso è l'atteggiamento spirituale anche di due servi. La penetrazione psicologica, dote di Menandro, non poteva raggiungerla il dimidiatus Menander (così Cesare chiama Terenzio) costretto a tradurre in altra lingua originali greci. E tuttavia gli effetti stilistici che egli raggiunge sorprendono, chi pensi che egli si preoccupa di conservare l'attica atmosfera in cui si muovono i personaggi dei suoi drammi e di ridurne il meno possibile il contenuto drammatico. Cecilio Stazio, tra Plauto e Terenzio, ma piuttosto a Terenzio vicino che a Plauto, è un altro esempio di questa ricercata aderenza stilistica del dramma latino a quello greco. Frammenti del suo Plocium, messi a confronto con i relativi frammenti del dramma di Menandro ch'egli traduce, palesano una gravitas, da cui scaturisce una certa vivezza di espressioni ora artificiosa ora spontanea.

La commedia palliata per la sua stessa origine e per il problema sempre vivo di come adattare alla scena romana drammi greci diede luogo a polemiche fra gli stessi commediografi. Una eco di tali polemiche è nei prologhi terenziani nei quali il poeta risponde alle accuse e alla critiche dell'altro commediografo Luscio Lanuvino. Le critiche di Luscio si appuntavano contro la contaminatio, cioè contro il fatto che anche Terenzio nella composizione dei suoi drammi ricorresse, per accrescere vivacità all'azione e interessare il pubblico, all'espediente di aggiungere scene derivate da un altro dramma al dramma che imitava. Nel prologo dell'Eunuchus egli confessa di avere aggiunto all'Εὐνοῦχος menandreo scene e personaggi del Κόλαξ anch'esso menandreo; nel prologo dell'Andria afferma di avere inserito nell''Ανδρία menandrea scene della Περινϑία, ma giova notare che rispondendo all'avversario Terenzio si preoccupa di far rilevare che egli contamina commedie affini per il contenuto, e dello stesso autore. Egli (in Andria, prol., 18) dice: qui quom hunc accusant, Naevium, Plautum, Ennium accusant, cioè dichiara che la contaminatio era un solito espediente della drammatica romana. Ma se Terenzio contamina commedie di contenuto affine e dello stesso autore, diversamente aveva composto Plauto i suoi drammi, senza preoccuparsi cioè di mantenere al dramma l'organicità dell'originale e inserendo invece intere scene imitate da altre commedie e magari di un altro autore. Il pubblico al quale si rivolgeva Terenzio era più colto, poiché egli era di quella corrente letteraria alla quale appartenevano i Lelii e gli Scipioni, i nuovi romani che guardavano alla Grecia come alla terra madre di una nuova civiltà per il mondo latino. Lo stesso Luscio Lanuvino, che insiste sulla necessità di tradurre fedelmente, apparteneva a quel circolo.

Un'altra divisione della commedia palliata troviamo in Evanzio, De fab., 4, 4: motonae, staiariae, mixiae. Le prime sarebbero turbulentae, le altre sono definite quietiores, le ultime ex utroque actu consistentes. Tutte le commedie plautine, eccetto i Captivi e il Trinummus, sono motoriae, quasi tutte le terenziane, eccetto il Phormio, sono mixtae, ma l'Heautontimorumenos è stataria. Ma si tratta di una distinzione accademica di scarsa importanza. Personaggi della palliata sono: leno periurus, amator fervidus, servus callidus, amica inludens, uxor inhibens, mater indulgens, patruus obiurgator, sodalis opitulator, miles proeliator, parasitus edax, meretrices procaces. Sono drammi d'intrigo e di carattere, come risulta dalla qualifica dei principali personaggi, derivati tutti dalla nuova commedia attica. In tutte queste commedie l'unità di tempo e di luogo era mantenuta anche a scapito della verisimiglianza. Il coro manca, ma ne restano reliquie nel Rudens dove compaiono dei piscatores in gruppo, nelle Bacchides (107) e nell'Heautontimorumenos (171) terenziano. Ma di un vero coro non si può parlare: negl'intermezzi tra atto e atto, quando la scena era vuota il tibicen suonava, come si legge in Plauto (Pseudolus, 1, 3, 160): tibicen vos interea delectaverit. Ogni dramma era diviso in cinque atti, divisione che risale al tempo ellenistico e che risulta dal prologo di Ambivio all'Hecyra terenziana (39), dove si parla di un primus actus, e dall'Ars poetica oraziana (189) che prescrive cinque gli atti a un dramma. Il primo atto era di solito la protatis, un antefatto necessario perché si potesse capire lo svolgimento del fatto nei tre atti centrali e si avesse poi nell'ultimo la καταστροϕή. Molto spesso la commedia era preceduta da un prologo che aveva forme diverse, a imitazione del prologo della commedia greca, ed era perciò commendaticius, relativus, argumentativus, mixtus. Esso era pronunziato di solito da uno o da due personaggi in monologo o dialogo, ma in Terenzio troviamo introdotti i πρόσωπα προτατικά, personaggi che pronunziavano il prologo e poi scomparivano dall'azione, alla quale non prendevano parte. Notevole è infine che i prologhi terenziani sieno dei prologhi retorici sul tipo di quello greco ritrovato in un papiro di Strasburgo (v. Schroeder, Novae Comoediae fragmenta) e abbiano tutti, o quasi tutti, carattere polemico, mentre i plautini sono di carattere argomentativo.

Bibl.: Oltre a quella segnata alle singole voci dei varî autori (Plauto, Terenzio, ecc.), vedi per questioni generali, Ph. Legrand, Daos, Parigi 1910. I frammenti dei comici, eccetto Plauto e Terenzio, sono in O. Ribbeck, Fragmenta scaenicae Romanorum Poesis, Lipsia 1897-98. Cfr. anche: E. Fraenkel, Plautinisches in Plautus, Berlino 1924.

La commedia moderna. - Nelle letterature moderne la storia della commedia comincia dall'Italia del Rinascimento. Al progressivo laicizzarsi della cultura nei primi secoli del secondo millennio corrispose un progressivo inserirsi di elementi profani nelle varie forme di rappresentazione sacra. Ma, in Italia, il declinante umanesimo, rinnovando in lingua volgare la commedia classica tutta profana, attuò d'un tratto, e senza conflitti con la curia papale, la piena emancipazione del teatro dalla tutela ecclesiastica. La sacra rappresentazione aveva presto perduto il favore degli uomini pii, non essendo più tanto aderente alla chiesa da dipenderne totalmente, né tanto estranea da escludere pericolose digressioni satiriche sulla corruzione del clero e su altre cose pur gravi. Fin dal '400 a Ferrara, sotto gli auspici di Ercole I d'Este, il gusto del teatro latino era particolarmente diffuso: nel 1508 l'Ariosto vi fa rappresentare la prima commedia imitata dai latini in volgare: la sua Cassaria (è possibile trovare qualche oscuro tentativo anteriore: per esempio Il formicone di Publio Filippo Mantovano, 1506). Questo successo in corte aprì alla commedia quella via che la tragedia si trovò preclusa per varî anni ancora. I caratteri della commedia italiana del rinascimento si sintetizzano in quelli della Calandria (1513) di Bernardo Dovizi da Bibbiena, futuro cardinale, recitata poi senza scandalo davanti alla corte papale. L'entusiasmo per le cose antiche non sarebbe bastato a sostenere in quel pubblico (raffinato ma non tutto dotto) l'interesse per tipi e figure estranei alla diretta esperienza d'ognuno se anche a questa non si fosse in qualche modo andato incontro rappresentando quel padre avaro, quel figlio scapestrato, quel servo mezzano, quella donna di malaffare. Queste contaminazioni di verità e di letteratura apparivano tanto più accettabili in un tempo in cui la poesia comica, trovando chiusi gli usci della vita privata, doveva accontentarsi d'errare per le strade dove ancora e sempre s'incontrano quei certi tipi sui quali il pubblico tende ad avere idee di maniera. Con quelli ritrovavano la loro vivacità, in un'atmosfera quasi farsesca, vecchi eterni motivi comici, auspice il gran mezzuccio dell'agnizione liberamente adoperato (una specifica trattazione di Aristotele sulla commedia o non rimaneva o non c'era mai stata). Si costituì o ricostituì allora, insomma, quella convenzionale verità scenica tutta intesa a un unico fine, la risata. Queste commedie hanno un'anima farsesca che spesso informa con studiosa cura, che è pure una contraddizione, impalcature plautine e terenziane. Sono tenute come forma d'arte inferiore, onde il pochissimo peso dato alla loro immoralità così estranea all'esperienza del pubblico. Il solo Machiavelli osò muovere per entro i soliti congegni farseschi figure osservate non nella convenzionale figura del palcoscenico, ma in quella reale del tempo suo, e ne ricavò la Mandragola. Certe commedie meno infarcite di elementi farseschi nella seconda metà del '500 (del fiorentino G. M. Cecchi e del napoletano G. B. Della Porta, 1535-1615) si presentano come fallace presagio, cioè senza seguito, di commedia drammatica. In Italia (e pare un paradosso) vero sbocco del teatro comico classico si può considerare la commedia dell'arte (v.), divenuta poi così cara ai romantici, ma non per nulla rimasta così caratteristicamente italiana. In questa potrà essere confluito un genere popolaresco trascinatosi via via dall'antichità, ma, intanto, a mezzo il Cinquecento, fu proprio la commedia classica a prepararle la via, e farla sua erede. Quella commedia, da noi detta "erudita" perché tramandataci dai libri, era però stata, a suo tempo, quasi popolare, e certi attori popolareschi, tra cui massimo il Ruzzante (v.), che nel '500 diedero l'abbrivo alla commedia dell'arte, opponendo alle convenzionali imitazioni e contaminazioni degli antichi una loro spontaneità, ritrovarono in questa, naturalmente, molti vecchi motivi "eruditi". Così quella spontaneità cristallizzò presto in maschere, talune delle quali somigliavano a tipi classici: e Pantalone fu un padre gonzo o avaro o bisbetico come l'antico, e il capitano Matamoros, finito Scaramuccia nella creazione di Tiberio Fiorillo (1608-1694), somigliò al Miles gloriosus. La commedia a scenario - cioè improvvisata da attori di mestiere sullo scenario preparato dal poeta di teatro - divertì, con i suoi lazzi, popolo e borghesia, e la favorì, pur in tanta sbrigliatezza romantica, quella persistente riluttanza classica ad accettare la dignità estetica del comico, come se questo non potesse essere se non buffonesco. Questa prevenzione persistette nei grandi critici del settecento, per es. nel Muratori e nel Baretti. E buffonesca fu la commedia dell'arte: la quale conta più come istituzione civile che come poesia.

L'influenza italiana, invano auspicata in un primo tempo dal Cervantes, sfiorò appena la Spagna e non interruppe il libero svolgersi della commedia laica dalla rappresentazione sacra. In Spagna il teatro sta con la vita civile in rapporti eccezionali rispetto a quelli degli altri paesi europei, dove gli ecclesiastici (cattolici o protestanti) si trovano quasi sempre in conflitto con i poeti comici e tragici. Là, invece, inquisizione e commedia si possono far nascere l'anno medesimo: in quel 1492, appunto, Fernando e Isabella cacciano del tutto i mori da Granata, Colombo scopre l'America e Fernando de Rojas conduce a termine il romanzo dialogato Celestina. Il teatro spagnolo diventa naturalmente il celebratore degli orgogli nazionali, in cui la religione ha tanta parte, e, come tale, si costituisce quasi estraneo ai sospetti, se non alla vigilanza, dell'Inquisizione. La commedia, che pure ha raggiunto la sua maturità laica, volontieri continua ad accettare l'ospitalità delle confraternite; e l'animo religioso degli autori non tanto si mostra nelle singole opere quanto nel fatto che ognuno di essi alterna azioni sceniche profane e drammi sacri (vite di Santi e Autos sacramentali). Lope de Vega, Calderón de la Barca, Tirso de Molina, Guillén de Castro, Juan Ruiz de Alarcón e altri minori sono, come fu detto, i servitori gloriosi dell'immaginazione popolare, sempre in armonia con la fede del loro popolo anche quando, sul palcoscenico, peccati e colpe passano seducenti e sgargianti. Ma la rappresentazione del peccato non scivola mai in quella dubitante ironia di cui tanto si preoccupavano gli uomini di chiesa: il primo a credere è il peccatore, si chiami pure Don Giovanni. Ne uscì un nuovo genere di commedia in cui l'emozione comica cede per lo più a quella fantastica in onta alla mediocrità (in senso aristotelico) dei personaggi e, fino a un certo punto, degli avvenimenti. Commedie di cappa e spada furon dette appunto quelle in cui s'introducono personaggi medî, la borghesia d'allora, onde si pensa al dramma (v.). Se non che il bisogno di cose sorprendenti prevale tosto con effetti, al nostro gusto, talora grossolani e grotteschi: ed eccoci nel mondo dell'eccezionale e del fantastico propiziati con mezzucci d'ogni genere. Molti di questi si spiegano con la stessa fretta di produrre che qualche volta si accontentava di abbozzare; ma il fantastico, il grandioso erano reclamati ad ogni costo dal pubblico; onde una commedia popolare tutta costituita da personaggi non plebei, da passioni eccezionali, da costumi raffinati perché una venerazione fatta di sentimento patrio legava gli umili alla vita dei grandi e esigeva che questa fosse caratterizzata dalle romanzesche imprese dell'amore e dal punto d'onore.

Fatto anche più grandioso, e sorprendente per la sua caducità, è l'improvviso manifestarsi del teatro profano in Inghilterra sulla fine del '500. Non solo il teatro diventa colà professione per i suoi comici, come nella commedia dell'arte italiana, ma anche per i suoi poeti: e uno ha nome Shakespeare. Soverchia egli di tanto gli altri che i caratteri della commedia inglese più che da quelli di una età dipendono dal suo genio: si va dalla risata sonante della Bisbetica domata e delle Allegre comari di Windsor alla poesia delicata del Come vi pare. Ma la storia di questa commedia è difficilmente isolabile da quella del teatro shakespeariano, a una delle cui caratteristiche nuove, la fusione del comico col tragico, guarderà poi come a sorgente di poesia moderna il romanticismo. Dopo Shakespeare, Ben Johnson tende a infrenare con leggi classiche quel libero immaginare: ma nel suo famoso Volpone (The Fox) la risata s'infosca d'un moralismo quasi truce. Il breve portentoso rigoglio del teatro inglese tosto sfiorisce nell'intolleranza puritana che nel 1642 fa chiudere tutti i teatri.

Fu classico ufficio della Francia, nel '600, ridare alla commedia i suoi caratteri genuini (eliminate le contaminazioni liriche, pastorali, drammatiche), e vincere insieme, o indebolire, il pregiudizio umanistico dell'inferiorità della commedia rispetto alla tragedia. Desmarets, Scarron, Boisrobert preparano la strada a Molière. Questi attinge bensì alla commedia spagnola e alla commedia e agli scenarî italiani, ma, per forza di genio, rimette quei motivi nel circolo della vita vissuta ove essi perdono il convenzionale, e, in certo senso, il farsesco. Nasce il comico dall'intimo dell'umanità vera: onde certe classi sociali (i medici per esempio) dall'essere portati sul palcoscenico da Molière risentono un turbamento che non avrebbero dato loro i frizzi della commedia umanistica italiana. Si chiedono certi studiosi: per quanta parte la commedia di Molière prepara la strada al dramma? Certo il sorriso e la stessa risata di lui e di alcuni suoi successori svelano una certa sofferenza e la ispirano. Fu detto di Molière, lode vera e grande: "egli fissa la commedia nel suo giusto tono fra il buffonesco e il tragico". Non tramontò più il gusto di una tale commedia di carattere, per cui Molière sarà posto dai romantici accanto a Shakespeare come scopritore della sensibilità estetica moderna. Ma s'ebbe per intanto, per questo rispetto, una crisi, finché un italiano, il Goldoni, fece fare a codesto realismo un passo nuovo, portando la commedia a un più largo, se non più intimo, contatto con la vita vissuta. Accettate per quello che valgono le vecchie denominazioni, con Molière s'inizia la commedia di carattere, con Goldoni quella d'ambiente. E come questa dell'ambiente è pur la grande passione dell'arte ottocentesca, di qui la maggiore modernità del secondo rispetto al primo. Pur con tutto il suo interesse per l'uomo, Molière ne ha uno molto limitato per i singoli uomini, cioè per le varie loro forme di vita. E ciò perché queste varie forme al tempo suo contano poco e presentano poco interesse. I soli ambienti che egli descrive (quello delle Preziose per esempio) sono d'eccezione; i suoi medici rappresentano più che una classe sociale una categoria dello spirito. In Goldoni il gusto della verità umana si particolareggia e quasi si sminuzza: è già tutto nostro e moderno l'interesse con il quale egli osserva certi interni di poco valore, caratterizza certe professioni, e presuppone una società avviata a costituirsi come la nostra. Il noto paragone tra la profondità di Molière (filosofo) e la presunta superficialità di Goldoni (ritrattista) presuppone uno studio delle diverse circostanze storiche entro cui l'uno e l'altro si formarono. Goldoni è il primo dei commediografi moderni in quanto per lui i tipi umani contano solo nei loro rispettivi ambienti (e i tipi ci sono tutti, tranne, forse, il prete). Questo diritto d'impicciarsi con la realtà e quasi d'influire su di essa è ognor più riconosciuto all'arte; sennonché solo nel Goldoni la commedia resta classicamente tale senza deformarsi in satira o prendere pieghe drammatiche o dipendere da una tesi. In Francia, per lo stesso travaglio psicologico suscitato dal Molière, la commedia tendeva a divenir soltanto patetica, con La Chaussée, autore del Préjugé à la mode, 1735, e di Mélanide, 1741, e in qualche modo incubava il dramma, con Destouches, Marivaux, Diderot. (In Inghilterra la sfrenata corruzione succeduta alla reazione puritana aveva messo di moda alla fine del '600 una commedia oscenissima da cui non si sapeva uscire se non imitando i Francesi). Alla vigilia della Rivoluzione, Beaumarchais, precorso in certa misura da Marivaux, sembra ridare alla commedia la gioia della risata e (Le Barbier de Séville, 1775, Le Mariage de Figaro, 1784) accomunare le classi sociali in un buonumore universale. Ma fra l'allegria di Goldoni e quella di Beaumarchais c'è, storicamente, la stessa distanza che passa fra la commedia del Settecento e la successiva in cui sembra quasi impossibile trovare in qualche fatto umano ragione di riso senza trapassar nella satira. In Figaro si risente ormai il diritto della borghesia giudicante. Lo sgargiante umorismo che dai suoi atti trabocca è sempre, implicitamente, frizzo contro qualche istituzione o qualche pregiudizio. Così, nell'Ottocento, con l'avvento della borghesia il comico del palcoscenico sempre più difficilmente sarà fine a sé stesso o si tratterrà dallo sconfinare nella tesi. Su tutta la commedia settecentesca aleggia questa predisposizione satirica. Luigi Holberg (1684-1754), il massimo commediografo danese, cammina ancora sulle traccie di Molière, ma con un più preciso interesse per il mondo borghese: di spunti ed elementi satirici civili e politici è ricca la commedia cèca quale si afferma con Emanuele Bozděch (nato nel 1841); garbatamente satirico è il moralismo del polacco Francesco Zabłocki (1740-1811). La sua geniale scapigliatura di uomo di mondo e di uomo politico riflette nelle commedie l'inglese Riccardo Brinsley Sheridan (1752-1816). Il romanticismo pretende teorizzare la fine della commedia e l'avvento di un'arte tutta mista di tragico e comico: per V. Hugo Shakespeare ha divinato appunto la poesia del grottesco; per De Vigny in questa mescolanza di scene comiche e tragiche ę il segreto dell'avvenire. Intanto si fa innanzi innovatrice la Germania, la cui commedia era rimasta dapprima in ombra anche perchḫ troppo legata alla polemica religiosa, in onta alla relativa originalitމ di Hans Sachs (1494-1576), il massimo dei maestri cantori. Poi, nel Settecento, sotto gli auspici di Lessing, la commedia era parsa non potere interessare se non come avviamento al dramma. Sennonchḫ, nel preromanticismo e nel romanticismo, vien di lị una commedia fantastica, o fiaba teatrale, il cui pił famoso esempio rimane Il gatto con gli stivali (1797) di Luigi Tieck. E gli Schlegel commentano, cercando a ciò nel passato precorrimenti e presagi. In realtà, dopo la crisi romantica (una gran crisi di lirismo), la commedia si riprende vigorosa nell'Ottocento, ma sempre meno caratterizzata: la sua storia tende a confondersi con quella del dramma, sicché le due parole spesso si equivalgono. E ciò dappertutto, perché è uno dei retaggi del romanticismo una più stretta parentela fra le varie letterature nazionali. Solo la commedia dialettale sembra ereditare certi caratteri ben delimitati: cioè il gusto del comico non conturbato dal venticello della satira, non irrigidito nell'architettura della tesi. Ma non sempre neppure quella e non dappertutto. D'altra parte la commedia che non scivoli nella satira o nella sociologia rischia di restare farsa, cioè pochade. Insomma una storia della commedia dopo il romanticismo è male isolabile da quella del dramma; l'una e l'altra scorrono sulla corrente di quel complesso realismo ond'è caratterizzata la letteratura dell'800. E su quella passano Scribe, Becque, Freytag, Paolo Ferrari, Douglas Jerrold. Col Troppo talento di Griboedov (morto nel 1829) il teatro comico russo (satirico a dir vero) prende il suo posto nel mondo. Per il suo umorismo fine e spesso originale ha conquistato negli ultimi tempi un posto notevole sulle scene europee la commedia ungherese. Bernard Shaw, il caustico commediografo inglese vivente, pensando forse a certi caratteri esteriori della propria commedia, disse che egli concepiva il teatro come "un comizio". Ma questa definizione non potrebbe valere per tutto il teatro dell'Ottocento così irto di dispute? E non si vorrebbe liberarci oggi appunto da queste viete pastoie e sboccare in una commedia (drammatica, s'intende) tutta viva di quelle più alte scoperte in cui, in ogni uomo che vive e che pensa (pur senza che egli lo sappia o faccia professíone di filosofia), rivela il suo assillo il problema della conoscenza? Fin qui, però, si tratta più che altro di tendenze delle quali il più audace assertore moderno è forse Luigi Pirandello.

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La commedia musicale.

Già le maschere della commedia dell'arte sollecitarono i favori della musica. La minuta gente che veniva su dalle tavole del palcoscenico, spregiudicata e intraprendente, intendeva bene l'utilità di musiche opportunamente inserite nelle scene di prosa. Come le tragedie e le lunghe commedie erudite ospitavano intermedî, anche musicali, secondando così le molte relazioni antiche della musica con il teatro, da quello medievale a quello del Rinascimento, così le commedie comuni e le farse e infine le commedie a soggetto si giovarono di cantanti e strumentisti. Sarebbe interessante, certo, osservare ogni aspetto di tale costumanza. Sennonché all'abbondanza dei documenti utili alla ricostruzione della commedia improvvisa, non corrisponde, nei testi teatrali e nei trattati dell'arte scenica, che qualche fugace notizia delle relazioni della musica con la commedia dell'arte e della consistenza di quella musica. Si può facilmente supporre che i comici nostri, rinunciando alle difficili polifonie, aprissero le porte ai suonatori di agili danze e di canzoni, ai cantori di madrigaletti, di villanelle e di villotte amene e salaci, ai monodisti garruli che fiorettavano di leggieri abbellimenti le melodie tolte alle più note polifonie, ai più popolari canti spensierati del Rinascimento. Anzi, è verosimile che i comici stessi imbracciassero liuti e arciliuti, cantassero, danzassero come potevano e sapevano, per non assoldare gente estranea. Un'altra ipotesi è verosimile: insieme con i dialetti entrarono nella commedia dell'arte le musiche regionali, e accrebbero la policromia della scena popolare. Di siffatti spettacoli cinquecenteschi restano poche cronache. Una di esse illumina tutta la pratica teatrale. La redasse il Trojano, musico alla corte di Baviera, il quale partecipò a una commedia "all'improvviso, all'italiana", in Monaco, nel 1586, ed ebbe compagno nella rappresentazione il geniale Orlando di Lasso. Specialmente gli Zanni, i servi, erano addetti agli intermedî musicali. Numerosi bozzetti del tempo ce li rappresentano nell'atto di suonare la chitarra o altri strumenti. Un famoso Scapino, il Gabrielli, fece costruire parecchi bizzarri strumenti, compose canzonette, arie e conquistò il titolo di chitarrista di corte; esperto di molti istrumenti, compose, per farne sfoggio, la commedia Gli istrumenti di Scapino. I trattati del tempo recano accenni brevi ma utili. Prescrive il Perrucci, nel 1699: "Finito ogni atto, si deve suonare o farsi qualche ballo, ed alle volte intermedî ridicoli, essendo stato il suono nella fine degli atti introdotto invece del coro, e questo servirà per riposo dei rappresentanti e per diletto dell'udienza". Alcuni comici si limitavano a parodie musicali, come il Gherardi (il Flautino) che imitava tutti i legni; altri cantavano e suonavano, guidati dall'istinto e dalla pratica. Gli Innamorati, ad esempio, abbondavano di pezzi musicali. Nello scenario Il vecchio geloso Orazio provoca il sonno di Pantalone con melodiosi canti, e rapisce sua moglie. Due comiche divennero famose per la loro arte canora, la Cecchini e quella Isabella Andreini, che, chiamata a sostituire la famosa Martinelli come protagonista dell'Arianna di Rinuccini e Monteverdi, ottenne in quella parte un grande trionfo. Frequenti erano pure le canzoni in dialetto e quelle onomatopeiche. Parodie e scherzi sugli strumenti passarono poi anche nelle liete musiche accademiche del Banchieri, frate olivetano del primo Seicento. Ma la commedia dell'arte proietta la sua luce, oltre il sec. XVII, anche sull'opera comica del '700. Il capitano spagnolo fu sostituito dal soldato tedesco; e, smesso il carattere di amoroso e di spaccone, assunse la più modesta parte d'intruso o di buffo, destinato a far ridere appunto con la parlata straniera. Fin dal Seicento, il Perrucci ricordava "le voci barbare storpiate da tutte le lingue: un turco col contraffare salemelech, saba, jebunda; i tedeschi goth morghen, mainer; i francesi gui, gui; gli spagnoli reniego de barrabas, beso sus manos", ecc. Più a lungo visse la macchietta del soldato tedesco, ruvido e impacciato; essa appare ancora nella Cecchina del Goldoni e in qualche opera della fine del Settecento. Più sostanziali trasformazioni e maggior poesia seguirono l'evoluzione della servetta, la "fantesca" degli italiani, la soubrette dei francesi. Nella commedia dell'arte si diceva la Zagna; s'era coniato cioè un vocabolo che designava il femminile dello Zanni. Era astuta, linguacciuta, arrogante, insolente, perfino manesca. Aiutava gl'intrighi amorosi della sua padrona, e curava i proprî. Il Perrucci inveisce contro certe servette impudenti, che pensano soltanto a denudarsi sulla scena. Per lo più parlava toscano. Non aveva costume stilizzato, non portava maschera. Per ingentilirsi, la fantesca o servetta dové recarsi in Francia; colà, divenuta Colombina, acquistò tratti più fini ed eleganti, forse sotto l'influenza di Molière. Superato il momento più volgare dei primi intermezzi italiani, al principio del Settecento, la servetta, pur rappresentando un'anima popolaresca, appare garbata e frivola. Tale la formano il Federico e il Pergolesi, tale la rappresentava ancora il Paisiello quarant'anni dopo. Col sorgere del melodramma la commedia musicale si sviluppò con vita autonoma.

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