Commercio
sommario: 1. Introduzione. 2. Una storia del commercio: a) un commercio minoritario; b) una produzione scarsamente monetarizzata; c) il predominio degli intermediari; d) permanenze e innovazioni; e) il ruolo del politico; f) un capitalismo commerciale; g) moneta e commercio; h) un universo gerarchizzato; i) il denaro o l'impero; l) continuità e rivoluzioni; m) commercio e cultura; n) commercio e società. 3. Commercio ed economia: teoria e realtà: a) crescita commerciale e mutamento epistemologico; b) la teoria classica: liberalismo e commercio estero; c) il ruolo della domanda; d) teoria classica e realtà; e) la concorrenza imperfetta; f) la mobilità internazionale del lavoro e del capitale; g) protezione doganale e
1. Introduzione
Il commercio ha conquistato nel XVIII secolo il posto, al tempo stesso centrale e contestato, dove si incontrano economia, storia e politica, posto che è suo ancora oggi. A partire da quella data, infatti, il pensiero economico elabora una prospettiva decisamente ottimistica dello sviluppo della società, basata su una particolare concezione della natura umana: quella di un
Sono così definiti dei soggetti (gli individui e gli Stati), un principio ideale che regola i loro rapporti (la libera concorrenza) e una gerarchia di spazi interconnessi che garantisce l'efficacia della sua applicazione: l'unificazione dei mercati nazionali appare come la condizione necessaria per la loro integrazione - e competizione - all'interno di un unico mercato internazionale, garanzia e simbolo di un nuovo ordine mondiale.
Dal XVIII secolo in poi, però, questo posto centrale del commercio è sempre stato contestato - e lo è ancora oggi - da tutti coloro che rifiutano i postulati fondamentali di un discorso mirante a conciliare l'individuale con il collettivo attraverso la subordinazione del secondo al primo. La polemica si è concentrata in primo luogo sulla natura del commercio e, di fatto, sul suo ruolo reale nella creazione della ricchezza rispetto alla produzione in senso stretto, che è stata a lungo identificata con quella dei prodotti primari e dei manufatti, 'servizi' esclusi. In secondo luogo essa ha interessato gli effetti del commercio, sia morali che economici, in particolare le molteplici forme di ineguaglianza che il suo sviluppo - contrariamente all'ottimismo di tutte le teorie sulla generalizzazione finale dell'equilibrio e sull'armonizzazione delle disparità - sembra (almeno in una prima fase) generare e accrescere, sia fra i diversi paesi che fra le varie regioni di uno stesso paese e fra i diversi settori di una medesima economia (città e campagna, industria e agricoltura), sia infine fra gli individui. Alle analisi critiche del meccanismo dello "scambio ineguale" (Arghiri Emmanuel) rispondono quelle di
2. Una storia del commercio
I recenti sviluppi della storia economica quantitativa - soprattutto dopo gli anni cinquanta - non hanno mutato in maniera decisiva le grandi linee della storia del commercio, linee che erano già ben tracciate, fin dalla metà del XVIII secolo, sia in Montesquieu sia nella voce Commerce dell'Encyclopédie redatta da Véron de Forbonnais. Tutt'al più essi ne hanno precisato, e in alcuni casi quantificato, sia la composizione, la direzione e il volume dei flussi, sia le oscillazioni a breve, medio e lungo termine, e d'altro canto hanno dato il via al ridimensionamento - necessario almeno per quanto concerne il periodo anteriore al XVIII secolo - del posto privilegiato così a lungo occupato prima dal Mediterraneo, poi dall'
Di tale rivalutazione ha beneficiato per prima l'Asia (con l'India, la Cina, il
L'Europa continua dunque a condurre il gioco, nonostante i recenti progressi delle ricerche sulle altre grandi aree culturali, e qualsiasi storia d'Europa dedica ampio spazio agli scambi commerciali, sia a breve che a lunga distanza. Vi è, inoltre, un generale consenso su alcune caratteristiche fondamentali, che sono valide all'incirca fino alla fine del XVIII secolo.
a) Un commercio minoritario
Gli scambi, pur includendovi i traffici a breve distanza, e a maggior ragione se li si esclude, conservano sempre un carattere accentuatamente minoritario rispetto al volume globale della produzione e del consumo. Il basso grado di monetarizzazione e il primato dell'autosufficienza nelle economie dell'ancien régime aggravano ulteriormente i limiti tecnici che già rendono difficile il trasporto massiccio dei prodotti pesanti sui lunghi percorsi: anche se le vie d'acqua offrono possibilità infinitamente più elastiche e meno costose di quelle offerte dai trasporti via terra (fatto questo che crea una prima gerarchia spaziale a favore delle coste e dei mari chiusi e relativamente calmi come il Baltico e il Mediterraneo, quest'ultimo suddiviso in sottosistemi che hanno conservato a lungo un'esistenza autonoma, quali l'Egeo per
b) Una produzione scarsamente monetarizzata
Il commercio a grande distanza (l'espressione è ancora da preferirsi a quella, comoda ma anacronistica, di commercio internazionale) interessa quindi una gamma relativamente limitata di articoli, fra i quali predominano - nonostante lo sviluppo del commercio di alcuni prodotti pesanti (grano, sale, legno, vino) - i beni di lusso (spezie, seta) o esotici (prodotti per tingere: dalla porpora dei Romani fino al legno del Brasile), destinati a clientele ristrette, appartenenti alle classi privilegiate e ai gruppi di artigiani che lavorano per provvedere alle loro necessità. Gran parte della popolazione delle campagne - che costituisce circa l'80-90% del totale della popolazione - non è quindi quasi toccata da scambi che sono diretti soprattutto alle città.
Con due eccezioni, tuttavia: in primo luogo questa popolazione contribuisce alle operazioni di trasporto e di navigazione fluviale (il trasporto a dorso d'uomo, che esisteva ancora nel XVIII secolo negli altri continenti, sembra essere scomparso in Europa relativamente presto); in secondo luogo, in buona parte dell'Europa medievale e moderna, per le necessità fiscali dei sovrani le è imposto il consumo di quantità sempre maggiori di sale, proveniente talvolta da terre lontane e gravato - come avviene al giorno d'oggi per i prodotti petroliferi - da oneri fiscali senza alcun rapporto con il suo valore di mercato, anche tenuto conto dei costi di trasporto (v. Hocquet, 1978). La stessa popolazione rurale si trova invece più direttamente implicata nei processi di produzione che alimentano questi molteplici traffici non appena si delineano le prime forme di specializzazione nelle esportazioni. Traffico e tratta degli schiavi, lavoro forzato nelle piantagioni e nelle miniere, corvées introdotte dal 'secondo servaggio' nei latifondi coltivati a cereali dell'Europa orientale, proletarizzazione di masse di giornalieri agricoli nell'Italia meridionale e in
c) Il predominio degli intermediari
Nonostante queste molteplici limitazioni, gli scambi sopra descritti permettono di conseguire alti profitti, che alimentano la speculazione e spingono coloro che occupano le posizioni migliori a creare monopoli di fatto o di diritto. Improvvise rotture dell'equilibrio fra offerta e domanda (si pensi ai cereali in tempo di carestia), o la lontananza delle fonti di approvvigionamento (come accade per le spezie dell'Asia sudorientale, a favore di Venezia, tra il XIII e il XV secolo), mettono in una posizione di forza gli intermediari commerciali, che controllano le scorte disponibili e i mezzi di trasporto. Si pensi anche al fascino esercitato sulle élites delle società rurali e urbane da prodotti ritenuti di gran lusso, il cui consumo ostentato accresce il prestigio: i signori polacchi vi dilapidano, tra il Cinquecento e il Settecento, gran parte dei profitti ottenuti dalla vendita dei loro cereali (v. Kula, 1963). La prospettiva di alti profitti stimola l'audacia per spedizioni in terre lontane che danno vita - da Ulisse (se si presta fede alle teorie sulle vie dello stagno) fino a Marco Polo e a Cristoforo Colombo - a racconti in cui la verità si mescola al mito e all'esagerazione; esse portano inoltre a una progressiva estensione del mondo conosciuto fino alla sua unificazione finale, avvenuta fra il Settecento e l'Ottocento, in un unico sistema commerciale suddiviso in sottosistemi regionali e nazionali. Tali profitti giustificano anche la lunga durata dei viaggi per terra e per mare e i rischi affrontati dai trasportatori e dai mercanti al loro seguito: nelle no man's lands in cui si arrischiano, gli uni e gli altri praticano a lungo, insieme al commercio propriamente detto, attività come la pirateria e il brigantaggio, che d'altra parte contribuiscono anch'esse ad alimentare gli scambi, in quanto le merci così sequestrate vengono quasi subito rivendute su mercati specializzati.
d) Permanenze e innovazioni
La vastità dei rischi che uomini, merci, monete e metalli preziosi devono affrontare richiede a sua volta una continua ricerca della regolarità e della sicurezza (sia dei trasporti che dei profitti). La costituzione di reti di corrispondenti, spesso basate sulle alleanze familiari, permette ai mercanti di condurre una vita sempre più sedentaria, lasciando ai più giovani, ai loro associati o ai soli trasportatori i pericoli e le fatiche del viaggio. Sviluppo dell'assicurazione; elaborazione di forme associative elastiche e al tempo stesso diversificate, suscettibili di divenire dei veri e propri Stati nello Stato o addirittura delle potenze internazionali, come la Maona di Chio nella
e) Il ruolo del politico
Un'altra evoluzione parallela conduce, grazie all'intervento delle autorità politiche, a porre dei limiti al carattere speculativo degli scambi: città e Stati, municipalità, signori e sovrani sono tutti costretti, per evitare gravi disordini sociali, a garantire la regolarità dell'approvvigionamento dei generi alimentari e delle materie prime necessarie all'artigianato e alle manifatture. Devono perciò regolamentare con una precisione estrema (della quale il pensiero liberale sottolineerà spesso, a partire dal XVIII secolo, il carattere inutilmente minuzioso e il più delle volte controproducente) il funzionamento dei mercati locali, nel tentativo di conciliare domanda e offerta, di stabilizzare i prezzi, di limitare l'intervento degli intermediari e sottoporlo a tariffe rigide, di riavvicinare il produttore al consumatore. Accettano anche, quando è necessario, di intervenire direttamente con sovvenzioni e premi, con la costituzione di depositi e riserve permanenti che permettono di influire sui corsi, con acquisti ufficiali e vendite a prezzo ridotto o anche in perdita, e infine creando delle amministrazioni specializzate per il grano, il vino, l'olio e il sale. Nella
f) Un capitalismo commerciale
Gran parte degli storici ha fatto propria la tesi marxista di una rottura fondamentale, legata alla rivoluzione industriale, concernente le forme e la natura stessa dell'intervento del capitale nell'organizzazione della produzione. Prima della fine del XVIII secolo i mercanti evitano, fin tanto che è possibile, di immobilizzare dei capitali fissi per l'acquisizione e la gestione diretta dei mezzi di produzione. Essi si limitano a mettere in commercio e a trasportare a una distanza più o meno grande il surplus di una produzione che può essere garantita sia nell'ambito della proprietà signorile che in quello della coltivazione contadina indipendente o dei laboratori urbani degli artigiani, sia nel grande latifondo che nella piantagione con gli schiavi. Se capita loro di acquistare della terra, lo fanno per materializzare la loro personale ascesa sociale in una società dominata dai valori terrieri (e molti storici hanno ripreso da Fernand Braudel l'idea di un "tradimento della borghesia" per designare questo tipo di comportamento) o per garantirsi la possibilità di ottenere dei prestiti. Nel settore industriale, e prima di tutto in quello tessile, il decentramento in piccoli laboratori continua a essere la norma, poiché il padrone vi può raggruppare più telai e utilizzare un personale salariato, ma sempre limitato. I mercanti, nella
Questa relativa debolezza del capitale fisso non impedisce tuttavia ai mercanti di provocare delle vere e proprie rivoluzioni nell'ambito della produzione, ad esempio introducendo nuovi prodotti. Si pensi innanzitutto, per l'Europa, alla seta a lungo importata dall'Asia, prima che la sua produzione venisse, nel secondo millennio della nostra era, trapiantata e diffusa in tutto il bacino mediterraneo, permettendo lo sviluppo di una nuova e dinamica industria nell'Europa occidentale. Si pensi anche allo zucchero: l'espandersi della coltura della canna, dal Bengala e dalla Cina meridionale al Brasile e alle
g) Moneta e commercio
In tali condizioni la moneta costituisce un indicatore fuorviante. La sfera della commercializzazione supera ampiamente quella della circolazione effettiva delle specie monetarie, siano d'oro e d'argento, o anche di rame e di bronzo: include le campagne, dove l'indebitamento semipermanente, aggravato anche dalle carestie e dalla pressione del fisco, costringe i contadini a cedere anticipatamente, in parte o in toto, il loro raccolto ai proprietari, ai signori, agli esattori, agli usurai locali che agiscono per proprio conto o per conto dei mercanti accaparratori. Inoltre nelle stesse campagne, a causa della rarità della moneta, lo scambio più o meno equilibrato delle derrate con la prestazione di servizi diviene la regola corrente: un sacco di grano dato al mugnaio, che a sua volta consegnerà un sacco di farina di peso minore al panettiere, consentirà di prendere da quest'ultimo, tutte le settimane, una certa quantità di pane, e un bastone, a cui ogni volta verrà aggiunta una tacca, fungerà da unico testimone. Ma la commercializzazione riguarda anche le economie più primitive che ancora non conoscono la moneta metallica: l'Africa, dove si paga correntemente in sale, stoffe, braccialetti di rame, conchiglie (zimbo e cauri) o anche, in pieno XX secolo, in olivette di corallo fabbricate in Toscana (v. Braudel, 1979, vol. I, p. 389); l'Asia, dove nel Bengala e perfino in Cina - che inventò la prima cartamoneta, prima di ripiegare sui sapechi di rame - circolano gli stessi cauri simili ai wampums utilizzati nel XVIII secolo dagli Indiani dell'America settentrionale; la Siberia, dove si paga in pellicce, ecc. Tutte queste economie meno sviluppate di quella europea possono così venire introdotte, poco a poco, nei circuiti commerciali su grandi distanze: il controllo della moneta dà allora agli Europei un vantaggio decisivo di cui essi hanno ben saputo approfittare.
h) Un universo gerarchizzato
Questa gerarchia principale ne riflette di fatto un'altra, a un tempo spaziale ed economica. Non c'è commercio locale senza una rete di borghi e di cittadine, di mercati e di fiere, che animano un territorio. Non c'è un commercio a grande distanza, con un minimo di sviluppo, senza che emergano alcune metropoli mercantili, le quali organizzano, concentrano e controllano le attività di scambio. La loro apparente fragilità contrasta con la struttura possente dei grandi Stati territoriali, ai quali però, con la ricchezza, possono opporsi vittoriosamente: si pensi a Venezia di fronte all'Impero ottomano. La storia del Mediterraneo, e poi quella dell'Europa, possono venir lette come un susseguirsi di dominazioni commerciali che si sono spostate dall'est all'ovest, inglobando di volta in volta spazi più ampi: quelle dei Fenici - Tiro e
Perché questo modello venga messo in discussione (e nemmeno completamente, dato che alcuni paesi, come l'Olanda, svolgono a tutt'oggi, a livello europeo, una funzione essenziale di intermediazione), bisognerà attendere la rivoluzione industriale, che permetterà a ogni paese di basare la propria posizione commerciale sulle sue specializzazioni produttive e, di fatto, sul loro carattere 'orientato verso l'esportazione' più che sul loro volume effettivo: con una produzione complessiva inferiore o uguale, i paesi dell'Europa occidentale e il Giappone alimentano oggi una quota del commercio internazionale molto superiore a quella degli Stati Uniti, dove il mercato interno ha un peso essenziale. D'altra parte, questa 'mutazione' si spiega con i cambiamenti avvenuti nella composizione degli scambi internazionali: lo scambio dei prodotti di lusso ed esotici con i manufatti e con alcuni beni primari è stato nettamente sostituito, nel XIX secolo, dallo scambio dei manufatti con le materie prime e i prodotti energetici, e poi, nella seconda metà del XX secolo, da quello dei manufatti con altri manufatti. Il primo tipo di scambio ispirava la teoria mercantilistica. Il secondo è alla base della riflessione di Ricardo sui vantaggi comparativi delle stoffe inglesi e del vino portoghese. Sul terzo si basano sia il processo d'integrazione economica europea, successivo alla decolonizzazione, sia, a livello mondiale, la nuova divisione internazionale del lavoro, che, stimolata dalla crisi degli anni settanta, si apre alle industrie di alcuni paesi in via di sviluppo.
i) Il denaro o l'impero
Le dominazioni commerciali che si sono susseguite hanno, in ogni periodo della storia, affascinato i contemporanei e suscitato le gelosie degli Stati vicini per l'importanza delle ricchezze accumulate e per la potenza eccezionale - senza alcun rapporto con la superficie del territorio e con la popolazione - che entità politiche di piccole dimensioni riuscivano a raggiungere. Se Cartagine ha finito con l'essere sconfitta da Roma, Venezia, dopo aver fatto deviare la quarta crociata per distruggere l'Impero bizantino e riservarsene le parti migliori, giunge a resistere da sola, quasi da pari a pari, alla spinta degli Ottomani, pur padroni della metà orientale del Mediterraneo. Anche i ripetuti sforzi di Luigi XIV contro le
l) Continuità e rivoluzioni
Questa lunga storia del commercio, soprattutto europeo, che arriva alla fine del XVIII secolo, si presta a una duplice lettura. Una rileverà le stabilità e le continuità: quelle degli spazi interessati, delle categorie di prodotti, dei luoghi di produzione, degli itinerari, dei limiti tecnici (soprattutto in materia di trasporti), dei sistemi di organizzazione commerciale, ecc. L'Europa del Cinquecento importa dall'India, dall'Insulindia e dalla Cina gli stessi generi - spezie e seta - e soffre, nei suoi scambi con questi paesi (causa di un'emorragia permanente di metalli preziosi, fino all'entrata in funzione delle miniere americane), dello stesso squilibrio sofferto dall'Impero romano. E quanto si sa dei suoi lontani partners commerciali asiatici parla nello stesso senso. L'altra lettura metterà invece in evidenza i cambiamenti, che possono essere imputati allo sviluppo stesso degli scambi commerciali e alla competizione che esso ha provocato fra i diversi concorrenti. Nel Medioevo e nell'età moderna si sono effettivamente verificate alcune innovazioni fondamentali che, anche se su una scala diversa rispetto a quelle della fine del XVIII secolo e del XIX, hanno avuto conseguenze altrettanto rivoluzionarie.Una prima categoria di queste innovazioni concerne le tecniche di trasporto. Per il trasporto su terra sono da menzionare l'invenzione, intorno all'anno Mille, del particolare collare che permette ai cavalli di trainare carichi più pesanti; la costruzione dei canali, a partire dal XIV secolo, prima intorno a Milano, poi in Olanda, in Inghilterra e in Francia; infine, a metà del XVIII secolo, la costruzione di strade - strade reali gratuite in Francia, highways a pagamento in Inghilterra - che permettono di percorrere al galoppo fino a 100-120 km al giorno.
Per il trasporto sul mare le innovazioni sono ancora più importanti: il timone di poppa, i perfezionamenti della velatura (vela quadra) e delle costruzioni navali, lo sviluppo delle conoscenze in materia di navigazione con l'uso della bussola per l'orientamento, dell'astrolabio e poi del sestante per il calcolo delle latitudini, di strumenti più precisi di misurazione del tempo per il calcolo delle longitudini. Senza uscire dagli schemi della navigazione a vela, si ottengono così navi più grandi (con una stazza di più di 1.000 tonnellate), più rapide, più solide e più facili da manovrare, che consentono di aumentare la produttività (meno uomini di equipaggio per uno stesso carico) e sono in grado, infine, di allontanarsi dalle coste e avventurarsi in alto mare: senza tali innovazioni, le scoperte transoceaniche della fine del XV secolo e, soprattutto, il loro pieno sfruttamento da parte dell'Europa nel corso dei secoli successivi non sarebbero stati possibili. Inoltre navi simili richiedono porti più sicuri, più difesi, meglio attrezzati per accoglierle e assicurarne in breve tempo il carico e lo scarico: con i loro canali interni Venezia nel Mediterraneo e Amsterdam nel Nordeuropa, prima della nascita delle ferrovie, fissano già dei modelli destinati in seguito a essere imitati altrove (v. Konvitz, 1978).
Legata alla precedente da una serie di correlazioni, la seconda categoria di innovazioni si è sviluppata storicamente in parallelo con l'ampliamento continuo degli spazi inglobati in un sistema regolare di scambi commerciali. Nell'area mediterranea, e poi in quella europea, questo ampliamento è avvenuto per tappe successive, a due livelli. Il primo ha corrisposto all'espansione di una zona centrale, contrassegnata da una certa unità politica, economica e culturale, che costituisce un mondo a sé (ciò che Braudel ha definito una "economia-mondo"), ma intrattiene rapporti continui con altre economie-mondo, e anzitutto con quelle, altrettanto se non più antiche, dell'Asia. Tale espansione si è effettuata dapprima da est verso ovest, a partire dal Vicino Oriente, fra il secondo e il primo millennio prima della nostra era: questa prima fase termina con la costituzione dell'Impero romano. L'espansione riprende alla fine del primo millennio, ma questa volta dall'ovest verso l'est dell'Europa continentale, inglobando così degli spazi che Roma, incentrata sul Mediterraneo, non era riuscita a conquistare. A partire dalla fine del XV secolo l'Europa, mentre si impadronisce dell'Atlantico - al di là del quale costruisce, in tre secoli, delle economie complementari alla sua e al tempo stesso identiche - riesce anche ad accedere direttamente alle economie dell'India, dell'Insulindia, della Cina e del Giappone. Per molto tempo si limiterà a 'sfiorare' tali economie: comincerà a dominarle realmente in profondità soltanto a partire dalla fine del XVIII secolo, quando avvia a proprio beneficio una unificazione economica del mondo che si completa solo oggi, alla fine del XX secolo.
Nel frattempo, però, l'Europa ha perso il controllo esclusivo dell'economia mondiale, e alcuni discutono addirittura le possibilità future di una nuova organizzazione dello spazio nel XXI secolo, centrata non più sull'Atlantico, ma sul Pacifico. In ciascuna di queste tappe, tuttavia, almeno fino al XIX secolo, l'economia-mondo europea deve una parte della sua capacità di espansione al fatto di non limitarsi, verso l'esterno, a scambi lontani e limitati all'Asia. Essa dispone anche, ai suoi margini, di zone di frontiera dall'economia primitiva, dalle quali ricava senza fatica un certo numero di prodotti rari e di materie prime (come lo stagno delle
m) Commercio e cultura
Il fascino della scoperta, e dei mondi sconosciuti e misteriosi cui essa dà accesso, ha ispirato tutta una letteratura di viaggi divisa fra la tentazione del meraviglioso e la precisione della descrizione. Dalla poesia (l'Odissea) alla geografia (
A tutti questi "libri sulle meraviglie del mondo", dei quali il racconto di Marco Polo, da solo, compendia origini, ambizioni e seduzione esercitata sul lettore, lo sviluppo degli scambi contrappone - nello stesso periodo fra il XIV e il XV secolo - una letteratura più tecnica, destinata proprio alla formazione e all'informazione dei mercanti. Le Pratiche della mercatura di
n) Commercio e società
L'imporsi del commercio nella letteratura scritta e questo sviluppo di un sapere autonomo riflettono in realtà la crescente integrazione delle professioni mercantili nelle gerarchie sociali dell'Europa occidentale. Esse vanno progressivamente perdendo il loro carattere di attività separate, riservate a minoranze etniche e religiose (come i 'lombardi' o gli Ebrei nella Francia del XIII e del XIV secolo) tagliate fuori dal resto della società e sospette a priori. Sempre di più, invece, esse costituiscono il nucleo di un ceto sociale riconosciuto come tale, cui la ricchezza accumulata permette l'accesso ad altre specializzazioni professionali (soprattutto attraverso gli studi giuridici), ma anche alla proprietà fondiaria e a condizioni sociali considerate superiori come, in Francia, le cariche della nobiltà di toga. L'ascesa di una famiglia come i Medici a Firenze rimane un'eccezione, confrontata a quella di tanti condottieri che non avevano faticato molto per ritagliarsi uno Stato personale. L'organizzazione delle repubbliche mercantili, che dall'Italia del nord ai
Mobilità, integrazione, riconoscimenti sociali: queste tre evoluzioni parallele rivelano a loro modo un ulteriore tratto originale dell'Europa medievale e moderna e fanno supporre che il commercio abbia conquistato poco a poco un posto uguale a quello di altre attività socialmente valorizzate, come la guerra, la preghiera e il lavoro dell'artigiano e del contadino. Esse non cancellano certo da un giorno all'altro altre realtà, talvolta più antiche e più generali, tipiche degli ambienti mercantili, in particolare in Asia: il rapporto di fiducia necessario fra le parti privilegia sempre il supporto delle reti familiari e dei sistemi di alleanza che alimentano il fenomeno delle 'colonie mercantili', delle 'nazioni' e delle 'diaspore'. L'Italia medievale aveva esportato le sue dall'Europa nordoccidentale e dalla Spagna fino al Mediterraneo orientale e al
Dietro queste continuità, la tendenza di fondo sembra essere stata, tuttavia, quella dell'elaborazione di forme nuove e più impersonali di associazioni, che dividevano potere, rischi e profitti in proporzione agli apporti, in capitale e in lavoro, di ciascuna delle parti. Semplice associazione temporanea all'inizio, la 'compagnia' guadagna così in potenza, in durata, in specializzazione, in anonimato, finché non si arriva alla formazione delle grandi compagnie europee di commercio, le più ricche delle quali, come la Compagnia britannica delle Indie, costituiscono dei veri e propri Stati nello Stato. Il modello di organizzazione e di funzionamento gradualmente messo a punto potrà, fin dal XVII secolo e più in generale a partire dal XVIII, essere applicato alla produzione industriale.
3. Commercio ed economia: teoria e realtà
a) Crescita commerciale e mutamento epistemologico
Una crescita spettacolare in valore, volume, distanze percorse, prodotti interessati, popoli direttamente o indirettamente coinvolti negli scambi commerciali - o perché produttori o perché consumatori o per entrambe le cose - ha caratterizzato gli ultimi due secoli: agli scambi, ormai diffusi in tutto il mondo, sono venuti ad aggiungersi i rapidi progressi della produzione industriale. Questa è stata sistematicamente incrementata dalle rivoluzioni tecnologiche che si sono succedute: vapore e industria tessile dalla seconda metà del Settecento, ferrovie a partire dal 1830-1840, metallurgia della ghisa prima, e poi dell'acciaio, a partire dagli anni 1850-1880, elettricità, alluminio, automobile e aviazione dopo il 1880-1890, informatica oggi. Ma questa crescita è stata anche stimolata e inquadrata prima dalle strategie degli Stati e poi, in misura sempre crescente nel corso degli ultimi decenni, dalle società che operano su scala multi- e di fatto trans-nazionale. L'aumento e la diversificazione dei bisogni di materie prime alimentari e industriali, di prodotti energetici, di beni industriali strumentali e di consumo durevole o meno, e infine di servizi, hanno contribuito a rompere i vecchi equilibri fondati sul primato dell'autoconsumo e della produzione domestica, completata tutt'al più da un artigianato con scambi a breve raggio.
Il movimento, cui ha dato il via l'Europa nel corso del XX secolo, è largamente sfuggito al suo controllo: ha dovuto fare i conti con l'accresciuta potenza prima degli Stati Uniti, poi del Giappone e dei nuovi paesi industrializzati dell'Asia, con la costituzione, avvenuta in due tempi (1917, 1945), di un'area economica socialista che ambiva a modificare le regole degli scambi in vigore nel mondo capitalistico, e infine con la decolonizzazione. Quest'ultima non ha certo cancellato le antiche forme di dipendenza economica, né nell'America Latina del XIX secolo né in Africa e in buona parte dell'Asia nella seconda metà del XX, ma ha posto con più vigore il problema delle strategie di sviluppo dei paesi del
Al cambiamento quantitativo e alla 'mondializzazione' degli scambi commerciali si accompagna un parallelo mutamento del pensiero economico, a partire dalla metà del XVIII secolo: delle 740 opere di economia recensite nel 1769 dall'abate Morellet nel Prospectus che annunciava il suo nuovo Dictionnaire de commerce, il 70% erano posteriori al 1750 (v. Perrot, 1981). Con
Ma Adam Smith e i suoi successori vanno ben oltre la semplice rottura con coloro che li hanno preceduti. Cercano infatti di precisare il quadro teorico e di definire i concetti che saranno alla base degli ulteriori sviluppi della disciplina. L'obiettivo ormai non consiste più nel descrivere i dettagli del meccanismo degli scambi commerciali - come si proponevano invece i dizionari di commercio - e l'ineguale ripartizione delle ricchezze che questi assicurano fra i diversi paesi (né gli interventi in grado di accrescere la parte di uno di essi a scapito dei suoi rivali), ma di unire strettamente le categorie dello scambio e della produzione: la giustificazione e la finalità del commercio non consistono tanto nell'accumulazione diretta delle ricchezze a beneficio di un paese, perseguita dai mercantilisti (col rischio di sottomettere la produzione alle proprie esigenze), quanto nel suo effetto di stimolo e di impulso - in ogni paese preso singolarmente e, a livello internazionale, in tutti i paesi contemporaneamente - per un uso più efficace dei fattori di produzione, il quale soltanto può massimizzare i guadagni che ogni soggetto ne ricava. In questa prospettiva i soggetti di riferimento saranno, più ancora che nel passato, gli Stati territoriali, dove il perfezionamento del mercato interno avrà come risultato di garantire una mobilità, se non perfetta almeno maggiore, di almeno due di questi fattori - il capitale e il lavoro -, mobilità che manca invece a livello internazionale: commercio interno e commercio estero esprimono quindi delle realtà distinte, complementari ma di natura diversa, anche se vanno, o andrebbero, sottoposti alle medesime regole.
Questa rivoluzione epistemologica ha il merito di precorrere le trasformazioni in corso nell'economia: il commercio internazionale di ridistribuzione, soprattutto dei prodotti coloniali o importati dall'Asia, occupa ancora, nella seconda metà del Settecento, un posto fondamentale e costituisce la base delle posizioni dominanti, anche in Inghilterra, dove i rapidi progressi dell'industria tessile - cotone e lana -, della produzione di carbone e dell'uso del vapore non sono stati sufficienti per sconvolgere i precedenti equilibri: il posto riservato da tutti gli autori alla rendita fondiaria - il reddito del proprietario terriero -, accanto al capitale e al lavoro, rispecchia il forte peso economico e sociale dell'agricoltura. Anche se la rete di strade (le highways a pedaggio, mentre le nuove strade reali francesi sono gratuite) e soprattutto di canali, e la soppressione delle dogane e delle imposte interne sulla circolazione (che sorprende tutti i visitatori stranieri) assicurano all'Inghilterra un reale progresso nell'unificazione del suo mercato 'nazionale', il costo dei trasporti è sempre abbastanza elevato per impedire la mobilità dei prodotti e dei fattori di produzione. Nonostante l'esperienza della guerra d'indipendenza americana, alla fine del Settecento l'Inghilterra non ha alcuna intenzione di rinunciare, negli scambi con le proprie colonie, ai vantaggi del monopolio (che cerca invece di aggirare, con la forza o con l'astuzia, nelle colonie spagnole), cosa che Smith tollerava senza approvarla. Bisognerà attendere il 1858 perché venga definitivamente soppressa la Compagnia delle Indie, e la fine dell'Ottocento perché si organizzi poco per volta una rete efficace e sufficientemente ampia per la distribuzione dei prodotti alimentari (carne congelata, latticini, ortaggi e frutta freschi), che permetterà all'offerta di far fronte all'incremento della domanda, mentre, fin verso il 1880, l'unico bene la cui produzione era elastica a sufficienza per adattarsi rapidamente a un aumento dei salari era l'alcol. Con le loro previsioni, tuttavia, Smith, Malthus, Ricardo e Stuart Mill non intendono soltanto anticipare l'avvenire, ma anche isolare un certo numero di variabili per definire dei modelli teorici circoscritti all'analisi delle loro interazioni, considerando tutte le altre variabili come nulle o prive di effetti.
b) La teoria classica: liberalismo e commercio estero
Adam Smith utilizza la distinzione dei tre fattori di produzione - lavoro, capitale e rendita -, già presente nei fisiocratici, per proporre una definizione del valore (di scambio e d'uso) e per elaborare la prima teoria della
Al di là del successo durevole di questo modello di ragionamento 'due volte due' (due paesi, due prodotti, due fattori di produzione), queste intuizioni dei 'classici' fondatori del pensiero economico hanno influenzato nel corso degli ultimi centocinquant'anni sia le decisioni politiche dei governi sia le riflessioni degli economisti. Per i primi, i guadagni attesi da una liberalizzazione degli scambi interni e internazionali hanno determinato una serie di scelte lungamente e pubblicamente dibattute in rapporto alle perdite prevedibili a carico di una categoria sociale (per esempio i proprietari terrieri e i farmers, quando in Inghilterra si abolirono nel 1846 le Corn laws), di un ramo di attività o di un paese: il problema è sapere se la protezione doganale possa proteggere in maniera efficace il più debole, pur favorendo il decollo industriale di un late-comer. Intere generazioni di economisti hanno cercato di verificare l'esistenza e la natura di questi guadagni (guadagni di consumo o vincolati a una riallocazione delle risorse), di misurarne sia l'evoluzione (sono durevoli o temporanei, crescenti o decrescenti?) sia l'impatto e la ridistribuzione in ciascun paese, e infine hanno cercato di seguire le variazioni della 'ragione di scambio', cioè del rapporto fra i prezzi dei prodotti importati e quelli dei prodotti esportati.
L'ipotesi di base, nella prospettiva classica, è di solito che i flussi commerciali vanno spiegati, in assenza di protezioni tariffarie, con le differenze di costo a loro volta dovute a divari nella remunerazione del lavoro, nella produttività o nella tecnologia impiegata, ma anche, più in generale, a differenze tra i diversi paesi nella dotazione dei fattori fondamentali di produzione. Eli Heckscher (1919) e
A questa riflessione teorica si è affiancato lo sforzo per formulare in termini matematici i rapporti reali o simulati fra le variabili o i gruppi di variabili: questo sforzo è stato soprattutto concentrato sull'analisi delle tendenze alla specializzazione produttiva, sull'eguagliamento dei redditi dei vari fattori, sulle condizioni di realizzazione dell'equilibrio, ma anche sulla simulazione degli effetti, sulle altre variabili, della modificazione di un elemento del sistema commerciale (per esempio la diminuzione dei diritti doganali). In questo senso il commercio internazionale ha rappresentato, e continua a rappresentare, un terreno di confronto privilegiato tra le diverse economie nazionali. In effetti, il confronto con la realtà che faceva apparire difficoltà impreviste - la crisi degli anni trenta, lo sviluppo del Terzo Mondo - poneva nuovi problemi, suggeriva nuove vie e nuove variabili, stimolando continuamente i progressi teorici. Per questo motivo gli economisti si sono visti costretti a rimettere in discussione, su più di un aspetto, i postulati più consolidati della tradizione classica.
c) Il ruolo della domanda
La tradizione classica aveva posto l'accento sull'offerta e su un'utilizzazione ottimale dei fattori di produzione, che dovrebbe sempre risolversi nella riduzione dei prezzi pagati dal consumatore e nella possibilità, per quest'ultimo, di decidere al meglio nella scelta razionale dei suoi diversi acquisti, tenendo conto dei suoi bisogni e dei suoi redditi. Sempre di più, invece, la domanda ha rivelato le proprie rigidità e una sua propria logica, che influenzano l'offerta e vanno ben oltre le disponibilità monetarie dei compratori. I gusti - i più solidamente radicati dei quali corrispondono ad antiche scelte di civiltà spesso confermate da imperativi o divieti religiosi, ma conservano comunque una dimensione individuale - limitano le possibilità di sostituzione di un bene con un altro: tranne qualche eccezione (come l'Irlanda), l'Europa del XVIII e del XIX secolo aveva adottato la patata solo come un complemento e non come un sostituto del pane; allo stesso modo, tutti gli sforzi degli Stati Uniti, negli anni sessanta di questo secolo, per diffondere il consumo del pane di grano in Asia, e soprattutto in Giappone e nella Corea del Sud, non sono riusciti a intaccare il predominio del riso. L'offerta di beni alimentari si scontra con barriere culturali che è estremamente difficile sia trasgredire che abolire, e inoltre i comportamenti e le preferenze che orientano le scelte continuano a mutare nel tempo. L'aumento dei redditi sembra provocare, nel campo dell'alimentazione, una regressione dei cereali in favore della carne e dei prodotti freschi, come pure (legge di Engel) la riduzione delle spese destinate all'alimentazione in favore di quelle destinate ad altri prodotti, soprattutto industriali. Ciò provoca a sua volta, negli scambi internazionali, un calo del prezzo relativo dei prodotti alimentari.
d) Teoria classica e realtà
Se gli economisti (e, seguendo il loro esempio, tutti coloro che, nelle scienze sociali, sono stati tentati di imitare il rigore matematico delle loro analisi) continuano a ragionare secondo il modello 'due volte due', escludendo le altre variabili per poi reintrodurle nel modello una per volta, nella realtà l'osservatore si trova davanti a un gran numero di situazioni infinitamente più complesse, le quali resistono a un simile lavoro di scomposizione delle difficoltà: scambi multilaterali, che coinvolgono una molteplicità di prodotti e implicano un insieme di deficit e di eccedenze commerciali che si compensano, nella migliore delle ipotesi, soltanto a livello mondiale; impatto dei diritti doganali e dei provvedimenti governativi concernenti la localizzazione, la natura e i prezzi delle diverse forme di produzione; influenza dei costi di trasporto non certo trascurabili (anche se, storicamente, in continua diminuzione), né soprattutto uguali a seconda dei prodotti, delle quantità e dei percorsi. Queste diseguaglianze, che impediscono di considerare lo spazio come una variabile neutra o anche omogenea, avvantaggiano i trasporti di massa, le vie marittime e fluviali (per i prodotti pesanti), i beneficiari delle infrastrutture in loco (porti e aeroporti, strade, canali e ferrovie), a loro volta decise e realizzate dalle autorità politiche in funzione di criteri non sempre e soltanto economici, ma danneggiano i beni che non possono essere scambiati perché non trasportabili. Il problema consiste quindi nel sapere se le tecniche adottate dagli economisti permettono di costruire dei modelli al tempo stesso più complessi e più realistici, o se le condizioni effettive dei mercati nazionali e internazionali richiedono invece metodi di analisi radicalmente diversi.
e) La concorrenza imperfetta
A queste rigidità della domanda, dell'offerta e dei costi di trasporto vengono ad aggiungersi le molteplici limitazioni al regime ideale della concorrenza perfetta. Gli economisti si sono perciò trovati a
f) La mobilità internazionale del lavoro e del capitale
A partire da Adam Smith, la contrapposizione fra la perfetta mobilità dei fattori capitale e lavoro nel quadro nazionale e la loro immobilità nel quadro internazionale ha costituito uno dei postulati fondamentali della teoria classica. Mentre il commercio interno è regolato dai costi di produzione, il commercio internazionale lo sarebbe dalla domanda reciproca e si giustificherebbe come un'alternativa agli spostamenti di quegli stessi fattori: Smith non aveva forse osservato che "tra tutti i bagagli gli uomini sono i più difficili da trasportare"? Tuttavia, mentre la mobilità del lavoro è ben lungi dall'essere un fatto acquisito all'interno delle frontiere (soprattutto fra occupazioni non concorrenti) e implica sempre dei costi spesso dissuasivi, gli esempi di mobilità dei fattori di produzione al di là delle frontiere nazionali, e ormai su scala mondiale, hanno continuato a moltiplicarsi dalla metà del secolo scorso, con le grandi migrazioni di manodopera e l'internazionalizzazione dei movimenti di capitali. Ogni volta è risultato colpito il reddito dei fattori privi di mobilità: l'immigrazione ha modificato i salari in senso opposto negli Stati di arrivo e di partenza, e gli investimenti di capitali esteri hanno determinato l'aumento dei salari, ma anche la diminuzione dei rendimenti del capitale e della terra. Lo sviluppo delle imprese multinazionali ha, nel corso degli ultimi decenni, generalizzato la pratica degli investimenti diretti in numerosi paesi, non più soltanto per garantire l'approvvigionamento di materie prime, ma per produrre sul posto prodotti finiti, aggirando così gli ostacoli alle importazioni, e inoltre per sviluppare nuove strategie per la distribuzione degli insediamenti produttivi su scala mondiale. Sempre meno identificabili con il loro paese d'origine, specie per quel che riguarda gli insediamenti suddetti, le società multinazionali elaborano in tal modo strategie del tutto nuove, che permettono loro di massimizzare al tempo stesso la produzione e il rendimento dei capitali, approfittando delle differenze, anche temporanee, tra i costi della manodopera, tra le leggi di carattere sociale e le disposizioni antinquinamento, come anche tra le facilitazioni e gli aiuti concessi dai governi locali.
g) Protezione doganale e liberalizzazione degli scambi
Se la liberalizzazione degli scambi costituiva per i fondatori dell'economia classica l'obiettivo principale, dobbiamo constatare che al di fuori dell'Inghilterra (finché questa ha conservato la sua posizione di predominio) tale liberalizzazione è stata applicata solo durante brevi periodi (ad esempio negli anni che vanno dal 1850 al 1870 e poi di nuovo a partire dagli anni 1950-1960). Nella maggior parte degli Stati le tariffe doganali non soltanto sono rimaste elevate, ma sono anche divenute, di fatto, gli strumenti di una politica di sviluppo economico che ha registrato clamorosi fallimenti, ma anche notevoli successi: si pensi agli Stati Uniti, alla Germania, al Giappone e anche all'Italia, negli ultimi decenni del XIX secolo e nei primi del XX. In quella stessa epoca l'imperialismo coloniale appariva ai paesi più sviluppati come una strada normale per assicurarsi l'approvvigionamento di materie prime, mercati per le loro industrie, elevate remunerazioni per i loro investimenti. Ai semplici dazi doganali nel XX secolo si sono del resto aggiunte altre forme di intervento sugli scambi esteri: sovvenzioni alla produzione, percentuali di importazione volontarie o imposte, imposizioni di norme tecniche miranti a escludere l'importazione di certi prodotti, mercati pubblici in forte crescita riservati alle aziende 'nazionali', e non soltanto nel settore della difesa, ecc. L'economista interpreta tutte queste politiche come provvedimenti di ridistribuzione o di trasferimento dei redditi dei principali fattori sia all'interno di ogni singolo paese che fra i diversi paesi: i loro effetti però sono spesso contrari allo scopo iniziale e, nella migliore delle ipotesi, essi non costituiscono altro che un second best.In ogni caso, tuttavia, sia che si tratti di ridistribuire il reddito a vantaggio di alcuni paesi, o di proteggere un'industria nascente o i fattori che essa utilizza, un trasferimento diretto di fondi, sotto forma di dono ai paesi interessati o di sovvenzione a determinate aziende, appare all'economista preferibile a un dazio doganale, che provoca il calo della domanda e della produzione a livelli subottimali, impedisce la specializzazione e riduce il benessere economico: il tutto su scala mondiale. La conservazione delle barriere doganali rivela ai suoi occhi il persistente disaccordo fra gli interessi mal compresi, o visti solo a breve termine, dei soggetti - cioè gli Stati e i loro cittadini - e la dinamica del sistema internazionale, i cui effetti, stimolati dalle misure di liberalizzazione degli scambi, finiscono sempre per avvantaggiare le parti che hanno accettato di portare avanti il gioco fino in fondo.
La realtà delle regole tariffarie in vigore invita a concentrare l'attenzione sui due poli di questo sistema: da un lato i paesi più industrializzati, dall'altro i paesi in via di sviluppo. Nei primi si erano effettivamente alternati, dopo la metà del XIX secolo, periodi di crescente protezionismo a periodi di riduzione dei dazi doganali: mentre il protezionismo derivava da decisioni politiche unilaterali, la riduzione dei dazi era il risultato di trattati bilaterali che diminuivano i dazi sulle principali esportazioni di ciascun paese, i cui effetti però tendevano a estendersi a catena - tramite la clausola della nazione più favorita - a tutti i partners commerciali di pari rango. Solo l'Inghilterra aveva mantenuto fino agli anni venti una politica unilaterale di libero scambio, prima di aderire, negli anni trenta, alla 'preferenza imperiale' in favore dei suoi dominion e delle sue colonie.
La crisi mondiale che inizia nel 1929 e le prudentissime riduzioni concesse, nell'ambito degli accordi commerciali, con il Trade Agreement Act (TAA) del 1934 dagli Stati Uniti, rimasti fino a quel momento fortemente protezionistici (con un livello medio di dazi del 53% nel 1930), crearono una situazione nuova che doveva portare, all'indomani della
h) Le scelte dei paesi in via di sviluppo
Il relativo insuccesso registrato su questa strada da un gran numero di paesi in via di sviluppo rappresenta solo un particolare aspetto delle difficoltà da essi incontrate, specie dopo l'ultima guerra, per definire una politica commerciale coerente con le necessità generali della loro politica economica. Inseriti in buona parte - anche a causa della dominazione coloniale, di diritto o di fatto, che avevano subita - in una divisione internazionale del lavoro che faceva di loro gli esportatori di materie prime e gli importatori di prodotti industriali, molti di essi sono stati vittime del peggioramento della loro ragione di scambio e si sono trovati costretti a far fronte a numerose esigenze, difficili - se non impossibili - da conciliare: difendere i prezzi delle loro esportazioni tramite accordi fra i paesi produttori, al costo però di una limitazione della produzione; ridurre le importazioni di manufatti, sviluppando industrie di sostituzione protette da dazi doganali e/o da un severo contingentamento degli acquisti all'estero; proteggere un'agricoltura di sussistenza, minacciata dall'apertura verso l'estero e dalla specializzazione in una piccola quantità di prodotti agricoli o minerari destinati al mercato internazionale; ricondurre l'ammontare del debito, cresciuto sia per gli acquisti di prodotti alimentari che per programmi di modernizzazione spesso sproporzionati ai mezzi esistenti, a un livello compatibile con le loro capacità di pagamento e i loro bisogni di investimento.
Le difficoltà incontrate da molti di questi paesi hanno rafforzato la diffidenza dei fautori del liberalismo nei confronti di qualsiasi limitazione di tipo politico allo sviluppo degli scambi internazionali, ma anche quella degli avversari di un sistema internazionale caratterizzato, a loro avviso, dallo "scambio ineguale" (A. Emmanuel) e accusato di incrementare, anziché attenuare, le differenze di sviluppo esistenti fra le diverse regioni del mondo. I successi raggiunti a partire dagli anni settanta da un piccolo gruppo di paesi asiatici che avevano scelto invece la via opposta, caratterizzata da una completa apertura nei confronti degli scambi con l'estero - specie i quattro 'nuovi paesi industriali': Corea,
Il commercio internazionale si impone dunque, oggi più che mai, come una delle dimensioni fondamentali per la lettura dell'economia contemporanea. Crescita degli scambi e crescita economica sono tanto più strettamente interdipendenti, in quanto la maggioranza dei paesi, sviluppati o no, sono ormai ampiamente aperti verso l'estero e quindi dipendono, per l'incremento delle loro attività, dagli stimoli provenienti dalla domanda estera: nessuno sviluppo è più possibile in un solo paese. Tutto avviene come se - nonostante i divari, numerosi e crescenti, fra teoria e pratica - le regole del gioco fossero ormai accettate da quasi tutti i paesi: tutt'al più, ognuno cerca di migliorare la propria situazione relativa e di limitare gli effetti negativi che comporterebbe l'applicazione troppo brutale di queste regole per i suoi cittadini e per l'equilibrio interno della propria economia. Questa situazione è confermata dalla prudenza dei paesi più indebitati nel chiedere di rinegoziare un debito spesso smisurato.
L'accettazione di questo modus vivendi, tuttavia, ha poco a che vedere con l'ottimismo liberale che attribuiva alla crescita generale degli scambi commerciali un ruolo centrale per il progresso economico, per una maggiore eguaglianza e armonizzazione del livello delle ricchezze, e per l'unificazione del mondo, che avrebbe così sostituito la pace alla guerra per regolare i rapporti fra gli Stati. La crescita degli scambi ha invece consolidato l'esistenza di blocchi di paesi dagli interessi opposti o divergenti, tutti, o quasi, pronti ad alternare, in proporzioni variabili, provvedimenti liberali e misure protezionistiche; ha anche contribuito a perpetuare, nonché ad accentuare, differenze nello sviluppo spesso di origine molto antica. Mai comunque come oggi (e la crisi iniziata nei primi anni settanta ha influito e continua a influire in questo senso) tale crescita è apparsa come un optimum, o almeno come un second best.
4. Commercio e antropologia
Il ridimensionamento del credo liberale ha permesso di ricondurre a più giuste proporzioni l'opposizione, formulata dagli stessi teorici liberali, fra la nuova dottrina e quelle che l'avevano preceduta. Ha anche favorito la ricollocazione in una prospettiva storica del ruolo svolto dal commercio nello sviluppo delle società e delle forme molteplici, e talvolta contraddittorie, che ha potuto assumervi. Questo importante cambiamento d'atteggiamento è stato decisamente favorito dai progressi dell'antropologia ed è a suo modo indicativo della fecondità di un incontro interdisciplinare.
Il paradigma del mercato esprimeva, secondo Adam Smith, un aspetto fondamentale della "natura lucrativa" dell'uomo: la sua "propensione a scambiare un bene con un bene, un bene con un servizio, una cosa con un'altra" per accrescere il suo personale profitto. Si trattava di uno scambio che, prima della generalizzazione dell'uso della moneta, era costretto ad assumere la forma, ritenuta primitiva, del baratto. L'antropologia ha ripreso questa affermazione iniziale per rimetterla in discussione e trasformarne radicalmente il significato.
Da un lato, in effetti, gli antropologi hanno proposto di vedere nello scambio una categoria fondamentale del funzionamento di tutte le società e una condizione per la loro riproduzione, anche e soprattutto delle società più 'primitive'. Dall'altro, essi hanno cercato di spezzare il rapporto privilegiato, fissato a partire da Smith, fra la sfera dello scambio e quella dell'economia produttiva, e di restituire alla prima una dimensione che fosse anzitutto sociale: distinto da trade, il commerce ha assunto nuovamente un significato che era già suo nella lingua del XVII e del XVIII secolo, la quale ne aveva fatto, in senso figurato, il sinonimo di una socialità identificata con il rapporto da pari a pari fra le persone.
Questa 'invenzione' del mercato, inoltre, è avvenuta lentamente e per tappe, fatto questo che ne ha frenato la portata rivoluzionaria. Infatti i primi mercati che si sono costituiti sono stati, da un lato, il mercato locale riservato soprattutto ai beni "pesanti, voluminosi o deperibili", impossibili da trasportare, dall'altro il mercato internazionale, riservato invece proprio ai beni che possono essere trasportati. Entrambi i mercati hanno in comune di non essere concorrenziali, o di esserlo limitatamente, e di "funzionare principalmente all'esterno e non all'interno di un'economia", risultando quindi insufficienti per sconvolgerne gli equilibri. Così si spiega perché "il
Nella formazione di questo nuovo tipo di mercato si verifica una prima rottura a causa dell'intervento degli Stati mercantilistici che, contro i particolarismi dei signori e delle città, estendono l'ambito della regolamentazione a tutto il territorio. Ma tale rottura ne preannuncia un'altra, infinitamente più importante: quella che garantisce la formazione di un grande mercato autoregolato, che unifica tutti i singoli mercati in un sistema interdipendente, in cui "tutta la produzione è destinata alla vendita sul mercato, e tutti i redditi provengono da questa vendita". Governato da una concorrenza perfetta, potrà sottomettere l'intero funzionamento della società alle esigenze del sistema delle merci. È una rivoluzione economica e sociale che domina tutta la storia della fine del Settecento e dell'Ottocento: circoscritta dapprima al mercato interno, si estende in seguito al mondo intero.
Tuttavia, come Polanyi spiega nella seconda parte della sua dimostrazione, questa vittoria del mercato è stata soltanto temporanea, avendo essa stessa prodotto il suo contrario: contro gli effetti distruttivi dell'estensione mondiale del mercato delle merci, la società ha reagito creando istituzioni sufficientemente forti per tenere sotto controllo i tre mercati fondamentali del lavoro, della terra e del denaro. Avviata fin dal 1879, questa nuova fase si conclude nel 1929, agli inizi della 'grande depressione', quando incomincia una nuova epoca in cui la società riprende il controllo dell'economia: ciò non avviene senza resistenze che spiegano la violenza e, almeno nel primo caso, l'ambiguità delle risposte date dal fascismo e dal socialismo. In questa prospettiva l'autonomia dell'economia avrebbe rappresentato solo una parentesi durata un secolo o al massimo un secolo e mezzo: il liberalismo l'avrebbe sottratta alla rete di costrizioni sociali nelle quali essa si trovava embedded, ma soltanto per il tempo necessario all'elaborazione, da parte della società stessa, di nuove regole più adatte alle nuove possibilità dell'economia.
Polanyi è morto nel 1964: avrebbe conservato il radicalismo di questa previsione se avesse vissuto la crisi degli anni settanta e ottanta? È comunque fuori di dubbio che la crescita dei trent'anni successivi alla guerra e poi questa crisi gli hanno dato ragione, su questo piano, solo in parte. Inoltre la partita che egli credeva terminata dopo gli anni trenta è in realtà ancora aperta: abbandonato dopo il 1929, il tallone aureo rinasce a
5. Commercio e scienze sociali
Da almeno due secoli e mezzo la riflessione sul commercio ha affiancato, nelle varie fasi del loro sviluppo, le scienze sociali nel loro tentativo di cogliere all'opera le dinamiche delle società che esse studiavano. Il commercio si è docilmente prestato ai successivi tentativi di formalizzazione, ma la sua notevole complessità ha sempre finito con l'avere la meglio. Storia, economia, antropologia hanno perciò volta a volta oscillato fra due atteggiamenti estremi. Il primo tendeva a fare del commercio una categoria a sé: generatore di ricchezze e causa di gerarchie fra gli individui, i gruppi, le regioni, gli Stati, ma anche fattore di innovazioni, di mobilità e di tensioni che negavano alle società in questione la tranquillità della riproduzione semplice, cioè sempre uguale, o quasi, a se stessa. Il secondo cercava invece di delineare il ruolo del commercio - un ruolo tuttavia limitato - nel cuore stesso dell'economia e della società, facendone un indice significativo, ma soltanto indiretto, di realtà dominanti assai più radicate: il vantaggio comparativo serve soltanto a rendere esplicito il divario fra i costi di produzione (Ricardo) o le disparità nella disponibilità dei fattori di produzione (Heckscher-Ohlin). Fin dal più lontano passato gli Stati organizzati non hanno, tutto sommato, proceduto in maniera molto diversa. Interessati (ai guadagni sperati in termini di ricchezze o di potenza) e al tempo stesso diffidenti (dei pericoli per l'equilibrio sociale e per la stabilità del loro potere), essi sono sempre stati incerti sull'atteggiamento da tenere: lasciar fare, salvo prelevare la loro parte - in denaro o in natura - sulle uscite, le entrate e i transiti, oppure proibire, monopolizzare, sorvegliare i luoghi, i tempi, le persone, le quantità, i prezzi, i contratti, le monete, le misure. In entrambi i casi il rischio, in caso d'insuccesso, era lo stesso: oggi come ieri la responsabilità della crisi viene attribuita, in prima istanza, al politico. Si possono ritrovare facilmente in quasi tutti i paesi i segni, in teoria contraddittori ma di fatto coesistenti, di questi successivi tentativi. Tuttavia, poiché le soluzioni estreme di un commercio totalmente statalizzato o totalmente libero appaiono più che mai condannate all'insuccesso o socialmente impraticabili, la tendenza prevalente si muove in direzione di compromessi, più o meno riusciti, giustificati dalla qualità dei risultati (i migliori o i meno cattivi).
Andando alla radice, il commercio ha permesso alle scienze sociali (o ve le ha costrette?) di affrontare il problema, per esse cruciale, del rapporto tra l'identico e il diverso - un diverso mai ridotto all'identico, al tempo stesso associato e rivale, amichevole e ostile, legato alle sue abitudini e alle sue convinzioni, ma anche disposto a prendere in prestito e a imitare. Non c'è società umana che non sia obbligata a praticare il gioco dello scambio, in casa propria e con i vicini, uno scambio graduato, in termini di diritti e di doveri, secondo la gerarchia delle parti, alla quale corrisponde sempre una gerarchia dei linguaggi utilizzati. La necessità fondamentale di acquistare per poter vendere, e di vendere per poter acquistare, si ricongiunge con quella, ancora più fondamentale, del dono - dare per poter ricevere, ricevere per poter dare - e stimola anche la tentazione di accumulare - vendendo più di quanto si acquista e dando più di quanto si riceve - per disporre di un credito che dia dei diritti sull'altro e dunque del potere. Ma è un potere fragile e subito rimesso in discussione dalle regole stesse della sua utilizzazione: rovinare l'altro, infatti, e spingerlo al fallimento sarebbe il modo più sicuro per uccidere lo scambio.
L'economia liberale ha senza dubbio portato ai limiti estremi il sogno di un mondo in cui le regole del commercio sarebbero divenute quelle della società degli uomini e ne avrebbero garantito per sempre gli equilibri. Questo sogno livellatore, nelle sue pretese di eguaglianza fondate su un apparato matematico esemplare, è il simbolo, nel campo delle scienze sociali, dell'ideale della continuità: ma la discontinuità non cessa di riaffermare, contro di esso, i suoi diritti. (V. anche Economia internazionale; Industria; Mercato).
bibliografia
Braudel, F., Civilisation matérielle, économie et capitalisme, XVe - XVIIIe siècle, 3 voll., Paris 1979 (tr. it.: Civiltà materiale, economia e capitalismo, secoli XV-XVIII, 3 voll.,
Caves, R. E., Jones, R. W., World trade and payments, Boston 1981³.
Emmanuel, A., L'échange inégal. Essai sur les antagonismes dans les rapports économiques internationaux, Paris 1969 (tr. it.: Lo scambio ineguale. Gli antagonismi nei rapporti economici internazionali, Torino 1972).
Hocquet, J.-C., Le sel et la fortune de Venise, 2 voll., Lille 1978.
Kindleberger, C. P., Lindert, P. H., International economics, Homewood, Ill., 1982⁷ (tr. it.:
Konvitz, J., Cities and the sea. Port city planning in early modern Europe,
Kriedte, P., Medick, H., Schlumbohm, J., Industrialisierung vor der Industrialisierung, Göttingen 1977 (tr. it.: L'industrializzazione prima dell'industrializzazione, Bologna 1984).
Kula, W., Teoria ekonomiczna ustroju feudalnego, Warszawa 1963 (tr. it.: Teoria economica del sistema feudale. Proposta di un modello, Torino 1970).
Lombard, D., Aubin, J. (a cura di), Marchands et hommes d'affaires asiatiques dans l'Océan Indien et la Mer de Chine, XIIIe-XXe siècles, Paris 1988.
Mauss, M., Essai sur le don. Forme et raison de l'échange dans les sociétés archaïques (1923-1924), in Sociologie et anthropologie, Paris 1950, pp. 145-279 (tr. it.: Saggio sul dono: forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, in Teoria generale della magia e altri saggi, Torino 1965).
Mendels, F., Proto-industrialization: the first phase of the industrialization process, in "The journal of economic history", 1972, XXXII, pp. 241-261.
Miège, J.-L., Le Maroc et l'Europe (1830-1894), Paris 1961.
Montesquieu, C.-L. de, De l'esprit des lois, Genève 1748, libri XX-XXI (tr. it.: Lo spirito delle leggi, in Opere politiche, 2 voll., Torino 1974²).
Ohlin, B., Interregional and international trade,
Perrot, J.-C., Les dictionnaires de commerce au XVIIIe siècle, in "Revue d'histoire moderne et contemporaine", 1981, XXVIII, pp. 36-37.
Polanyi, K., The great transformation,
Roover, R. de, L'évolution de la lettre de change: XIVe-XVIIIe siècle, Paris 1953.
Wallerstein, I., The modern world-system, vol. I, Capitalist agriculture and the origins of the European world-economy in the sixteenth century, New York 1974 (tr. it.: Il sistema mondiale dell'economia moderna, vol. I, L'agricoltura capitalistica e le origini dell'economia-mondo europea nel XVI secolo, Bologna 1982).