COMPAGNIE DI VENTURA

Enciclopedia Italiana (1931)

COMPAGNIE DI VENTURA

Giovanni Battista Picotti

VENTURA La prima origine di quelle milizie mercenarie, che si raccoglieranno poi a formare le Compagnie di ventura, risale a secoli remoti del Medioevo. Già nel sistema di guerra feudale, il signore dava alle genti sue, oltre al mantenimento, anche un soldo, né era infrequente il caso, soprattutto per guerre lunghe e lontane, che egli aggiungesse alle milizie di vassalli e ministeriali una truppa mercenaria. Nell'Inghilterra appare già forse sotto i re anglosassoni e i primi normanni, certo e durevolmente sotto Enrico Plantageneto (1159) l'uso dello scutagium, escuage, cioè d'un compenso pecuniario in luogo del servizio militare personale. Il re assoldava così mercenarî, per lo più stranieri. La costumanza si diffuse in Francia e nella Germania.

La monarchia, infatti, nello sforzo di difendere o d'instaurare l'autorità sua sopra i vassalli, aveva bisogno di forze in tutto dipendenti da essa; e il progressivo allargarsi della sfera d'azione del nuovo stato monarchico, rendeva necessario l'uso di milizie, il cui servizio non fosse racchiuso nei ristretti limiti di spazio e di tempo, che erano fissati dalle consuetudini feudali. Alla loro volta, i vassalli, nella necessità d'essere presenti sempre a difesa contro la duplice minaccia del Comune cittadino e delle classi rurali insorgenti, sostituivano volontieri il corrispettivo in danaro al servizio personale per interessi ancora non bene sentiti come proprî. E nei Comuni, sottentrati come nei diritti così nei doveri ai signori feudali, la borghesia cittadina, che voleva attendere a industrie e a commerci e aveva sulle braccia la grave impresa della conquista del contado, ne seguiva l'esempio volentieri. Il sostituirsi poi dell'economia metallica all'economia naturale e l'abbondanza della moneta davano ai signori, e soprattutto alle città, il modo di assoldare milizie. Né difettavano gli uomini, che si potessero prendere a soldo. Erano cadetti di grandi famiglie feudali; bastardi sprovveduti di eredità; nobili minori. Erano proprietarî liberi del contado, la cui terra aveva perduto valore nei rivolgimenti economici, o non riusciva a difendersi dal capitale lanciatosi all'acquisto d'un possesso fondiario e dallo sfruttamento della città; campagnoli insofferenti della cerchia ristretta del villaggio; antichi servi della gleba, sprovveduti di ogni mezzo per vivere, cittadini esiliati dalla violenza delle lotte civili; plebe cresciuta di numero, prima che fosse cresciuto a sufficienza l'impiego delle braccia, stretta dai debiti e dalle usure.

Così il mercenarismo rientra in parte in un fenomeno di più larga portata, quello del salariato, per cui, nello spostarsi delle basi della ricchezza e nel mutarsi dei suoi detentori, quelli che la ricchezza hanno perduta, o vogliono acquistarla o accrescerla, pongono l'intelligenza o il braccio al servigio dei nuovi padroni del danaro. Ma alla professione di mercenario accorrono più largamente che ad ogni altra avventurieri e vagabondi. E le Crociate riversano nei paesi europei folle di reduci, che non possono o non vogliono trovare più altra occupazione fuor della guerra. Infine la nuova arte del combattere a cavallo con pesanti armature e lunghe lance richiede addestramento non breve, e dà alla milizia mercenaria decisa prevalenza sulle vecchie milizie feudali e comunali.

Le milizie mercenarie sono raccolte per tutta Europa; ma vi sono paesi che le forniscono più largamente: la Navarra, i monti delle provincie basche, dell'Aragona e della Castiglia, la Germania, il Brabante, donde ebbero nel sec. XII nome di brabanzoni tutti i venturieri. Mercenarî italiani non solo combattono nelle guerre interne d'Italia, ma in Fiandra, sotto Filippo il Bello, e più tardi a Crécy (1346) e a Calais (1347); quando il delfino Carlo, sgomento degli eccessi dei venturieri, se ne volle liberare, continuò tuttavia a tenere con sé gli Scozzesi e i Lombardi (1424). Assoldati prima individualmente o in piccole bande, i venturieri si raccolgono poi in Compagnie più o meno vaste, per il vantaggio d'unire insieme le forze e i guadagni. La Compagnia ha talvolta nome nazionale; è tedesca, inglese, italiana; più spesso è un'accozzaglia di genti diverse che rapidamente si unisce e si discioglie, o passa dall'uno all'altro padrone, quando ci sia speranza di maggiore guadagno. Il bottino, i proventi del riscatto dei prigionieri e delle taglie sono ripartiti fra i capi e i soldati, sicché la Compagnia assume l'aspetto non solo d'un organismo militare, ma d'un vero organismo economico, non dissimile da quelle associazioni di mercanti, di industriali, di artisti, con cui ha comune il nome e gli scopi; i suoi capi sono insieme i maestri dell'arte e gli agenti di un'impresa, che, sostenuta spesso dal denaro di capitalisti, si colloca a tempo presso chi ne paghi i servigi e divide fra i membri il profitto.

Non manca alle Compagnie una certa saldezza: il capo, intorno al quale si sono raccolte, o che più di frequente esse stesse hanno scelto e che è sempre un cavaliere famoso e talvolta un conte, un duca, o un re, ha larghissima autorità sui propri soldati, e sotto di lui sono conestabili a capo delle banderiae e corporali o caporali comandanti i singoli corpi; e v'è un corteggio di medici, di cappellani, di segretarî, di contabili, di artigiani, di cuochi, di cortigiane: se la disciplina non è perfetta, non è tuttavia più debole che negli altri eserciti dell'età medievale. Assoluta invece l'indisciplina nei rispetti del principe o dello stato al quale servono, non legate da altro vincolo che quello del proprio interesse; assoluta la licenza di fronte alle popolazioni, con cui combattono, o in mezzo a cui vivono.

Se il nome di Compagnia, nel senso di associazione di mercenari, sembra apparire la prima volta nel cronista francese Filippo Mouskès (morto nel 1244), Compagnie di routiers (ruptarii, da rupta "truppa") appaiono già nel secolo precedente: sono ricordati fra i primi loro capi Guglielmo d'Ypres (morto nel 1162), Guglielmo di Cambrésis e quel Mercadier (circa 1150-1200), che fu compagno e fratello d'arme di Riccardo Cuor di Leone. E contro i venturieri già nel 1171 Federico Barbarossa e Luigi VII prendono accordi e il Concilio Laterano III del 1179 commina le pene ecclesiastiche più gravi. I provvedimenti furono vani: le armi mercenarie e le Compagnie di ventura rimasero.

Le Compagnie fuori d'Italia. - Nella Francia, fallito, dopo le prime vittorie, un movimento popolare di capuchonnés e di jurés, per il mantenimento della pace, i paillards continuarono lungamente a praticare il saccheggio e l'assassinio; e la crociata contro gli Albigesi diede ad essi occasione di desolare il Mezzogiorno. Ma i mercenarî, per la maggior parte francesi, formarono anche il nerbo dell'esercito regio e cooperarono efficacemente non solo a combattere i re d'Inghilterra, ma a deprimere il potere dei vassalli e a sollevare quello del re. Più tardi la guerra dei Cento anni rovesciò sulla Francia torme di venturieri d'ogni paese, assoldate dai re inglesi, e la necessità della lotta portò anche i re di Francia ad assoldarne altri, paesani o stranieri, in gran numero. I mercenarî formarono durante la guerra, e più dopo la pace di Brétigny (1360), la Compagnia bianca, quella "de la Margot", dei "Tards venus", dei "Bâtards" e altre assai, che spesso si chiamavano genericamente la "Grande Compagnia". Ora riunite insieme, ora disgiunte, sotto la guida di capi valorosi e audaci, esse passavano fulminee dall'uno all'altro luogo, devastando e taglieggiando. Bertrando Duguesclin riuscì con l'appoggio di Carlo V a raccoglierne sotto di sé gran parte, a disciplinarle, a condurre queste Compagnie bianche in Castiglia (1365), dove combatterono in battaglie (Navarrete, 1367; Montiel, 1369) tra le maggiori del secolo. Poi, fra il 1370 e il 1380, condusse con i mercenarî una vera guerra nazionale, che tolse al re d'Inghilterra pressoché tutti i suoi dominî di Francia. Riarse il furore delle Compagnie nei gravi torbidi del regno di Carlo VI: gli écorcheurs, dopo il trattato di Arras (1435) che poneva fine alle guerre interne, divennero il flagello non solo della Francia, ma dei paesi vicini. La monarchia risorgente provvide di nuovo a liberarne il paese: con gli elementi migliori delle Compagnie di ventura Carlo VII formò le Compagnie di ordinanza regolari, pagate da lui e comandate dai suoi ufficiali (1445). Cosi le Compagnie diedero in Francia gli elementi e in parte il modello per quell'organizzazione militare, che fu principalissimo fondamento della ricostruzione monarchica dello stato francese.

Fra gl'Inglesi, i re, dal Conquistatore a Giovanni Senzaterra, fecero largo uso di milizie mercenarie straniere, ma la Magna charta proscrisse l'uso di mercenarî nel territorio del regno. Mercenarî furono bensì assoldati dai re d'Inghilterra per le guerre di Francia. Ma queste milizie, combattendo fuori dell'isola, non esercitarono sulla vita interna del regno inglese azione apprezzabile, e quelle che, reduci dalle guerre francesi, lo insanguinarono nella guerra delle Due Rose, portavano la livrea di principi e di signori inglesi, senza formare vere Compagnie.

Nei regni spagnoli, mercenarî non mancarono; ma in un paese che per la guerra contro i Mori era tutto in arme, non ebbero efficacia.

La Germania conobbe il flagello delle soldatesche di ventura, prima che Massimiliano d'Austria le disciplinasse militarmente nelle bande dei lanzichenecchi; ma, più che in quella terra, i venturieri amavano cercare fortuna in Italia. Solo durante la grande guerra religiosa, si formarono vere Compagnie di mercenarî (come quelle del Wallenstein e del Mansfeld); ma esse, pur essendo avide di preda e servendo all'ambizione dei loro capi, militavano anche per interessi religiosi e politici, che non permettono di considerarle come semplici Compagnie di ventura.

Le Compagnie straniere in Italia. - La terra, in cui le Compagnie di ventura più largamente rampollano e fioriscono, è l'Italia. Alle cause generali del loro formarsi si aggiungevano qui altre, attinenti alla particolare vita politica e sociale del paese. La decadenza della nobiltà feudale, più rapida qui e più profonda, esauriva quella classe, dalla quale erano tratti gli eserciti di cavalieri, né bastavano a supplire al difetto i nuovi cavalieri di comune, non sufficienti di numero, non sostenuti da una tradizione militare. Le fanterie comunali, adatte alla difesa o a rapidi cimenti decisivi, non potevano avventurarsi in imprese lunghe e lontane senza danno irreparabile della vita economica della città; e lo stesso più largo rigoglio delle industrie e dei traffici e la maggiore agiatezza e il fiorire della vita cittadina distoglievano dall'esercizio delle armi; il contado poi era così profondamente diviso dalla città che non ne potevano essere tratte milizie che fervidamente sostenessero gl'interessi del comune. D'altra parte, la guerra qui era senza tregua, fra i comuni e l'Impero, fra i comuni e la feudalità, fra l'uno e l'altro comune; più tardi si aggiunsero le lotte di fazione, che impedivano di disarmare mai. Poi i signori, stretti dalla necessità di difendere l'autorità loro contro la fazione avversa e, più, contro la fazione stessa che li aveva aiutati a salire, sostituirono quasi in tutto alle milizie cittadine milizie estranee al comune; e i comuni ancora liberi, non potendo contrastare con milizie occasionali i professionisti della guerra, ne seguirono l'esempio. Milizie mercenarie erano già apparse in Italia al tempo della conquista normanna e nella lotta fra il Barbarossa e i comuni; più numerose furono nel secolo seguente. Ma nel sec. XIV travolta l'Italia in guerre senza fine, i soldati mercenari restarono a tenere il campo pressoché soli.

Erano Spagnoli e Ungheresi venuti a combattere nei due regni di Sicilia, Tedeschi guidati in Italia dagl'imperatori e da Giovanni di Boemia, Francesi ed Inglesi rimasti inoperosi durante le tregue della guerra dei Cento anni; erano, anche, Italiani, banditi, dissestati, vagabondi, avidi di subita fortuna. Le Compagnie, che si vengono formando fra loro, finiscono con l'imporsi ai piccoli stati, che hanno bensì danaro assai per il soldo o le taglie, ma non forze per tenere quelle a disciplina. E poiché la guerra è la loro vita, la fanno sorgere, dove non è, e cercano poi di prolungarla con fazioni e battaglie non decisive. Sciolta la Compagnia, i venturieri si recano di là dalle Alpi a godere i frutti del loro servizio.

La prima Compagnia formatasi in terra italiana, quella degli Almogavari o Almovari, venturieri catalani rimasti liberi per la pace di Caltabellotta, si raccolse a Messina intorno a Ruggero de Flor (1303), ma combatté fuori d'Italia, nell'Asia Minore e nella penisola balcanica. E vi è poi ricordo di Compagnie prevalentemente straniere che hanno capi italiani: quella raccolta nel 1322 dai Tolomei fuorusciti di Siena; quella de' Sassoni e Tedeschi di Lodovico il Bavaro, che, radunatasi al Ceruglio, tra l'Arno e la Nievole, acclamò capo Marco Visconti e tenne per qualche tempo Lucca (1329); quella di San Giorgio con Lodrisio Visconti, che fu battuta a Parabiago (1339). Ma già si hanno Compagnie straniere, con capi anche stranieri: la Compagnia della Colomba, formata da Tedeschi, per gran parte avanzi delle milizie di Giovanni di Boemia, i quali si riunirono alla badia della Colomba nel Piacentino e divennero poi il terrore della val Tiberina e dell'Umbria (1335); più temibile assai la Grande Compagnia, la prima che spiegasse un'azione indipendente e meditata. Ne furono nucleo i mercenarî licenziati da Pisa e da Firenze dopo la guerra di Lucca: forte di più che 3000 barbute, sotto il comando di Werner von Urslingen, "Guarnieri duca", taglieggiò Siena, Perugia e Bologna, devastò la Romagna e l'Emilia (1342-43), poi si disciolse, sebbene il nome di Grande Compagnia riapparisse ancora più volte. Guarnieri fu di nuovo in Italia nel 1347, nella spedizione di Luigi d'Ungheria contro Giovanna di Napoli, battagliò per tre anni, devastando le terre meridionali e il Patrimonio, e combatté poi nella Romagna e nella Venezia (1350-51), mentre gli Ungheresi rimasti nel regno avevano ora a capo Konrad Wolf, "Corrado Lupo". Tedeschi, Ungheresi ed altri mercenarî venuti di Francia formarono nel mezzogiorno una nuova Grande Compagnia, alla quale Montréal d'Albarno, "fra Moriale", diede ordinamenti di più stretta disciplina: la Compagnia pose a sacco la Romagna, l'Umbria, la Toscana ed ebbe altissimi riscatti da Siena, da Firenze, da Pisa (1353-54). Ucciso fra Moriale a Roma da Cola di Rienzo, i venturieri ebbero fra i più reputati e temuti loro capi Konrad von Landau, "il conte Lando", e Hanneken von Baumgarten, "Anechino Bongarden"; i quali, ora uniti, ora disgiunti, combatterono in Romagna, in Toscana, in Lombardia; i montanari di Val di Lamone massacrarono alle Scalelle parte della Compagnia del conte Lando (1358) e, quando la Compagnia si riordinò e passò in Toscana, Pandolfo Malatesta, capo dei mercenarî di Firenze, la mise in fuga al Campo delle mosche nel Lucchese (1359). La pace di Brétigny gettò sull'Italia le milizie rimaste libere, che furono dette Compagnia bianca o inglese ed ebbero a capo il tedesco Alberto Sterz. Nella Toscana si formò di mercenarî ribellati a Firenze, la Compagnia del Cappelletto o Compagnia nera, che fu detta italiana, ma ebbe capi Hartmann von Wartestein e Anichino (1362-63), e fu dispersa dai Senesi: e contro alla Compagnia inglese, venuta in Toscana, Firenze assoldò la nuova Compagnia del Fiore, dei Tedeschi di "Ugo di Melichin", Hugo von Melchingen. Poi "Tedeschi" del Bongarden e "Inglesi" dello Sterz si uniscono nella Compagnia della Stella (1364) e, separatisi per poco, si raccolgono ancora a Vetralla e battono a Perugia la Compagnia bianca di sir John Hawkwood, "Giovanni Acuto" (1365). Decapitato lo Sterz dai Perugini (1366), rimane capo della Compagnia della Stella il Bongarden, mentre Ambrogio Visconti, figliuolo illegittimo di Barnabò, costituisce con venturieri italiani, inglesi e ungheresi una Compagnia di S. Giorgio (1365-66 e di nuovo 1370-72) e Giovanni conte di Habsburg, assoldato fin dal 1364 dai Fiorentini, è a capo d'una Compagnia di Tedeschi e l'Acuto riordina i suoi Inglesi, che formeranno il nocciolo della Compagnia santa (1375-76), famosa per la strage orrenda di Faenza, e il cardinale Roberto di Ginevra scatena sulla Romagna ribellata al pontefice la terribile Compagnia dei Bretoni (1376-77), che saccheggia ferocemente Cesena.

Contro al danno e alla vergogna delle compagnie avevano levato la voce i pontefici, Innocenzo VI (1357), Urbano V (1365). Parole piene d'ira e di dispregio lanciavano poeti e scrittori, il Petrarca e il Salutati, il Villani e l'Azario, e tentativi di leghe erano stati promossi da principi e da città; memorabile quello a cui attese Urbano V tra il 1366 e il 1367 e l'altro che fu maneggiato nel 1389, da Pietro Gambacorta signore di Pisa; ma le gelosie tra gli stati italiani impedivano che si conchiudesse mai nulla di efficace e durevole. Alla fine lo sdegno per le devastazioni dei mercenarî stranieri e, più, il desiderio d'ottenere per sé i vantaggi che quelli ritraevano dalle loro imprese, indussero gl'Italiani a organizzarsi per proprio conto. E prima qualche Italiano raccolse, con le straniere, anche milizie italiane; poi si riunirono piccole bande italiane con capi italiani; infine nel 1376 Alberigo da Barbiano raccolse in quella che fu detta poco dopo Societas Italicorum sancti Georgii milizie in gran parte, se non esclusivamente, italiane. La difesa di Urbano VI, alla quale santa Caterina da Siena esortava questi "martiri novelli", con la promessa della vita eterna, la vittoria riportata a Marino (28 aprile 1379) sui Bretoni dell'antipapa Clemente VII crebbero fama alle armi italiane. Non sono scomparse del tutto le vecchie Compagnie: vive ancora ultimo dei grandi capitani stranieri, l'Acuto (morto nel 1394); una Compagnia della Rosa combatte in Romagna, ín Toscana e nel Regno fino al 1410. Ma la vittoria di Iacopo dal Verme ad Alessandria sui Francesi di Giovanni duca di Armagnac (1391), quella di Alberigo e di altri condottieri dei Visconti a Brescia sui Tedeschi di Roberto re dei Romani (1401) e, molto più tardi, le vittorie del Colleoni a Bosco Marengo, a Romagnano Sesia, a Borgomanero (1447 e 1449) sui Francesi di Rinaldo Dresnay e del duca di Savoia, tolgono credito alle soldatesche forestiere. Avevano queste aiutato in Italia il passaggio dal Comune alla Signoria e al principato; avevano, con l'esaurire le fortune degli stati più deboli, resa possibile la formazione di grandi stati, e, pareggiando le sorti dei minori e più ricchi con quelle dei maggiori e più poveri, avevano preparato lo stabilirsi dell'equilibrio: del resto, avevano recato danni senza numero, dispersione di ricchezza e indebolimento di spirito militare. Maggiori effetti produssero le Compagnie italiane, ma l'azione collettiva di queste è subordinata all'azione personale dei condottieri e si confonde con essa.

Le vittorie degli arcieri inglesi sul suolo di Francia, la nuova tattica delle fanterie svizzere, cèche, tedesche e osmane, e, più tardi, delle spagnole, combattenti in masse compatte, il diffondersi delle armi da fuoco, il progressivo formarsi degli eserciti nazionali condussero a decadenza le milizie mercenarie e le Compagnie di ventura: alla disordinata licenza di queste metteva ormai un freno lo stato, ridivenuto sovrano nella persona del principe. Le Compagnie lasciarono tuttavia non solo tracce più o meno profonde nella vita dei singoli stati, ma altre consegueuze non lievi. Fecero progredire l'arte della guerra col porre le prime basi d'una scienza militare, con l'introdurre una, fosse pur rudimentale, gerarchia, col suddividere l'esercito in minori unità, gemme del futuro sistema reggimentale, col far sentire vivo lo spirito di corpo, col perfezionare le armi, con l'usare le prime artiglierie da campagna. Propagarono l'uso della moneta e servirono allo scambio della ricchezza, accelerando la crisi economica; attinsero in Italia alle fonti della cultura nostra, della quale i venturieri reduci in patria furono banditori non del tutto spregevoli. Ma contribuirono anche al dispregio per la professione delle armi e alla decadenza del costume morale e politico.

Bibl.: Manca uno studio ocomplessivo sulle compagnie di ventura: lavori speciali sono quelli dello Henrard, Les mercenaries dits Brabançons au moyen âge, Bruxelles 1865, e dello Allert, Les routiers du XIVe siècle, Lione 1859. Nella vecchia, ma sempre buona opera di E. Ricotti, Storia delle compagnie di ventura in Italia, 2ª ed., Torino 1893, è anche qualche notizia sulle compagnie fuori d'Italia. Per la Francia v. poi articoli di H. Géraud e di E. de Fréville, in Bibl. de l'école des chartes, III (1841-42), pp. 123 segg., 258 segg.; 417 segg.; V (1843-44), p. 232 segg.; per gli altri paesi la storia dei singoli stati e i lavori generali sull'arte della guerra, come quelli del Jähns, dell'Oman, del Delbrück. Cfr. poi G. Canestrini, Documenti per servire alla storia della milizia italiana dal sec. XIII al XVI, in Arch. stor. ital., XV (1851); A. Semerau, Die Condottieri, Jena 1909; K. H. Schäfer, Deutsche Ritter und Edelknechte in Italien, Paderborn 1911; W. Block, Die Condottieri, Berlino 1913; qualche buona osservazione generale anche in B. Belotti, La vita di Bartolomeo Colleoni, Bergamo 1923; G. Cassinis in Rassegna italiana, s. 3ª, XXIII (1929).

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