Comportamento sociale

Dizionario di Medicina (2010)

comportamento sociale

Igor Branchi

Per comportamento sociale si intende l’insieme delle interazioni che si verificano tra due o più individui, generalmente della stessa specie. Perché vi sia un’interazione, il comportamento di un individuo deve modificare in modo specifico quello di uno o più individui. Alla base di un’interazione vi è un fenomeno di comunicazione, ossia l’indirizzamento di un messaggio attraverso il canale visivo, acustico, olfattivo o tattile. Le tipologie di comportamento sociale, le cui caratteristiche dipendono dagli individui coinvolti, sono molteplici e con varie forme di complessità, dall’interazione diadica tra i membri di una coppia fino all’organizzazione di un’intera società. Una società è costituita da individui della stessa specie che vivono in modo organizzato, giocando ruoli sociali determinati e mostrando reciproca dipendenza. Far parte di una società comporta sia benefici che costi. Per es., tra i benefici offerti dall’appartenere a un gruppo sociale vi sono una ridotta quantità di tempo passata a gestire i pericoli e una minore vulnerabilità. All’interno di un gruppo, basta che pochi individui controllino la presenza di potenziali pericoli, mentre gli altri si dedicano ad altre attività come nutrirsi. Inoltre, in caso di pericolo, le strategie di difesa di un gruppo, rispetto a quelle di un singolo individuo, possono essere più articolate ed efficaci. Al contrario, esempi di costi associati alla socialità sono la competizione per le risorse, nutritive o di accoppiamento, o la maggiore vulnerabilità ad agenti infettivi trasmissibili. Da un punto di vista evolutivo, tali benefici e costi hanno generato diverse strutture di aggregazione e, di conseguenza, diverse forme di comportamento sociale. [➔ apprendimento; cervello, evoluzione del; competizione; comportamento, sviluppo del; comportamento sessuale; gioco]

Comportamento sociale negli animali

I sistemi sociali hanno raggiunto il massimo grado di complessità nelle classi degli insetti e dei mammiferi. Gli insetti sociali. Tra il milione di specie che costituiscono grosso modo la classe degli insetti, circa 12.000 – tra cui imenotteri (vespe, api e formiche), isotteri (termiti) e omotteri (afidi) – hanno sviluppato complesse forme di società. Questi insetti, definiti eusociali, costituiscono colonie in cui vige una rigida divisione degli individui in caste, formate da individui riproduttori, che hanno il compito di dare vita alle nuove generazioni, e da individui sterili che possono essere specializzati in compiti di difesa (soldati) oppure nella cura delle larve e delle pupe e del nido (operaie). Prendendo come esempio una colonia di ape domestica (Apis mellifera), questa comprende tipicamente una regina, 40÷100.000 operaie e pochi maschi fertili (fuchi), il cui unico compito è quello di fecondare la regina. Nelle api, a differenza di formiche e termiti, si presenta raramente il fenomeno del polimorfismo di casta, per cui uno stesso individuo assolve diversi compiti secondo la classe di età. La prima mansione è quella di ripulire e levigare le celle, poi quella di nutrire la regina e le larve e successivamente produrre cera, usata per ingrandire il favo. Infine, l’ape esce dal nido e va in cerca di nettare e polline. La determinazione delle caste nelle api avviene per via ambientale, e quindi epigenetica. In partic., quando una speciale secrezione prodotta dalle api stesse – la pappa reale – viene utilizzata come nutrimento durante l’intero arco della vita di una femmina, questa diventerà regina mentre i feromoni prodotti dalla regina stessa inibiscono la maturazione sessuale delle operaie. Le api sono in grado di comunicare tra loro per scambiarsi informazioni relative al luogo in cui sono localizzate fonti di cibo all’esterno dell’alveare. Tale comunicazione è basata su un insieme di movimenti (chiamato danza delle api) descritto dall’etologo austriaco Karl von Frisch.

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La teoria di Hamilton e l’altruismo. Quando i biologi evoluzionisti iniziarono a studiare il c. s., alcune questioni apparivano irrisolvibili. Per es., come è possibile – da un punto di vista evolutivo – che esistano caste sterili, come quella delle api operaie? In un’ottica darwiniana, tali individui, non trasmettendo il proprio materiale genetico alle generazioni successive, dovrebbero rapidamente estinguersi. Una teoria che permise di rispondere a tali interrogativi fu sviluppata dall’inglese William D. Hamilton ed era basata sul concetto di selezione di parentela. Al fine di teorizzare la selezione di parentela, Hamilton rielaborò il concetto di fitness, ossia la capacità di trasmettere i propri geni alle generazioni successive. In partic., egli definì la fitness complessiva come la somma della fitness diretta, cioè il numero di figli generati, e della fitness indiretta, cioè il numero di figli generati da individui parenti, ossia con cui si condivide una percentuale più o meno alta di geni. Quindi, un individuo può ottenere un vantaggio in termini di fitness sia riproducendosi sia mostrando comportamenti altruisti verso individui imparentati con lui. In questo secondo caso, quanti più geni in comune un beneficiario ha con un donatore-altruista, tanto più il donatore ottiene un beneficio dall’essere altruista. Tale teoria perciò fornisce un modello valido di come si sia potuta affermare nel corso dell’evoluzione la socialità delle api e, in partic., di come possano esistere caste sterili come le operaie. Infatti, per speciali meccanismi genetici di determinazione del sesso, l’operaia condivide con le proprie sorelle il 75% dei geni, e quindi nell’avere un comportamento che avvantaggia la sorella regina avrà un vantaggio consistente in termini di fitness complessiva. Le idee di Hamilton sono state generalizzate anche alla nostra specie al fine di proporre una spiegazione sul perché molti dei comportamenti altruistici che gli individui manifestano nel corso della loro vita siano diretti soprattutto verso parenti stretti. Infatti, in base alla teoria della selezione di parentela, questa attitudine porterebbe un vantaggio in termini di fitness complessiva. Per es., genitori e figli condividono il 50% dei geni e nonni e nipoti il 25%. Quindi, un genitore altruista verso un figlio ottiene un vantaggio pari al 50% e un nonno che aiuta un nipote ottiene un vantaggio del 25%, mentre aiutare un individuo non parente non porta nessun vantaggio in termini di fitness. Quindi, in una data popolazione, un comportamento altruistico è selezionato positivamente dalla selezione naturale se esso aumenta la fitness complessiva dell’individuo che lo mette in atto. È importante sottolineare che la selezione di parentela è una variante della selezione individuale e che la teoria di Hamilton consente di ricondurre i comportamenti altruistici all’interno della teoria darwiniana.

Le società dei mammiferi. I mammiferi hanno da sempre rappresentato l’oggetto d’elezione per lo studio del c. s. e, in partic., per identificarne i meccanismi di base tenendo conto delle caratteristiche dell’ambiente, come la disponibilità di risorse alimentari o la presenza di predatori. Lo studioso Robert M. Sapolsky, dell’Università di Stanford, negli anni Ottanta del secolo scorso ha effettuato uno degli studi più interessanti relativi al c. s. dei primati non umani. In partic., Sapolski ha osservato per diversi anni le interazioni all’interno di un gruppo di babbuini (genere Papio) nel loro ambiente naturale. I babbuini generalmente vivono in gruppi composti da più femmine, con e senza prole, e da uno o più maschi adulti, a seconda delle specie. Le femmine trascorrono tutta la vita nel gruppo mentre i giovani maschi, al sopraggiungere della maturità sessuale, si allontanano. I maschi di babbuino competono tra loro per le risorse, come il cibo e le femmine, e tale competizione, che può sfociare in eventi anche altamente aggressivi, ha lo scopo di stabilire una gerarchia sociale. L’individuo dominante è colui che ha accesso privilegiato alle risorse, mentre gli altri maschi sono subordinati. Una volta stabilita, la gerarchia all’interno del gruppo rimane costante nel tempo al fine di eliminare la necessità di continue lotte che potrebbero sfiancare gli individui, aumentando la vulnerabilità ai predatori o alle malattie. A tal fine, il dominante ripete una serie di segnali che rendono chiara agli altri componenti del gruppo la propria posizione gerarchica, mentre i subordinati mostrano segnali che inibiscono potenziali attacchi da parte del dominante. Il sistema è stabile fino a quando le capacità di combattimento dei diversi individui rimangono costanti nel tempo, ma quando si verificano cambiamenti nei rapporti di forza, la gerarchia diventa instabile. Per es., se il dominante si ammala, o un giovane maschio diventa più forte di lui, esso scivola verso il basso dell’ordine gerarchico e di conseguenza cambiano anche gli altri rapporti all’interno del gruppo. Sebbene le caratteristiche del comportamento, e quindi della struttura sociale, dei babbuini possano essere generalizzate a molte altre specie di mammiferi, come l’elefante marino (Mirounga angustirostris) o il cervo nobile (Cervus elaphus), i sistemi sociali presenti in questa classe sono molteplici, da quelli dell’eterocefalo glabro (Heterocefalus glaber) che, sorprendentemente, ha una struttura sociale simile a quella degli insetti eusociali con individui che non si riproducono, a quella delle scimmie institì (Callitrix jacchus) caratterizzate da alti livelli di cure parentali e da una struttura matriarcale. Il comportamento sociale e l’evoluzione del cervello. Le specie appartenenti all’ordine dei primati presentano un’importante espansione della corteccia frontale che, nelle grandi scimmie e spec. negli esseri umani, arriva a rappresentare più di un terzo dell’intera corteccia cerebrale. Si ritiene che tale sviluppo corticale sia alla base delle caratteristiche che rendono unica la nostra specie. Sebbene, in un primo momento, si fosse ipotizzato come la spinta evolutiva che ha favorito tale accrescimento cerebrale fosse da imputarsi alla necessità di risolvere questioni pratiche, quali trovare il cibo o utilizzare utensili, analisi più recenti hanno suggerito come la chiave per la comprensione di tale fenomeno risieda nella complessità delle interazioni sociali. Questa idea è stata formalizzata nella cosiddetta ipotesi del cervello sociale enunciata da Robin Dunbar negli ultimi anni del 20° secolo. Il nocciolo della sua ipotesi è che i meccanismi neurocognitivi che permettono di interagire con successo con i conspecifici, ossia la capacità di fare previsioni sul comportamento altrui, di manipolare gli altri individui a proprio vantaggio e di identificare gli individui con cui stringere rapporti di alleanza e cooperazione, abbiano rappresentato la pressione selettiva in risposta alla quale le scimmie antropomorfe e la nostra specie hanno evoluto il proprio sistema nervoso centrale, in partic. espandendo progressivamente le aree prefrontali.

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Studio del comportamento sociale nella specie umana

Lo studio del c. s. nella nostra specie può essere affrontato da numerose prospettive che fanno capo a diverse discipline, tra cui la psicologia sociale, la sociologia, l’antropologia, la filosofia e l’etologia. Queste hanno come oggetto di studio la realtà sociale, fenomeno in continua mutazione e determinato dal modo in cui gli esseri umani interagiscono, modificando con il proprio comportamento quello altrui. Tali ricerche prendono in considerazione un elevato numero di fenomeni complessi che includono la cooperazione, la competizione, la comunicazione, il comportamento aggressivo, l’altruismo e il gioco. Aspetto unico della specie umana è l’importanza dei fattori culturali nel determinare l’organizzazione sociale, la quale cambia sostanzialmente a seconda di usi e costumi di un popolo. Nelle ultime decadi, studi sempre più approfonditi sono stati condotti allo scopo di delucidare sia i fattori di tipo ambientale che danno forma al c. s. umano, sia le basi neurobiologiche che sottendono la capacità di interagire con gli altri. Tali ricerche sono state condotte in ambito fisiologico e patologico al fine di comprendere le cause di malattie mentali caratterizzate anche da disturbi della socialità, quali quelli dello spettro artistico (autismo), e i disordini psichiatrici, quali la depressione.

Determinanti precoci del comportamento sociale. L’ambiente è cruciale nel dare forma al comportamento sociale. Ciò è evidente soprattutto durante le prime fasi dello sviluppo. I fattori ambientali rilevanti durante il periodo di crescita non riguardano esclusivamente l’istruzione e l’educazione, ma anche altri eventi, come il rapporto con i nostri genitori o i traumi in età precoce, che influenzano in modo importante le nostre risposte comportamentali da adulti. La possibilità di stabilire un legame con una figura di attaccamento nella prima infanzia è riconosciuta come un fattore chiave per lo sviluppo delle capacità emotive e sociali e l’impossibilità di formare tale legame è associata ad alterazioni neuroendocrine e comportamentali permanenti. In partic., come mostrato da Sir Michael Rutter del Kings College di Londra, l’assenza di un legame con una figura di riferimento nella prima infanzia compromette seriamente la capacità di adattamento sociale. Tale compromissione sembra dipendere dalla fase di crescita ed è proporzionale alla durata del periodo di deprivazione. Esiste infatti un periodo critico durante l’infanzia che assicura l’apprendimento delle abilità sociali. Se in tale periodo si vive una situazione di isolamento, anche parziale, le competenze sociali adulte risulteranno inadeguate. I risultati sull’importanza delle cure materne durante i primi anni di vita sono stati confermati da una serie di studi condotti negli ultimi 15 anni, tra gli altri, da Megan R. Gunnar dell’Università del Minnesota, che dimostrano come, alla fine del loro primo anno di vita, gli individui che non hanno ricevuto livelli adeguati di cure materne presentano livelli elevati e potenzialmente dannosi di cortisolo, un ormone prodotto dall’organismo in seguito all’esposizione a eventi stressanti. Tale aumento rappresenta un fattore di vulnerabilità a malattie psichiatriche come la depressione maggiore.

Basi neurobiologiche del comportamento sociale

Negli anni più recenti, la ricerca sulle basi neurobiologiche del c. s. dei mammiferi ha compiuto passi importanti nella identificazione delle aree cerebrali e delle molecole coinvolte nel controllo delle risposte comportamentali che caratterizzano le relazioni fra gli individui. Una delle scoperte più rilevanti degli ultimi dieci anni ha permesso di indentificare un gruppo di neuroni, definiti neuroni specchio (➔ neurone, neuroni specchio), caratterizzati per la prima volta in primati non umani da Giacomo Rizzolatti dell’Università di Parma, fondamentali per la comprensione del comportamento altrui. Nella nostra specie, i neuroni specchio sono stati localizzati nella corteccia motoria e premotoria, nell’area di Broca e nella corteccia parietale inferiore e si attivano in risposta a stimoli specifici. Più in dettaglio, quando osserviamo un altro essere umano compiere una certa azione, nel nostro cervello si attivano gli stessi neuroni che si attiverebbero se fossimo noi, in prima persona, a compiere quella determinata azione. Quindi il sistema nervoso centrale di un osservatore risuona, per così dire, con quello della persona che è osservata. Si tratta di un meccanismo fondamentale alla base dell’imitazione e dell’interpretazione del comportamento altrui. Inoltre, la localizzazione dei neuroni specchio anche nell’area di Broca, regione cerebrale che gioca un ruolo chiave nel linguaggio, ha fatto ipotizzare che questa classe di neuroni sia anche alla base dello sviluppo delle nostre capacità di comunicazione verbale. Per quanto riguarda le molecole che agiscono all’interno del cervello, influenzando in modo importante il c. s., due ormoni – la vasopressina e soprattutto l’ossitocina – risultano profondamente implicati nella regolazione delle interazioni tra gli individui. Essi infatti giocano un ruolo chiave nel determinare il legame di coppia e quello tra madre e prole. Inoltre, recenti ricerche hanno dimostrato come l’ossitocina sia coinvolta in modo più generale nei fenomeni sociali. In partic., una serie di studi ha chiarito che persone a cui viene somministrata una dose di ossitocina tramite uno spray nasale dimostrano, quando affrontano un rischio sociale, un aumento significativo del comportamento di fiducia verso gli altri. Tale azione è altamente specifica perché la somministrazione dell’ossitocina non produce nessun effetto sulla gestione del rischio di tipo non sociale.

La trasmissione culturale
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Augusto Vitale

La trasmissione culturale

Apprendere socialmente rappresenta un’alternativa, o una scelta parallela, all’imparare individualmente basandosi sulla propria esperienza. In questo senso, diversi studiosi hanno sottolineato una serie di vantaggi dell’apprendere per via sociale. Per es., nel caso degli animali non umani, potendosi basare sull’esperienza del prossimo, un individuo non si trova costretto a esplorare tutto il proprio territorio alla ricerca di fonti di cibo o di acqua; oppure può apprendere con meno rischi l’identità e la presenza di possibili predatori. Un caso esemplare dei vantaggi dell’apprendimento sociale è la possibilità di superare la neofobia per un cibo nuovo, che è naturalmente espressa da diverse specie animali incluso l’essere umano. Apprendere dai membri del proprio gruppo sociale che un certo alimento sconosciuto è edibile, aumenta la velocità con la quale un individuo può aggiungere alla propria dieta un nuovo cibo, e rendere così la dieta più varia aumentando le possibilità di sopravvivenza. Diversi sono i modi mediante i quali un individuo può apprendere socialmente da un altro individuo, e il dibattito sui diversi meccanismi che possono portare al passaggio di informazioni è sempre molto vivo. Per es., un individuo può apprendere un nuovo comportamento quando la sua attenzione è attratta dall’attività di un altro individuo verso un oggetto o una particolare zona dell’ambiente circostante (local enhancement, «enfasi localizzata»). In altri casi è l’azione stessa di un compagno, più che un oggetto o una particolare zona dell’ambiente, ad attrarre l’interesse dell’individuo che acquisisce una nuova informazione (stimulus enhancement, «enfasi sullo stimolo»). Infine, la facilitazione sociale viene messa in atto quando vi è un incremento della frequenza o dell’intensità di una particolare azione già facente parte del repertorio comportamentale di un particolare individuo. Per es., se un individuo vede un altro individuo compiere una certa azione (come mangiare), e mette in atto lo stesso comportamento, oppure ne incrementa la frequenza e/o intensità, si parla di facilitazione sociale. Quando si studia l’apprendimento sociale è molto importante tenere presenti le dinamiche sociali attive in quel momento all’interno della popolazione in oggetto. Per es., nel caso dei primati non umani, le relazioni spaziali tra individui sono determinate dai rapporti gerarchici di dominanza sociale. Quindi un individuo subordinato, la cui presenza non è sempre accettata dai membri più dominanti, avrà meno possibilità di apprendere socialmente che non altri individui di rango superiore, laddove il meccanismo di trasmissione sociale di informazione richiede la copresenza (come nel local enhancement o nello stimulus enhancement). Mediante una analisi comparativa è possibile verificare l’importanza di tali dinamiche anche nella nostra specie.

Cultura animale e cultura umana

Due possono essere considerati i fattori fondamentali che portano a un fenomeno culturale: un processo di apprendimento e la trasmissione delle conoscenze acquisite. Un nuovo fenomeno culturale è generato da un’innovazione comportamentale che può essere rappresentata sia dalla soluzione di un nuovo problema, sia da una nuova soluzione a un problema conosciuto. L’evoluzione culturale è caratteristica della specie umana, ma è ormai accettato il fatto che diverse forme di apprendimento culturale esistono anche negli animali non umani. In questo senso, è stata fondamentale la scoperta, compiuta da studiosi giapponesi alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, del lavaggio delle patate dolci nell’acqua di mare da parte di una popolazione di macachi giapponesi (Macaca fuscata) nell’isola di Koshima. Questo comportamento, messo in atto per la prima volta da una giovane femmina particolarmente creativa, si è propagato ad altri membri della popolazione mediante processi di apprendimento sociale. Una differenza fondamentale tra la cultura degli animali non umani e quella degli umani è che la cultura umana è di tipo cumulativo: cioè, spesso una particolare innovazione è il risultato di una serie di innovazioni che si accumulano nel tempo. Nel caso degli altri animali un fenomeno del genere è invece molto raro. Un’altra differenza fondamentale fra la cultura umana e quella degli altri animali è che la prima si basa fondamentalmente sull’insegnamento attivo di nuovi moduli comportamentali, laddove negli altri animali tale modalità si verifica molto raramente.

Tradizioni culturali in animali non umani

Le tradizioni culturali sono il risultato di fenomeni di apprendimento sociale. Il punto di vista per cui tale fenomeno comportamentale sarebbe proprio solo della specie umana è ormai sempre meno condiviso. Quindi oggi si possono ricercare negli animali a noi più vicini le radici evolutive del nostro modo di fare e diffondere cultura. Gli studiosi del comportamento animale, specialmente del comportamento dei primati non umani, sono riusciti a tracciare vere e proprie mappe che riguardano la presenza di tradizioni culturali locali in diverse popolazioni di animali, e forse il caso più esemplare è quello degli scimpanzé. Per questa specie sono state documentate tradizioni culturali locali riguardo all’utilizzo di strumenti per procacciarsi il cibo. Per es., diverse popolazioni africane di scimpanzé, a parità di condizioni ambientali e avendo a disposizione gli stessi materiali, utilizzano in maniera diversa piccoli rami da inserire nei termitai per catturare questi insetti. Questi modi differenti sono tramandati socialmente di generazione in generazione, e caratterizzano quella data popolazione. Tradizioni culturali in popolazioni animali non umane possono riguardare anche aspetti della vita sociale e altre categorie comportamentali.

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