Comuni e civiltà comunali

Dizionario di Storia (2010)

Comuni e civiltà comunali

Jean-Claude Maire Vigueur

Incaricati di amministrare le nostre città e il territorio circostante, i Comuni di oggi incidono in modo piuttosto notevole sulla qualità della nostra vita quotidiana ma non verrebbe alla mente di nessuno parlare di civiltà comunale per qualificare l’insieme di valori e di acquisizioni che nel campo della politica, dei rapporti sociali, del benessere materiale e della cultura in particolare, caratterizzano le nostre società, perlomeno nel mondo occidentale. Di fatto, l’espressione di «civiltà comunale» è stata coniata dagli storici in riferimento a un periodo ben preciso della storia dell’Italia medievale, corrispondente ai secc. 12°-14°, quando le città dell’Italia centrosettentrionale si sono dotate di una forma di autogoverno, il Comune appunto, che si è rapidamente appropriato di tutti i poteri al punto di diventare, nel giro di un secolo, l’unica autorità politica in grado di operare sia all’interno sia fuori della città, su un territorio equivalente più o meno a quello delle nostre attuali province. Il Comune in sé non è una peculiarità della sola Italia del Nord e del Centro. Anche in Francia, nei Paesi Bassi, nella Penisola Iberica, in Germania e nell’Italia meridionale numerose città hanno cercato di emanciparsi dai re, principi o signori che le amministravano e di dotarsi di organi di autogoverno, ma non sono mai riuscite né a raggiungere quella pienezza di potere che caratterizza il Comune dell’Italia centrosettentrionale né a estendere la loro autorità fuori dalla cerchia delle mura cittadine. Incapacità le cui ragioni sono da cercare, almeno in parte, nel fatto che non possedevano, in partenza, alcune delle caratteristiche, prevalentemente di natura economica e culturale, che sarebbero state poi alla base della civiltà comunale.

È dunque un ben determinato sistema politico che costituisce il carattere più saliente della civiltà comunale o perlomeno quello di più immediata visibilità. Lungo tutto l’arco del periodo comunale, vale a dire dagli ultimi anni dell’11° sec. per le città più precoci, fino ai primi decenni del 15° sec. per quelle rimaste più a lungo fedeli al modello comunale, tale sistema ha ovviamente conosciuto profonde trasformazioni la cui cronologia cambia da città a città. Gli storici sono tuttavia d’accordo nel distinguere tre grandi fasi nell’evoluzione del regime comunale. La prima fase corrisponde più o meno al sec. 12° e si caratterizza dall’esistenza, al vertice dell’apparato comunale, di un collegio di ufficiali, i consoli, che esercitano quello che verrebbe chiamato oggi il potere esecutivo. Segue per un po’ più di mezzo secolo una fase più breve durante la quale il Comune affida ogni anno il governo della città a un ufficiale forestiero chiamato podestà. Tale ufficiale non scompare durante la terza fase che inizia a partire dalla metà del 13° sec. ma perde le sue prerogative più importanti a profitto di un collegio di magistrati di origine locale; chiamati in vari modi a seconda delle città (priori, anziani, gonfalonieri ecc.), questi magistri sono designati o da organismi professionali – le corporazioni o arti – o da associazioni popolari che raggruppano i cittadini in funzione di criteri di natura principalmente territoriale. Al di là tuttavia di queste trasformazioni che riguardano i vertici dell’apparato istituzionale, si verificano altri cambiamenti, sicuramente più importanti, che conducono gradualmente all’elaborazione di un sistema politico radicalmente diverso da tutto ciò che esisteva allora in Occidente all’interno delle monarchie, delle signorie o di qualsiasi altra forma di dominazione. Semplificando le cose al massimo, credo si possano ridurre a tre punti le principali caratteristiche del sistema politico dei Comuni italiani.

1. L’esercizio del potere e la competizione per il potere si debbono attuare e svolgere esclusivamente sul terreno delle istituzioni. Cose che ci sembrano naturali oggi, ma che erano in totale contrasto con le concezioni del potere vigenti all’epoca delle signorie e delle monarchie feudali.

2. L’esercizio del potere è una prerogativa esclusiva dei cives, ossia di quella parte della popolazione cittadina che beneficia dei diritti politici. È vero che nelle città italiane come nell’Atene classica, non tutti gli abitanti della città possiedono tali diritti ma si tratta tuttavia, soprattutto con l’avvento dei regimi popolari, dopo la metà del 13° sec., di una larga fetta della popolazione. Per di più, non solo i cives sono chiamati a partecipare alle assemblee e ai consigli dove vengono elaborate le regole della vita collettiva, comprese quelle che presiedono all’esercizio del potere, ma è anche dalle loro fila che proviene la quasi totalità del personale politico e amministrativo incaricato di far applicare queste regole.

3. Ogni magistrato, anche i detentori della più piccola parcella di autorità pubblica, deve obbedire a regole ben precise e lasciare tracce scritte del suo operato, in modo che possa essere oggetto di controllo e di verifica. Ne risulta, soprattutto a partire dalla metà del 13° sec., la produzione in ogni Comune di un’enorme massa di scritture amministrative e il ricorso a una nuova forma di documento, il registro, che si sostituisce ai singoli fogli di pergamena finora utilizzati per conservare la memoria degli atti giuridici.

L’elaborazione di questo nuovo modello di governo e di convivenza civile, molto più complesso nelle sue strutture e nelle sue modalità di funzionamento di quanto si possa esporre in poche righe, è stata un’impresa di lunghissima durata il cui esito finale coincide più o meno con l’arrivo al potere, dopo la metà del 13° sec., del popolo, ossia dei ceti sociali più impegnati nelle attività commerciali, bancarie e artigianali, che contraddistinguono l’economia delle città italiane di quel periodo. Per gran parte del periodo consolare, l’esercizio del potere rimane per esempio monopolizzato da un piccolo numero di grandi famiglie, le quali continuano per un lungo periodo a considerare la violenza come un modo legittimo di affermazione della propria superiorità. Ci sarebbe poi molto da dire sulla capacità degli stessi regimi di popolo di mettere in pratica il proprio modello di governo. In molte città dell’Italia comunale, la seconda metà del 13° sec. è segnata dallo scatenarsi di lotte di fazioni che i regimi di popolo sono il più delle volte incapaci di fermare quando non vi prendono direttamente parte, andando fino a escludere dal sistema politico, se non addirittura a espellere dalla città, un numero talvolta cospicuo di cittadini. La crisi del sistema comunale risulta in larga misura dall’incapacità dei suoi dirigenti di rispettare le proprie regole di funzionamento.

Ciò non toglie che il periodo comunale sia stato da ogni punto di vista un momento di straordinario dinamismo grazie al quale le città dell’Italia centrosettentrionale hanno compiuto in numerosi campi enormi progressi le cui tracce sono spesso ancora ben visibili nei paesaggi. Durante la maggior parte del periodo comunale, le città hanno per esempio beneficiato di una impetuosissima crescita demografica che ha moltiplicato per tre, quattro o cinque la cifra dei loro abitanti. Tutte queste città hanno così raggiunto nel corso del sec. 14° un volume di popolazione e un’espansione territoriale che sarebbero stati superati solo nella seconda metà del 15° sec. Per cinque secoli le città dell’Italia centrosettentrionale conservarono gran parte delle strutture materiali ereditate dal periodo comunale e usufruirono della vastissima gamma di monumenti e di infrastrutture realizzati dai regimi comunali, quali le cinte murarie, i sistemi di approvvigionamento idrico, i canali, i ponti, i mercati, i granai, gli ospedali e via di seguito. Lo stesso si può dire dei lavori effettuati nel territorio per la bonifica delle terre, la sistemazione dei fiumi e la costruzione di una nuova rete di comunicazione, realizzazioni che non conobbero che pochi miglioramenti prima della rivoluzione industriale, mentre le strutture agrarie e i paesaggi rurali nati nel corso dei secc. 13° e 14°, sotto l’impulso di proprietari cittadini desiderosi di incrementare la resa delle loro terre, sussistettero intatti o quasi fino alla Seconda guerra mondiale. È vero che tutto questo è anche il frutto di un prodigioso balzo in avanti della produzione e degli scambi, che portò nelle casse delle città comunali una massa di ricchezze infinitamente superiore a quelle di qualsiasi altra città o regno dell’Occidente. Ma c’è modo e modo di spendere le ricchezze e il gran merito dei dirigenti comunali, ciò che, insieme con la modernità del sistema politico, costituisce l’elemento di maggior spicco della civiltà comunale, è di non aver dissociato il bello dall’utile e di aver considerato la decorazione e la bellezza dei palazzi, delle fontane, delle porte della città e più generalmente di tutte le opere realizzate per rispondere ai bisogni della popolazione, come qualcosa di non meno necessario al benessere della collettività della pura e semplice funzionalità di tali opere. A quell’esigenza di unire il bello all’utile i dirigenti comunali non giunsero tuttavia che al termine di un lungo processo di maturazione ideologica ed è solo nella seconda metà del 13° sec., con l’avvento dei regimi di popolo, che i comuni si sostituirono alla Chiesa come principali committenti di opere artistiche e che il decoro della città divenne per i dirigenti comunali uno degli obiettivi fondamentali della propria azione. Ce ne furono ovviamente altri, particolarmente nel campo della cultura, che tutti insieme contribuirono a fare del periodo comunale uno dei più brillanti e più fecondi di tutta la storia d’Italia. Come ci ricorda, se ce n’è bisogno, l’opera di Dante, lui stesso puro prodotto della civiltà comunale.

Si veda anche

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

CATEGORIE