Comunismo

Dizionario di Storia (2010)

comunismo


Dottrina che, sulla base delle teorie di Marx ed Engels, propugna un sistema sociale nel quale la proprietà privata dei mezzi di produzione sia sostituita dalla loro socializzazione, la gestione e distribuzione dei beni sia esercitata collettivamente dall'intera società, e l’economia sia organizzata attraverso un piano che superi l’anarchia del mercato. Più in generale si intende l'insieme dei movimenti, dei partiti e dei sistemi politici che hanno fatto propria tale dottrina a partire dal sec. 19°.

Il comunismo di Marx ed Engels

Sebbene prima del c. moderno, vi fossero stati dei precedenti teorici e pratici di stampo comunistico (dal c. primitivo a quello antico; da T. More e T. Campanella al socialismo utopistico di Fourier, Cabet, Owen, Blanqui e Saint-Simon; dalla Congiura degli eguali di Babeuf e Buonarroti al movimento cartista), in senso proprio il c. prende le mosse dal socialismo scientifico di K. Marx e F. Engels. Questi ultimi, nel Manifesto del partito comunista (1848), partendo dal presupposto che la storia è storia di lotte di classi ed è legata alla continua dialettica tra sviluppo delle forze produttive e corrispondenti rapporti sociali, concepirono il c. come conseguenza dello sviluppo e delle contraddizioni della società capitalistica, la quale promuoveva un enorme progresso della produzione, ma al tempo stesso allargava la polarizzazione tra una sempre più ristretta élite di detentori dei mezzi di produzione e la massa crescente dei lavoratori salariati; di qui il verificarsi di crisi economiche sempre più gravi e la necessità di una rivoluzione comunista, la quale avrebbe sostituito la «dittatura della borghesia» con la «dittatura del proletariato», ossia col dominio della larga maggioranza, che avrebbe instaurato la proprietà collettiva dei mezzi di produzione e di scambio. Distruggendo i vecchi rapporti sociali, il proletariato avrebbe abolito anche «le condizioni d’esistenza dell’antagonismo di classe», per cui liberando se stesso avrebbe liberato l’intera umanità; in tal senso Marx ed Engels parlano della classe operaia come «classe generale». Attraverso una fase di transizione (il socialismo), si sarebbero poste le basi per il c., ossia per una società in cui «il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti» e in cui da ciascuno viene dato secondo le sue possibilità e a ciascuno si dà secondo i suoi bisogni. Questi temi furono ampiamente discussi nella prima Internazionale, in cui la lotta politica e teorica tra il c. di Marx e l’anarchismo di Bakunin si concluse in favore del primo (1866-69). Nel 1870 una prima esperienza di autogoverno popolare di stampo comunistico si realizzava nella Comune di Parigi.

Il «comunismo storico» novecentesco

Benché il pensiero marxiano preconizzasse la rivoluzione socialista come effetto del massimo sviluppo delle forze produttive capitalistiche, storicamente il c. trovò le sue prime realizzazioni in un paese arretrato come la Russia. Il sorgere del «c. storico» novecentesco è legato peraltro alla profonda crisi che colpì la seconda Internazionale allo scoppio della Prima guerra mondiale, allorché l’«internazionalismo proletario» lasciò il campo allo schierarsi dei partiti socialisti ciascuno col proprio governo. Nel movimento socialista emerse allora un’ala sinistra, il cui leader principale fu V.I. Lenin, che già in Che fare? (1902) aveva elaborato la teoria del partito rivoluzionario e nel 1904 aveva guidato la frazione bolscevica del socialismo russo nel costituirsi in partito. Allorché dunque, nel febbraio 1917 rinacquero i soviet di operai, contadini e soldati, e iniziò la Rivoluzione russa, Lenin tornò in patria dall’esilio e sostenne la necessità di trasformare il movimento in rivoluzione socialista, saltando la fase democratico-borghese. In Stato e rivoluzione elaborò la teoria dello Stato-Comune, e sotto la sua guida i bolscevichi portarono a termine la Rivoluzione d’ottobre. I primi decreti del nuovo governo riguardarono la pace immediata, l’abolizione dei latifondi, il controllo operaio sulla produzione, il passaggio del potere ai soviet. All’inizio del 1918, l’ondata rivoluzionaria si era già espansa in quasi tutta la Russia, e anche a Berlino e Vienna si costituivano dei soviet. K. Kautsky, intanto, accusava i bolscevichi di giacobinismo, suscitando la replica di Lenin. Ma critiche furono avanzate anche da R. Luxemburg, che, pur d'accordo sul fine rivoluzionario, dissentiva sul primato del partito. Intanto la presenza delle truppe di 19 paesi stranieri al fianco delle armate bianche acuì la guerra civile nella Russia sovietica, imponendo le accelerazioni del «c. di guerra», da cui Lenin deciderà di recedere, avviando un percorso di transizione più graduale, col lancio nel 1921 della Nuova politica economica (NEP). Per i bolscevichi la rivoluzione mondiale era iniziata in Russia in quanto «anello debole della catena imperialista», ma era destinata ad allargarsi, e la sua vittoria nei Paesi più avanzati avrebbe consentito lo sviluppo della stessa Russia sovietica. Occorreva quindi creare ovunque partiti comunisti, che rompessero col riformismo e portassero avanti l’ondata rivoluzionaria. Nel marzo 1918 si costituì dunque la terza Internazionale (➔ Comintern). Ma il fallimento della rivoluzione in Occidente, e in particolare in Germania (repressione dei moti spartachisti di K. Liebknecht e R. Luxemburg, 1919; sconfitta dell’azione del marzo 1921 e dei moti del 1923), indusse i comunisti russi ad avviare l’esperienza del «socialismo in un solo paese», al termine di un aspro dibattito in cui a tale opzione, sostenuta da J.V. Stalin, si era contrapposta la linea della «rivoluzione permanente» di L.D. Trotzkij. La «scommessa» sulla costruzione del socialismo in Russia fu affidata all'industrializzazione e alla collettivizzazione delle terre, realizzate a tappe forzate. N. Bucharin sostenne la necessità di un processo di transizione più graduale, che intanto lasciasse margini all’iniziativa privata dei contadini. Ma prevalse la linea di Stalin, cosa a cui seguì il rapido sviluppo dell’URSS, ma anche il crearsi di gravi distorsioni nella società e nel sistema politico, fino ai processi e alle «grandi purghe» del 1936-38. Intanto partiti comunisti si sviluppavano nel mondo, sotto la guida del Comintern ma anche seguendo vie peculiari: tipico il caso del partito cinese guidato da Mao Zedong, protagonista di un lungo percorso rivoluzionario; ma significativo anche il ruolo dei comunisti italiani, che con A. Gramsci svilupparono un’acuta riflessione sulla transizione in Occidente (teoria dell’egemonia) e con P. Togliatti contribuirono alla svolta dei fronti popolari (1935). Con la Seconda guerra mondiale, la vittoria sul nazifascismo col ruolo determinante dell’URSS determinò una nuova fase espansiva del movimento; si costituì un vasto fronte di paesi di orientamento comunista nell’Est europeo e di partiti comunisti nell’area occidentale, cui si aggiunse la vittoria della rivoluzione in Cina e il sorgere della Repubblica popolare guidata da Mao (1949). Il c. inoltre era ormai largamente diffuso nel mondo della cultura, annoverando tra i suoi sostenitori intellettuali e artisti quali B. Brecht, R. Alberti, P. Neruda, N. Hikmet, P. Picasso, R. Guttuso ecc. Intanto il Comintern era stato sciolto (1943) e il collegamento tra partiti comunisti affidato al Cominform e a periodiche conferenze internazionali, mentre il «campo socialista» si dotava di strutture di coordinamento economico (Comecon) e militare (➔ Patto di Varsavia). Si diffondeva inoltre il «c.-decolonizzazione», legato al processo di liberazione dei popoli indotto dalla crisi del colonialismo. Nel 1959 la rivoluzione, guidata da F. Castro e E. Che Guevara, trionfava a Cuba; in Indonesia cresceva la presenza comunista nel governo di Sukarno. In Europa orientale, le «democrazie popolari», che in teoria avrebbero dovuto tentare vie diverse al socialismo, tendevano invece a riprodurre il modello sovietico, a eccezione della Jugoslavia, che avviava con J.B. Tito l’esperienza dell’autogestione e del «socialismo di mercato». Intanto, morto Stalin (1953), elementi di crisi erano emersi nel 1956, prima col 20° Congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica, poi coi moti di Poznań e la rivolta di Budapest. La «destalinizzazione» e la coesistenza pacifica avviate da N. Chruščëv suscitavano inoltre le diffidenze di Mao; a partire dal 1960 iniziò dunque la polemica cino-sovietica, col tentativo cinese di costituire una leadership alternativa al «revisionismo» sovietico e la creazione di partiti «marxisti-leninisti» in molti paesi. La rivoluzione culturale (1966) accentuò questa posizione, mentre la proposta togliattiana di «unità nella diversità» rimaneva inascoltata. Nel 1968 l’esperienza del nuovo corso cecoslovacco guidato da A. Dubček veniva bloccata dall’intervento del Patto di Varsavia; dal canto loro, i comunisti vietnamiti, guidati da Ho Chi Minh, reggevano il confronto militare con gli USA, giungendo infine alla vittoria nel 1975. Intanto la messa in discussione del modello sovietico – che con L. Brežnev viveva una fase di stagnazione – trovava espressione, oltre che nel crescere del dissenso interno ai Paesi socialisti, nell’«eurocomunismo» di alcuni partiti comunisti europei (Partito comunista italiano in primo luogo). Alla difficoltà dei Paesi socialisti, innanzitutto economica (tanto che alcuni di essi caddero nella spirale prestiti/debito), tentò di rispondere con qualche imprudenza la perestrojka di M.S. Gorbačëv; la crisi però precipitava, complici i rinati nazionalismi, nella disarticolazione dell’economia e dello Stato sovietico, oltre che del sistema di alleanze dell’URSS, sfociando nel crollo del muro di Berlino (1989) e nella dissoluzione dei Paesi socialisti dell’Est europeo e della stessa Unione Sovietica (1991). Il crollo chiudeva un’intera fase storica. Tuttavia nel mondo restano numerosi partiti e movimenti (e taluni Stati) che tuttora si richiamano alla prospettiva del comunismo.

Si veda anche Il comunismo

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