Comunità

Dizionario di filosofia (2009)

comunita


comunità

Termine entrato nel linguaggio scientifico sul finire del 19° sec., grazie al sociologo tedesco Tönnies (➔). Ha assunto dapprima un significato valutativo di tipo positivo, andando a indicare – in aperta contrapposizione con alcune caratteristiche della società moderna – una forma di vita collettiva caratterizzata da profondi vincoli di appartenenza, fiducia e dedizione reciproca. Nella sociologia successiva, a partire da Weber, il termine ha assunto invece un significato descrittivo, indicando un tipo di relazione sociale presente in ogni tipo di società, ma in genere ristretto alla dimensione locale. La connotazione positiva è stata invece ripresa, sul finire del 20° sec., da alcune correnti filosofiche critiche verso il paradigma individualistico della modernità liberale: il neocomunitarismo (➔) anglo-americano, l’etica della comunicazione di Apel e Habermas e l’ontologia della c. di J.L. Nancy.

Comunità e società

Con il suo Gemeinschaft und Gesellschaft (1887; trad. it. Comunità e società) Tönnies introduce nelle scienze sociali una nuova ti­pologia concettuale, al fine di comprendere le caratteristiche del cambiamento sociale in atto. Egli è tuttavia condizionato dalla ‘riscoperta della c.’ diffusa tra gli esponenti della cultura romantica, che vedono nella società moderna una forma di vita collettiva incentrata sull’individualismo egoistico e sul materialismo economicistico. Già Schleiermacher, per es., aveva parlato della c. come di una forma divita collettiva superiore, perché caratterizzata daun legame organico e intrinseco tra i suoi membri. Tönnies prende le mosse dall’analisi del linguaggio comune, dove la distinzione c./società emerge chiaramente: per indicare il matrimonio si parla di «c. domestica» o «c. di vita» e non certo di «società di vita», giacché questa «sarebbe una contraddizione in termini»; così come si è soliti parlare di «c. di luogo, di costume, di fede – ma [di] società di profitto, di viaggio, delle scienze». Ogni «convivenza confidenziale, intima, esclusiva – conclude Tönnies – viene intesa come vita in c.; la società è invece il pubblico, è il mondo. In c. con i suoi una persona si trova dalla nascita, legata a essi nel bene e nel male, mentre si va in società come in terra straniera». Sul piano sociologico ciò significa che le relazioni tra volontà umane possono prendere due forme: quella della vita reale organica (e questa è l’essenza della c.) o quella della formazione ideale meccanica (e questa è l’essenza della società). La c. deve quindi essere intesa «come un organismo vivente, e la società, invece, come un aggregato e prodotto meccanico». Esempi di legame comunitario sono i rapporti familiari (c. fondata sui vincoli di sangue), di vicinato (c. di luogo) e di amicizia (c. spirituale), ossia tutti quei rapporti in cui non si persegue uno scopo determinato, ma si sperimenta un sentimento di appartenenza reciproca e una spontanea volontà di collaborazione. La c. non ha una base contrattuale e non può essere ‘costruita’: essa fiorisce «da germi dati, quando le [...] condizioni sono favorevoli»; al suo interno si forma una gerarchia naturale basata sulle differenze di età, forza e saggezza, ma domina un atteggiamento di benevolenza e rispetto reciproci. Società, al contrario, significa emancipazione dell’individuo da qualsiasi aggregazione (a cominciare dalla famiglia), carattere convenzionale e contrattuale di ogni rapporto, stato di tensione nei rapporti tra i singoli come condizione normale. Sebbene l’opera di Tönnies abbia esercitato un profondo influsso, i sociologi successivi – da Weber a T. Parsons – hanno attenuato la rigida contrapposizione tra c. e società, vedendo in esse due tipi di relazioni sociali tra i quali non si può stabilire alcun ordine di precedenza, né sul piano dei valori, né su quello storico-sociale. Nelle società moderne relazioni di tipo sociale e relazioni di tipo comunitario coesistono: mentre le prime hanno un raggio di estensione molto ampio, le seconde si realizzano in genere in ambiti locali. Ed è proprio in questa accezione localistica che il termine c. viene prevalentemente usato dalla sociologia e dall’antropologia contemporanee.

Tra etica del discorso e ontologia

La ‘riabilitazione della filosofia pratica’, avviata nell’area culturale tedesca negli anni Sessanta del Novecento, ha contribuito a restituire centralità al tema della c. come luogo in cui l’individuo può realizzare le sue capacità morali e le sue virtù politiche. La svolta linguistica, dal canto suo, ha condotto a interpretare la c. come c. di parlanti, non fusa nell’identità e coesa attorno a una nozione di bene (come avviene nel comunitarismo), ma costituita sulle leggi dell’argomentazione razionale e ordinata in base alla giustizia. Di qui l’esigenza – sviluppata da Apel (➔) e da Habermas (➔) – di elaborare un’etica della comunicazione o del discorso: per Apel è impossibile pensare e decidere in maniera significativa (dotata di un senso condivisibile) senza riconoscere, almeno implicitamente, le regole dell’argomentazione come regole, appunto, di una c. della comunicazione. Quanto ad Habermas, l’etica del discorso si deve fondare sul principio secondo cui possono pretendere validità solo quelle norme che potrebbero trovare il consenso di tutti i soggetti coinvolti quali partecipanti a un discorso pratico (volto, cioè, a orientare l’agire umano). Secondo il filosofo francese J.-L. Nancy (La communauté désoeuvrée, 1990; trad. it. La comunità inoperosa) la c. deve invece essere pensata come il problema cruciale dell’ontologia, cioè come qualcosa che riguarda costitutivamente l’esistenza, prima e al di là del logocentrismo. L’essere è ‘essere-con’, non nel senso che il ‘con’ si aggiunge all’essere, ma nel senso che il ‘con’ è «al cuore dell’essere», il quale è rapporto e non assoluto, così come l’esistere è un ‘essere insieme’.

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