CONCETTO

Enciclopedia Italiana (1931)

CONCETTO (gr. λόγος, ὅρος, ἔννοια; lat. conceptus, notio, terminus, idea; ied. Begriff)

Vito FAZIO-ALLMAYER
Giovainni BUSNELLI
Giacomo BUCHI

Nel termine concetto sono originariamente compresi due sensi: l'attività della concezione (che si contrappone alla passività del senso) e il risultato di quest'atto, il concepito. Attribuendo a Socrate la scoperta del concetto, si mette in evidenza la sua opposizione a quella gnoseologia sofistica che riduceva la conoscenza a sensazione. Ma poiché il reale è natura (per i Greci in genere), il concetto socratico si riduce a trovare mediante l'analisi l'essenza delle cose. Del concetto così si mette in prima linea il contenuto (concepito). Su questa via Platone trasforma il concetto socratico nell'idea, concepita come reale in sé e cioè come quella da cui nasce la realtà delle cose e la loro rappresentazione. Il concetto platonico quindi non si può ottenere per astrazione ed è innato. Le idee platoniche sono universali oggettivi che diventano in realtà particolari in quanto si delimitano l'una con l'altra, la loro unità essendo poi data in una terza idea che le abbraccia escludendone le differenze. Il concetto socratico è per definizione, cioè assegnazione dei limiti di ciascun ente in modo da distinguerlo da tutti gli altri; il concetto platonico per divisione, definendosi ciascuno nella scala delle idee col suo differenziarsi in un'idea comune. Né Socrate, né Platone distinguono bene il concetto dalla rappresentazione, onde l'incertezza di ciò di cui si dia concetto. Aristotele, chiarendo meglio quanto abbiamo attribuito a Socrate e Platone, determina che il concetto è la definizione dell'essenza. Esso è dunque dalla parte del soggetto definizione, ossia differenziazione del contenuto spirituale e sua distinzione, dalla parte dell'oggetto essenza, ossia ciò che determina l'esistenza distinta di ciascun ente. Il concetto è universale, in quanto comprende i molti sotto di sé, è necessario, in quanto il suo contenuto è delimitato dall'ambito degli altri concetti. Ha una comprensione, in quanto contiene i caratteri che determinano l'essenza da lui definita, e un'estensione, in quanto dal suo contenuto si possono formare distinti concetti.

Col sorgere della filosofia moderna, del concetto comincia ad esser messo in evidenza l'aspetto della concezione. Il cogito e non il cogitatum è il punto di partenza di Cartesio. Spinoza chiama concetto quod mens format, propterea quod res est cogitans (Eth., II, def. 3), e aggiunge che la percezione indicare videtur mentem ab obiecto pati; at conceptus actionem mentis exprimere videtur. In questa definizione comincia a manifestarsi l'identità di definizione ed essenza. Il concetto è la stessa essenza pensante, quindi l'unità della ratio essendi e della ratio cognoscendi. Questa identità, che in Spinoza è data solo nella sostanza assoluta (Dio), si ritrova in Kant nella "sintesi a priori", il vero concetto kantiano. Essa, come unità del necessario e universale (categoria in atto) e del contingente (particolare, sensibile, dato), mentre non fa dell'universale un astratto, non fa i particolari estranei e contrapposti all'universale, ma li unifica nel processo vivo dell'esperienza. La chiarezza del concetto come sintesi a priori è raggiunta da Hegel nella sua dottrina dell'idea, unità assoluta di concezione e concetto. Il concetto in tal modo si distingue definitivamente dai concetti empirici (astratti dal sensibile) e dagli schemi che intendono fissare in forme chiuse il divenire dell'esperienza. Questa distinzione è stata valorizzata dal neo-hegelismo italiano.

Secondo la dottrina scolastica, poiché la cosa esteriore intesa da noi non esiste nel nostro intelletto secondo la propria realtà, bisogna che in essa vi sia la sua immagine (species), per la quale l'intelletto la intende. Pertanto il concetto nella mente è l'immagine o l'esemplare della sostanza della cosa conosciuta (intentio intellecta), ed è ciò che l'intelligenza concepisce in sé stessa intorno all'oggetto. L'immagine ricevuta nell'intelletto non è ciò che (quod) viene inteso, ma ciò con cui (quo) viene inteso quando intendiamo. Altrimenti tutte le arti e le scienze, che si aggirano sugli oggetti che intendiamo, non si occuperebbero che delle idee e dei concetti come esistenti nell'intelletto: cosa che fanno solo la logica, la psicologia e la metafisica.

Quindi il concetto si distingue in obiettivo, che è l'essenza reale rispondente nell'oggetto; e in formale, che è quella similitudine e forma accidentale, che perfeziona l'intelletto come suo termine immanente. Il concetto obiettivo può essere universale e numericamente unico; ma non è necessario che sia uno di numero il concetto formale, né l'atto o l'abito della scienza di più individui che intendono. Ma affinché sia unico l'oggetto inteso, bisogna che l'imagine sia di una medesima cosa; il che risulta possibile, anche se i concetti formali sono diversi di numero; perché niente invero impedisce che di una medesima cosa si facciano più imagini differenti in diversi uomini, individuate allo stesso modo dai diversi intelletti.

Di qui si vede come i nostri concetti obiettivi non possono essere a priori, cioè indipendenti dalla realtà delle cose esteriori, ma a posteriori, cioè dipendenti dall'esperienza delle cose reali, nelle quali si considera ciò che è comune a tutte, e non ciò che è particolare a ciascuna; dacché sotto il senso deve cadere in qualche modo anche ciò che è universale: "Si autem ita esset quod sensus apprehenderet solum id quod est particularitatis (fenomeno), et nullo modo cum hoc apprehenderet universale (noumeno) in particulari, non esset possibile quod ex apprehensione sensus causaretur in nobis cognitio universalis" (S. Tommaso, Comm. Poster. Analyt., l. 2, lect. 20). Perciò nella dottrina tomistica il particolare non è estraneo all'universale e viceversa, né si oppongono tra loro; ma tutto il sapere si fonda sulla realtà conosciuta dal nostro intelletto positivamente attraverso i concetti obiettivi. Cfr. S. Tommaso, Contra Gent., l. 1, c. 53; l. 2, c. 75; l. 4, c. 11.

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