Concorso di norme e di reati. Principio di specialità e concorso apparente di norme

Libro dell'anno del Diritto 2012

Concorso di norme e di reati. Principio di specialita e concorso apparente di norme

Guido Piffer

Concorso di norme e di reati
Principio di specialità e concorso apparente di norme

In tema di concorso apparente di norme, oggetto di contrastanti orientamenti giurisprudenziali, le Sezioni Unite sono intervenute con due sentenze pronunziate in data 28.10.2010, che hanno preso decisamente posizione a favore del principio di specialità – inteso come rapporto logico-formale tra fattispecie astratte – quale unico criterio utilizzabile per verificare l’apparenza del concorso. Il Supremo Collegio ha così rifiutato sia l’orientamento che ai fini dell’accertamento del rapporto di specialità considera rilevante la valutazione del bene giuridico tutelato, sia l’orientamento che ritiene utilizzabili criteri di natura valutativa, quale ad esempio il principio di consunzione o assorbimento. La Corte ha così deciso le due questioni specifiche rimesse alla sua decisione: i reati di frode fiscale (artt. 2 e 8 d.lgs. 10.3.2000, n. 74) hanno carattere speciale, ai sensi dell’art. 15 c.p., rispetto al reato di truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640, co. 2, n. 1, c.p.); l’illecito amministrativo di cui all’art. 213, co. 4, c.d.s., che sanziona la condotta di circolazione abusiva con veicolo sottoposto a sequestro amministrativo, ha carattere speciale, ai sensi dell’art. 9 l. 24.11.1981, n. 689, rispetto al reato di sottrazione di cosa sequestrata (art. 334 c.p.).

La ricognizione. Due recenti sentenze delle Sezioni Unite in tema di concorso apparente di norme

Con due sentenze pronunciate all’udienza del 20.10.2010 le Sezioni Unite hanno deciso due controverse questioni in tema di concorso apparente di norme. La sentenza Cass., 20.10.2010, n. 1235/2011 (dep. il 19.1.2011, imp. Giordano) ha riconosciuto che le fattispecie che prevedono i reati di frode fiscale di cui agli artt. 2 e 8 d.lgs. 10.3.2000, n. 74 costituiscono fattispecie speciali rispetto al reato di truffa aggravata ai danni dello Stato di cui all’art. 640, co. 2, n. 1, c.p. e trovano dunque applicazione in luogo di quest’ultimo in forza dell’art. 15 c.p. La sentenza Cass., 20.10.2010, n. 1963/2011 (dep. il 21.1.2011, imp. Di Lorenzo) ha affermato il principio secondo il quale, in applicazione dell’art. 9 l. 24.11.1981, n. 689, la circolazione abusiva con veicolo sottoposto a sequestro amministrativo integra solo l’illecito amministrativo previsto dall’art. 213, co. 4, c.d.s., avente carattere speciale rispetto al reato di sottrazione di cose sequestrate di cui all’art. 334 c.p. Le due sentenze, le cui motivazioni appaiono tra loro complementari, hanno fornito l’occasione alle Sezioni Unite per un’articolata presa di posizione in ordine ai principi generali che regolano la materia del concorso apparente di norme.

La focalizzazione. Il criterio della specialità in astratto nell’interpretazione dell’art. 15 c.p. e dell’art. 9 l. 24.11.1981, n. 689

Nella questione decisa con la sentenza n. 1235/2011 veniva in considerazione l’interpretazione dell’art. 15 c.p.1, disposizione oggetto di radicali contrasti in dottrina, essendo controverso che cosa debba intendersi per «stessa materia», quale sia il reale contenuto del principio di specialità e se tale principio sia sufficiente a verificare l’apparenza del concorso o debba essere integrato da criteri diversi, di natura esplicitamente valutativa2. Questi contrasti interpretativi si sono da sempre riproposti nella stessa giurisprudenza delle Sezioni Unite, che ha così finito per presentare la gamma di tutte le interpretazioni prospettate in dottrina. Il risultato pratico di questa situazione di incertezza e contraddittorietà in ordine ai principi generali dell’istituto è stato quello di mettere a disposizione dei giudici – in una materia in cui esigenze di equità e giustizia sostanziale sono particolarmente accentuate – un’ampia gamma di criteri generali, tra i quali essi hanno potuto scegliere di volta in volta quello ritenuto più idoneo a giustificare la soluzione ritenuta più giusta. Proprio la consapevolezza di questa grave situazione di incertezza e di sostanziale elusione del principio di legalità sembra essere alla base della sentenza n. 1235/2011, la quale, con l’esplicito intento di puntualizzare i principi generali in tema di concorso apparente di norme e di superare ogni criterio di natura valutativa, ha criticato innanzitutto l’interpretazione della locuzione «stessa materia» come identità del bene giuridico tutelato dalle norme convergenti3, apparendo il criterio del bene giuridico non decisivo, di dubbia applicazione e non utilizzabile nel caso di concorso di norme non incriminatrici. La Corte ha ritenuto invece che tale locuzione vada intesa «come fattispecie astratta – ossia come settore o aspetto dell’attività umana che la legge interviene a disciplinare – e non quale episodio in concreto verificatosi, sussumibile in più norme, indipendentemente da un astratto rapporto di genere a specie tra queste»4. Abbandonato il criterio del bene giuridico ed in continuità con un analogo orientamento in tema di successione di leggi penali nel tempo5, le Sezioni Unite hanno ribadito che il criterio di specialità sancito dall’art. 15 c.p. deve intendersi in senso logico–formale, essendo configurabile «solo in presenza di un rapporto di continenza» tra le norme convergenti, verificabile «attraverso il confronto strutturale tra le fattispecie astratte rispettivamente configurate, mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie stesse». Per affermare l’esclusività del criterio logico della specialità in astratto, la Corte ha poi criticato l’orientamento che ritiene necessaria l’adozione anche del criterio di consunzione o assorbimento, tipico criterio valutativo, applicabile quando «lo scopo della norma che prevede un reato minore sia chiaramente assorbito da quello relativo ad un reato più grave, il quale esaurisca l’intero disvalore del fatto ed assorba l’interesse tutelato dall’altro, in modo che appaia con evidenza inammissibile la duplicità di tutela e di sanzione in relazione al principio di proporzione tra fatto illecito e pena, che ispira il nostro ordinamento »6. Con la sentenza in esame le Sezioni Unite hanno ripreso e confermato la critica a tale orientamento già mossa in una precedente sentenza7: oltre ad essere privo di fondamento positivo, detto criterio richiede giudizi di valore «tendenzialmente in contrasto con il principio di legalità ed in particolare con il principio di determinatezza e tassatività, facendo dipendere da incontrollabili valutazioni intuitive del giudice l’applicazione di una norma penale»; infatti, «un’incertezza incompatibile con il principio di legalità deriva anche dalla mancanza di criteri sicuri per stabilire quali e quante fra più fattispecie, pur ben determinate, siano applicabili». A conferma della necessità del rispetto del principio di legalità anche in questa materia le Sezioni Unite richiamano: l’art. 7 della CEDU; la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in tema di principi di accessibilità della norma violata e di prevedibilità della sanzione, riferibili anche alla norma «vivente» quale risulta dall’applicazione e dall’interpretazione dei giudici; la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea in tema di principi di certezza del diritto, di tutela del legittimo affidamento e di legalità delle pene. In piena continuità con i principi generali affermati dalla sentenza n. 1235/2011, imp. Giordano, la sentenza n. 1963, imp. Di Lorenzo, è anch’essa incentrata sull’analisi dell’art. 15 c.p., in quanto, pur venendo in considerazione un caso di concorso tra illecito penale e illecito amministrativo regolato dall’art. 9 l. n. 689/19818, le Sezioni Unite ritengono che entrambe le norme, malgrado alcune differenze testuali, facciano riferimento al principio di specialità, inteso come rapporto tra fattispecie tipiche astratte (diversamente dall’art. 15 c.p., l’art. 9 l. n. 689/1981 non prevede una clausola di riserva ed indica l’oggetto della convergenza della pluralità di norme con la locuzione «stesso fatto» e non «stessa materia», presente invece nell’art. 15 c.p.). La sentenza n. 1963/2011 ribadisce: che i criteri valutativi elaborati in tema di concorso apparente di norme (sussidiarietà, consunzione o assorbimento) si pongono in tendenziale contrasto con il principio di legalità; che la locuzione «stessa materia» va intesa come «stessa fattispecie astratta, stesso fatto tipico di reato» e non già come «stesso bene giuridico protetto»; che per l’art. 15 c.p. rileva non già la cd. specialità in concreto, ma la specialità in astratto, come rapporto di genere a specie tra norme. Proprio quest’ultimo punto è approfondito nella sentenza, che sotto questo profilo integra la sentenza n. 1235/2011, la quale non aveva esaminato le diverse ipotesi di specialità. La Corte si sofferma così sui concetti di specialità unilaterale per specificazione (quando una fattispecie specifica requisiti dell’altra fattispecie) e per aggiunta (quando una fattispecie aggiunge elementi diversi rispetto a quelli dell’altra fattispecie), nonché di specialità bilaterale o reciproca (che ricorre «quando l’aggiunta o la specificazione si verificano con riferimento sia all’ipotesi generale che a quella specifica»). La Corte precisa che «l’identità di materia si ha sempre nel caso di specialità unilaterale per specificazione, perché l’ipotesi speciale è ricompresa in quella generale; ciò si verifica anche nel caso di specialità reciproca per specificazione ... ed è compatibile anche con la specialità unilaterale per aggiunta ... e con la specialità reciproca parte per specificazione e parte per aggiunta ..., mentre l’identità di materia è invece da escludere nella specialità reciproca bilaterale per aggiunta nei casi in cui ciascuna delle fattispecie presenti, rispetto all’altra, un elemento aggiuntivo eterogeneo». S tabilire quale sia la norma speciale prevalente – osserva la Corte – è agevole nel caso di specialità unilaterale: è il caso in cui «tutti gli elementi della fattispecie c.d. generale siano ricompresi in quella c.d. speciale che ne prevede di ulteriori», mentre «nel caso di specialità bilaterale o reciproca, il problema è di meno agevole soluzione, proprio perché entrambe le fattispecie (ma potrebbero essere anche più di due) presentano, rispetto all’altra, elementi di specialità»; la Corte ricorda in proposito che «giurisprudenza e dottrina si rifanno ad indici diversi che possono così indicativamente riassumersi: - i diversi corpi normativi in cui le norme sono ricomprese …; - specialità tra soggetti ...; - la fattispecie dotata del maggior numero di elementi specializzanti. Nei casi di specialità reciproca spesso è la stessa legge a indicare quale sia la norma prevalente con una clausola di riserva ...»9.

2.1 L’applicazione dei principi generali A) Frode fiscale e truffa ai danni dello Stato

L’applicazione dei principi generali affermati in tema di concorso apparente di norme porta le Sezioni Unite, nella sentenza n. 1235/2011, a riconoscere l’applicabilità in via esclusiva delle fattispecie di frode fiscale (artt. 2 e 8 d.lgs. 10.3.2000, n. 74), in quanto speciali rispetto alla truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640, co. 2, n. 1, c.p.), salvo il caso in cui dalla condotta di frode fiscale derivi un profitto ulteriore e diverso rispetto all’evasione fiscale – quale l’ottenimento di pubbliche erogazioni –, essendo in tal caso configurabile il concorso fra frode fiscale e truffa, come già affermato dalle stesse Sezioni Unite in altra sentenza10. La Corte si sofferma innanzitutto sull’esame strutturale delle fattispecie: «il raffronto fra le fattispecie astratte evidenzia che la frode fiscale è connotata da uno specifico artifizio, costituito da fatture o altri documenti per operazioni inesistenti», né «si può far leva, per affermare la diversità dei fatti, sugli elementi danno e profitto, giacché questi dati fattuali di evento non possono trasformare una tale situazione di identità ontologica dell’azione in totale diversità del fatto. Per quanto riguarda l’evento di danno, esso è specificato nell’art. 1, co. 1, lett. d), d.lgs. n. 74/2000, che include nel ‘fine di evadere le imposte’ anche il fine di conseguire un indebito rimborso o il riconoscimento di un inesistente credito d’imposta, e il conseguimento di tale fine è posto come scopo della condotta tipica, cioè come caratterizzante l’elemento intenzionale e non rileva il suo conseguimento, in quanto il delitto di frode fiscale si connota come reato di pericolo o di mera condotta, perché il legislatore ha inteso rafforzare in tal modo la tutela, anticipandola al momento della commissione della condotta tipica, intendimento ulteriormente confermato dalla misura della sanzione, superiore (sia nel minimo che nel massimo) a quella prevista per il delitto di truffa aggravata»; e ancora: «lo stesso legislatore, peraltro, non considera irrilevante l’entità del profitto e del conseguente danno, posto che prevede una diminuzione della sanzione, parametrandola proprio ai suddetti elementi (artt. 2, co. 3, e 8, co. 3, d.lgs. n. 74/2000), con la conseguenza che ritenere la configurabilità in concorso della truffa aggravata significherebbe svuotare di ogni valenza giuridica le soglie sanzionatorie». Ad avviso della Corte queste considerazioni sono sufficienti «a rispondere alle obiezioni circa l’assenza nel reato di frode fiscale dei due elementi dell’induzione in errore e del danno al patrimonio dello Stato, che sono elementi essenziali per la configurazione del reato di truffa», ma aggiunge, sotto altro profilo, «che sia l’induzione in errore che il danno sono presenti nella condotta incriminata dal reato di frode fiscale, posto che alla presentazione di una dichiarazione non veridica si accompagna normalmente il versamento di un minor (o di nessun) tributo e genera, in prima battuta e nella fase di liquidazione della dichiarazione, un’induzione in errore dell’Amministrazione finanziaria e un danno immediato, quanto meno nel senso del ritardo nella percezione delle entrate tributarie». La maggior parte della motivazione della sentenza è tuttavia incentrata sulla dimostrazione che «la negazione del rapporto di specialità tra frode fiscale e truffa ai danni dell’Erario, si pone in contraddizione con la linea di politica criminale e con la ratio che ha ispirato il legislatore nella riforma di cui al D.Lgs. n. 74/2000». La Corte riconosce infatti una «generale specialità» delle previsioni penali tributarie in materia di frode fiscale, le quali, in quanto disciplinano condotte tipiche e si riferiscono ad un determinato settore di intervento della repressione penale, esauriscono la connessa pretesa punitiva dello Stato (e della Unione europea). Ricorda in proposito la Corte che con la riforma introdotta con il d.lgs. n. 74/2000 il legislatore ha inteso recuperare alla fattispecie penale tributaria il momento dell’offesa degli interessi dell’erario, abbandonando il modello del cd. «reato prodromico», caratteristico della precedente disciplina: ciò ha portato a focalizzare la risposta punitiva sulla dichiarazione annuale, negando rilevanza penale autonoma alle violazioni “a monte” della dichiarazione stessa. La dichiarazione annuale «fraudolenta» (art. 2 d.lgs. n. 74/2000), siccome non soltanto mendace, ma caratterizzata altresì da un particolare «coefficiente di insidiosità» per essere supportata da un impianto contabile o documentale per operazioni inesistenti, costituisce dunque la fattispecie criminosa ontologicamente più grave, mentre risulta autonomamente strutturata la fattispecie criminosa di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, finalizzata a consentire l’evasione altrui. Particolare rilievo sistematico, secondo la Corte, assumono poi nel d.lgs. n. 74/2000 l’art. 6 (che esclude la punibilità a titolo di tentativo dei delitti in materia di dichiarazione di tipo commissivo di cui agli artt. 2, 3 e 4) e l’art. 9 (che in deroga all’art. 110 c.p. esclude la configurabilità del concorso dell’emittente nel reato di dichiarazione fraudolenta commesso dall’utilizzatore ed il concorso dell’utilizzatore nel reato di emissione anche in caso di preventivo accordo). Se si escludesse dunque il rapporto di specialità tra la fattispecie penale tributaria e quella comune di truffa aggravata ai danni dello Stato, si utilizzerebbe quest’ultima ipotesi delittuosa (eventualmente anche nella forma del tentativo) per alterare, se non stravolgere, il sistema di repressione penale dell’evasione disegnato dalla legge, a fronte della scelta del legislatore che individua nella presentazione della dichiarazione annuale la condotta tipica e il momento di rilevanza penale della fattispecie di evasione, espressamente escludendo che la soglia di punibilità possa essere “anticipata”, ai sensi dell’art. 56 c.p., anche nel caso di accertamento di irregolarità fiscali compiute nel corso del periodo d’imposta. E ancora, con riferimento al reato di mera emissione di fatture per operazioni inesistenti, destinate alla eventuale utilizzazione da parte di soggetti terzi, la configurabilità di un concorrente delitto di truffa potrebbe portare, non solo ad eludere la norma che esclude che la punibilità possa essere anticipata ai sensi dell’art. 56 c.p., ma anche quella che impedisce la configurabilità di un concorso tra emittenti ed utilizzatori, in deroga all’art. 110 c.p. Argomenti che inducono a ritenere che il legislatore abbia escluso il concorso della frode fiscale con il delitto di truffa ai danni dello Stato si ricavano poi, secondo la Corte, dalla l. 27.12.2002, n. 289 (Legge finanziaria 2003), ed in particolare dal combinato disposto del co. 6, lett. c), dell’art. 8 («...il perfezionamento della procedura prevista dal presente articolo comporta … c) l’esclusione ad ogni effetto della punibilità per i reati tributari di cui al d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, articoli 2...») e del co. 12 dello stesso articolo («La conoscenza dell’intervenuta integrazione dei redditi e degli imponibili ai sensi del presente articolo non genera obbligo o facoltà della segnalazione di cui all’art. 331 c.p.p. L’integrazione effettuata ai sensi del presente articolo non costituisce notizia di reato»). Se infatti il legislatore non avesse escluso il concorso con la truffa, non avrebbe stabilito l’esonero dalla denuncia e non avrebbe espressamente disposto che l’integrazione effettuata «non costituisce notizia di reato» e d’altro canto, se si facesse rientrare la condotta del soggetto agente nella sfera di punibilità del delitto di truffa ai danni dello Stato, si avrebbe l’effetto di impedire il perseguimento della finalità della legge sul condono, che è quella di evitare costi all’Amministrazione finanziaria, invitando l’evasore a definire ogni pendenza con l’Erario, attraverso il pagamento di una somma di denaro predeterminata. In definitiva, osserva la Corte, qualsiasi condotta di frode al fisco (che lede anche gli interessi finanziari dell’UE in caso di frode in materia di IVA) «non può che esaurirsi all’interno del quadro sanzionatorio delineato dall’apposita normativa», poiché «il sistema sanzionatorio in materia fiscale ha una spiccata specialità che lo caratterizza come un sistema chiuso e autosufficiente, all’interno del quale si esauriscono tutti i profili degli interventi repressivi, dettando tutte le sanzioni penali necessarie a reprimere condotte lesive o potenzialmente lesive dell’interesse erariale alla corretta percezione delle entrate fiscali».

2.2 B) Illecito amministrativo di circolazione con veicolo sequestrato e reato di sottrazione di cosa sequestrata

Come già accennato, la sentenza n. 1963/2011 ha ritenuto che la contravvenzione amministrativa di cui all’art. 213, co. 4, c.d.s., che punisce l’abusiva circolazione di veicolo sottoposto a sequestro amministrativo, abbia carattere speciale rispetto al reato di cui all’art. 334 c.p.11 La Corte premette che l’unica condotta, tra quelle tipizzate nell’art. 334 c.p., per la quale può affermarsi una sovrapposizione con quella integrante l’illecito amministrativo, è la condotta di sottrazione, che può essere realizzata dalla sola amotio del veicolo, ferma restando la necessità che la sottrazione presenti carattere di offensività. La sentenza analizza poi gli elementi specializzanti di entrambe le fattispecie: sia il primo che il secondo comma dell’art. 334 c.p. prevedono dei reati «propri» che possono essere commessi esclusivamente dal custode o dal proprietario custode, mentre la condotta integrante l’illecito amministrativo previsto dall’art. 213, co. 4, c.d.s. può essere realizzata da «chiunque». A loro volta gli elementi specializzanti contenuti nell’art. 213, co. 4, c.d.s. «sono costituiti dalle circostanze che la norma si riferisce al solo sequestro amministrativo e che non ogni condotta prevista dall’art. 334 c.p. integra l’illecito amministrativo, ma solo la condotta di chi circola abusivamente». Esaurita l’analisi delle due fattispecie, la Corte, prima di passare al loro confronto per verificare il tipo di rapporto esistente tra le stesse, afferma che nel caso in esame si applica la sola violazione amministrativa prevista dall’art. 213 c.d.s., sulla base del seguente principio incentrato non solo sul criterio di specialità, ma anche sulla volontà del legislatore: «A meno che non risulti (da una previsione espressa o da ragioni logiche implicite o da altre considerazioni) che il legislatore abbia inteso affiancare la sanzione amministrativa a quella penale l’interprete deve privi legiare l’interpretazione che valorizza la specialità ritenendo la depenalizzazione della condotta in precedenza costituente reato che sia presa in considerazione dalla nuova normativa e, nel caso inverso, optando per la sola ipotesi penalmente sanzionata. A maggior ragione si impone l’applicazione del principio di specialità quando la violazione amministrativa, come nel caso in esame, costituiva precedentemente reato (la depenalizzazione è avvenuta in forza dell’art. 19, co. 5, d.lgs. 30.12.1999, n. 507) perché, in questo caso, è ancor più evidente l’intenzione del legislatore di affidare la disciplina del caso alle sole norme che disciplinano l’illecito amministrativo». Fatta questa digressione – che sembra evocare parametri di natura valutativa legati alla ricostruzione della volontà del legislatore – la Corte ritiene che nel caso di specie non ricorra un caso di specialità bilaterale o reciproca, ma di specialità unilaterale per specificazione: «Tutti gli elementi specializzanti qualificanti l’illecito sono contenuti nell’art. 213 c.d.s.: la circolazione abusiva e la natura amministrativa del sequestro. Si tratta di elementi specializzanti per specificazione perché entrambi sono già ricompresi nella fattispecie tipica dell’art. 334 c.p. e non si aggiungono al fatto descritto nella norma codicistica. Se la sottrazione si realizza anche con la sola amotio del veicolo questa condotta è prevista dalla norma del codice penale che, sotto il diverso profilo indicato, prevede espressamente anche il sequestro disposto dall’autorità amministrativa ». La Corte supera poi la possibile obiezione che l’illecito penale può essere commesso solo da un soggetto qualificato (proprietario e/o custode) – elemento che in precedenza la stessa sentenza aveva indicato come specializzante – con la discutibile affermazione che il soggetto attivo «chiunque» è elemento specializzante per aggiunta dell’illecito amministrativo: «c’è però, nell’art. 213, un ulteriore elemento specializzante: la circostanza che la violazione amministrativa possa essere commessa da ‘chiunque’ e questo elemento può essere ritenuto specializzante ‘per aggiunta’ (l’illecito può essere commesso – in aggiunta ai soggetti indicati nell’art. 334 c.p. – anche da persone che non hanno quelle qualità)». Obbligata è a questo punto la conclusione: «gli elementi specializzanti sono tutti contenuti nell’art. 213, comma 4, c.d.s. e dunque questa norma deve essere ritenuta speciale ai sensi dell’art. 9, comma primo, legge 24 novembre 1981, n. 689 (ma lo sarebbe anche con l’applicazione dell’art. 15 c.p.), con la conseguenza che il concorso con l’art. 334 c.p. –limitatamente alla condotta di chi circola abusivamente con il veicolo sottoposto a sequestro amministrativo in base alla medesima norma – deve essere ritenuto apparente».

I profili problematici

Le due sentenze in esame suscitano alcune perplessità, perché il loro iter argomentativo non sembra sempre coerente con l’affermazione che il principio di specialità, quale rapporto logico strutturale tra norme, costituisce l’esclusivo criterio di accertamento dell’apparenza del concorso, non potendo trovare applicazione criteri di natura valutativa. Così la motivazione della sentenza n. 1235/2011, imp. Giordano, è incentrata più che sull’esame degli elementi costitutivi delle fattispecie incriminatrici, al fine di effettuare un «raffronto delle fattispecie astratte», sull’argomento che il concorso tra frode fiscale e truffa si porrebbe «in contrasto con la linea di politica criminale e con la ratio che ha ispirato il legislatore nella riforma di cui al d.lgs. n. 74/2000». Analogamente, nella motivazione della sentenza n. 1963/2011, imp. Di Lorenzo, gioca un ruolo decisivo, non già il criterio logico formale della specialità, ma la ricostruzione della volontà del legislatore come volta all’applicabilità della sola sanzione amministrativa, tanto più che lo stesso principio di specialità in astratto, così enfatizzato nell’illustrazione dei principi generali, è applicato in modo molto discutibile, perché, diversamente da quanto affermato dalla Corte, è la qualifica del soggetto attivo del reato di cui all’art. 334 c.p. a costituire elemento specializzante rispetto all’illecito amministrativo, posto che quest’ultimo può essere commesso da chiunque12. I criteri valutativi, pur decisamente negati dalla Corte in termini generali, rischiano dunque di giocare ancora una volta un ruolo fondamentale nel processo decisionale, perpetuando così una sorta di sfasatura tra principi generali affermati e i criteri adottati per la decisione del caso concreto.

Note

1 «Art. 15. Materia regolata da più leggi penali o da più disposizioni della medesima legge penale. Quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito».

2 Per un quadro di sintesi v. Codice penale commentato, a cura di Dolcini-Marinucci, III ed., Milano, 2011, I, 266 s.

3 Così invece ad es. Cass., S.U., 21.4.1995, n. 9568, La Spina, e in dottrina, tra gli altri, Bettiol- Pettoello Mantovani, Diritto penale. Parte generale, Padova, 1986, 717; contra, tra le altre, Cass., S.U., 19.4.2007, n. 16568, Carchivi.

4 Così anche Cass., S.U., 9.5.2001, n. 23427/2001, Ndiaye, e in dottrina, tra gli altri, Romano, Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, 2004, 176.

5 V. ad es. Cass., S.U., 13.12.2000, n. 35, Sagone.

6 Cass., S.U., 28.3.2001, n. 22902, Tiezzi: «Di qui dunque l’esigenza di far ricorso ad ulteriori criteri di soluzione del concorso di norme nel senso dell’apparenza, dettati dallo stesso legislatore, quando espressamente esclude il concorso reale di norme e quindi di reati, o, in assenza di una specifica previsione, desumibili dal sistema, che esprime in sé un’istanza-guida di giustizia materiale che non tollera l’addebito plurimo di un medesimo fatto tutte le volte che l’applicazione di una sola delle norme in cui è sussumibile il fatto ne esaurisca l’intero contenuto di disvalore sotto il profilo sia oggettivo sia soggettivo: è il c.d. ne bis in idem sostanziale, rispondente ad una esigenza equitativa insopprimibile. È su questa base cd. valutativa che si sono elaborati i criteri della sussidiarietà e della consunzione o assorbimento, in virtù del quale ultimo – lex consumens derogat lex consumptae – si determina un concorso apparente di norme quante volte l’applicazione della sola norma che prevede la pena più grave esaurisce l’intero disvalore del fatto». La sentenza riprende quasi testualmente Romano, Commentario sistematico, cit., 179 s. Sul criterio di consunzione v. tra gli altri Fiandaca-Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2010, 686; Pagliaro, Principi di diritto penale. Parte generale, Milano, 2003, 202 s.; Dolcini-Marinucci, Manuale di diritto penale, Milano, 2009, 432 s.

7 Cass., S.U., 20.12.2005, n. 47164, Marino.

8 Il primo comma dispone: « Quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, ovvero da una pluralità di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative, si applica la disposizione speciale».

9 La Corte riprende quasi alla lettera Padovani, Diritto penale, Milano, 2008, 379 s. In argomento v. anche De Francesco, Lex specialis. Specialità ed interferenza nel concorso di norme penali, Milano, 1980, 45 s. Per l’applicabilità del principio di specialità bilaterale v. Cass., S.U., 13.1.1979, n. 5, Tricomi; Cass., S.U., 24.4.1976, n. 10, Cadinu.

10 V. già Cass., S.U., 25.10.2010, n. 27, Di Mauro, sul concorso tra frode fiscale e truffa comunitaria, purché allo specifico dolo di evasione si affianchi una distinta ed autonoma finalità extratributaria non perseguita dall’agente in via esclusiva.

11 Per una sintetica illustrazione della problematica v. Smedile, La circolazione di veicolo sottoposto a sequestro tra depenalizzazione e concorso di norme, in Riv. it. dir. proc. pen., 2010, 834 s.

12 Per una puntuale critica della parte «applicativa» della sentenza, v. Vallini, Giusti principi, dubbie attuazioni: convergenza di illeciti in tema di circolazione di veicolo sottoposto a sequestro, nota a commento di Cass., S.U, 21.1.2011 (28.10.2010), n. 1963, in Dir. pen. e processo, 2011, 7, 855 s.; in termini critici anche Benussi, Solo un illecito amministrativo per il custode sorpreso a circolare con il veicolo sottoposto a sequestro amministrativo (Cass. S.U. n. 1963, dep. 21.1.2011), in www.penalecontemporaneo.it.

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