Controlli sul decreto-legge

Il Libro dell'anno del Diritto 2016

Controlli sul decreto-legge

Alfonso Celotto

La Corte costituzionale tradizionalmente si è mostrata sempre assai “timida” nel controllo formale sui decreti-legge, probabilmente per la ritrosia a verificare valutazioni proprie del circuito politico, come viene tradizionalmente ritenuta quella sulla sussistenza dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza del decreto-legge. Dopo la severa presa di posizione sulla reiterazione, nel 1996, la giurisprudenza costituzionale ha iniziato a rendere più severo anche il controllo sulla sussistenza dei presupposti del decreto-legge, arrivando a dichiarare incostituzionali, nel 2007, nel 2008 e nel 2012, “norme intruse” in decreti-legge aventi altro oggetto, anche rilevandone la mancanza dei presupposti. Ma, fino ad ora, non ha mai annullato un intero decreto per carenza dei presupposti, pur a fronte di una prassi assai distante dal disegno costituzionale.

La ricognizione. La ritrosia della Corte costituzionale a sindacare i vizi propri dei decreti-legge

Tradizionalmente il giudice costituzionale è sempre apparso assai “timido” nel controllo formale sui decreti-legge, probabilmente per la ritrosia a verificare valutazioni proprie del circuito politico, come viene tradizionalmente ritenuta quella sulla sussistenza dei presupposti del decreto-legge. Al fondo, stando alla forma dell’impianto costituzionale, la sussistenza di «casi straordinari di necessità e urgenza» rappresenta una valutazione squisitamente politica effettuata dal Governo in sede di adozione del decreto-legge, verificata dal Presidente della Repubblica all’atto dell’emanazione e suggellata dal Parlamento in sede di conversione.

Del resto, il decreto-legge vive autonomamente al massimo per sessanta giorni nell’ordinamento. Entro il termine costituzionale per la conversione o perde efficacia sin dall’inizio oppure sarà convertito in legge. Nel primo caso, prima la dottrina e poi la giurisprudenza costituzionale, si sono consolidate nel ritenere che il decreto decaduto ab origine, e quindi venuto meno retroattivamente, deve ritenersi come “non mai esistito” a livello delle fonti del diritto (cfr. C. cost., 11.10.1983, n. 307), per cui non può essere certo oggetto di un giudizio di costituzionalità. Nel secondo caso, è agevole ritenere che la legge di conversione rappresenti una vera e propria novazione della fonte, per cui l’approvazione parlamentare assorbe quelli che possono essere i vizi “genetici” del decreto (quale soprattutto il vizio dei presupposti), mentre lascia ovviamente scrutinabili i vizi legati al contenuto della sua portata normativa.

Così puntualmente la Corte, dopo essersi in diverse occasioni “rifiutata” di pronunciarsi sul problema dello scrutinio dei vizi formali, dichiarando inammissibili le relative questioni per contingenti profili pregiudiziali o processuali (cfr. C. cost., 30.3.1977, n. 55; C. cost., 10.12.1981, n. 185; C. cost., 7.2.1985, n. 34) – alla metà degli anni ’80 – ha collocato una sorta di “pietra tombale” sul punto, affermando seccamente e ripetutamente che «l’avvenuta conversione in legge del decreto fa ritenere superate le proposte censure», in maniera da ritenere assorbito ogni vizio proprio del decreto nella efficacia novativa della legge di conversione (cfr. C. cost., 23.4.1986, n. 108; C. cost., 6.7.1987, n. 243; C. cost., 15.11.1988, n. 1033; C. cost., 6.12.1988, n. 1060; C. cost., 24.6.1994, n. 263).

Questo orientamento è stato tuttavia modificato a metà degli anni ’90, sotto la spinta della prassi sempre più degenerata e delle sollecitazioni della dottrina1. Dapprima, nella sent. 27.1.1995, n. 29, la Corte ha ammesso – come obiter dictum – la possibilità di scrutinare il vizio dei presupposti del decreto-legge, quanto meno nei casi di «evidente mancanza», anche dopo la conversione, negando l’efficacia “sanante” di quest’ultima e sforzandosi invece di ricostruire il difetto della straordinaria necessità ed urgenza quale vizio formale, come tale trasmissibile alla legge parlamentare.

Tale impostazione è stata successivamente ribadita sia rispetto a decreti-legge ancora in corso di conversione (cfr. C. cost., 10.5.1995, n. 161 e C. cost., 22.7.1996, n. 270) sia rispetto a decreti-legge convertiti in legge (cfr. C. cost., 29.7.1996, n. 330), mentre è stata coerentemente esclusa rispetto a disposizioni aggiunte in sede di conversione (cfr. C. cost., 26.7.1995, n. 391) e rispetto a disposizioni di “sanatoria”, che si limitano a far salvi gli effetti di decreti non convertiti (cfr. C. cost., 21.3.1996, n. 84). In quest’ottica, è stata prontamente stigmatizzata la pur importantissima sent. 24.10.1996, n. 360, che – precisando come il vizio da reiterazione «può ritenersi sanato quando le Camere, attraverso la legge di conversione (o di sanatoria), abbiano assunto come propri i contenuti o gli effetti della disciplina adottata dal Governo in sede di decretazione d’urgenza» (§ 6 del Considerato in diritto) – sembrava aver negato in via generale la trasmissibilità dei vizi propri del decreto alla legge di conversione.

Tuttavia parte della dottrina – prendendo spunto da alcuni obiter dicta contenuti in decisioni di poco successive (cfr. C. cost., ord. 18.10.1996, n. 432; C. cost., ord., 11.4.1997, n. 90 e C. cost., ord., 26.5.1998, n. 194) – ha cercato di “conciliare” i due indirizzi della giurisprudenza costituzionale, comparando la natura del vizio da reiterazione con quello da carenza dei presupposti (il primo è meno “grave” riguardando solo una modalità di esercizio di un potere legittimamente attivato; il secondo molto di più, attagliandosi ad una vera e propria carenza di potere, non potendosi neanche attivare il potere di cui all’art. 77 Cost. in assenza dei presupposti), e quindi osservando come soltanto il vizio da reiterazione non si trasferisca alla legge di conversione, ma sia punibile esclusivamente in “flagranza”, cioè prima dell’intervento parlamentare2.

Anche la Corte costituzionale ha poi apertamente ribadito il differente regime dei due vizi (carenza dei presupposti da un lato e reiterazione dall’altro). Nella sent. 11.12.1998, n. 398, infatti – rispetto alla “catena” di decreti-legge in tema di quote-latte, convertita in legge, con sanatoria del pregresso, dopo alcune reiterazioni – la censura per carenza dei presupposti viene esaminata pur trattandosi di decreti-legge convertiti; quella per vizio da reiterazione viene invece rigettata proprio in quanto i decreti-legge in questione sono stati convertiti. In particolare, con riferimento al vizio dei presupposti, se ne ribadisce la rilevabilità in sede di giudizio di costituzionalità, a prescindere dalla conversione, soltanto nei casi di evidente mancanza, cioè quando «essa appaia chiara e manifesta perché solo in questo caso il sindacato di legittimità della Corte non rischia di sovrapporsi alla valutazione di opportunità politica riservata al Parlamento» (§ 3 del Considerato in diritto).

Tuttavia l’affermazione di un controllo giurisdizionale sui vizi propri del decreto-legge e, in particolare, sulla sussistenza dei presupposti, continuava a restare una mera affermazione teorica. Del resto negli anni successivi hanno continuato a fronteggiarsi pronunce contraddittorie che hanno ora negato ora ammesso la possibilità di controllo dei presupposti del decreto-legge dopo la conversione in legge, facendo nuovamente riemergere il classico argomento della efficacia sanante della conversione (cfr. C cost., 13.10.2000, n. 419; C. cost., 28.11.2001, n. 376; C. cost. 6.2.2002, n. 16 e C. cost., 25.2.2002, n. 293). Poi, questa fase di incertezza è stata nuovamente superata, riaffermandosi la possibilità del sindacato sui presupposti di necessità e urgenza del decreto-legge, esercitabile solo nei limiti dell’“evidente mancanza”, anche dopo la conversione in legge (cfr. sent. n. 341 del 2003; n. 6, 178, 196, 285 e 299 del 2004; n. 2, 62 e 272 del 2005), enucleando compiutamente i test sintomatici, attraverso i quali verificare la sussistenza del vizio:

a) il preambolo del decreto-legge;

b) la relazione governativa di accompagnamento del disegno di legge di conversione;

c) il contesto normativo in cui va ad inserirsi.

Tuttavia, in nessun caso la Corte aveva spinto il proprio controllo alle estreme conseguenze, fino all’annullamento di un decreto per mancanza dei presupposti. Nel 2012 possiamo invece rilevare come si sia consolidata una opposta tendenza, soprattutto mediante la sent. 16.2.2012, n. 22, che ha corroborato e consolidato le significative aperture del 2007 e del 2008.

La focalizzazione. La svolta nel controllo sui presupposti a partire dal 2007-2008

Per comprendere bene come la Corte sia arrivata a dichiarare incostituzionale un decreto-legge per vizi formali, va innanzitutto ricordata la sent. 23.5.2007, n. 171, in cui viene dichiarata l’illegittimità costituzionale di una “norma intrusa” in un decreto, già convertito, per mancanza dei presupposti, nel caso di specie una disposizione tesa a “sistemare” un problema di ineleggibilità del sindaco di Messina in un decreto relativo alla materia della finanza degli enti locali.

È interessante ripercorrere l’iter motivazionale. La Corte parte dall’impianto costituzionale, rammentando come «Negli Stati che s’ispirano al principio della separazione dei poteri e della soggezione della giurisdizione e dell’amministrazione alla legge, l’adozione delle norme primarie spetta agli organi o all’organo il cui potere deriva direttamente dal popolo», per cui le attribuzioni di poteri normativi al Governo «hanno carattere derogatorio rispetto all’essenziale attribuzione al Parlamento della funzione di porre le norme primarie nell’ambito delle competenze dello Stato centrale» (§ 3 del Considerato in diritto). Ricorda, quindi, di aver ammesso, dal 1995, che l’esistenza dei requisiti della straordinarietà del caso di necessità e d’urgenza può essere oggetto di scrutinio di costituzionalità, ma che tale controllo «non si sostituisce e non si sovrappone a quello iniziale del Governo e a quello successivo del Parlamento in sede di conversione – in cui le valutazioni politiche potrebbero essere prevalenti – ma deve svolgersi su un piano diverso, con la funzione di preservare l’assetto delle fonti normative e, con esso, il rispetto dei valori a tutela dei quali detto compito è predisposto». Del resto, il sintagma con cui la Costituzione legittima l’adozione di decreti-legge denota in sé un «largo margine di elasticità», rispetto al quale «non sono configurabili rigidi parametri, valevoli per ogni ipotesi. Ciò spiega perché questa Corte abbia ritenuto che il difetto dei presupposti di legittimità della decretazione d’urgenza, in sede di scrutinio di costituzionalità, debba risultare evidente» (§ 4 del Considerato in diritto).

La Consulta sente poi la necessità di chiarire una volta per tutte che la conversione non sana i vizi propri del decreto. Ricordate le oscillazioni sul punto, il giudice costituzionale ritiene di aderire all’orientamento contrario a quello più risalente, per due ordini di ragioni: a) innanzitutto in quanto il corretto assetto dell’impianto delle fonti «è anche funzionale alla tutela dei diritti e caratterizza la configurazione del sistema costituzionale nel suo complesso. Affermare che la legge di conversione sana in ogni caso i vizi del decreto significherebbe attribuire in concreto al legislatore ordinario il potere di alterare il riparto costituzionale delle competenze del Parlamento e del Governo quanto alla produzione delle fonti primarie»; b) in secondo luogo – con motivazione mi pare di perspicuità meno immediata – per il particolare legame tra decreto e legge di conversione, per cui in sede di conversione «Il Parlamento si trova a compiere le proprie valutazioni e a deliberare con riguardo ad una situazione modificata da norme poste da un organo cui di regola, quale titolare del potere esecutivo, non spetta emanare disposizioni aventi efficacia di legge» (§ 5 del Considerato in diritto).

Su tale base, la verifica della costituzionalità del decreto in esame diviene agevole. La questione di legittimità costituzionale, sollevata dalla Corte di cassazione, riguarda l’art. 7, co. 1, lett. a), del d.l. 29.3.2004, n. 80 (Disposizioni urgenti in materia di enti locali), convertito, con modificazioni, dalla l. 28.5.2004, n. 140, articolo che reca modifiche all’art. 58, co. 1, lett. b), del d.lgs. 18.8.2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali). In buona sostanza, si tratta di una “norma intrusa”, in quanto introduce una nuova disciplina in materia di cause di incandidabilità e di incompatibilità in un decreto-legge relativo a misure di finanza locale.Il decreto si intitola, come anticipato, Disposizioni urgenti in materia di enti locali e il preambolo recita: «Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di emanare disposizioni in materia di enti locali, al fine di assicurarne la funzionalità, con particolare riferimento alle procedure di approvazione dei bilanci di previsione, alle difficoltà finanziarie dei comuni di ridotta dimensione demografica ed al risanamento di particolari situazioni di dissesto finanziario …». Ebbene, appare evidente – ad avviso della Corte – che «La norma censurata si connota, pertanto, per la sua evidente estraneità rispetto alla materia disciplinata dalle altre disposizioni del decreto-legge in cui è inserita», mancando peraltro ogni motivazione delle ragioni di necessità e di urgenza poste alla sua base. La Corte conclude, quindi, che «L’utilizzazione del decreto-legge – e l’assunzione di responsabilità che ne consegue per il Governo secondo l’art. 77 Cost. – non può essere sostenuta dall’apodittica enunciazione dell’esistenza delle ragioni di necessità e di urgenza, né può esaurirsi nella constatazione della ragionevolezza della disciplina che è stata introdotta» (§ 6 del Considerato in diritto), dichiarando, pertanto, l’illegittimità costituzionale del citato art. 7, co. 1, lett. a), del d.l. n. 80/2004, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 140/2004. La decisione era di portata assai innovativa, ma la dottrina è apparsa molto cauta nel ritenere che si trattasse davvero di una svolta nella giurisprudenza costituzionale. Le perplessità sono state legate sia alla questione di fondo della natura non novativa della legge di conversione, in quanto in passato la Corte troppe volte aveva oscillato al riguardo (come già ricordato); sia al fatto che, nella fattispecie, fosse stata annullata una “norma intrusa” prima ancora che una norma senza presupposti. Ci si chiedeva quindi se «sotto le vesti della mancanza dei presupposti dell’art. 77, la Corte a[vesse] inteso sanzionare una norma che, per le circostanze in cui interveniva, si prestava a più di un rilievo di carattere sostanziale, limitandosi a censurare un difetto di tecnica legislativa»4.

Sono bastati pochi mesi per far ritenere che si trattasse davvero di un nuovo indirizzo giurisprudenziale. Nella sent. 30.4.2008, n. 128 la Corte ha ritenuto costituzionalmente illegittimo l’art. 18, co. 2 e 3, del d.l. 3.10.2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria) e dell’art. 2, co. 105 e 106, dello stesso d.l. n. 262/2006, nel testo sostituito, in sede di conversione, dalla l. 24.11.2006, n. 286, nella parte in cui hanno disposto l’esproprio del teatro Petruzzelli in favore del Comune di Bari. A far ritenere che la Corte abbia davvero avviato un nuovo orientamento è la struttura motivazionale della decisione. Stavolta, infatti, la declaratoria di incostituzionalità per evidente mancanza dei presupposti non discende dal sintomo del trattarsi di “norma intrusa” (come accaduto nel 2007), ma dalla carenza in sé di necessità e di urgenza della disposizione in questione. La Corte, invero, sottolinea da un lato che con l’esproprio del Teatro Petruzzelli «nessun collegamento è ravvisabile» con il preambolo del decreto, in cui con clausola di stile si motivano la generale necessità ed urgenza di misure a carattere finanziario, tese al riequilibrio dei conti pubblici; dall’altro, rileva come anche in sede di conversione non vi sia alcuna specifica giustificazione della disposizione in questione rispetto alla generale eterogeneità di norme che concorrono alla manovra di finanza pubblica. Anzi proprio nei lavori preparatori della legge di conversione la Corte rinviene l’unico tentativo di giustificazione della norma sul Petruzzelli: ed è una giustificazione non certo tesa a dimostrarne la natura fiscale e/o finanziaria, bensì il fatto che essa sia «stata introdotta per risolvere una ‘annosa vicenda’ e tutelare l’interesse ad una ‘migliore fruizione del bene da parte della collettività’, così ammettendo non solo il difetto di collegamento con la manovra di bilancio, ma anche l’assenza di ogni carattere di indispensabilità ed urgenza con riguardo alla finalità pubblica dichiarata» (§ 8.2 del Considerato in diritto). In pratica la Corte effettua un vero e proprio scrutinio sulla sussistenza in sé dei presupposti costituzionali rispetto alla norma impugnata, utilizzando i classici elementi di verifica (il preambolo del decreto, la relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione, il dibattito parlamentare sulla conversione).

In questo possiamo rinvenire un chiaro segnale dell’orientamento del giudice costituzionale teso a controllare direttamente i presupposti del decreto-legge, a fronte di una tradizionale superficialità governativa in sede di adozione del decreto e di un altrettanto superficiale controllo parlamentare in sede di conversione. In fondo l’introduzione di una norma in un decreto-legge – come ricorda la Corte in chiusura – «non può essere sostenuta da apodittica enunciazione della sussistenza dei richiamati presupposti, né può esaurirsi nella eventuale constatazione della ragionevolezza della disciplina» (§ 8.2 del Considerato in diritto). La Corte in tal modo incentra la propria motivazione sulla carenza dei presupposti, lasciando sullo sfondo il fatto che si trattasse di una “norma intrusa”.

2.1 Le novità della sentenza 16.2.2012, n. 22

L’ulteriore irrobustimento di quest’orientamento si è fatto attendere quattro anni. Nella sent. n. 22/2012, la Corte è stata chiamata a scrutinare l’art. 2, co. 2-quater, del d.l. 29.12.2010, n. 225 (l’abituale decreto “mille-proroghe” di fine anno) aggiunto dalla legge di conversione 26.2.2011, n. 10, che introduce i commi 5-quater e 5-quinquies, primo periodo, nell’art. 5 della l. 24.2.1992, n. 225 per regolare i rapporti finanziari tra Stato e Regioni in materia di protezione civile. In pratica, un frammento della disciplina generale del riparto delle funzioni e degli oneri tra Stato e Regioni in materia di protezione civile inserita tuttavia nella legge di conversione di un decreto-legge denominato Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e di interventi urgenti in materia tributaria e di sostegno alle imprese e alle famiglie. È evidente la eterogeneità e la assenza di qualsivoglia legame con la ratio del decreto-legge originario e, quindi, con i suoi presupposti. La Consulta avvedutamente sceglie, stavolta, di non seguire la linea della verifica dei presupposti della disposizione aggiunta, ma si concentra nel limitare la stessa possibilità di emendare il decreto, in base alla funzione della conversione: «In definitiva, l’innesto nell’iter di conversione dell’ordinaria funzione legislativa può certamente essere effettuato, per ragioni di economia procedimentale, a patto di non spezzare il legame essenziale tra decretazione d’urgenza e potere di conversione. Se tale legame viene interrotto, la violazione dell’art. 77, co. 2, Cost., non deriva dalla mancanza dei presupposti di necessità e urgenza per le norme eterogenee aggiunte, che, proprio per essere estranee e inserite successivamente, non possono collegarsi a tali condizioni preliminari (sentenza n. 355 del 2010), ma per l’uso improprio, da parte del Parlamento, di un potere che la Costituzione gli attribuisce, con speciali modalità di procedura, allo scopo tipico di convertire, o non, in legge un decreto-legge» (§ 4.2 del Considerato in diritto). In altri termini, la Corte per non avventurarsi tra le “secche” della valutazione sui presupposti di necessità e di urgenza (difficoltosa anche per le “norme intruse”), torna alle tesi più tradizionali che vedevano la legge di conversione come “condizionata” alla disciplina adottata dal governo rinforzando il collegamento funzionale tra i due atti5.

Del resto, l’ordinamento contiene tutta una serie di richiami alla necessaria omogeneità della legge di conversione rispetto al decreto-legge, che la Corte puntualmente qui richiama (la l. 23.8.1988, n. 400, i regolamenti parlamentari, gli orientamenti del Presidente della Repubblica: non dimentichiamo che, con messaggio del 29.3.2002, il Presidente ha rinviato alle Camere il disegno di legge di conversione del d.l. 25.1.2002, n. 4, contestando proprio «un’attinenza soltanto indiretta alle disposizioni dell’atto originario» degli emendamenti aggiunti in conversione). Ad avviso di chi scrive, si tratta di un orientamento condivisibile. Soltanto una prassi troppo slabbrata ha consentito di intendere la legge di conversione quale legge non funzionalizzata e specializzata dall’art. 77 Cost., ma suscettibile di ampliarsi a qualsiasi contenuto ulteriore, senza mantenere il “nesso di interrelazione funzionale” tra decreto-legge e legge di conversione.

I profili problematici. Sarà la Corte costituzionale a fermare gli abusi della decretazione d’urgenza?

A livello sistematico va sicuramente posto in evidenza come la Corte si sia per la terza volta pronunciata nel senso della incostituzionalità di una norma di una decreto convertito affermandone anche la carenza dei presupposti. A ben vedere, la Corte non ha mai dichiarato incostituzionale un intero decreto-legge per carenza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza, ma piuttosto ha – in tre diverse fattispecie – dichiarato incostituzionale una singola “norma intrusa” (peraltro in sede di conversione) in un decreto-legge avente per gran parte altro oggetto e quindi sorretto da altri presupposti.

La Corte, cioè, ha sempre scelto la via più agevole di ritenere incostituzionale una “norma intrusa” in un decreto-legge, in quanto essa oltre a snaturare comunque il decreto in sé, non può essere retta e giustificata dai presupposti che sorreggono, invece, il decreto. Il giudice costituzionale – a ben vedere – non ha mai voluto confrontarsi con il vero punto nodale della decretazione d’urgenza da almeno quarant’anni anni a questa parte, cioè non ha mai portato alle estreme conseguenze lo scrutinio sulla reale sussistenza di quella fattispecie straordinaria che nell’art. 77, co. 2, Cost. legittima il Governo ad autoassumersi il potere legislativo. Sappiamo bene che la maggior parte dei decreti-legge sembra ormai non sorretta da quei rigorosi presupposti giuridici richiesti in Costituzione, ma tutt’al più da una straordinaria necessità ed urgenza di carattere “politico” e – come tale – sempre di più si atteggia ad una sorta di disegno di legge rinforzato, come rilevato lucidamente da Alberto Predieri già a metà degli anni ’70. Per restare alla sentenza del 2012, è sicuramente vero che il mancato rispetto della omogeneità dei decreti, sia in sede di adozione che di conversione, rappresenta un ulteriore punto dolente dell’abuso della decretazione d’urgenza. E possiamo anche ritenere che questo giusto irrigidimento giurisprudenziale possa essere difficilmente digerito dalla ormai consolidata forma di governo, basata sempre di più su un utilizzo della decretazione d’urgenza assai lontano dall’impianto costituzionale. Tuttavia, come ben sappiamo, la Corte costituzionale non ha certo il compito di convalidare gli scostamenti imposti dal diritto vivente alla forma della Costituzione, dovendo invece – sapientemente – rilevare quando tali scostamenti si siano fatti troppo ampi e rischiosi per la stessa forma di Stato (come avvenuto, restando al decreto-legge, per la reiterazione e come sta avvenendo ormai anche per l’abuso delle forme della conversione, oltre che per la cronica carenza dei presupposti).

Note

1 Cfr., per tutti, Pitruzzella, G., La legge di conversione del decreto-legge, Padova, 1989, 86 ss.

2 Sia consentito rinviare a Celotto, A., Spunti ricostruttivi sulla morfologia del vizio da reiterazione di decreti-legge, in Giur. cost., 1998, 1562 s.

3 Al riguardo cfr. Celotto, A., La “storia infinita”: ondivaghi e contraddittori orientamenti sul controllo dei presupposti del decreto-legge, in Giur. cost., 2002, 133 ss.

4 Sorrentino, F., Ancora sui rapporti tra decreto-legge e legge di conversione: sino a che punto i vizi del primo possono essere sanati dalla seconda?, in Giur. cost., 2007, 1679.

5 Cfr. Pitruzzella, G., La legge di conversione del decreto-legge, cit., specie 194 ss., anche Angiolini, V., Attività legislativa del Governo e giustizia costituzionale, in Riv. dir. cost., 1996, 236 ss.; Ruggeri, A., Fonti, norme, criteri ordinatori, Torino, 2001, 164 s.

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