CONTROLLO E PRIVACY DELLA VITA QUOTIDIANA

XXI Secolo (2009)

Controllo e privacy della vita quotidiana

Stefano Rodotà

Dalla tutela della vita privata alla protezione dei dati personali

Sono state le innovazioni tecnologiche a riaprire, agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, la discussione intorno al modo in cui si deve guardare alla sfera privata e agli strumenti che possono garantirne l’integrità e il libero potere di governo da parte della persona interessata. Una parola, privacy, ha continuato ad accompagnare questa discussione, ma il suo riferimento a una realtà nella quale crescevano impetuosamente le possibilità di raccogliere, conservare, utilizzare, e infine far circolare le informazioni personali grazie agli strumenti informatici, ne ha modificato il significato. L’immersione continua delle persone nel flusso crescente delle informazioni che le riguardano, per ottenere servizi o per rispondere a domande sempre più perentorie di soggetti pubblici e privati, ha mutato lo stesso rapporto che la persona intrattiene con i propri dati.

La privacy, infatti, è stata costruita come un dispositivo ‘escludente’, come uno strumento per allontanare lo sguardo indesiderato, per sottrarsi all’occhio del pubblico. Ma l’analisi delle sue definizioni mostra anche le sue progressive trasformazioni, che hanno fatto emergere un diritto sempre più finalizzato a rendere possibile la libera costruzione della personalità, l’autonomo strutturarsi dell’identità, la proiezione nella sfera privata dei principi fondamentali della democrazia. L’originaria definizione della privacy come «diritto a essere lasciato solo» (S.D. Warren, L.D. Brandeis, The right to privacy, «Harvard law review», 1890, 5, pp. 193-220) non è stata cancellata, ma fa parte di un contesto via via arricchito da diversi punti di vista. La prima vera innovazione arriva con Alan F. Westin (1967), che definisce la privacy come il diritto di una persona di controllare l’uso che altri fanno delle informazioni che la riguardano. Non si tratta, dunque, di proteggere soltanto i dati destinati a rimanere riservati: la protezione si estende anche ai dati che il soggetto ha ceduto ad altri o che comunque si trovano in mano altrui. Poiché nella società dell’informazione si dice che ‘noi siamo i nostri dati’, la possibilità di mantenere il controllo sulle proprie informazioni, ovunque esse si trovino, diventa uno strumento indispensabile per la tutela dell’identità personale, per proteggere la sfera privata nel suo insieme. Cambia, di conseguenza anche la qualità delle definizioni della privacy. Si parla ormai di «tutela delle scelte di vita contro ogni forma di controllo pubblico e di stigmatizzazione sociale» (Friedman 1990, p. 184), in un quadro caratterizzato dalla «libertà delle scelte esistenziali» (Rigaux 1990, p. 167) e dalla «libertà da vincoli irragionevoli nella costruzione della identità personale» (Agre 2001, p. 7). Inoltre, poiché il flusso delle informazioni non riguarda soltanto quelle ‘in uscita’ (di cui si vuole impedire la conoscenza da parte di terzi), ma anche quelle ‘in entrata’ (rispetto alle quali si può voler esercitare il ‘diritto di non sapere’), la privacy si presenta anche come «il diritto di mantenere il controllo sulle proprie informazioni e di determinare le modalità di costruzione della propria sfera privata» (Rodotà 1995, p. 122). E, considerando piuttosto gli aspetti ‘relazionali’ della privacy, essa si presenta come «rivendicazione di limiti a difesa del diritto di ognuno a non essere semplificato, oggettivato e valutato fuori contesto» (Rosen 2000, p. 20). La privacy si colloca così anche nel quadro del ‘diritto all’autodeterminazione informativa’, un punto definito fin dal 15 dicembre 1983 da un’innovativa sentenza della Corte costituzionale tedesca (BvR 209, 269, 362, 420, 440, 484/83).

Queste definizioni non si escludono a vicenda, e quelle più recenti non cancellano quelle del passato, proprio perché rispondono a esigenze diverse e si collocano su piani distinti. Già prima della forte accelerazione determinata dalle innovazioni scientifiche e tecnologiche, vi era stata un’evoluzione nel modo in cui veniva adoperata la stessa definizione tradizionale. Il diritto di essere lasciato solo non veniva interpretato esclusivamente come espressione dell’‘età dell’oro’ della borghesia, che aveva protetto il proprio spazio immateriale con lo stesso divieto di violarlo che aveva caratterizzato la tutela dello spazio fisico della proprietà terriera. Sotto la spinta di Louis D. Brandeis (1856-1941, avvocato e membro della Corte suprema degli Stati Uniti), si era fatta strada un’interpretazione che considerava la privacy anche come uno strumento che tutelava le minoranze, il dissenso, dunque la libertà d’espressione. La forte tutela della sfera privata, quindi, non serve soltanto a garantirne la riservatezza, a sottrarla allo sguardo indesiderato, ma anche, e per certi versi soprattutto, a permettere che le convinzioni personali possano essere liberamente manifestate in pubblico. La strada verso un’associazione sempre più stretta tra privacy e libertà era così aperta.

Siamo davvero entrati in un’epoca tutta nuova, ed è significativo che si parli di dati personali e non soltanto di privacy. Questo mutamento del linguaggio rivela un cambiamento profondo, un paradigma culturale e politico diverso da quelli di ieri. La percezione sociale della privacy, che si era venuta costruendo a partire dalla fine dell’Ottocento, riguardava un aspetto soltanto della personalità di ciascuno: quello che si voleva tenere riservato, sottratto agli occhi dell’altro, inviolabile come una proprietà circondata da alte mura. Oggi la persona è integralmente coinvolta nelle dinamiche che caratterizzano la società dell’informazione e della comunicazione, e si trova al centro di un flusso continuo di dati di cui è, al tempo stesso, produttrice e destinataria. Deve poter governare questi flussi, non solo stabilire che cosa debba essere sottratto allo sguardo degli altri. Per questo si parla di dati ‘personali’ da garantire nella loro integralità, ben al di là dello schema classico della tutela della vita privata. Sono in gioco la presenza nella sfera pubblica, le modalità della partecipazione politica, i rapporti personali, la stessa costruzione dell’identità. Cambiano i rapporti tra il cittadino e lo Stato, tra i consumatori e il sistema delle imprese, tra le stesse persone. Si modifica in questa maniera l’insieme delle relazioni sociali. Siamo di fronte a trasformazioni profonde, che possono rendere possibile, e già stanno favorendo, la nascita di una società della sorveglianza, del controllo, della classificazione, della selezione sociale. Possiamo concludere, allora, che attraverso la considerazione dei dati personali identifichiamo un aspetto essenziale della difficile democrazia del 21° secolo.

Società di persone libere o nazioni di sospetti?

Se, a questo punto, si analizzano più attentamente le diverse gradazioni della tutela prevista per le varie categorie di dati personali, si può cogliere un significativo paradosso. Infatti, per molti dei cosiddetti dati sensibili, in particolare per quelli riguardanti le opinioni, viene prevista una tutela molto forte non per garantirne una maggiore riservatezza, ma per renderne possibile la loro comunicazione in pubblico senza per questo correre il rischio della discriminazione o della stigmatizzazione sociale. Le mie opinioni politiche o la mia fede religiosa accompagnano e costruiscono la mia identità solo se posso collocarle fuori della sfera privata, se posso farle valere nella sfera pubblica. Il vero oggetto della tutela quindi non è la riservatezza, ma l’eguaglianza.

Nel momento in cui l’identità si specifica come concetto relazionale, la protezione dei dati cambia di significato. Il social networking, le reti sociali, le cosiddette social presence technologies (YouTube, Facebook, Myface), emblema della nuova dimensione della rete, Internet 2.0, esprimono in modo radicale questo mutamento di punto di vista. Si va su Facebook per essere visti, per conquistare un’identità pubblica permanente che supera il quarto d’ora di notorietà che Andy Wahrol riteneva dovesse divenire un diritto di ogni persona. Si alimenta il ‘pubblico’ per dare senso al ‘privato’. Si esibisce un insieme di informazioni personali, il corpo elettronico, così come si esibisce il corpo fisico attraverso tatuaggi, piercings e altri segni d’identità (Le Breton 2002). L’identità ‘si fa’ comunicazione.

Ma che cosa accade a questa identità tutta rovesciata all’esterno? Jacques Lacan (1901-1981) aveva parlato nel 1960 di un’intimité che si fa extimité (v. Lacan 1986). L’effetto più significativo del social networking è una situazione nella quale le persone mettono spontaneamente in rete un’enorme quantità di informazioni personali, esponendosi così a invasive strategie di marketing comportamentale, oltre che di sorveglianza continua. Esse diventano più disponibili per il data mining, cioè per un’ininterrotta raccolta di dati personali messi in rete dallo stesso interessato e che consentono appunto di operare come se ci si trovasse in una miniera a cielo aperto (v. Mobility, data mining, and privacy, 2008; Profiling the European citizen, 2008). Ci si deve chiedere, allora, se il social networking porti con sé anche un consenso implicito alla raccolta dei dati messi in rete o se, invece, continuino a operare, direttamente o indirettamente, i limiti previsti dal principio di finalità come criterio di legittimazione della raccolta, impedendo che i dati possano essere raccolti se gli interessati non avevano deciso di destinarli a una generale utilizzazione. Problemi che ritroviamo quando si passa a considerare la dimensione dell’Internet 3.0, l’Internet delle cose, e dell’autonomic computing (reti costruite prendendo a modello il sistema nervoso), considerati appunto come nuove modalità di creazione e di acquisizione di dati personali.

Si avvicina quello che un gruppo di ricerca dell’Unione Europea ha definito digital tsunami, e che rischia di travolgere gli strumenti giuridici che garantiscono non solo l’identità, ma la stessa libertà delle persone (Future Group 2008). È davanti a noi una radicale trasformazione delle nostre organizzazioni sociali, che vuol far diventare il criterio della sicurezza pubblica l’esclusivo criterio di riferimento.

Un rapporto scritto da Tony Bunyan (2008) del gruppo inglese per i diritti civili Statewatch (e il cui titolo, The shape of things to come, è non a caso lo stesso di un racconto del 1933 di Herbert G. Wells) sottolinea che l’Unione Europea ha sostituito il principio per il quale i dati dei cittadini europei debbono essere considerati privati con quello secondo il quale gli organismi pubblici hanno diritto ad accedere a ogni dettaglio della nostra vita privata. In questo scenario la protezione dei dati personali e il controllo giudiziario sono percepiti dall’Unione Europea come ‘ostacoli’ per un’efficiente cooperazione di polizia. Questo implica che i governi e i politici europei intendono avere poteri illimitati di accesso e raccolta di masse di dati sulla vita quotidiana delle persone, partendo dalla premessa che così saremo al riparo dai rischi ‘percepiti’. Le critiche di Statewatch analizzano un solo aspetto del digital tsunami, quello dell’uso crescente dell’argomento della sicurezza pubblica per ridurre libertà e diritti, per trasformare le nostre organizzazioni sociali da società di persone libere in ‘nazioni di sospetti’. Le nuove opportunità tecnologiche, infatti, offrono continui strumenti di classificazione, selezione e controllo delle persone, che favoriscono una deriva tecnologica, non sempre adeguatamente contrastata dalle autorità nazionali e internazionali.

Si sta così determinando un’erosione di alcuni principi sui quali è stato costruito il sistema della protezione dei dati personali, in primo luogo il principio di finalità e quello relativo alla separazione tra i dati trattati da soggetti pubblici e quelli trattati da soggetti privati. Si tende a imporre, anche con forzature istituzionali, il criterio della multifunzionalità. Dati raccolti per un fine determinato vengono resi disponibili per scopi diversi, ritenuti altrettanto importanti rispetto a quelli che avevano giustificato la loro raccolta. Dati trattati da un soggetto vengono messi a disposizione di soggetti diversi.

Prevalgono le logiche della riutilizzazione e dell’interconnessione, quasi sempre giustificate con l’argomento dell’efficienza e quello dell’economicità. Se collega tutte le proprie banche dati, la pubblica amministrazione può rendere al cittadino servizi più rapidi, a costi più bassi e con minori fastidi per gli interessati. Se possono accedere anche alle informazioni raccolte dai privati, magistratura e polizia possono meglio combattere terrorismo e criminalità. Se possono conoscere i dati relativi agli accessi a Internet, l’industria musicale e quella cinematografica possono più facilmente scoprire chi scarica illegalmente musica e film.

Adottando queste logiche, tuttavia, non solo si contraddicono principi essenziali per la protezione dei dati, ma si rompe il patto con i cittadini in una materia sempre più decisiva per la tutela effettiva delle loro libertà. A essi era stato promesso che i dati sarebbero stati trattati dai soggetti pubblici per finalità specificamente individuate dalla legge; e dai soggetti privati solo in base al consenso degli interessati, che avrebbero così potuto circoscrivere con precisione le utilizzazioni legittime delle informazioni raccolte.

Una conferma assai significativa dell’abbandono di questi principi è venuta quando, per es., l’amministrazione americana ha richiesto a Google dati, sia pure aggregati, sugli accessi a determinati siti, giustificandosi con l’argomento della lotta alla pedofilia. La logica alla base di questa richiesta è chiarissima: irrilevanza delle finalità per le quali è stata costituita una banca dati; conseguente disponibilità dei dati per qualsiasi utilizzazione ritenuta rilevante per il raggiungimento di un interesse pubblico; cancellazione del confine tra banche dati pubbliche e private. Si manifesta una nuova dimensione della sorveglianza, che esalta il potere dello Stato di disporre di qualsiasi informazione personale, da chiunque raccolta e indipendentemente dalle finalità originarie della raccolta. L’insieme dei dati trattati dai privati viene considerato come una risorsa a disposizione dei poteri pubblici. Così le persone diventano più trasparenti, e molti organismi vengono sottratti ai controlli politici e giuridici. Si determina una nuova distribuzione del potere.

Gli effetti del digital tsunami

Il digital tsunami, peraltro, dev’essere considerato anche da altri punti di vista, a cominciare da quello dell’identità delle persone. La disponibilità totale di tutti i dati personali da parte di soggetti pubblici, e anche di soggetti privati operanti sul mercato, produce un vero e proprio trasferimento dell’identità nelle mani di questi soggetti, che possono addirittura disporre di informazioni sconosciute allo stesso interessato: un fenomeno, questo, destinato a crescere nella prospettiva di informazioni sempre più generate da oggetti. S’incontra così uno degli aspetti fondamentali della protezione dei dati, il diritto di accesso, inteso come potere incondizionato di ciascuno di conoscere chi possieda dati che lo riguardano, e come questi dati vengano adoperati. Da qui può partire un’opera di ricostruzione dell’identità, ottenendo la cancellazione dei dati falsi o raccolti illegittimamente o conservati oltre i termini previsti, la rettifica di quelli inesatti, l’integrazione di quelli incompleti. Ma questa è divenuta ormai un’impresa senza fine, una ricerca inesauribile, poiché la registrazione d’ogni nostra traccia non si arresta mai. Il ‘conosci te stesso’ non è più un’operazione che ci obbliga a guardare solo al nostro interno. Ha la sua premessa nella possibilità di attingere a fonti diverse, non tanto per accertare che cosa gli altri sanno di noi, ma soprattutto per conoscere chi siamo nella dimensione elettronica dove si svolge ormai una parte rilevante della nostra vita.

Siamo di fronte a questioni che riguardano l’autonomia e il diritto di sviluppare liberamente la propria personalità. Si assiste a una diminuzione della possibilità di ciascuno di conoscere e costruire il Sé, mentre diventa più forte la possibilità da parte di altri di impadronirsi integralmente del nostro essere. In particolare, le possibilità di conservazione dei dati personali per un tempo teoricamente illimitato, la difficoltà di far scomparire dalla rete informazioni che ci riguardano, pongono la questione del ‘diritto all’oblio’, a non essere implacabilmente seguiti da un’evidenza pubblica di qualsiasi vicenda di cui siamo stati protagonisti più o meno diretti, con un condizionamento forte della libertà di sviluppare liberamente la propria personalità nel flusso delle relazioni sociali.

Le tecnologie della sorveglianza

L’inesorabile diffondersi delle tecnologie della sorveglianza e del controllo ha ormai assunto caratteri così stabili e penetranti da indurre a ricostruire proprio intorno alla nozione di sorveglianza una complessa serie di fenomeni che caratterizzano le attuali organizzazioni sociali. La sorveglianza si presenterebbe come la forma propria della società dell’informazione: una sorveglianza pervasiva, che si esercita su corpi profondamente mutati dall’immersione nel fluire delle comunicazioni elettroniche, e che si dirama e si diffonde ovunque, riproponendo in forme sempre più inquietanti il modello del Panopticon, ideato alla fine del Settecento dal filosofo inglese Jeremy Bentham (Panopticon, or the inspection-house, 1787; v. Lyon 2001). Le analisi realistiche, che vogliono dar conto di questa realtà mutata, tendono a rifiutare ogni giudizio aprioristico sulla sorveglianza, dichiarando di volerne mettere in evidenza, insieme, rischi e benefici. Viene così adottato uno schema classico, al quale si è mille volte fatto ricorso per analizzare gli effetti sociali delle innovazioni scientifiche e tecnologiche: la sorveglianza come Giano bifronte, portatrice, a seconda dei casi, di vantaggi e svantaggi.

Qui non è il caso di richiamare le molte critiche rivolte a questo schema interpretativo, spesso accusato di distogliere l’attenzione dai caratteri propri di ciascuna innovazione. Riproporlo, tuttavia, può avere una buona ragione politica, poiché sottolinea l’ineliminabile responsabilità di chi sceglie di utilizzare una tecnologia, di cui deve, ogni volta e caso per caso, valutare ricadute e conseguenze. Peraltro, l’analisi di casi specifici può rivelare il carattere tutt’altro che neutrale e innocente di molte tecnologie adoperate per la sorveglianza.

Se la società della sorveglianza dev’essere considerata come un carattere della postmodernità, da essa è impossibile sfuggire, con essa si deve convivere. Una gabbia elettronica, al posto di quella d’acciaio di weberiana memoria, viene implacabilmente costruita intorno a ciascuno di noi, e non possiamo liberarcene con una negazione o una semplice ripulsa. Essa è ormai un dato di realtà, con il quale, appunto realisticamente, si devono fare i conti. Bisogna, quindi, definire le condizioni necessarie per evitare che la società della sorveglianza si risolva nel controllo autoritario, nella discriminazione, in vecchie e nuove stratificazioni sociali produttive di esclusione, nel dominio pieno di una logica di mercato che cerca un’ulteriore legittimazione proprio nella tecnologia. Questo esige processi sociali, soluzioni istituzionali capaci di tener fermo il quadro della democrazia e dei diritti di libertà. È vano confidare nella sola autodifesa dei singoli: le speranze infatti non possono essere affidate alle ‘strategie da bracconiere’ che ciascuno di noi può cercare di mettere in atto.

L’impresa può apparire disperata. Non i catastrofisti, non gli apocalittici avversari delle tecnologie, ma i loro convinti apologeti hanno certificato, ben prima della svolta dell’11 settembre, la morte della privacy e, con essa, l’avvento di una società della sorveglianza in cui scompare la speranza del rispetto delle libertà e della dignità della persona. Nel maggio e nel luglio del 1999, con una significativa coincidenza, due grandi settimanali, «The economist» e «Der Spiegel», annunciarono sulle loro copertine ‘la fine della privacy’ (The end of privacy: the surveillance society, 8117; Das Ende des Privaten: digitale Vollkontrolle, 27), indagando minuziosamente le infinite tecniche di raccolta, conservazione e utilizzazione delle informazioni personali adoperate dal sistema mondiale delle imprese, spesso all’insaputa degli interessati. La conclusione non lasciava spazio alle speranze, o alle fantasie: ciascuno di noi potrà godere di quella sola privacy che gli verrà riconosciuta dal funzionamento del mercato. La stagione della privacy, e di tutte le libertà in essa implicate, dovrebbe dunque essere considerata solo come una parentesi della modernità, tra l’antico villaggio locale, con il suo minuzioso controllo sociale, e il villaggio globale, con le sue tecniche generalizzate di controllo?

«Voi avete ‘zero privacy’: rassegnatevi»: non lascia dubbi la brutale frase pronunciata il 25 gennaio 1999 davanti a un gruppo di giornalisti da Scott McNealy, chief executive officer della grande società americana Sun microsystems (Sprenger 1999). Ed è questa la rappresentazione della realtà che sempre più spesso ci offrono la letteratura e il cinema, con film che vanno da Enemy of the State (1998; Nemico pubblico) di Tony Scott a Minority report (2002) di Steven Spielberg. Nel primo film viene pronunciata una frase rivelatrice: «La privacy? È morta trent’anni fa. L’unica privacy è quella nella tua testa, e forse neanche quella». Le ricerche sulle impronte cerebrali, infatti, fanno pensare, con Sigmund Freud, a un Io ‘non più padrone in casa propria’. Se questo fosse vero, dovremmo concludere che i nostri regimi politici conservano le apparenze della democrazia, ma stanno assumendo i tratti dei regimi autoritari. Proprio questi regimi, infatti, confinano la libertà nella coscienza individuale, ne rendono impossibile l’esercizio sociale, sottoponendo ogni altro atto o comportamento delle persone a un implacabile scrutinio pubblico.

La realtà tecnologica sfida la libertà, inducendo a dubitare che una sua difesa sia ancora possibile. Infiniti lavori hanno documentato il diffondersi capillare della sorveglianza attraverso enormi raccolte di informazioni. Basta ricordare un solo dato. In Italia i gestori della telefonia fissa e mobile conservano non meno di miliardi di dati di traffico (telefonia, SMS, posta elettronica), che consentono di ricostruire l’insieme delle relazioni personali, sociali, economiche e gli spostamenti di tutti coloro che si servono della telefonia. Certo, siamo di fronte a strumenti che hanno liberato da molte servitù del tempo e dello spazio, che hanno reso più agevole la vita delle persone, le relazioni sociali, l’accesso alla conoscenza. Proprio per questo dev’esserne salvaguardata l’utilizzazione libera.

Una volta di più, ci si avvede che il termine privacy dev’essere proiettato ben al di là dell’originaria sua definizione come ‘diritto a essere lasciato solo’. Il riferimento alla privacy finisce con il simboleggiare l’insieme delle libertà implicate dal trattamento dei dati personali. Non a caso si sottolinea che il sempre più diffuso riconoscimento della protezione dei dati personali come diritto fondamentale, nelle costituzioni di un numero crescente di Paesi e nell’art. 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 2000 (2000/C 364/01), ha determinato una vera e propria ‘costituzionalizzazione’ della persona.

Viene così confermato un progressivo adeguamento delle tecniche di tutela ai mutamenti determinati dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, per contrastarne gli effetti sul terreno del controllo e della classificazione delle persone. Si è così prodotto un mutamento qualitativo. Nata come diritto dell’individuo borghese a escludere gli altri da ogni forma di invasione della propria sfera privata, riproducendo lo schema tipico della difesa del diritto di proprietà, la tutela della privacy si è sempre più strutturata come diritto al mantenimento del controllo sui propri dati, ovunque essi si trovino, così riflettendo la nuova situazione nella quale ogni persona cede continuamente, e nelle forme più diverse, dati che la riguardano, sì che la pura tecnica del rifiuto di fornire le proprie informazioni implicherebbe l’esclusione da un numero crescente di processi sociali, dall’accesso alle conoscenze, dalla fornitura di beni e servizi.

Questo passaggio dall’originaria nozione di privacy al principio della protezione dei dati, elaborato soprattutto nell’ambito europeo, corrisponde anche a un mutamento profondo delle modalità di invasione nella sfera privata. Rispetto ai tradizionali e sostanzialmente limitati casi di violazione del diritto alla privacy, oggi le occasioni di violazioni o di semplici interferenze nella sfera privata accompagnano quasi ogni momento della nostra vita quotidiana, continuamente ‘monitorata’, tenuta sotto osservazione, implacabilmente registrata. Cediamo informazioni, lasciamo tracce quando ci vengono forniti beni e servizi, quando cerchiamo informazioni, quando ci muoviamo nello spazio reale o virtuale. Questa gran massa di dati personali, raccolta su scala sempre più larga e fatta circolare intensamente, modifica la conoscenza e l’identità stessa delle persone, spesso conosciute soltanto attraverso il trattamento elettronico delle informazioni che le riguardano.

Anche se è eccessivo, e persino pericoloso, dire che ‘noi siamo i nostri dati’, è tuttavia vero che la nostra rappresentazione sociale è sempre più affidata a informazioni sparse in una molteplicità di banche dati, ai ‘profili’ che su questa base vengono costruiti, alle simulazioni che permettono. Siamo sempre più conosciuti da soggetti pubblici e privati attraverso i dati che ci riguardano, in forme che possono incidere sul principio di eguaglianza, sulla libertà di comunicazione, di espressione o di circolazione, sul diritto alla salute, sulla condizione di lavoratore, sull’accesso al credito e alle assicurazioni, e via elencando. Divenute entità ‘disincarnate’, le persone hanno sempre di più bisogno di una tutela del loro ‘corpo elettronico’.

Proprio da qui nasce l’invocazione di un habeas data, indispensabile sviluppo di quell’habeas corpus dal quale si è storicamente sviluppata la libertà personale. Si mette così in evidenza come forme adeguate di tutela esigano piena consapevolezza delle relazioni di potere implicate dalla dimensione della sorveglianza, e si aggiunge anche che l’appello alla privacy può fornire solo risposte individualizzanti, in sé limitate.

La questione è essenziale, ma la risposta non può essere affidata soltanto, o principalmente, alla costruzione di un’etica della sorveglianza. Proprio l’intensità e la pervasività dei fenomeni obbligano a considerare gli altri strumenti disponibili, proprio per evitare che la sorveglianza si svolga fuori di ogni controllo istituzionale. In questo momento storico, il termine privacy sintetizza appunto un insieme di poteri che, originati dall’antico nucleo del diritto a essere lasciato solo, si sono via via evoluti e diffusi nella società proprio per consentire forme di controllo sui diversi soggetti che esercitano la sorveglianza. L’esistenza di questo contropotere diffuso contribuisce a escludere la piena legittimazione sociale e istituzionale dei sorveglianti.

Questa più complessa dimensione può essere colta, e valorizzata, solo se si prendono le mosse dall’arricchirsi della nozione di privacy, del suo sviluppo come diritto all’autodeterminazione informativa, del sempre più marcato suo configurarsi piuttosto come diritto alla protezione dei dati personali. Questa evoluzione è ben visibile nella citata Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, dove si opera una distinzione tra il tradizionale «diritto al rispetto della propria vita privata e familiare» (art. 7) e il «diritto alla protezione dei dati di carattere personale» (art. 8), che si configura così come un diritto nuovo e autonomo. La distinzione non è solo di facciata. Nel diritto al rispetto della vita privata e familiare si manifesta soprattutto il momento individualistico, e il potere si esaurisce sostanzialmente nell’escludere interferenze altrui: la tutela è statica, negativa. La protezione dei dati, invece, fissa regole ineludibili sulle modalità del trattamento dei dati, e si concretizza in poteri d’intervento: la tutela è dinamica, segue i dati nella loro circolazione. I poteri di controllo e d’intervento, inoltre, non sono attribuiti soltanto ai diretti interessati, ma vengono affidati anche a «un’autorità indipendente» (art. 8, 3° co.): la tutela non è più soltanto individualistica, ma coinvolge una specifica responsabilità pubblica. Siamo così di fronte anche a una redistribuzione di poteri sociali e giuridici.

Non è una forzatura concludere che siamo di fronte a un nuovo e più ricco modello istituzionale, nel quale si riflette anche una situazione per molti versi paradossale. L’Unione Europea ha associato un diritto nato negli Stati Uniti – appunto il moderno right to privacy – con un’istituzione di garanzia anch’essa nata in quel Paese: l’autorità indipendente. Da questo incontro, reso possibile da un uso penetrante dello strumento legislativo, è nata una forma di protezione dei dati personali particolarmente intensa, formalmente più forte di quella americana. Ma questo ‘cocktail’ europeo viene spesso ritenuto indigesto, ed è oggetto di critiche, proprio dall’altra parte dell’Atlantico, dove le possibilità di tutela sono sempre più ridotte da interventi dei poteri pubblici o sono affidate alle dinamiche del mercato, di fronte alle quali impallidiscono i poteri individuali. La distanza tra questi due modelli di regolazione giuridica rivela divergenze più profonde, divaricazioni tra interessi che possono generare conflitti, ma comincia anche a innescare dialettiche feconde.

È significativo che, discutendo proprio di misure di controllo sulle persone, importanti organizzazioni americane facciano ormai esplicito riferimento al modello di protezione dei dati messo a punto dall’Unione Europea. In un documento dell’ACLU (American Civil Liberties Union), che critica aspramente la pretesa dell’amministrazione americana di ottenere quasi senza garanzie una gran quantità di dati sui passeggeri delle linee aeree che si recano negli Stati Uniti, si fa un’affermazione impegnativa: «per quanto riguarda la protezione della privacy, vogliamo adeguarci all’Europa, non che l’Europa si adegui a noi» (ACLU 2004, p. II).

Se non si vuole cancellare la dimensione istituzionale dall’analisi della società della sorveglianza, conviene allora guardare ai diversi strumenti della protezione dei dati, quali risultano soprattutto da un modello europeo considerato con attenzione nelle più diverse parti del mondo, e nel quale si manifesta un essenziale passaggio dalla considerazione della privacy come pura espressione di un bisogno individuale alla sua collocazione nel quadro della nuova ‘cittadinanza elettronica’. Siamo così di fronte a un aspetto della libertà individuale e collettiva, a un’ineliminabile garanzia contro ogni forma di potere, pubblico o privato che sia.

Tutto questo avviene mentre si fanno sempre più evidenti le mutazioni profonde che gli impieghi delle tecnologie stanno producendo nell’organizzazione pubblica e in quella imprenditoriale, nei rapporti di questi sistemi con i cittadini, nelle relazioni sociali, nella minuta vita quotidiana. È evidente, allora, che questa grande trasformazione non può essere affidata soltanto alla nascita di un’etica, a scelte casuali o alla forza degli interessi di settore, senza che sia avviata una vera discussione pubblica capace di valutare gli effetti a medio e lungo termine delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Sono indispensabili politiche pubbliche, regole nelle quali s’incarnano i valori fondativi di una società democratica.

La pubblicizzazione degli spazi privati

Nell’ultima fase abbiamo assistito a una convergenza di interessi pubblici e privati che ha accelerato la costruzione di una società della sorveglianza. Nei fatti si è saldata un’alleanza tra logica di mercato e logica della sicurezza che non solo ha portato a un’ipertrofia delle banche dati, ma soprattutto ha prodotto forme sempre più accentuate di interconnessione tra le raccolte di informazioni, con una marcata permeabilità delle banche dati private rispetto a qualsiasi richiesta degli Stati motivata con ragioni di sicurezza.

Assistiamo così a una crescente ‘pubblicizzazione’ degli spazi privati per ragioni di sicurezza e a una loro altrettanto intensa ‘disneyzzazione’ per ragioni di mercato. Gli usi commerciali di Internet sopravanzano ormai tutte le altre sue utilizzazioni, con effetti complessivi che possono investire l’intero funzionamento della rete, facendo correre il rischio di una network society identificata progressivamente con la dimensione commerciale. Si ridisegnano i sistemi sociali favorendo la diffusione degli strumenti di sorveglianza e imponendo la conservazione di ogni genere di dati di traffico per ragioni di polizia. Si determina così una trasformazione e un’erosione del sistema dei diritti, dove possono sopravvivere solo quelli legati alle transazioni riguardanti beni e servizi e quelli che sono ritenuti ‘compatibili’ con i controlli di polizia.

Non è soltanto lo spazio virtuale a essere trasformato. Anche lo spazio reale, i tradizionali luoghi pubblici – strade, piazze, parchi, stazioni, aeroporti – vengono sempre più sottoposti a un controllo capillare, scrutati implacabilmente, segnando così il passaggio da una sorveglianza mirata a una generalizzata. Si modifica così la natura degli spazi pubblici, non più luoghi di libertà ma, al contrario, spazi dove non si avrebbe più la possibilità di invocare una ‘ragionevole aspettativa di privacy’. È la stessa logica che presiede alla conservazione per periodi sempre più lunghi di tutti i dati riguardanti il traffico telefonico, la posta elettronica, la navigazione su Internet.

Per finalità diverse, e sempre nuove, si moltiplicano le occasioni e gli strumenti per il controllo delle persone sul territorio, per seguire i loro spostamenti, per localizzarle in qualsiasi momento. La videosorveglianza si è fatta pervasiva, con l’argomento che in tal modo viene meglio garantita la sicurezza di tutti. Tale argomento è insieme vero e non vero, perché, per es., gli impianti di videosorveglianza nei supermercati vengono sempre più adoperati per finalità di controllo dei comportamenti dei consumatori e dei dipendenti, e non di sola sicurezza. E perché molti studi dimostrano che ai decantati benefici in termini di maggiore sicurezza nelle aree videosorvegliate corrisponde uno spostamento della criminalità nelle aree vicine. Si dovrà, allora, estendere la videosorveglianza a ogni centimetro quadrato del territorio, realizzando così un Panopticon totale, dove tutti sono sorvegliati da qualcuno che non sono in grado di vedere e controllare? Inoltre si perfezionano le tecniche di rilevazione satellitare, si diffondono i servizi di localizzazione delle persone attraverso i telefoni cellulari, si fa sempre più frequente il ricorso a ‘etichette intelligenti’ che, grazie alla tecnologia delle radiofrequenze, consentono di ‘tracciare’ gli spostamenti di persone e prodotti. La tecnologia si impadronisce dello spazio e lo governa. Il corpo stesso, variamente associato a queste strumentazioni tecniche, cambia natura.

Non è solo un problema di diritti, di garanzie giuridiche. Siamo di fronte a questioni che, prima ancora dei giuristi, dovrebbero richiamare l’attenzione degli studiosi del comportamento, di psicologi e sociologi, per interrogarsi intorno agli effetti individuali e sociali di questa trasformazione di tutti gli spazi pubblici da luoghi liberi in luoghi sorvegliati: il semplice camminare per strada diventa un atto implacabilmente registrato da una telecamera, le informazioni vengono conservate e ogni nostro passaggio in una piazza o in una strada, in una stazione, in un grande magazzino può essere ritrovato. E dovrebbero dire qualcosa anche gli architetti, visto che a essi si comincia a chiedere di progettare strutture agevolmente controllabili con poche telecamere, nelle quali non vi sia alcun angolo morto. Nessuno spazio per nascondersi, ma neppure spazi per l’intimità.

Questa inarrestabile pubblicizzazione degli spazi privati, questa continua esposizione a sguardi ignoti e indesiderati, incide sui comportamenti individuali e sociali. Sapersi scrutati limita la spontaneità e la libertà. Riducendosi gli spazi liberi dal controllo, si è spinti a chiudersi in casa, e a difendere ferocemente quest’ultimo spazio privato, peraltro sempre meno al riparo da tecniche di sorveglianza sempre più sofisticate. Ma se libertà e spontaneità saranno confinate nei nostri spazi rigorosamente privati, saremo portati a considerare lontano e ostile tutto quel che sta nel mondo esterno. Qui può essere il germe di nuovi conflitti, e dunque di una permanente e più radicale insicurezza, che contraddice il più forte argomento addotto per legittimare la sorveglianza, appunto la sua vocazione a produrre sicurezza e libertà. Una libertà ormai sfidata in modo radicale dalle ultimissime tecniche di localizzazione, legate soprattutto alla telefonia cellulare e alle rilevazioni satellitari.

Il mutamento sociale risiede proprio in questo. La sorveglianza si trasferisce dall’eccezionale al quotidiano, dalle classi ‘pericolose’ alla generalità delle persone. La folla non è più solitaria e anonima. La digitalizzazione delle immagini, le tecniche di riconoscimento facciale consentono di estrarre il singolo dalla massa, di individuarlo e di seguirlo. Il data mining, l’incessante ricerca di informazioni sui comportamenti di ciascuno, genera una produzione continua di ‘profili’ individuali, familiari, di gruppo: ancora una volta, la sorveglianza non conosce confini.

Non è arbitrario, quindi, analizzare quest’insieme di mutamenti dal punto di vista di un modello di Panopticon che, distaccandosi dall’originaria sua matrice carceraria, investe l’insieme delle relazioni sociali. Qui emerge con particolare nettezza il fatto che la sorveglianza genera nuovi assetti dei poteri, modificando la condizione di ogni soggetto.

Lo schema del Panopticon, infatti, istituzionalizza una relazione per la quale i sorvegliati non vedono e non controllano il sorvegliante, determinando così una condizione di permanente assoggettamento del singolo, e della generalità dei cittadini, a poteri esterni, pubblici e privati. Di fronte a questa situazione, che in alcuni contesti si presenta già come strutturale, le strategie di contrasto sembrano a più d’uno inadeguate, e si prospettano ipotesi di razionalizzazione, anzi di sviluppo ulteriore della logica della sorveglianza, per andare oltre il Panopticon e scardinare l’assetto dei poteri a esso legati. Se ‘la società della trasparenza’ è ormai un dato di realtà, l’unica mossa possibile sarebbe quella di sostituire la sorveglianza a una via (sorveglianti-sorvegliati) con un potere generalizzato di controllo, reso possibile dalle nuove tecnologie elettroniche e che includa appunto anche quello dei sorvegliati sui sorveglianti (Brin 1998).

Non è qui il caso di discutere né l’ingenuità politica di questa proposta, né le sue difficoltà tecniche. Vale la pena, invece, di riflettere sul fatto che la società dell’integrale trasparenza postula l’‘uomo di vetro’, e si legittima con l’argomento, continuamente proposto e che tende a produrre un pericoloso senso comune, secondo il quale la sorveglianza continua e generalizzata, la cancellazione di ogni ragionevole brandello di privacy, possono inquietare solo chi ha qualcosa da nascondere. È bene ricordare, allora, che l’uomo di vetro è metafora nazista, legittima la pretesa dello Stato di chiedere e ottenere qualsiasi informazione e, quindi, implica la classificazione come ‘sospetto’, ‘cattivo cittadino’, infine ‘nemico dello Stato’ di chiunque intenda mantenere spazi d’intimità, di esercizio libero di diritti.

Ma, oggi, anche questa riflessione rischia di essere inadeguata rispetto alla realtà. Il passaggio dalla sorveglianza mirata a quella generalizzata, le raccolte di dati personali su scala di massa hanno già determinato la trasformazione di tutti i cittadini in potenziali sospetti, di fronte ai poteri pubblici, e l’oggettivizzazione della persona, di fronte al sistema delle imprese. Questo rende sempre più difficile tracciare distinzioni nette tra area pubblica e area privata. La conservazione dei dati sul traffico telefonico, sulla posta elettronica, sulla navigazione in Internet è assicurata da soggetti privati, ma soprattutto per finalità di polizia e di giustizia. Le imprese attingono largamente a banche dati pubbliche per le loro politiche commerciali, per le strategie nei confronti dei consumatori. Al tempo stesso, in alcuni Paesi, società private acquistano grandi raccolte di informazioni per metterle a disposizione di autorità pubbliche che non potrebbero costituirle direttamente.

La nascita di ‘nazioni di sospetti’ è stata potentemente incentivata dalle legislazioni e dalle prassi legislative adottate dopo gli attentati dell’11 settembre (Lyon 2003). Queste hanno smentito le ipotesi interpretative, o addirittura le certezze, di chi sosteneva che non v’era il rischio di una sorveglianza esercitata prevalentemente dallo Stato, e che non era possibile individuare soggetti capaci di esercitare forme di sorveglianza su scala planetaria. La ‘guerra infinita’ contro il terrorismo ha determinato un mutamento qualitativo, ben visibile nella pretesa dello Stato di considerare qualsiasi banca dati privata come uno strumento a disposizione dei poteri pubblici. E questa pretesa tende a superare i confini nazionali, come dimostra la richiesta dell’amministrazione americana di ottenere dalla compagnie aeree una gran massa di dati sui passeggeri che si recano negli Stati Uniti, senza offrire adeguate garanzie.

Si manifesta una nuova dimensione della sorveglianza, che esalta il potere dello Stato di disporre di qualsiasi informazione personale, da chiunque raccolta e indipendentemente dalle finalità originarie della raccolta. Anche se rimane ancora quantitativamente preponderante la sorveglianza esercitata dai privati, e dunque la massa di informazioni nelle loro mani, questo non implica una separazione tra pubblico e privato, dal momento che, appunto, l’insieme dei dati trattati dai privati viene considerato come una risorsa a disposizione dei poteri pubblici.

La sorveglianza non vuole più conoscere confini, né ostacoli alla utilizzazione di qualsiasi tecnica. S’impadronisce dello spazio, fisico e virtuale, si appropria dei corpi, attribuendo un ruolo sempre più centrale alle tecniche biometriche. Disegna nuove gerarchie e contribuisce potentemente a concentrare il potere.

In essa s’incarna una pretesa di controllo totale, rispetto alla quale non basta enunciare le difficoltà tecniche e organizzative di molti tra questi progetti, o sottolineare le reazioni che questi progetti continuano a suscitare. In essa si riflette una riduzione dell’azione politica e sociale al solo profilo dell’ordine pubblico, senza più attenzione per le cause profonde di malessere o turbamento, delle disuguaglianze e delle sopraffazioni.

Non basta chiedersi se la privacy possa sopravvivere nell’età del terrore o distinguere pazientemente tra le varie forme di sorveglianza. Anche se i progetti di sorveglianza integrale e globale non costituiscono ancora la realtà, il punto critico è costituito dal passaggio da una rappresentazione della realtà a un’altra, dall’affermazione che l’‘eccezionalità’ di ieri è divenuta la ‘normalità’ di oggi. La folla non è più ‘solitaria’ (Riesman, Denney, Glazer 1950), e per questa sua condizione sottratta anche alla possibilità di un continuo scrutinio sociale. È ormai ‘nuda’ (Rosen 2004), indifesa di fronte alla pretesa pubblica o privata di un continuo, generalizzato controllo.

Si sostiene, infatti, che non si può ricorrere al tradizionale bilanciamento tra diritti diversi quando è in questione la sopravvivenza stessa dello Stato, com’è sempre avvenuto in caso di guerre. Ma, in passato, la guerra era dichiarata, vi era un atto formale che l’apriva e uno che vi poneva termine: il ‘tempo di guerra’, con la possibilità di limitare garanzie costituzionali, era circoscritto con precisione. La guerra al terrorismo, invece, non solo non ha confini, ma soprattutto è senza tempo: per definizione di chi la conduce, è una ‘guerra infinita’. Diventerà la limitazione di diritti e garanzie anch’essa infinita? La guerra al terrorismo, inoltre, è contro un nemico invisibile. Significherà, questo, che tutti diventano potenzialmente, se non nemici, almeno sospetti, legittimando ogni forma di controllo di massa? Dobbiamo, dunque, rassegnarci a veder modificato il concetto stesso di libertà?

Queste domande non possono essere eluse, né di esse può essere proposta una versione riduttiva. Ci stiamo interrogando, infatti, intorno ai caratteri di un sistema democratico, ai rapporti di legittimità e proporzionalità tra mezzi e fini. Non si può, quindi, ricorrere a qualche astuzia linguistica, rappresentando la grande questione di fronte a noi attraverso la contrapposizione tra sicurezza e privacy, lasciando così intendere che un grande e comune interesse ben può esigere il sacrificio di egoismi o particolarismi. Non è in gioco, infatti, qualche riduzione circoscritta e minore della sfera privata. È in discussione la dimensione della libertà, sì che la discussione riguarda il rapporto tra sicurezza e libertà, come hanno mostrato le analisi dei mutamenti intervenuti negli Stati Uniti dopo l’11 settembre e, più in generale, delle diverse tecniche adoperate per costruire ‘l’impero della paura’ (Barber 2003). E la compressione delle libertà non costituisce soltanto un impoverimento ‘interno’ dei sistemi democratici, ma anche un indebolimento della capacità di azione verso l’‘esterno’. Non dimentichiamo sia che uno degli obiettivi delle azioni terroristiche è anche quello di realizzare un mutamento di qualità dei regimi democratici, enfatizzandone gli aspetti autoritari, sia che le vittorie della democrazia sui totalitarismi sono state rese possibili dal riferimento forte e continuo proprio a un modello fondato sulle libertà.

Mutato il paradigma interpretativo della società e delle sue dinamiche, dislocati diversamente i poteri, non ci si può rassicurare indagando pazientemente i limiti della sorveglianza su larghissima scala. La logica della sorveglianza totale, infatti, può trovare la sua realizzazione già in un piccolo Comune o in una porzione di Stato, nella dimensione nazionale come in quella sopranazionale.

Inoltre, l’associazione sempre più stretta tra sorveglianza e sicurezza incide profondamente non solo sulla percezione sociale dei problemi della sicurezza, ma anche sulle strategie politiche. Siamo di fronte a una propensione crescente ad affidare alla sola risposta tecnologica la soluzione di problemi di cui non è difficile cogliere le ragioni sociali, politiche, economiche. La complessità sociale viene così brutalmente ridotta, e di essa rimane evidente solo la componente rappresentata dalle questioni di ordine pubblico, che così diventano le sole con le quali misurarsi.

Si assiste, in definitiva, a un’operazione di rimozione, attraverso la quale la politica si libera dell’impegno di analizzare la realtà. Un sistema di videosorveglianza in un quartiere ‘a rischio’ assolve dall’obbligo di fare i conti con i fattori costitutivi della situazione di rischio. Le videocamere in una scuola, per combattere episodi di vandalismo, liberano la scuola e la politica dall’obbligo di capire il perché di questi comportamenti dei ragazzi.

La videosorveglianza non sempre ‘fa vedere’ la realtà. Può oscurarla. Ne offre una sola dimensione, distorta. La traduce solo nella dimensione dell’ordine pubblico, e così inevitabilmente attribuisce all’organizzazione pubblica i connotati di uno Stato di polizia, inducendo così anche le organizzazioni private e i cittadini a divenire prigionieri della stessa logica.

Si accentua in questa maniera non la consapevolezza della natura bifronte della tecnologia, ma la schizofrenia tecnologica. Alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione viene affidato il compito di costruire dal basso una nuova democrazia dei cittadini. Alle tecniche della sorveglianza viene affidato il compito di costruire dal basso il controllo capillare sui cittadini.

Ma il tema della sorveglianza non può essere affrontato attraverso pazienti o astute distinzioni, con accurate ponderazioni di costi e benefici. Vuole costituirsi come principio organizzatore. Solo se ne verrà sempre disvelata, e respinta, la finalità di impadronirsi della vita delle persone, e dunque negato il suo valore di principio organizzatore della vita politica e sociale, sarà possibile accettarne impieghi mirati, circoscritti, davvero eccezionali. Altrimenti, accanto al totalitarismo ‘dolce’ del consumo, può ben insediarsi quello ‘rassicurante’ della sorveglianza.

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