GIANSENIO, Cornelio

Enciclopedia Italiana (1932)

GIANSENIO, Cornelio (Cornelis Jannsen)

Arturo Carlo Jemolo

Nato il 28 ottobre 1585 ad Ackov nella contea di Leerdam (Olanda) studiò a Utrecht e poi a Lovanio: qui si distinse negli studî teologici, cui attese dapprima sotto la direzione dei gesuiti, poi nel cosiddetto collegio papale o di papa Adriano VI, di cui era a capo il teologo olandese Giacomo Iansonius, un appassionato aderente a Baio e avversario dei gesuiti, che probabilmente esercitò non lieve influenza nella formazione di G. Questi conobbe a Lovanio Jean du Verger de Hauranne (Saint-Cyran, v.) che è il vero padre spirituale del movimento che da G. prende invece il nome. Ritornato il Saint-Cyran nel 1604 in Francia, G. poté seguirlo e continuare gli studî teologici con lui. NeI 1617 G. lasciò Bayonne dove viveva col Saint-Cyran e ritornò a Lovanio; nel 1619 otteneva il grado di dottore in teologia, e insegnava con grande successo esegesi biblica in quell'università. È del 1635 un suo scritto satirico, Mars gallicus, aspro attacco alla politica francese, ostile a quella del re cattolico suo sovrano. Sulla fine dello stesso anno ottenne da Filippo IV il vescovato d'Ypres, ch'egli amministrò con zelo per due anni, giacché la morte lo colse nella sua sede vescovile il 6 maggio 1638.

L'Augustinus. - Quando si spegneva, G. aveva da non molto terminata l'opera sulla dottrina della grazia cui aveva atteso per venti anni, e in cui aveva trasfuso tutto il proprio pensiero, formatosi in gran parte attraverso le conversazioni di Saint-Cyran. Proprio nel gennaio del'38 egli aveva ottenuto il privilegio reale per la stampa e la pubblicazione in Lovanio dell'opera.

Morendo egli dispose perché il suo cappellano facesse stampare il manoscritto dell'opera per mezzo dei suoi amici Froidmund (Fromundus) e Calenus. Peraltro G. professava la propria sottomissione alla S. Sede, pur se questa avesse preteso mutamenti nell'opera. L'autenticità di questo testamento attestato da Enrico Calenus, che sarebbe stato steso mezz'ora prima della morte, e che si legge sul tergo del frontispizio dell'edizione di Lovanio del 1640, è stata contestata: G. non avrebbe scritto nulla di ciò, non perché fosse un deciso ribelle alla S. Sede, ma perché all'opposto non sospettava che le sue dottrine potessero apparire eretiche e venire condannate. Ma dal libro stesso appare invece che G. comprendeva che la sua opera sarebbe stata accusata di riprodurre errori già condannati in Baio: comunque essa viene sottoposta nei termini più energici e più netti al giudizio della Chiesa e del papa anche nella sua chiusa. L'opera fu pubblicata in tre tomi in folio a Lovanio, nel 1640, col titolo Augustinus, seu doctrina S. Augustini de humanae naturae sanitate, aegritudine, medicina adversus Pelagianos et Massilienses. Durante la stampa l'internunzio pontificio Stravio, posto in avviso dai gesuiti, aveva cercato d'impedirla: ma invano. L'Augustinus ebbe grande diffusione nelle Fiandre, in Germania e in Francia; qui già nel '41 uscì una nuova edizione approvata da dieci dottori di Sorbona.

Nel libro G. assume di esporre il pensiero agostiniano. L'ignoranza è frutto del peccato originale: ma appunto perciò non è una scusa per l'uomo, ove questi non osservi le leggi di diritto naturale. La venuta di Cristo ha dato la possibilità di salvezza: ma non si può ammettere alcuna volontà generale per la quale Dio voglia la salvezza di tutti gli uomini, inducendosi a fornire loro mezzi di aiuto sufficienti: Dio salva coloro che vuol salvare: la predestinazione è affatto gratuita e precede ogni atteggiamento dell'agire e del volere. Dio non volle tutti salvi dalla condanna in cui erano incorsi, ma alcuni soltanto et peculiariter selectos, e a questi soltanto allestì beneficia liberationis: chi non si trova nel novero dei prescelti, è stato escluso, et negative reprobatus. La nota essenziale del sistema è di scorgere l'uomo oggetto di una duplice delectatio, dello spirito e della carne: i giusti non possono osservare i precetti divini se manchi in loro la vittoria della delectatio dello spirito su quella della carne. Ma tale vittoria non può essere frutto della volontà, divenuta inferma, e neppure della legge: volontà e legge possono far compiere l'apparenza del bene, ma questo bene apparente sarà viziato dai bassi motivi che lo ispirano. Il vero bene può essere compiuto soltanto se l'uomo sia sotto l'azione di quella grazia efficace che Dio concede solo ai predestinati.

L'opera veniva osteggiata dalla Compagnia di Gesù e da tutte quelle correnti che già avevano portato alla condanna di Baio; e il 1 agosto 1641 essa era vietata dall'Inquisizione. Poiché la condanna incontrava fiere resistenze, Urbano VIII stesso con la bolla In eminenti del 6 marzo 1642 (1641 stile romano) condannava, come contrastanti con il divieto di Paolo V di stampare opere sulla materia de auxiliis divinae gratiae, l'Augustinus, alcune tesi a questo opposte dai gesuiti di Anversa, nonché alcuni altri scritti di attacco e di difesa dell'Augustinus. Inoltre il papa dichiarava di avere ritrovato nell'opera molte proposizioni (che non indicava) già condannate dai suoi predecessori. Il 31 maggio 1653 Innocenzo X con la Cum occasione condannava cinque proposizioni che si asserivano tratte dall'Augustinus. Sorgeva su questa condanna una polemica che doveva durare oltre un secolo e i cui ultimi echi non possono forse neppur oggi dirsi spenti. Da parte dei fautori di G. si negò sempre che nell'opera di questo esistessero le cinque proposizioni condannate e pertanto si assunse un contegno disinvolto di fronte alla condanna; meritevolissime di condanna le proposizioni, ma nessuno restava colpito da tale condanna, dal momento che non si trovava alcuno nella cattolicità che avesse mai sostenuto le proposizioni stesse.

Al disopra della controversia sull'esistenza o meno delle cinque proposizioni nell'opera, la condanna pontificia e le resistenze che essa incontrava non facevano che rivelare un profondo dissenso lentamente scavatosi nella cattolicità: dissenso tra i seguaci della più assoluta immobilità sia in materia teologica sia in materia di morale sia in materia di riti, di consuetudine, di disciplina esteriore della Chiesa, e quanti all'opposto pensavano che la Chiesa non potesse compiere un'efficace opera di restaurazione cattolica, di riconquista definitiva delle anime, su cui il Rinascimento non era passato invano, se non a patto di una più profonda interpretazione e rivendicazione della dottrina cattolica; e, fermo il nocciolo inalterabile della fede, la rivelazione, di togliere dalle dottrine teologiche insegnate nelle scuole, quanto doveva apparire repugnante allo spirito del tempo il concetto della predestinazione assoluta e dell'efficacia della grazia, indipendente dalla previsione dei meriti, anzitutto; di rivedere ancora con un senso di giusto equilibrio la dottrina della vita morale, di ammettere i diritti dell'evoluzione e del mutamento della prassi in quanto è disciplina e rito. Più profondo ancora era alla base il dissenso eterno tra quanti nella religione sentono il bisogno di trovare un appagamento a esigenze del tutto estranee alla ragione, di scorgere un campo da cui il raziocinio rimane estraneo (a una siffatta esigenza di fede nessun migliore appagamento dei concetti di predestinazione, di grazia concessa indipendentemente dai meriti), e quanti invece nella loro fede religiosa vogliono vedere soddisfatte le esigenze della ragione.

Il giansenismo in Francia. - Il movimento nato in Fiandra ebbe in Francia i suoi principali sviluppi, le sue figure più salienti; qui furono composte le opere che ne hanno reso imperituro il ricordo.

L'amico di G., il du Saint-Cyran, uomo di costumi integerrimi e di grande pietà, stimato dal card. di Bérulle, fu l'inspiratore di Angelica Arnauld nell'opera di riforma dell'abbazia cisterciense di Port-Royal. Ma circostanze estrinseche (la famiglia Arnauld [v.] s'era distinta nell'avversione antigesuitica) e inerenti all'attività del du Verger, alla sua avversione alla teoria dell'attrizione, designarono subito all'ostilità dei gesuiti e dei loro fautori il cenacolo che aveva a figure centrali Saint-Cyran e gli Arnauld. L'opera di un fratello di Angelica, Antonio Arnauld (1612-94), La fréquente communion, fu fieramente attaccata, accusandosi l'autore di raggiungere, attraverso la reverenza che sembrava inculcare per l'Eucaristia e tutto ciò che diceva circa le disposizioni necessarie per comunicarsi, l'effetto di allontanare i fedeli dai sacramenti.

Allorché fu pubblicata la Cum occasione d'Innocenzo X, il cenacolo che faceva capo a Port-Royal rimase esitante. Forse la sottomissione sarebbe seguita se Antonio Arnauld, mosso anche da incidenti seguiti allora a Parigi (i primi rifiuti di comunione) non fosse uscito dal silenzio e non avesse preso posizione. Seguì la sua esclusione dalla Sorbona (1656) e la necessità per lui di nascondersi e di esiliarsi. Questa condanna segnò l'intervento nella polemica di Biagio Pascal, e la compilazione delle Provinciali, il monumento letterario più noto che il giansenismo abbia lasciato dietro di sé.

Intorno al 1660 la Francia veniva turbata dalla questione della sottoscrizione di un formulario, col quale si riconosceva che le cinque famose proposizioni si trovavano nell'Augustinus ed erano state condannate nel loro vero senso. Un periodo di pacificazione si stabiliva con Clemente IX, sì che Arnauld poteva rientrare ed essere presentato al re. Ma dopo un decennio la questione del formulario, il rinfocolarsi delle polemiche sul terreno della teologia morale, facevan di nuovo divampare la lotta. Antonio Arnauld doveva lasciare la Francia e ritirarsi in Belgio, dove morì vecchio. Ormai il re in persona s'era posto a capo della lotta contro il giansenismo, deciso a condurla a termine, non come esecutore di decisioni pontificie, ma come sovrano che anche in materia spirituale veglia alla pacificazione dello stato, e alla repressione delle dottrine perniciose: nel 1709 veniva distrutta l'abbazia di Port-Royal.

L'oratoriano Pascasio Quesnel (1634-1719) aveva pubblicato Le Nouveau Testament en franåois, più noto col nome di Réflexions morales; con la bolla Unigenitus dell'8 settembre 1713 Clemente XI condannava 101 proposizioni estratte dall'opera. La condanna provocava non solo il riaccendersi delle polemiche ma il loro estendersi in una cerchia così vasta come mai per l'innanzi. Lo stesso arcivescovo di Parigi card. di Noailles, alcuni altri vescovi, la Sorbona, il Parlamento, rifiutavano di accettare la condanna. La resistenza e la lotta durarono sino alla grande Rivoluzione, ma furon tutta una sequela di sconfitte per i giansenisti, di continue diserzioni: verso la fine del regno di Luigi XV il giansenismo non aveva più proseliti che tra il clero minore - notevole il contributo che gli dava il clero colto, la classe dei professori di seminario -, in qualche ambiente di piccola nobiltà e di borghesia dotta, in ceti popolari dove era degenerato in manifestazioni di fanatismo superstizioso. La questione della grazia non era più la questione centrale, anche se in tutte le gradazioni gianseniste fosse sempre vivo quell'alto senso di ciò ch'è la grazia nella economia della vita religiosa, quel pessimismo intorno alle forze dell'uomo comune peraltro fino all'inizio dell'Ottocento a vastissime cerchie ecclesiastiche comprendenti anche uomini e scuole d'indubbia ortodossia. Questo superstite giansenismo francese era soprattutto un gallicanismo esasperato, un rigorismo morale ostile ai gesuiti, sprezzante verso Roma. Ad alcune correnti della Rivoluzione, in particolare ai girondini, il giansenismo poté dare in legato alcuni suoi spunti, qualche suo stato d'animo, non certo l'interezza e neppure l'essenza della sua dottrina.

Giansenismo olandese. - Gli oratoriani Giovanni di Neercassel e Pietro Codde che ressero successivamente la diocesi di Utrecht furono entrambi strettamente legati al giansenismo francese. Codde, avendo rifiutato la firma del formulario, fu rimosso; la S. Sede alla sua morte (1710) considerò come non più esistenti i capitoli di Utrecht e di Harlem; una parte dei cattolici si sottomise, ma il capitolo di Utrecht con un certo numero di fedeli si ribellò, ed elesse degli arcivescovi che furono consacrati da un vescovo in partibus francese. Nel 1750 si aveva così una chiesa scismatica costituita da un arcivescovo e due vescovi. Questa chiesa scismatica, che adottava interamente la dottrina di Port-Royal, esiste tuttora, ma, pur avendo conservata tutta la propria individualità senz'accostarsi a confessioni protestanti, e pure professandosi ognora cattolica, si è allontanata dalle forme della disciplina cattolica, cui per lunghissimo tempo restò fedele.

Il giansenismo in Italia. - In Italia le Provinciali di Pascal furono prestissimo diffuse e ben presto si cominciò a parlare di giansenisti italiani. A ben guardare si tratta però soltanto di avversarî dei gesuiti, di nemici del probabilismo, di sostenitori del rigorismo morale (tra questi emerge il domenicano Daniello Concina, 1686-1756), di difensori dell'agostinianismo rigido in contrapposto ad altre scuole teologiche, difensori provenienti nella quasi totalità dall'ordine agostiniano (tali il card. Enrico Noris, 1631-1704, il p. Fulgenzio Bellelli 1677-1742, il p. Gian Lorenzo Berti, 1696-1766); ancora, di studiosi che riprendono sul terreno già tracciato da due celebri lettere galileiane il problema dei rapporti tra scienza e fede, di ciò che la Scrittura copra col suggello dell'impossibilità di errore; di storici che vorrebbero una storia ecclesiastica coraggiosa la quale desse il bando alle leggende spurie; di uomini di chiesa che si allarmano per quanto appare loro di superstizioso e di men puro nella vita religiosa del loro tempo. Ma si tratta sempre di cattolici, devoti alle supreme autorità della Chiesa, privi di attaccamento per i ribelli di Francia, chiusi alla tetra visione di un uomo fatalmente destinato a perdersi, se Dio, per ragioni imperscrutabili, non voglia la sua salvezza.

Occorre giungere alla seconda metà del Settecento per poter parlare di giansenisti italiani, veramente prossimi a quelli d'oltr'alpe, al pari di questi aspramente ostili al papato, disposti a ogni ribellione. I due cenacoli più rilevanti sono quello che ha per centro il vescovo di Pistoia e Prato, Scipione de' Ricci (1741-1810), e di cui l'impresa più nota è il sinodo di Pistoia del 1786, nei cui decreti si riaffermavano tutti i principî in tema di grazia, di predestinazione, di sacramenti, di vita ecclesiastica, condannati tante volte dalla Chiesa (sicché la loro condanna, pronunciata con la bolla Auctorem fidei del 18 agosto 1794, darà occasione alla S. Sede di ribadire ancora una volta e con decisione e nettezza forse maggiori che in ogni altro documento, la condanna di tutte le dottrine gianseniste), e quello che si raduna nell'università di Pavia e ha a figura più rilevante l'abate Pietro Tamburini (1737-1827), accanto a cui operano gli abati Giuseppe Zola (1739-1806), Giambattista Guadagnini e altri minori. Il cenacolo pistoiese vive più interamente il pensiero del tardo giansenismo francese, spesso si limita a riprodurre le sue opere, e comunque ne diffonde le dottrine senza pressoché rielaborarle: per quanto S. de' Ricci inciti il granduca Pietro Leopoldo a compiere riforme ecclesiastiche, pure il lato politico non predomina su quello sehiettamente religioso nell'attività del giansenismo toscano. Il gruppo pavese è composto di uomini di maggiore valore intellettuale, nutriti di larga cultura, anche filosofica: è movimento sorto nell'università, in stretta connessione con tutta la vita spirituale dell'Impero sotto Giuseppe II: le dottrine sono quelle del giansenismo, ma spesso rielaborate in forma originale, ripensate sotto una forma mentis diversa; e il problema della costituzione della Chiesa dei reciproci rapporti tra papa e vescovi, delle relazioni tra Stato e Chiesa ha per i pavesi un'importanza non inferiore a quella delle questioni strettamente teologiche.

Nelle altre parti d'Italia si hanno qua e là dei giansenisti, in cui spesso il desiderio di riforme ecclesiastiche, la vaga aspirazione a un decentramento che renda il papa un primus inter pares rispetto ai vescovi e faccia sorgere una serie di chiese nazionali strettamente legate ai loro sovrani, è assai più vivo che non le preoccupazioni teologiche. Dappertutto il movimento cerca di mettersi sotto la protezione di principi, il giansenismo si allea al più deciso giurisdizionalismo.

Con la Rivoluzione francese le classi colte cessano per sempre di ap. passionarsi per le questioni teologiche, e anzi, in genere, per le contro. versie ecclesiastiche, e il clero, per reazione contro i soprusi di cui è vittima, è ricondotto alla fedeltà al papa: come tutti sanno, la fine del periodo rivoluzionario vede abbattuto per sempre ogni spirito episcopalista, prostrato il gallicanesimo, ricostituita la Compagnia di Gesù.

Peraltro negli anni della Rivoluzione e dell'Impero si erano mantenuti dei piccoli cenacoli giansenisti: la Liguria era stata la regione d'Italia ove il clero si era più imbevuto di questa dottrina: figure salienti del giansenismo di questi anni l'oratoriano Vincenzo Palmieri (1753-1820) e soprattutto l'abate Eustachio Degola (1761-1826) che visse in continui rapporti con gli uomini più rappresentativi del giansenismo d'oltralpe (tra cui il vescovo Grégoire). Giansenismo molto diverso da quello di pochi decennî innanzi, da quello che con tratti così schietti si presenta nel sinodo di Pistoia ove pure fu teologo il Palmieri: giansenismo che risente delle dottrine politiche liberali, delle aspirazioni umanitarie, filantropiche ed egualitarie del movimento enciclopedista; ma che nel rigorismo morale e nella stessa convinzione della necessità della grazia, dell'imperscrutabilità delle ragioni per cui Dio agli uni accorda la grazia, agli altri la nega, riproduce ancora tratti del giansenismo originario. Il Degola fu il padre spirituale della giovane sposa di Alessandro Manzoni, Enrichetta Blondel, allorché questa a Parigi decise la sua conversione al cattolicesimo (primavera 1810). Egli (e dopo di lui il canonico Tosi, divenuto poi vescovo di Pavia) esercitò indubbia e grande influenza su tutta la famiglia Manzoni: non è qui il luogo per affrontare la dibattutissima questione a qual punto Manzoni si sia imbevuto delle dottrine gianseniste, fino a qual momento della sua vita la loro influenza si sia fatta sentire su di lui, in quali punti della sua opera letteraria più si manifestino: ma se è innegabile l'avversione di lui all'eresia condannata dalla Chiesa, non sono meno innegabili le tracce gianseniste non pur nel pensiero religioso ma in tutta la sua concezione della vita. Meno nette tali tracce nel pensiero cavourriano, se pur certe le relazioni della famiglia Cavour col cenacolo giansenista piemontese: oltremodo dubbie le asserite influenze gianseniste nella formazione del pensiero di G. Mazzini.

Le dottrine gianseniste. - È estremamente diffícile esporre una dottrina giansenista: gli avversarî hanno costantemente attribuito ai giansenisti principî da questi tenacemente rifiutati: e il dibattito si svolge sul terreno più arduo della teologia, là dove i concetti sono più evanescenti, e i vocaboli più incerti ed equivoci.

Il perno della teologia giansenista sta nel peccato originale, nella decadenza che ne è conseguita per l'umanità, nell'incapacità in cui dopo il peccato si trova l'uomo a fare il bene con le sole sue forze. "Tutta la religione consiste nella cognizione del primo e del secondo Adamo", dice il Decreto della Grazia del sinodo di Pistoia del 1786. La macchia originale, che si contrae da chiunque è concepito da donna, non è solo una specie d'infelicità e di miseria, ma ancora una vera colpa mortale e un'ingiustizia, che rende l'uomo di sua natura esposto alla giusta vendetta di Dio. Questo spiega perché senza il riscatto del battesimo tutti, anche i bimbi morti prima dell'età della ragione, siano condannati all'inferno, alla pena sensibile del fuoco. Dopo il peccato originale l'uomo era destinato alla perdizione, giacché aveva in retaggio l'ignoranza del bene e l'inclinazione al male. Egli si lasciava guidare dalla concupiscenza senza conoscerla: peccava ma ignorava il peccato. La sua ignoranza però non poteva neppure allora scusarlo, giacché le tenebre che circondano il nostro intelletto sono una conseguenza del peccato, e non possono costituire a questo una scusa. Dio gli diede la legge: ma l'uomo era impotente a osservarla, e così si accresceva la sua colpa: la legge in sé santissima rendeva l'uomo maggiormente peccatore. "Quelle différence, o mon Dieu, entre l'Alliance judaïque et l'Alliance chrétienne! L'une et l'autre a pour condition le renoncement au peché et l'accomplissement de votre loi: mais là vous l'exigez du pécheur, en le laissant dans son impuissance...." suona la sesta proposizione condannata di Quesnel. Peraltro la legge mosaica valse a far conoscere all'uomo i suoi mali, a convincerlo della sua debolezza, a fargli desiderare il Mediatore.

La venuta del Mediatore rese possibile la salvezza, preclusa pur oggi a quanti non siano stati riscattati dal battesimo (fuori del cristianesimo non esistono virtù: le pretese virtù degl'infedeli non sono che peccati). Il Cristo è il solo canale attraverso cui l'uomo possa comunicare con Dio. Noi non possiamo pregare direttamente Dio perché dopo la caduta non abbiamo più in noi nulla che possa impegnare Dio ad ascoltarci, anzi non meritiamo che di essere da lui respinti, giacché quanto gli offriamo è infetto della vitiosa cupiditas: le preghiere fatte non per il tramite di Cristo divengono anzi esse stesse peccati. Cristo è il mediatore necessario, ma la sua venuta non è stata utile a tutti gli uomini, né ha mutato radicalmente la natura dell'uomo: essa non gli ha fatto ricuperare parte di quanto aveva perduto col peccato originale, non gli ha dato il modo di conquistarsi con le proprie forze dei meriti presso Dio.

All'opposto, anche nell'economia della Redenzione, senza la grazia non si può neppure pregare, neppure concepire il pensiero di un'opera buona: dal primo movimento del buon volere fino alla consumazione dell'opera buona, tutto è dono della grazia, ed a questa non si può resistere. "Il n'y a point de charmes qui ne cedent à ceux de la grace; parce que rien ne resiste au Tout-puissant. - Dieu nous a donné lui-même l'idée qu'il veut que nous ayons de l'opération toute-puissante de sa grâce, en la figurant par celle qui tire les créatures du néant, et qui redonne la vie aux morts" (propp. 16 e 23 di Quesnel). Essa non esclude tuttavia il libero consenso: la grazia non agisce da sola, opera con lei anche la volontà che ex nolente et repugnante fit volens, dice Giansenio. "L'accord de l'opération toute-puissante de Dieu dans le cœur de l'homme avec le libre consentement de sa volontḫ, nous est montrḫ dans l'incarnation, comme dans la source et le modęle de toutes les autres opḫrations de misḫricorde et de grâce, toutes aussi gratuites et aussi dépendantes de Dieu que cette opération originale" (prop. 22 di Quesnel). Mentre un uomo non può agire che dall'esterno per persuadere un altro uomo, Dio agisce immediatamente sulla volontà di cui ha la chiave, e vi agisce infondendo nella volontà la carità, facendole amare l'oggetto al quale vuole portarla. Poiché la grazia non toglie il libero arbitrio, essa fa agire gli uomini in maniera morale e meritoria, anzi si può dire che l'uomo inspirato dalla grazia ha il massimo di libertà, la libertà dei beati che non possono peccare: egli è il forzato liberato dal peso che portava al piede, e che perché così liberato tende naturalmente al sommo bene, che è Dio.

Tutte le azioni dell'uomo derivano dalle due radici che sono nel suo cuore, la cupidità (amore di sé) e la carità (amore di Dio): dove non regna l'una regna l'altra. Perciò tutto è peccato là dove manca l'amore di Dio. Ma questo alla sua volta non può essere che frutto della grazia. Dio non dà a tutti la grazia. Nessuno ha ragione di negare per ciò la giustizia divina: Dio per debito a nessun uomo avrebbe dovuto accordare la grazia: l'accorda per liberalità a quelli cui crede accordarla. Le ragioni della scelta divina, per cui agli uni è accordata la grazia e con essa la salvezza, agli altri no, sono misteriose, imperscrutabili agli uomini.

In morale i giansenisti sono avversarî di ogni forma di benignismo e ostili al probabilismo, se pure non presentino tratti veramente peculiari, che li distinguano dagli altri rigoristi. Essi concordano nel rimpiangere la vecchia disciplina ecclesiastica, tanto più severa, con la gravità delle sue pene, con la necessità di un lungo periodo di espiazione per la riconciliazione del peccatore. Credono che l'asserito benignismo, l'asserita indulgenza della disciplina odierna, non serva che a perdere le anime, ingannando gli uomini intorno a ciò che Dio esige da loro, dando occasione a confessioni e a comunioni sacrileghe di peccatori non convertiti e che non aborrono i loro peccati. Giacché tutti i giansenisti combattono decisamente il cosiddetto attrizionismo, ossia la dottrina secondo cui basta nel sacramento a giustificare l'uomo e a ottenergli la remissione dei peccati il detestare questi per il semplice timore della pena o per la loro bruttezza, senza il motivo più nobile della carità o amore di Dio.

Per quanto è culto, pratica chiesastica, i giansenisti non sono sempre avversarî del culto della Vergine e dei santi - parecchi di loro anzi sono ferventi in tale culto - ma vogliono non sia mai dimenticato l'abisso che separa la stessa Vergine dal Mediatore. Sono avversi al dogma dell'Immacolata Concezione, perché sembra loro atto a scuotere l'idea del peccato originale e dei suoi effetti. Desiderano una religione purificata, da cui sia escluso ogni elemento superstizioso (ciò che non toglie che nei tardi giansenisti francesi questo elemento abbondi): così le rivelazioni, le leggende, le reliquie sono sovente considerate con diffidenza. Si può dire che spesso nella religiosità giansenista si sente ch'essa è religiosità di uomini di studio, di storici in cui il senso critico è sempre in agguato, e che ben poco sanno indulgere ai bisogni della fede degli umili e dei semplici. Tenacissima l'avversione al culto del Sacro Cuore, patrocinato dai gesuiti, e in cui i giansenisti ravvisano un elemento di superstizione, un indebito sdoppiamento del Cristo

Come momenti non originarî del pensiero giansenista, ma consequenziali alle sue vicende, alle sue eondanne da parte della S. Sede, da ricordare il deciso suffragio ch'esso porta alla teoria della superiorità del Concilio ecumenico sul papa, la visione liberale e decentratrice che ha della Chiesa, dove il papa non sarebbe che il primo dei vescovi, il centro d'unità, le cui decisioni non avrebbero vigore fino a che non fossero accolte dal corpo dei vescovi (si cfr. la Vera idea della S. Sede di Pietro Tamburini, il più famoso degli scritti in questo senso): dove i vescovi alla lor volta non sarebbero padroni dispotici nelle diocesi ma dovrebbero governare d'accordo con i pastori del secondo ordine: dove i fedeli infine dovrebbero sempre studiare e meditare i problemi della religione, non essendo loro concesso di rimettere interamente la cura della propria salute eterna al confessore e al direttore di coscienza. Ma, almeno nel giansenismo italiano, fa contrappeso a questa concezione la posizione di assoluta supremazia che si assegna al principe, vero "vescovo esterno" della Chiesa nel suo stato.

Bibl.: B. Jungmann, Jansenius, der jüngere, in Kirchenlexicon, VI, B., pagine 1216-1236; J. Carreyre, Jansénisme, in Dictionnaire de théologie catholique, VIII, Parigi 1924; A. Gazier, Histoire générale du mouvement janséniste, Parigi 1922; Ch. Sainte-Beuve, Port-Royal, 6ª ed., Parigi 1901; J. Laporte, La doctrine de Port-Royal: I, i, Essai sur la formation et le développement de la doctrine - Saint Cyran; II, i, Les vérités de la grâce, Parigi 1923; H. Brémond, Histoire littéraire du sentiment religieux en France, IV, Parigi 1920; L. Séché, Les derniers jansénistes, Parigi 1891; Atti e decreti del Concilio diocesano di Pistoia, Pistoia [1788]; S. de' Ricci, Memorie scritte da lui medesimo e pubblicate da A. Gelli, Firenze 1865; E. Rota, Il giansenismo in Lombardia ed i prodromi del risorgimento italiano, in Raccolta di scritti storici in onore de prof. Giacinto Romano, Pavia 1907; N. Rodolico, Gli amici e i tempi di Scipione dei Ricci. Studi sul giansenismo italiano, Firenze 1920; A. C. Jemolo, Il giansenismo in Italia prima della Rivoluzione, Bari 1928; E. Buonaiuti, C. G., Milano 1928; F Ruffini, Il "Masso" del Natale manzoniano e il giansenismo, in Rivista d'Italia, XXVII (1925), p. 155 segg.; id., I giansenisti piemontesi e la conversione della madre di Cavour, Torino 1929; id., La morale dei giansenisti, in Atti della R. Accademia delle scienze di Torino, LXII (1927); id., Natura e grazia, libero arbitrio e predestinazione secondo la dottrina giansenistica, ivi, LXI, 1926; id., La vita religiosa di A. Manzoni, due voll., Bari 1931; in senso contrario si veda: Civiltà Cattolica, 1915, I, pp. 89 segg., 445 segg., 655 segg., 1931, I, p. 338 segg. Inoltre: L. von Pastor, Storia dei Papi, trad. it., XIII, Roma 1932, pp. 644-711.