COSIMO II de' Medici, granduca di Toscana

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 30 (1984)

COSIMO II de' Medici, granduca di Toscana

Elena Fasano Guarini

Nacque a Firenze il 12 maggio 1590 da Ferdinando I granduca di Toscana e da Cristina figlia di Carlo III duca di Lorena. Ricevette, soprattutto per impulso della madre, un'educazione molto ampia, volta a fornirgli conoscenze nel campo della cultura classica, della cosmografia, del disegno, della matematica e della meccanica, ed a prepararlo alla pratica delle lingue viventi, quali il tedesco ed il castigliano.

Affidato a precettori di scarso spicco, tra i quali ebbero qualche notorietà il letterato senese Celso Cittadini ed il fiorentino Pierodi Giovanni Francesco Rucellai, poté però usufruire ripetutamente dell'insegnamento di Galileo Galilei, invitato da Cristina di Lorena ad occuparsi, durante i suoi soggiorni estivi in Toscana tra il 1605 ed il 1608, del "virtuoso trattenimento del Principe": a questo ed "ai suoi primi giovanili studi" il Galilei dedicò nel 1606 Le operazioni del compasso geometrico et militare, dopo averlo già addestrato nel corso dell'estate precedente all'uso dello strumento allora inventato. In conformità alle consuetudini della vita di corte, C. fu addestrato anche alle arti militari e cavalleresche, sotto la guida di Silvio Piccolomini, gran connestabile dell'Ordine di S. Stefano e generale delle artiglierie granducali; praticò l'equitazione, la caccia, la danza.

Nel 1608, nel quadro della politica di avvicinamento all'Impero perseguita da Ferdinando I, fu celebrato il suo matrimonio con Maria Maddalena d'Austria, figlia dell'arciduca Carlo duca di Stiria e sorella dell'arciduca Ferdinando, futuro imperatore. Le nozze furono accompagnate da fastosi festeggiamenti, culminati nella rappresentazione delle Argonautiche sull'Arno.

Nel 1609, all'età di diciannove anni, C. II successe al padre, ereditando un vistoso patrimonio, un dominio fiorente e tranquillo, un solido prestigio internazionale. La sua giovinezza al momento dell'ascesa al trono e la fragilità della sua salute, minata probabilmente da una precoce forma di tubercolosi ed ulteriormente deteriorata a partire dal 1614 a seguito di una malattia di stomaco, fino al punto da costringerlo a tenere il letto per buona parte del tempo, gli impedirono di esercitare il potere con la stessa impronta personale e lo stesso autoritarismo accentratore che erano stati propri dei suoi predecessori. Il suo governo fu caratterizzato invece dal peso accresciuto del Consiglio privato e da una larga partecipazione famigliare: accanto alla madre, che sui suoi inizi esercitò una sorta di tutela ufficiosa e conservò sempre grande autorità, acquistò gradualmente influenza la moglie, cui C. II fu legato da affetto profondo, ed occuparono posizioni di rilievo il fratello Francesco fino alla sua morte (1614) e per alcuni anni (1611-1616) lo zio Giovanni, figlio naturale di Cosimo I.

Consiglieri, ministri, magistrati ebbero spazio maggiore, non solo come strumenti ma anche come interlocutori della direzione politica. Mentre in ciò la storiografia posteriore ha spesso scorto il segno di un deterioramento del potere principesco ed una delle cause dell'avvio di una lunga fase di incertezze qd immobilismo politico, da un contemporaneo di C. II, Michelangelo Buonarroti il Giovane, proprio la stretta collaborazione con i ministri, la tolleranza nel "sentire il concetto da lui suscitato non secondarsi", la disponibilità ad accettare che i propri pareri fossero sottoposti a discussione ed a modificarli nel corso di questa, "lasciando il seme del suo pensiero quasi come dentro un vaglio in mano dell'altrui discorso", potevano essere presentati come aspetti positivi della personalità del quarto granduca e del suo sistema di potere.

Al rafforzamento di una delle più alte magistrature dello Stato ed alla limitazione del potere diretto di intervento del sovrano nel campo della giustizia mirò anche la più rilevante riforma istituzionale attuata da C. II: il conferimento nel 1615 alla Consulta, ilconsiglio granducale in materia di grazia e giustizia, di compiti stabilmente definiti e di funzioni permanenti, in luogo di quelle fluide e saltuarie svolte fino ad allora.

Il nuovo governo fu peraltro contrassegnato da larga continuità con il passato, sia sul piano istituzionale sia su quello politico. La compagine dei ministri di Ferdinando I subì ben pochi mutamenti, ed alla sua testa continuò ad operare in qualità di primo segretario Belisario Vinta. Anche gli uomini che gli succedettero alla sua morte (1613) - il giurista pontremolese Pietro Cavallo, morto a sua volta nel 1615, il letterato Curzio Picchena da Colle, e, come secondo segretario, Andrea Cioli da Cortona - avevano già fatto il loro apprendistato burocratico sotto il granduca precedente. Le alte cariche amministrative erano quindi ancora rette, così come era avvenuto fin dagli inizi del principato, da "provinciali" non di rado di modesta origine; e la presenza accanto a questi di alcuni esponenti di famiglie nobili, come il conte Camillo Guidi e Orazio della Rena, lasciava sì intravvedere l'avvio di un processo di trasformazione nella composizione sociale della burocrazia medicea, ma restava di fatto ancora limitata e marginale. Fu semmai caratteristico del tempo di C. II il vasto predominio del ceto forense, di cui il rafforzamento della Consulta fu presupposto e sanzione.

Sostenuto dall'esperienza dei ministri del padre, C. perseguì con costanza la politica di attento equilibrio tra le massime potenze europee che era già stata propria di Ferdinando I, mirando come lui all'allentamento delle tensioni tra Francia e Spagna ed alla conservazione della pace come condizione indispensabile della propria autonomia politica. In questo quadro si colloca la lunga mediazione svolta tra il 1610 ed il 1612 dagli emissari granducali in vista della stipulazione di un "doppio parentado" tra la corte francese e quella spagnola: la felice conclusione delle trattative, sfociate nel matrimonio di Luigi XIII con Anna d'Austria e del futuro Filippo IV con Elisabetta di Borbone, fu certo dovuta più al prevalere di tendenze pacifistiche sia in Spagna sia in Francia dopo la morte di Enrico IV che non all'influenza della diplomazia toscana, ma fu accolta con soddisfazione alla corte granducale.

Meno fortunato C. II fu nei molteplici tentativi volti a stringere alleanze matrimoniali tra la propria famiglia (egli aveva quattro sorelle in età da marito) e le massime casate principesche d'Italia e d'Europa. Così le trattative intavolate nel 1611 e protratte senza risultato fino al 1615 con Carlo Emanuele di Savoia in vista delle nozze tra il figlio di questo ed una delle principesse toscane sembrarono riflettere un progetto ambito più dal granduca che non dal sovrano sabaudo, che ambiziosamente aspirava a parentadi più elevati e poneva al proprio assenso gravose condizioni finanziarie e politiche, chiedendo a C. di acquistare terre e feudi nel Mantovano per dotarne la sorella, e di ottenere allo stesso titolo da Maria de' Medici la concessione ai Savoia del Paese di Vaud. Effimero e contrastato fu anche il disegno di matrimonio tra il principe Enrico di Galles e la principessa Caterina. Promosso dal ministro inglese Salisbury nel 1611 e gradito a Giacomo I, sensibile al duplice vantaggio di un legame politicamente non impegnativo e finanziariamente lucroso, esso fu accolto con soddisfazione da C., che all'inizio del 1612 si impegnò a dare in sposa la sorella ad Enrico con una lauta dote, a condizione che ad essa ed alla sua corte fosse concesso il libero esercizio della religione cattolica. Il progetto, pur presentato dalla corte granducale come possibile strumento della restaurazione cattolica in Inghilterra, suscitò la dura opposizione della Curia, ispirata dal Bellarmino, e di Paolo V, che negò la dispensa pontificia e minacciò sanzioni ecclesiastiche contro Firenze. C. II ribadi dapprima il proposito di mantenere l'impegno assunto, opponendo di fronte al papa, per bocca di Giovanni de' Medici, le leggi dell'onore agli obblighi della coscienza; poi, di fronte ai timori ed alla rapida propensione al cedimento del proprio Consiglio, ed in particolare delle due arciduchesse, scelse la via del compromesso, e promise a Paolo V di tentare ogni strada per recedere, fatta salva la propria dignità e la parola data, e qualora ciò non fosse stato possibile di dargliene comunicazione preventiva. In realtà le trattative continuarono, ed il granduca, a prova del suo reale interesse al parentado, di fronte all'emergere di altre candidature, propose un cospicuo aumento della dote offerta per la sorella: pose termine alla vicenda solo la morte del principe di Galles, avvenuta nel 1612. Altrettanto sfortunato fu il tentativo, compiuto nel 1616, di dare la principessa Eleonora in moglie a Filippo III di Spagna, già vedovo e profondamente esitante sull'opportunità politica di stringere nuovi legami: l'inutile attesa di una decisione del sovrano durò fino alla morte della principessa, sopravvenuta nel 1617. Infine, nel 1620, l'offerta di una delle principesse ancora nubili in moglie all'imperatore Ferdinando incontrerà un rapido rifiuto, provocato dal timore delle possibili reazioni spagnole e sabaude. C. II dovette accontentarsi di parentadi meno illustri: la sorella Caterina andò sposa nel 1617 a Ferdinando Gonzaga, duca di Mantova e Claudia nel 1621 a Federico Della Rovere, figlio di Francesco Maria duca d'Urbino. Alla sua chiara volontà di conservare il prestigio che Ferdinando I aveva assicurato alla famiglia, i nuovi equilibri europei all'inizio del '600 offrivano spazi politici e diplomatici più ristretti.In effetti se C. II fu fedele al modello paterno, la sua iniziativa politica si mosse entro orizzonti più limitati e spazi marginali, e fu condizionata da un lato dai piani aggressivi di Carlo Emanuele di Savoia nell'Italia settentrionale, dall'altro dal riemergere, proprio in relazione a quelli, dei vincoli feudali contratti dai Medici con la Spagna fin dal tempo dell'infeudazione di Siena (1557).

Proseguì la politica, già applicata dai suoi predecessori, di arrotondamento dei confini dei domini medicei, mediante l'acquisto dei feudi di Scansano e Castellottieri in Maremma e di Terrarossa in Lunigiana. Ma i disegni di pacifica conquista del principato di Piombino e dei possessi degli Appiani nell'isola d'Elba, Pianosa e Montecristo - già avviati da Ferdinando I allorché il feudo era ricaduto al fisco imperiale dopo la morte di Jacopo VII Appiani (1603), proseguiti da C. II fino alla concessione dell'investitura a Isabella Appiani nel 1611: e da lui ripresi allorché la morte dello sposo di questa, Giorgio Mendoza, conte di Binasco (1618), sembrò riaprire la questione della - successione - non portarono ad un risultato, per gli impegni precedentemente assunti dall'Impero verso la Spagna; e nel 1619 C. II, sensibile solo al miraggio di una sovranità effettiva, rinunciò all'unica forma di possesso dell'isola d'Elba che gli fosse aperta, declinando l'offerta imperiale di concedergliela come pegno di un prestito di 500.000 ducati.

I suoi interventi nelle vicende internazionali del tempo, pur prudenti ed avveduti, non ebbero influenza rilevante. Così nel 1612, di fronte alla tensione insorta tra Gonzaga, Savoia, Estensi in seguito alla congiura contro Ranuccio Famese, non mancò una proposta di mediazione toscana, ma questa restò senza effetto, per il rapido e risolutivo intervento di Francia e Spagna. Nel 1613, durante la prima invasione del Monferrato di Carlo Emanuele, C. II s'impegnò ad inviare ai Gonzaga un aiuto militare; ma i contingenti toscani, bloccati dall'opposizione degli Estensi e del papa al loro passaggio sulle proprie terre, arrivarono sul teatro degli scontri quando ormai il duca sabaudo era stato costretto alla tregua dal fronte unito delle monarchie europee. Negli anni seguenti (1614-18) l'aiuto in uomini e denaro prestato da C. II agli Spagnoli nel corso delle guerre combattute nello Stato di Milano contro Carlo Emanuele fu l'adempimento, non privo di contestazioni e resistenze, di un obbligo feudale. Gli impegni abbastanza gravosi così assunti impedirono poi al granduca di intervenire nel 1617 a fianco del cognato Ferdinando Gonzaga in occasione di una seconda incursione sabauda nel Monferrato.

Nello stesso anno egli dovette far fronte alla crisi apertasi nei rapporti con la Francia in seguito al conflitto tra Luigi XIII e la madre Maria de' Medici ed all'assassinio di Concino Concini: alla richiesta francese, lesiva della sovranità toscana, di confisica dei beni che i Concini possedevano a Firenze, egli non poté non opporre un rifiuto; ed alla cattura di vascelli toscani in Provenza dovette rispondere con quella di vascelli provenzali a Livorno. Mantenne però il suo aiuto a Maria de' Medici nei termini di un interessamento privato alla sua sorte e forse di una sovvenzione segreta; e, ben consapevole del rischio che il perdurare di una tensione con la Francia avrebbe costituito per la parziale autonomia politica dei granducato dalla Spagna, accettò di buon grado la mediazione di Enrico di Lorena e la rapida ricomposizione del contrasto (1618), consolidata un anno più tardi dal riavvicinamento di Luigi XIII alla madre.

Le scelte politiche di C. II furono talvolta segnate da incertezze, che riflettevano il suo modo di gestire il potere ed i contrasti tra "partiti" della corte e dei Consiglio. Così il reclutamento nel 1619 di un reggimento in Germania a spese del granduca in appoggio all'imperatore Ferdinando non segnò un complessivo e meditato mutamento di rotta, ma costituì una risposta alla pressante richiesta di aiuti da parte di Vienna, data, non senza tergiversazioni, sotto la pressione del "partito" di Maria Maddalena d'Austria temporaneamente predominante, ed ispirata al duplice desiderio di accattivarsi l'appoggio imperiAle nella questione di Piombino e di ostacolare Carlo Emanuele sulla strada del riavvicinamento all'Impero e dei conseguimento del titolo regio. Nel febbraio del 1621 però il reggimento fu licenziato, i suoi effettivi si confusero con quelli dell'esercito imperiale, e la partecipazione di C. alla guerra dei Trent'anni ebbe brusco termine.

Più vivace e ispirata ad ambizioni più vaste fu la politica mediterranea che C. Il cercò di attuare, seguendo ancora una volta le orme del padre. Agli occhi dell'allievo di Silvio Piccolomini, questo era in realtà il campo della gloria e nell'essere "terrore degli Ottomani" vi era la misura della grandezza di un sovrano. Pur avendo ostentato disprezzo nella sua prima gioventù per i risvolti mercantili della guerra di corsa, C. continuò a praticarla contro pirati turchi e barbareschi; accrebbe la marina granducale, affiancandone l'uso militare alla pratica del noleggio mercantile; stimolò le imprese dell'Ordine di S. Stefano, sotto la guida dell'ammiraglio Iacopo Inghirami e di Giulio da Montauto, e ne propagandò solennemente i risultati in Francia, Spagna, Inghilterra. Condivise anche attivamente i miti di crociata che circolavano nell'Europa mediterranea del tempo e le speranze, comuni anche alla Spagna ed a diversi principati italiani, di una crisi imminente dell'Impero ottomano e di possibili insurrezioni nei Balcani e nel Levante. Diede perciò appoggio, sia pur con la cautela che gli era connaturale, a progetti e movimenti antiturchi, cercando per questa strada nuovi spazi politici e commerciali. L'Ordine di S. Stefano, particolarmente nei primi anni del granducato di C. II, conseguì una serie di successi: il saccheggio delle terre dei Bischeri in Barberia, la presa della fortezza e casale di Disto in Negroponte e della fortezza di Elimano in Caramania.

Ma la capacità di intervento complessivo di C. nell'area turca, così come quella, del resto, degli altri Stati mediterranei, si rivelò assai poco incisiva, affidata alla collaborazione con personaggi talvolta ambigui, ostacolata dal rafforzamento in corso dell'Impero ottomano e dall'assenza di effettivi disegni unitari degli Stati europei, minata infine dalle stesse esitazioni granducali. Così la solenne ambasciata inviata a Firenze nel 1609 da Abbas il Grande, scià di Persia, e guidata da Robert Sherley, fu ricevuta con grande rilievo dal giovane granduca, sensibile al prestigio che gli conferiva l'esserne destinatario; ma il progetto di lega antiturca che veniva proposto alla sua attenzione ed alla sua mediazione non ebbe seguito. L'arrivo a Firenze in quello stesso anno, su suo invito personale, di un oscuro pretendente al trono turco, Jahyia, che aveva vanamente pellegrinato per l'Europa in cerca di sostegno ai propri progetti, indusse C. II ad organizzare una spedizione di quattro galeoni nel Levante, con l'obiettivo limitato di stabilire buoni rapporti tra Jahyia e l'emiro Faccardino (Frakhr ad-din) capo della resistenza antiottomana in Siria, ma i risultati furono deludenti, e nel 1614, Jahyia, ormai inascoltato in Toscana, si trasferì a Venezia. Nel frattempo (1613) era sbarcato a Livorno l'emiro Faccardino, già strettamente legato a Ferdinando I: alla sua richiesta di quindici galeoni e venti galere in appoggio ad un progetto di liberazione di Gerusalemme e della Palestina, C. II rispose prudentemente inviando in Siria una missione perlustrativa ed impegnandosi a trattare con il papa e con il re di Spagna la costituzione di una lega antiturca. E rapporto della missione, convinta della possibilità di un insediamento toscano in Siria, sembrò indurre C. II ad effettuare una spedizione con questo obiettivo; ma essa in effetti non ebbe mai luogo, bloccata dalle esitazioni congiunte del granduca e dell'emiro, che nel 1615 abbandonò la Toscana per Messina, e solo in seguito tornò in Siria, restaurandovi il proprio potere. Le ambizioni mediterranee di C. II non ebbero quindi risultati politici; esse consentirono però ai mercanti toscani di estendere i propri rapporti con il Levante.

Pur colpita, in particolare negli ultimi anni di C. II, da alcune annate di carestia e da una grave epidemia di tifo (1620) la Toscana sembra aver goduto sotto il suo principato di una situazione economica abbastanza fiorente, contrassegnata, a quanto risulta dal censimento fatto nel 1622, da una fase di crescita demografica, particolarmente intensa nelle città. Il calo della produzione laniera a partire dal 1615, Cui C. cercò di far fronte con prestiti e sovvenzioni, ed il probabile aumento della mendicità, che lo indusse ad emanare nel 1621 misure di confinamento, non sembrano aver assunto i caratteri di una crisi generale dell'economia urbana. Eccezionale in ogni caso fu la crescita di Livorno, passata da circa cinquemila abitanti nel 1609 a più di novemila nel 1622. Qui C. II proseguì con successo la politica mercantile e demografica del padre, confermando ed ampliando le esenzioni che questi aveva concesso a mercanti e nuovi immigrati, accordando privilegi e monopoli, sollecitando l'insediamento di "nazioni" straniere, richiamando, non sempre con successo, colonie: così nel 1609 offrì rifugio nelle campagne livornesi a tremila moreschi espulsi dalla Spagna, ma fu poi rapidamente costretto a deportarli in Africa, per la loro violenta rissosità. Volle razionalizzare ed ampliare le strutture portuali: abbandonando i progetti troppo grandiosi del padre, fece costruire il molo Cosimo (1611-1620), che delimitò un bacino più ristretto, ma sicuro e profondo. Ampliò ulteriormente il tessuto urbano; per sua cura fu costruito in particolare un quartiere intero di proprietà dei cavalieri di S. Stefano (1617). A Firenze procedette alla riforma del Monte di pietà (1616), che da tempo svolgeva una complessa attività bancaria, dotandolo di una rendita garantita da entrate pubbliche.e sostituendo al sistema del deposito con interesse, praticato fino ad allora, la vendita di luoghi di Monte. La riforma era ispirata alla preoccupazione di evitare censure ecclesiastiche contro l'attività del Monte, che nella sostanza non subì però profonde modifiche e con il suo capitale fu in misura crescente strumento di controllo di larga parte del mercato fiorentino della lana e della seta e base per una politica di ampi prestiti internazionali.

In campo agricolo il governo di C. II manifestò con diversi atti il suo interessamento per l'incremento della produzione e il miglioramento dello stato delle campagne. Nel Grossetano fece costruire un canale navigabile, per facilitare il trasporto dei grani e operò bonifiche. Nel contado di Pisa, in risposta alle richieste di perequazione fiscale delle Comunità, diede avvio nel 1617 alla preparazione di un nuovo estimo che verrà compiuto nel 1622, un anno dopo la morteúi C., e sarà redatto con criteri topografico-descrittivi di notevole valore innovativo. Nel 1620, sotto il peso della carestia, fu istituita una Deputazione sopra le coltivazioni, volta ad incrementare le colture e dotata di notevoli poteri di intervento nelle campagne. Contemporaneamente però si configurava una netta estensione dei diritti signorili sulla terra, attraverso l'impetuosa moltiplicazione delle bandite di caccia e pesca, riservate non solo alla corte, ma anche ai gentiluomini. per la cui rigida tutela C. II emano a più riprese regolamenti generali (1612-1614).

Modi di vita ed ideali nobiliari acquistarono spazio crescente nella Toscana di Cosimo II. Lo stesso granduca ne fu profondamente partecipe, ed alla sua ascesa al trono abbandonò l'esercizio della mercatura, che i suoi predecessori avevano costantemente praticato ed egli riteneva indegna di un principe. Alla costituzione di nuovi feudi, peraltro limitati nel numero e dotati di ristrette prerogative giurisdizionali, alla moltiplicazione dei titoli, si affiancò l'ammissione di titolati nell'ordine senatorio, in deroga agli antichi privilegi della cittadinanza fiorentina. Nel 1611 C. II istituì un Collegio nobile degli avvocati fiorentini, "eterna testimonianza scriverà un panegirista, V. Cerchi di quanto egli amasse la nobiltà e quanto e' bramasse che ella fosse reverita, come se per tal dimostratione gli fosse avviso lei sola poter rappresentare quegli antichi legisti che dal nome di sacerdoti furono meritatamente onorati". Se le condizioni della nobiltà fiorentina potevano apparire agli ambasciatori lucchesi verso la fine del principato di C. II "grandemente al basso per le gravi spese che gli apporta la Corte", C. II nel 1620, a tutela dei patrimoni famigliari, emanò delle norme che limitavano il diritto di successione femminile.

La corte, cui egli diede nuove fastose comici con l'ingrandimento di palazzo Pitti e la costruzione della villa di Poggio Imperiale ad Arcetri, ebbe sotto il suo principato vita sfarzosa e godette di un clima aperto e tollerante.

C., erede dei gusti dei padre, fece rappresentare spettacoli di teatro, balletti e feste, ai cui apparati lavorarono spesso artisti di grido; fu amantissimo di giostre, tornei, partite di caccia, cui partecipò personalmente, nonostante le precarie condizioni di salute; e nei conviti., nelle gare di piacere, nelle conversazioni tenute in sua presenza trovò amabile sollievo alle sue infermità. Interessato alle tendenze nuove nel mondo artistico e letterario, fece credito alle innovazioni pittoriche di Matteo Rosselli, incaricato nel 1620 di affrescare il casino di S. Marco, ed al realismo di Giovanni Bilivert, autore di uno dei suoi ritratti più noti; continuò a concedere a G. Chiabrera l'ospitalità di cui aveva già goduto sotto Ferdinando I; e per lui, come per il commediografo Michelangelo Buonarroti il Giovane, che per la corte granducale produsse le proprie commedie, la protezione di C. fu garanzia di una tutelata libertà. C. II proseguì d'altra parte la politica culturale impostata dai suoi predecessori, favorendo le istituzioni (accademie, università) che ne costituivano il supporto, ed essa diede sotto il suo principato frutti maturi. L'Accademia della Crusca pubblicò nel 1612 la prima edizione del suo Dizionario; a Pisa l'esule scozzese Thomas Dempster, professore di pandette presso quell'università, compose tra il 1616ed il 1619 il suo De Etruria regali, opera restata per il momento manoscritta, nella quale trovava espressione compiuta la celebrazione dell'antica Toscana, cui da tempo si era intrecciata quella dell'assolutismo mediceo.

Fedele alla formazione giovanile, C. II conservò grande interesse per le questioni scientifiche e rispetto e considerazione per gli uomini di scienza.

All'inizio del 1610 Galileo Galilei dedicò ai Medici la scoperta dei quattro pianeti di Giove, le Stelle Medicee, e personalmentea C. II lo scritto in cui dava la grande notizia al mondo, il Sidereus Nuncius. In ciò vi era l'evidente espressione del suo desiderio di rientrare a Firenze e porsi sotto la protezione. granducale: ad esso C. II rispose con entusiasmo, ed al termine di brevi trattative, nel luglio dello stesso anno, Galileo fu nominato matematico primario dello Studio di Pisa e matematico e filosofo primario del granduca, con esenzione dall'obbligo di leggere e risiedere nello Studio di Pisa. C. II gli garantiva così una situazione economica tranquilla, la piena disponibilità del suo tempo per la ricerca scientifica, che Galileo riteneva di poter ottenere soltanto da un principe assoluto, ed un'implicita tutela contro lo scalpore che le sue scoperte avrebbero potuto provocare nel mondo scientifico ed ecclesiastico. A corte Galileo partecipò alle riunioni che C. II amava promuovere tra uomini di scienza per discutere temi che egli stesso talvolta proponeva: in questo contesto nel 1611, alla presenza dei cardinali Maffeo Barberini, futuro Urbano VIII e Ferdinando Gonzaga, si svolse la disputa sulle cause del galleggiare, che diede origine al galileiano Discorso al Serenissimo don Cosimo II granduca di Toscana intorno alle cose che stanno in su l'acqua o che in quella si muovono, pubblicato nel 1612. Il granduca ed i suoi famigliari manifestarono, sia pure in grado diverso, interesse anche per le concezioni astronomiche galileiane ed il loro rapporto con la Sacra Scrittura: nel 1613 Benedetto Castelli tenne alla tavola granducale dei "ragionamenti sul moto della terra", ed il Galilei si rallegrò con lui per lettera del fatto che le "Altezze Serenissime" sembrassero "prender satisfazione di discorrer seco, di promuovergli dubbi, di ascoltarne le soluzioni e finalmente restar appagate delle risposte della Paternità Vostra". Quali che fossero le sue opinioni personali, la protezione di C. II a Galileo in effetti non venne mai meno, né davanti agli attacchi di cui egli fu oggetto a Firenze, né durante il primo processo istruito contro di lui a Roma nel 1616. Nei suoi viaggi romani dei 1611 e del 1616 il matematico granducale fu ufficialmente affidato alle cure degli ambasciatori fiorentini, ed accompagnato da calorose lettere di raccomandazione di C. II ai cardinali amici. Se ciò non evitò la sua sostanziale sconfitta, contribuì forse a limitarne, vivente C., la portata.

C. II morì di tubercolosi il 28 febbraio 1621 a Firenze. Lasciava cinque figli maschi, il maggiore dei quali non aveva ancora undici anni, e tre femmine.

Nel testamento, predisposto fin dal 1615, stabiliva che la granduchessa Cristina e l'arciduchessa Maria Maddalena fossero dichiarate tutrici e reggenti con il pieno esercizio della sovranità, ma, elevando a norma la prassi che egli aveva già sostanzialmente seguito, dovessero ricorrere per ogni atto politico al parere di un Consiglio, per il quale indicava criteri di composizione e modalità di funzionamento; prescriveva alcune norme di comportamento politico; infine, a ribadire le proprie scelte nobiliari, vietava di attingere al proprio tesoro per prestiti ed imprese mercantili, riservandone l'uso alla costituzione di doti per le principesse ed al soccorso della popolazione nelle pubbliche calamità.

Fonti e Bibl.: Tra le fonti manoscritte relative alla storia del granducato al tempo di C., ha particolare interesse biografico il carteggio universale di C., Arch. di Stato di Firenze, Mediceo del Principato, ff. 1602-1621 (vedi anche Arch. di Stato di Firenze, Arch. Mediceo del Principato. Inv. sommario, Roma 1951). Document. biografica è reperibile anche nei fondi Miscellanea medicea e Carte strozziane, per le quali vedi Le Carte Strozziane del R. Arch. di Stato di Firenze, Inv., s. 1, I-II, Firenze 1884-1891. Si veda anche Ibid., Manoscritti, 132: F. Settimanni, Mem. fiorentine dall'anno 1532 che la famiglia de' Medici ottenne l'assoluto Principato della città e dominio fiorentino infino all'anno 1737 che la medesima famiglia mancò di success. nel Granducato di Toscana, VII, e C. Tinghi, Diario di corte, alla Biblioteca nazionale di Firenze, ms. Capponi 261. Gli atti legislativi sono in buona parte pubbl. in Legisl. toscana, a cura di L. Cantinì, XIV-XV, Firenze 1804. Per la bibl. e le fonti a stampa vedi i repertori bibliografici di D. Moreni, Serie d'autori di opere riguardanti la celebre famiglia Medici, Firenze 1862, e D. Camerani, Saggio di bibliografia medicea, Firenze 1964, pp. 122-123. In mancanza di biografie coeve di C. sono di qualche interesse i panegirici di N. Arrighetti, Delle lodi del Serenissimo C. II granduca di Toscana, in Raccolta di prose fiorentine raccolte dallo Smarrito accad. della Crusca, Venezia 1751, IV, pp. 52-68; M. Buonarroti, Delle lodi di C. II granduca di Toscana, ibid., VI, pp. 78-99; V. Cerchi, Delle lodi di C. II granduca di Toscana, ibid., pp. 58-77; A. Pellegrini, Relazioni ined. di ambasciatori lucchesi alle corti di Firenze, Genova, Milano, Parma, Torino (sec. XVI-XVII), Lucca 1901, pp. 137-141. Profili biografici si trovano in P. Litta, Le famiglie celebri italiane, s. v., tav. XV; G. F. Young, I Medici, Firenze 1943, II, pp. 323-338; G. Pieraccini, La stirpe dei Medici di Cafaggiolo, Firenze 1947, II, 2, pp. 1-24. Forniscono un quadro della vita pubblica di C. le storie generali del granducato di R. Galluzzi, Istoria del granducato di Toscana sotto il governo della casa Medici, Firenze 1781, III, pp. 293-393 e 495-514; F. Inghirami, Storia della Toscana, Fiesole 1843, X, pp. 347-375; XII, pp. 499 s.; A. v. Reumont, Geschichte Toscana's, Gotha 1876, 1, pp. 383-400; F. Diaz, Ilgranducato di Toscana. I Medici, Torino 1976, pp. 363-366, 372-378 e passim; J. R. Hale, Firenze e i Medici. Storia di una città e di una famiglia, Milano 1980, pp. 224-225. Sulla politica estera di C. portano elementi specifici A. Bazzoni, Imatrimoni spagnuoli, in Archivio storico italiano, s. 3, XIV (1871), pp. 3-32, 183-212; Négociations diplomatiques de la France avec la Toscane, a cura di G. Canestrini-A. Desiardins, Paris 1875, V, pp. 590-639; L. Cappelletti, Storia di Piombino, Livorno 1897, pp. 306-309; G. Bandini, Un episodio mediceo della guerra dei Trent'anni (1618-1621), Firenze 1901; G. Fusai, Belisario Vinta ministro e consigliere di Stato dei granduchi Ferdinando I e C. II de' Medici (1542-1613), Firenze 1905, pp. 99-101; A. Municchi, Un episodio della Politica internaz. di C. II de' Medici, in Rivista delle biblioteche e degli archivi, XXIII (1912), pp. 1-122; G. Fusai, Trattative di matrimonio tra casa Savoia e casa Medici, in Arch. stor. ital., LXXVI (1918), pp. 178-190; Alimad al Klâlidî as Safadi, Soggiorno di Fakhr ad-din II al-Manì in Toscana, Sicilia e Napoli e la sua visita a Malta (1613-1618), a cura di P. Carali, in Annali del R. Ist. sup. Orientale di Napoli, VIII (1936), pp. 3-48; P. Carali, Lettere di Sagad II imperat. di Etiopia a C. II…, ibid., pp. 105-110; V. Pontecorvo, Relazioni tra lo Scià Abbas e i cranduchi di Toscana Ferdinando I e C. II, in Rend. dell'Accad. naz. dei Lincei, classe di sc. mor. stor. e filos., s. 8, IV (1949), pp. 151-182; A. Tamborra, Gli Stati italiani, l'Europa e il problema turco dopo Lepanto, Firenze 1961, pp. 69-82; S. Mastellone, La reggenza di Maria de' Medici, Messina-Firenze 1962, pp. 159-162; G. Guarnieri, L'Ordine di S. Stefano nei suoi aspetti organizzativi tecnico-navali sotto il Gran Magistero Mediceo, Pisa 1965, pp. 23-26, 144-145; Id., L'Ordine di Santo Stefano nei suoi aspetti organizzativi interni sotto il Gran Magistero Mediceo, Pisa 1966, p. 63 e passim. Sull'economia toscana all'inizio del sec. XVII e gli interventi di C. in questo campo forniscono indicazioni [L. Ximenes], Esame dell'esame di un libro sopra la Maremma senese, Firenze 1775, pp. 178-182; L. Passerini, Storia degli stabilimenti di beneficenza e d'istruz. elementare gratuita della città di Firenze, Firenze 1853, p. 745; M. Baruchello, Livorno e il suo porto, Livorno 1932, pp. 243-255; G. Parenti, Grano e prezzi del grano a Siena (1546-1765), Firenze 1942, pp. 53-57; G. Pampaloni, Cenni storici sul Monte di Pietà di Firenze, in Archivi stor. delle aziende di credito, I (1956), pp. 544-551; R. Romano, A Florence au XVIIe siècle. Industries textiles et conioncture, in Annales (E. S. C.), VII (1952), pp. 508-512; G. Guarnieri, Livorno medicea nel quadro delle sue attrezzature Portuali e della funzione economico-marittima (1577-1737), Livorno 1970, pp. 125-165; L. Del Panta, Una traccia di storia demcgrafica della Toscana nei secoli XVI-XVIII, Firenze 1974, pp. 34-38 e passim;A. Menzione, Storia dell'agricoltura e utilizzaz. delle fonti catastali: l'estimo pisano del 1622, in Ricerche di storia moderna, I, Pisa 1976, pp. 125-142; P. Malanima, Firenze tra '500 e '700. L'andamento dell'industria cittadina nel lungo periodo, in Società e storia, I (1978), pp. 231-256; C. M. Cipolla, I Pidocchi e il granduca. Crisi econ. e problema sanitario nella Firenze del '600, Bologna 1979; Livorno. Progetto e storia di una città tra il 1500 e il 1600, Pisa 1980, ad Ind. Sulla cultura e la vita di corte al tempo di C. vedi G. Bianchini, Dei granduchi di Toscana della R. Casa Medici protettori delle lettere e delle arti, ragionamenti istorici, Venezia 1741, pp. 73-90; G. Anguillesi, Notizie istor. dei palazzi e ville appartenenti alla I. e R. Corona di Toscana, Pisa 1815, pp. 36-40; G. Galilei, Opere, Firenze 1888-1907, X-XII(Corrispondenza)e XIX (Docum. sulla vita di Galileo Galilei); A. Solerti, Musica, ballo... alla corte medicea dal 1600 al 1637, Firenze 1905; L. Geymonat, Galileo Galilei, Torino 1957, ad Ind.;E. Cochrane, Florence in the forgotten centuries, 1527-1800, Chicago-London 1973, pp. 165-180; G. Cipriani, Ilmito etrusco nel Rinascimento fiorentino, Firenze 1980, pp. 214-215.

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