COSMOGONIA

Enciclopedia Italiana (1931)

COSMOGONIA (dal gr. κόσμος "mondo" e γονή "generazione"

Edvard LEHMANN
Giulio FARINA
Giuseppe FURLANI
Michelangelo GUIDI
Mario GIORDANI
Margherita GUARDUCCI
Ambrogio BALLINI
*
Giovanni Vacca

Con questo nome s'intende quel complesso di miti, di teorie che ogni popolo ha elaborato nelle fasi successive della sua cultura, per rendersi ragione dell'origine dell'universo.

I miti cosmogonici.

Le cosmogonie dei primitivi. - Bisogna accogliere con una certa prudenza tutto quello che viene riferito sulle fantasie cosmogoniche dei primitivi, perché spesso esse hanno subito l'influsso di correnti culturali arrivate fino a loro, come p. es., nel caso degli Jakuti della Siberia, i quali parlano di sette cieli (il che potrebbe indicare l'influenza babilonica) o in quello dei Polinesiani, i quali posseggono un'estesa epopea sulla creazione del mondo, che potrebbe benissimo essere venuta dall'India. Le concezioni veramente primitive sono ben diverse. Esse si basano sull'idea d'un creatore di tutte le cose: idea tanto più consueta ai primitivi in quanto essi considerano in generale tutto l'esistente come qualcosa di creato, e proprio nel senso che infinite altre cose possano tuttora sorgere dal nulla per opera del creatore. Perciò i primitivi s'immaginano spesso il creatore nell'aspetto di quel che gli antropologi inglesi chiamano the Maker (il "Fattore"), e non trovano strano che tutto si sia generato per opera sua. Né mancano i miti ingenuamente fantastici: un dio avrebbe pescato dal mare il mondo, lo avrebbe plasmato nell'argilla, gli avrebbe dato la forma d'una tartaruga, e così via. In tali casi non si tratta propriamente d'una creazione dal nulla; e questa s'incontra anche più di rado nelle cosmogonie maggiori, sistematicamente costruite. In esse, come in quelle dei primitivi, è posto generalmente come principio un caos o il mare. La genesi delle cose viene esposta a volte naturalisticamente. Così, p. es., per gl'indigeni delle Isole Marshall in principio tutto era mare, al disopra del quale scorreva la divinità. Prima disse: ecco uno scoglio! poi: ecco la sabbia! infine: ecco le piante, gli uccelli, e così via. Nelle Isole Caroline si narra che un albero era nato dal cielo, con le radici all'insù e i rami all'ingiù, e che da questi si produssero gli uomini: ciò che ricorda la cosmogonia indo-persiana. Impressione più veramente primitiva fa la cosmogonia di Nauru (o Pleasant Island, Micronesia), in cui tutto ha la sua origine da un grosso ragno, che volteggia al disopra del mare infinito. Esso trova una conchiglia, e, dopo varî tentativi di aprirla, riesce infine a penetrarvi, ma non può tenere discoste le due valve. Finalmente scopre una lumaca capace di farlo: così il cielo viene separato dalla terra, e la lumaca, che era luminosa, viene collocata nel cielo e diventa la luna. Più tardi il ragno trova una lucciola, che diventa il sole. In tale mito si trovano tracce d'una fantasia cosmogonica indubbiamente arcaica: anzitutto nelle due valve della conchiglia, che formano il cielo e la terra. In altre isole dell'Oceania alle due valve corrispondono le due metà di una noce di cocco segata in mezzo, in altre mitologie i gusci dell'uovo cosmico. Quest'uovo, che nella cosmologia indiana rappresenta il germe primitivo della vita nascosto nell'acqua, si trova anche nella mitologia semitica occidentale. L'altro tratto primitivo del mito australiano è l'idea che il cielo e la terra si possano separare solo con grande sforzo. Questo motivo si ritrova nella cosmologia egiziana e qualcosa di simile raccontavano, com'è noto, i Greci nel mito di Crono: un motivo che Andrew Lang (Custom and myth, p. 45 segg.) trovò presso i Maori della Nuova Zelanda, secondo cui l'audace giovane Intenganahan agì nello stesso modo verso i suoi genitori per far cessare l'amplesso fra la Terra e il cielo e per procurare così l'aria agli uomini: dal che nacquero, insieme, alberi che puntellarono il cielo e tennero distanti i due.

L'esigenza dell'ordinamento del cosmo dal caos è sviluppata in un mito del Messico (Mixtechi), riferito dal p. Garcia: "Nei tempi delle tenebre, quando non c'erano né anni né giorni, il mondo era un caos avvolto nell'oscurità, dove scorrevano schiuma e fango. L'animale-dio e l'animale-dea piantarono una roccia sull'abisso delle acque, sulla quale poggiò il cielo. Qui essi abitarono per molti anni, e i loro figli istituirono i sacrifizî e le penitenze, come anche la coltivazione dei fiori e delle frutta. Con preghiere e voti essi supplicarono gli spiriti dei padri di rivelare la luce, di separare la terra dall'acqua e di liberare il terreno asciutto dalla vòlta del cielo. La terra venne popolata. Un diluvio universale distrusse la prima umanità, ma il mondo venne ristabilito dal Creatore di tutte le cose" (H.B. Alexander, Latin America, in The mythology of all races, pp. 86-87; anche qui pare che concorrano elementi biblici). L'idea riflessa di un'evoluzione autonoma del caos appare presso i Polinesiani: "In principio vi era solo Po, il caos, senza luce, senza calore, senza suono, senza movimento. Poi si mosse e fece un gemito nell'oscurità; cominciò l'alba, apparve la luce e venne il pieno giorno. Il calore si mescolò con l'umidità e si formarono delle sostanze e delle forme sempre più distinte, fino a che nacquero la solida terra e la vòlta celeste e divennero la madre Terra e il padre Cielo. Questi generarono poi tutte le altre creature e gli dei". Tutto ciò è pensato dal punto di vista d'una filosofia della natura né si può disconoscervi la trama indiana. Viceversa i Melanesiani delle Isole Banks (Nuove Ebridi), più primitivi, narrano che in principio tutto era giorno e luce, fino a che l'eroe civilizzatore Quat veleggiò fino alle Isole Torres (a nord), dove gli uomini avevano la notte, che egli si portò a casa; o, anche più ingenuamente, ch'egli navigò verso l'estremo orlo del cielo per portar via un po' di notte alla Notte. Questa annerì le sue palpebre e gl'insegnò a dormire e a produrre l'alba.

Gl'Indiani dell'America, soprattutto Settentrionale, sanno generalmente creare delle combinazioni più larghe. L'attore è qui comunemente un eroe civilizzatore o un animale-totem, che trasparisce anche in leggende chiaramente assai più tarde. Presso gli Indiani Chimchian chi fa tutto è il corvo. Quando ogni cosa era ancora immersa nel buio, egli rubò la luce del giorno, che stava nascosta in una cassetta nella capanna del capo. Là egli trovò la luna e la fissò nel cielo. Con maggiori particolari favoleggiano gli stessi Indiani come in principio, quando nessuna vita era ancora creata, esistesse solo un capotribù nel cielo. Sulla terra regnava il vuoto e l'oscurità. I due figli del capo erano molto addolorati per questa oscuria. Uno dei figli si fece una maschera luminosa, la quale gli bruciò talmente il viso, ch'egli dovette fuggire oltre il cielo. Così si fece luce. Suo fratello gli corse dietro, mentre egli dormiva; e questi fu la luna. Tutti gli animali tennero allora consiglio circa il tempo che la luna dovesse impiegare girando sulla terra. Il cane diceva 40 giorni, il riccio invece, più intelligente del cane, 30 giorni, e così fu fatto. Di qui l'odio fra il cane e il riccio. Tribù indiane di civiltà più evoluta hanno elaborato la cosmologia in forma più drammatica, o piuttosto epica. Per lo più, però, non si tratta d'una creazione, bensì d'una ricostruzione del mondo: gli eroi, che provengono dal sole o sono scesi dal cielo, trovano una terra distrutta dal diluvio o resa inabitabile in qualche altro modo. Con l'aiuto di animali totemici, come la biscia, il castoro, il topo muschiato, l'eroe o l'eroina si procura tanta terra asciutta che possano abitarvi degli uomini: i quali vengono allora creati, talora mediante un impasto d'argilla. Anche qui si trovano molte leggende che ricordano la narrazione del Genesi, e dappertutto c'è l'influsso delle leggende del diluvio universale. Distinguendo i motivi cosmogonici secondo i tre punti di vista dell'evoluzione, dell'emanazione e della creazione, si può dire che il primo e l'ultimo di questi motivi sono comuni presso i primitivi, mentre il secondo è più raro, poiché presuppone un concetto della divinità come spirito universale, quale in genere manca nei gradi più primitivi dell'umanità. La più frequente è l'idea d'un creatore: però l'atto della creazione ha per lo più l'andamento di un processo naturale.

Bibl.: F. Lukas, Die Grundbegriffe der Kosmogonien der alten Völker, Lipsia 1893; A. Bastian, Vorgeschichtliche Schöpfungslieder, Berlino 1893; Hastings, Encyclopaedia of Religion and Ethics, IV, Edimburgo 1911, pp. 125-179.

Le cosmogonie egiziane. - In Egitto vi furono molte opinioni, che non sempre ci è dato di ricondurre a un sistema e di fissare nel tempo. Nelle età primitive parrebbe si fosse pensato che la coppia divina Gēbb, dio-terra, Pe, dea-cielo, ogni giorno partorisse un nuovo sole e nuovi dei-stelle, che nati a oriente morivano poi a occidente. Anche più tardi, quando si postulò l'esistenza di una galleria sotterranea, l'Akerew o Ṭè'e, attraverso la quale gli astri, che non morivano, si trasferivano al luogo della loro levata, non mancano contaminazioni di tali idee. Contro questo pensiero popolare, i sistemi dei tempi più vicini, che possiamo dividere in tre gruppi, affermano la priorità dell'acqua, o della terra, o del sole.

Pare probabile che ad Ermopolis Magna sia sorta la prima cosmogonia sistematica. Gli dei primitivi furono otto, quattro maschi, rane, quattro femmine, serpenti. Sono: Nūn e sua moglie Náwne (eg. nwnw, copto nûn ἄβυσσος; femm. njnw.t, in greco ναυνι, originariamente a Notte" [cfr. semitico láil], divenuta poi "Cielo sotterraneo"), personificazioni del fondo senza fine; Ḥūḥ e *Ḥáwhe (eg. ḥwḥw, trascritto erratamente Ηωχω; femm. hwh.t), rappresentanti il flutto dell'abisso; Kūk e *Káwke (eg. kwkw, gr. χοῦχ; femm. kwk. t), ossia la tenebra; *Ni'e e *Naj'e (eg. nj'w; femm. nj'. t), probabilmente il soffio animatore di vita. Essi sopra un'alta collina (contaminazione eliopolitana? v. sotto) produssero prima la luce, col sole, e poi tutte le altre cose. Era quella l'eta dell'oro in cui regnava la giustizia, gli dei vivevano in terra, gli uomini sovrabbondavano di cibi, nessun coccodrillo rubava, nessun serpe, anzi nessuna spina pungeva. Ermopoli venne chiamata Ḫmōn "Gli otto" (eg. hmn. w, copto shmūn, ar. Ashmūnēn) per questa ogdoade là foggiata e venerata. Nei tempi seriori anche ad Ermopoli si credeva, per influssi di teorie più recenti, che il Sole fosse uscito dalla collina emersa dall'oceano primordiale e avesse creato tutto.

Pure nella preistoria sorse a Eliopoli un sistema in onore e gloria del suo dio, Atūm; ne risultò un'enneade, che godé sempre grande credito. Eliopoli accettò l'esistenza del Nūn, quando ancora non c'era cielo, né terra; ma lo considerò materia senza vita. Da quella, per generazione spontanea, uscì Atūm elevandosi sopra un'altura, la quale naturalmente era in Eliopoli, o sopra una pietra sacra, un vecchio feticcio della città. Ad Atūm si diedero per figli due gemelli, una coppia leonina adorata nella vicina Leontopoli; e si assegnò loro una funzione cosmica: il maschio era lo Spazio, Shōw, la femmina, l'Umidità in questo contenuta, Tfēne. Il creatore, non avendo accanto a sé un principio femmina, produsse i due, sia corrompendo sé stesso, sia sputandoli (secondo un'etimologia tratta dai loro nomi). I coniugi Shōw e Tfēne ebbero come figli il dio-terra Gēbb e la dea-cielo, chiamata Nute. La quarta generazione venne composta del vecchio dio-sole, Osiri, e sua moglie, Ese (Isis), personificazione della grande "Residenza" celeste che aveva creato gli dei; del fratello Sēth, al quale per fare il paio diedero in sposa la dea di Sais, Nējt, o la dea Nebthō (Nephthys) "la signora del Castello" celeste, doppione evidente di Ese.

Nella prima dinastia dobbiamo porre una teologia della città di Menfi, la residenza regia fondata dal faraone Mēne, il cosiddetto "Muro bianco", a sud del quale c'era un tempio del dio Ptah. Vi notiamo un'elevazione di pensiero accentuata. Il dio Ptah è la terra primordiale, la materia, che si è creato da sé. A lui vengono identificati Nūn e sua moglie Náwne, padre e madre del dio Sole e di tutti gli altri dei. Direttamente dalla volontà e dalla parola scaturisce l'opera divina; e il dio è la volontà e la parola di tutte le creature, umane e divine.

Altre città, come Abido, si vantano anche di essere state la culla del creatore; c'è chi pensa il Sole essere uscito da un fiore di loto emerso dall'oceano, o da un uovo galleggiante su questo; ad Esne si reputò che il dio Chnum avesse foggiato ogni cosa con la sua ruota di vasaio.

La dottrina solare di Rīe, che fiorì a Eliopoli nel tempo storico, propugna l'anteriorità dell'astro raggiante. Egli è l'unico dio, il divenuto da sé, del quale gli altri dei non sono che aspetti. Egli ha creato il cielo, la terra, l'aria, gli animali, gli uccelli, i pesci per il piacere degli uomini; anzi ha dato loro i re per protezione dei deboli, la magia per opporsi ai cattivi eventi. Questa è in fondo la tesi predominante in tutto l'Egitto; e i sacerdoti, assimilando le loro divinità al Sole, riescono ad adattarle alle diverse esigenze locali. L'esempio più cospicuo è quello del dio tebano Ammòn, che fu Amen-rīe ossia Ammone-Sole. Egli è il primo divenuto, prima del quale non esistette alcuno, misterioso di nome e di figura, inconoscibile.

Non va trascurato, infine, il concetto della partenogenesi, con la quale vennero esaltate alcune grandi divinità femminili. Identificate con la dea-Cielo, esse poterono aspirare all'antichissimo titolo di "madre del dio-Sole" e rinviando ai primordî quanto concerneva la vita quotidiana, si trasformarono in entità primordiali. Nejt di Sais, ad es., fu ritenuta madre del Sole, quella che fu la prima a partorire, quando ancora non erano avvenuti altri parti.

Bibl.: A. Erman, Ein Denkmal memphit. Theologie, in Sitzber. Preuss. Akad. d. Wiss., 1911; L. Griffith, Ages of the World (Egyptian), in Hasting, Enc. of Rel. and Eth., s. v.; G. Maspero, Hist. anc. des peuples de l'orient classique, Parigi 1895, pp. 127 segg., 140 segg.; W. Max Müller, Egyptian Myth., Boston 1923, pp. 30-91; F. Petrie, Cosmogony and cosmology (Egyptian) in Hasting, in Enc. cit., s. v.; K. Sethe, Dramat. Texte, in Untersuch. z. Gesch. und Altgertumsk. Ägyptens, X, Lipsia 1928; id., Amun und die Acht Urgötter von Hermopolis, in Abh. Preuss. Akad. d. Wiss., 1929; id., Urgesch u. älteste Religion der Ägypter, in Abh. f. d. Kunde d. Morgenlandes, Lipsia 1930.

Le cosmogonie babilonesi e assire. - La maggioranza dei miti cosmogonici babilonesi e assiri risale al popolo dei Sumeri. I Semiti della Mesopotamia sembrano avere attinto dai Sumeri anche i miti aventi per soggetto la formazione del mondo e dell'universo da parte di qualche dio e aver cambiato soltanto il nome del dio creatore e qualche circostanza di secondaria importanza. Presso i Sumeri erano in voga in tempi già molto antichi varî miti sulla creazione del mondo, miti che variavano secondo le scuole sacerdotali e i tempi. Essi si raffiguravano la formazione del mondo in modo del tutto antropomorfico e raccontavano che i loro dei avevano formato l'universo come l'uomo fabbrica le case e gli utensili. Non sembra che in Mesopotamia sia mai stata concepita l'idea che il dio abbia prodotto il mondo dal nulla: la divinità costruisce l'universo con materia già preesistente, o meglio ordina il mondo che prima era in stato caotico, gli dà stabile organizzazione e assegna agli dei e a tutti gli esseri il loro posto nella vasta fabbrica mondiale. Il mito non è capace di raffigurarsi il vuoto assoluto e perciò assume esistente una forma caotica di universo già prima della costruzione del mondo presente.

Un'antica storia sumera della creazione comincia con la creazione della terra per passare poi a quella dei semi, delle stagioni e così via. È probabile che i Sumeri narrassero miti della creazione del mondo da parte degli dei Enki di Eridu ed Enlil di Nippur. Un altro mito sumero vede in Anu, Enlil ed Enki coloro che stabilirono la falce lunare e le figure del cielo e della terra. Secondo un rituale babilonese Nudimmud (Ea) fabbricò l'oceano, poi staccò un pezzo d'argilla e fece il dio Mattone, la canna e la foresta, gli dei degli artieri, le montagne e i mari e poi infine gli uomini. Un mito pure alquanto antico raffigura il dio di Babele Marduk quale creatore del mondo e dell'uomo. Quando tutto era ancora mare Marduk formò gli Anunnaki e poi intrecciò una stuoia, la stese sopra l'acqua e vi versò sopra della polvere: così fu costruita la terra. Poi egli creò tutto ciò che si trova sulla terra e le città. Un testo scongiuratorio ci ha conservato un mito secondo il quale il demiurgo sarebbe stato Anu. Fu lui a creare il cielo. Il cielo creò poi la terra, la quale produsse i fiumi e così via.

Ma il mito cosmogonico babilonese e assiro più importante fu quello che esaltava Marduk - e in Assiria il dio nazionale assiro Assur - quale fabbricatore, formatore e ordinatore dell'universo e di tutto ciò che esiste. Dopo che Marduk, il giovane dio che gli dei terrorizzati dalle mene della loro nemica Tiāmat avevano nominato loro capo, ebbe debellato il mostro del caos spaccò la sua carcassa in due parti come un'ostrica, secondo quanto narra il poema Enuma elish, IV, 137, e di una mea fece il cielo a guisa di tetto, tirò il chiavistello e vi pose davanti guardiani, affinché non ne uscissero le acque. Dirimpetto al cielo il dio pose la dimora di Ea, dio dell'acqua, nell'abisso. Egli prese le misure dell'abisso, apsū, e stabilì Esharra, vale a dire la terra. Poi fondò le abitazioni di Anu, il cielo, Enlil, la terra, e Ea, l'acqua. Perciò l'universo babilonese è tripartito: sopra sta il cielo, nel mezzo si trova la terra la quale galleggia sopra l'oceano che sta sotto. Marduk fabbricò inoltre le stazioni o mansioni per gli dei, fissò le stelle per rappresentarli, definì l'anno e disegnò i segni dello zodiaco. Per ciascuno dei dodici mesi egli fissò tre stelle. Poi stabilì il posto di Nībiru, cioè la stella polare, e le posizioni di Anu, Enlil ed Ea, vale a dire delle stelle delle vie di questi tre dei. Da tutte e due le parti del cielo egli aprì porte. Inoltre egli fece risplendere la luna affidandole quale mansione di rischiarare la notte. Ogni mese egli la esaltò con una corona splendente. Nei primi sei giorni del mese egli le fece portare un paio di corna, nel settimo una mezza corona. Stabilì che al plenilunio essa dovesse stare in opposizione al sole, poi ritornare indietro e al ventinovesimo giorno stare di nuovo in opposizione al sole. Marduk creò poi l'uomo e gli altri esseri. In segno di riconoscenza per quanto il dio ha fatto per loro, gli dei, suoi compagni, gli costruiscono un grandioso tempio a Babele, Esagil, con un'altissima torre a gradini, e Anu colloca il fatidico arco di Marduk quale costellazione nel cielo. Con ciò è finita la cosmogonia dell'epopea Enuma elish, la quale ha dunque per dio formatore dell'universo Marduk, dio giovane che riesce a debellare il mostro Tiāmat, che accanto a suo marito Apsū e al loro figlio Mummu, lo Scroscio, era avanti la formazione del mondo l'unico essere esistente: essa era l'oceano mentre Apsū era l'abisso, e tutti e due diedero vita a Mummu, lo Scroscio, sorto dalla confluenza dell'oceano e dell'abisso. Una recensione un po' diversa dello stesso mito ci è stata conservata dallo scrittore greco-babilonese Beroso: nei tempi primordiali non c'erano che mostri di vario aspetto sopra i quali regnava una donna dal nome Omorka. Venne Bōl e spaccò la donna in due: di una parte fece la terra e dell'altra il cielo. Poi lo stesso dio crea gli uomini e gli animali, fa inoltre le costellazioni, il sole, la luna e i cinque pianeti. Lo scrittore ellenistico Damascio ci ha conservato pure una versione del mito cosmogonico simile a quella dell'Enuma elish, interpretata però alla luce della filosofia greca del suo tempo. I miti cosmogonici della Mesopotamia antica ebbero una vasta area d'espansione a occidente e oriente di quel paese.

Bibl.: G. Furlani, La religione babilonese e assira, II, Bologna 1929, pp. 2-18; S. Langdon, The Babylonian epic of creation, Oxford 1923; A. Loisy, Les mythes babyloniens et les premiers chapitres de la Genèse, Parigi 1901; H. Gunkel, Schöpfung und Chaos in Urzeit und Endzeit, Gottinga 1895.

La cosmogonia iranica. - La cosmogonia degl'Irani, essendoci l'Avestā, libro sacro del zoroastrismo, pervenuto in forma frammentaria, non ci è nota nei suoi particolari che da fonti relati vamente recenti (cioè in opere scritte in pahlavico, nel periodo sassanidico o medievale) e specialmente nel Bundahishn (v.); ma si può ragionevolmente supporre che l'insieme del racconto risalga a credenze antiche del zoroastrismo. Lo storico greco Teopompo (nato nel 376 a. C.) già conosce (presso Plutarco) la divisione del ciclo mondiale in quattro periodi di 3000 anni ciascuno, propria della cosmogonia iranica.

La cosmogonia quale appare nelle fonti predette è dualistica. Ahura Mazdāh (o, nella forma propria di questa letteratura medievale, Ōrmazd, è il dio buono abitante nell'alto, esistente dall'eternità, in eterna luce e onniscienza, mentre lo spirito malvagio, Ahriman, esiste anche dall'eterno, ma nel basso, in eterna tenebra, e con conoscenza tardiva. Ōrmazd conscio, per la sua onniscienza, dei futuri attacchi dello spirito malvagio, inizia nei primi 3000 anni dell'esistenza del mondo la sua creazione, producendo le forze celesti, o creature spirituali (da qualcuno senza fondamento ravvicinate alle idee platoniche); la creazione rimase in "uno stato celeste senza pensiero né movimento né attività". Ahriman accortosi dell'esistenza e dello splendore di Ōrmazd inizia la sua opposizione, e tra i due corre accordo di guerreggiare per 9000 anni (fino cioè alla fine del mondo) sapendo il solo Ōrmazd, per la sua onniscienza, che la vittoria sarebbe rimasta finalmente a lui. Nel secondo periodo di 3000 anni Ahriman crea i suoi demoni per opporli alla forza di Ōrmazd, mentre questi crea gli Amesha Spenta (v.) e quindi il mondo materiale, l'acqua, la terra, le piante, gli animali (rappresentati dal toro primitivo) e gli uomini (rappresentati dall'uomo primitivo, Gayōmarth). All'inizio del terzo periodo di 3000 anni Ahriman attacca la creazione di Ōrmazd, e ne deriva mescolanza dei due mondi; egli uccide l'uomo e il toro priminvo, ma da essi risorgono poi uomini e animali. Tale periodo, in cui la lotta ha varie alternative, si conchiude con la comparsa dei primi re leggendari dell'Irān, e di Zarathustra, e non interessa più la cosmogonia, come il quarto nel quale Ahriman sarà definitivamente vinto e Ahura Mazdāh trionferà (v. zoroastrismo).

Tali concezioni hanno subito qualche modificazione secondo tendenze varie; importante è la cosmogonia della setta zervanita (v.), che, svolgendo idee antiche, fa descrivere i due principî dal tempo illimitato (zarwan akarana).

Le concezioni cosmogoniche degl'Irani (che sono state anche avvicinate per alcuni riguardi alle bibliche) si fusero poi con idee babilonesi in forme sincretistiche che appaiono nelle cosmogonie gnostiche e nella manichea (v. gnosticismo; mandei; manicheismo).

Bibl.: Oltre ai manuali di storia delle religioni e le enciclopedie religiose v. R. Pettazzoi, La religione di Zarathustra nella storia religiosa dell'Iran, Bologna 1924; H. Lommel, Die Religion Zarathustras, Tubinga 1930; H.S. Nyberg, Questions de Cosmogonie et de Cosmologie mazdéennes, in Journal Asiatique, 1929.

Le cosmogonie del mondo classico. - Presso i Greci la cosmogonia è congiunta, almeno nell'ambito dei miti, alla teogonia, data la grande inclinazione che i Greci avevano a divinizzare gli elementi naturali. Secondo l'Iliade (XIV, 201 segg.) la coppia primordiale sarebbe stata quella di Oceano (acqua) e di Teti (terra), la quale avrebbe dato origine a Crono e Rea, Zeus ed Era. Nella Teogonia esiodea, invece, pure attraverso le incertezze della tradizione letteraria, dopo il regno dell'oscurità (Chaos, Erebos, Nyx) vediamo formarsi la coppia primitiva di Urano (cielo) e di Gea (terra), ai quali sarebbero seguiti in successive generazioni Oceano e Teti, Crono e Rea e quindi tutti gli altri dei ed eroi (Theog., 116 segg.). Il sistema esiodeo, pur con qualche innovazione dovuta agli influssi locali, ebbe grande fortuna presso i posteriori poeti, logografi e mitografi, ed entrò anche nel complesso mondo delle teogonie orfiche; poi, nell'età ellenistica, si mescolò con numerosi elementi orientali. Ma, frattanto, il problema della genesi dell'universo era divenuto oggetto della speculazione dei primi pensatori greci, e la storia delle dottrine cosmogoniche si continuava (fin dalla scuola di Mileto) in quella delle dottrine filosofiche.

I Romani nelle concezioni cosmogoniche non fecero che seguire i Greci, pur con qualche deviazione dovuta a influssi indigeni.

Bibl.: K. Seeliger, in Roscher, Lexicon, s. v. Weltschöpfung, Weltbild, VI, 430 segg. (v. ivi la bibliografia precedente); Gruppe, Griechische Mythologie, I, Monaco 1906, p. 411 segg.

Le cosmogonie indiane. - Periodo vedico. - A differenza di quanto è avvenuto per la cosmografia (per la quale si hanno - specie presso i Jaina - esposizioni chiare, ampie e diffuse) la cosmogonia indiana non ci appare nella letteratura brahmanica (l'unica che, fra le varie letterature religiose dell'India, ne abbia propriamente trattato) assurta a vero e proprio sistema. Accenni vaghi si trovano sparsi qua e là in tutto il Ṛgveda (v.); ma solo nell'ultimo e più recente libro (X) si hanmo due inni che, pure in pieno contrasto fra loro, si possono dire propriamente cosmogonici in tutta la loro interezza.

Nel primo (X, 90) il creatore è indicato col nome di Purusa (col qual nome si vuole significare il principio maschile opposto al femminile, Aditi, la madre di ogni cosa, e, insieme, tutta intera la natura), mentre in altri sparsi accenni del Rgveda stesso egli è denominato Viśvakarman, il creatore di tutto (X, 8; X, 82) o Prajāpati, il Signore delle creature (X, 121) o Brahmaṇaspati (X, 72): denominazioni queste tutte, alle quali si accompagna rispettivamente un più particolare e determinato valore del dio creatore. L'inno ci dice dunque che Purusa, dalle mille teste, dai mille occhi, dai mille piedi, tutta pervade la terra e la supera; che egli è, in una parola, tutto l'universo presente e futuro, è di gran lunga superiore a ogni cosa, a ogni essere animato. Dal sacrificio, che di lui, vittima augusta, hanno fatto gli dei, sono sorti tutti i mezzi del sacrificio stesso; ogni specie di animale; gl'inni, i canti, i metri vedici; mentre, diviso ch'egli fu dai sacrificanti, uscirono dal suo corpo i capostipiti delle quattro caste: il Brahmano, dalla sua bocca, lo Kṣatriya dalle braccia, il Vaiśya dai lombi, lo Śūdra dai piedi. E la luna venne dal suo spirito e il sole dal suo occhio e ancora Indra (v.), Agni (v.), i grandi dei, dalla sua bocca, e dal suo alito Vāyu, il vento. E da altre parti del suo corpo: l'atmosfera, la terra, i quattro punti cardinali. In pieno contrasto con tale inno è invece l'inno X. 12, che accenna al problema cosmogonico, ma considerandolo come un mistero insolubile.

Nelle opere più tarde della letteratura vedica, di genere liturgico e filosofico, gli accenni cosmogonici continuano e, diretti appunto a fine liturgico o filosofico, assumono uno sviluppo che li porta a forma ed essenza ben diverse dagli elementi cosmogonici più antichi, dei quali, nondimeno, mostrano chiaramente d'essere diretta continuazione. Nei Brāhmana (v.), Prajāpati, che è al principio di tutto, appare il vero creatore e sostenitore dell'Universo; vuol riprodurre sé stesso e da uno "ridivenir molti". Con esercizî ascetici e attraverso difficoltà grandi, crea i tre mondi (terra, atmosfera, cielo); li cova, e fa nascere da essi gli dei Agni, Vāyu, ecc., e da questi i tre Veda.

E questa e ogni altra creazione (gli esseri viventi) compie Prajāpati per mezzo di opera sacrificale e rituale, dal che appare chiara l'intenzione del cantore, diretta a far sempre apparire la creazione opera del potere sovrumano della casta sacerdotale.

Altro mito cosmogonico ricorrente nei Brāhmana, che si sviluppa nella letteratura filosofica di poi, è quello che considera le acque originarie. Desiderose di riprodursi, compiono esse grandi ascesi e dànno origine a un uovo d'oro (hiraṇyagarbha), dal quale esce un maschio (purusa) che è Prajāpati, creatore per opera del sacrificio, del cielo e dell'aria, della terra, degli dei e degli uomini.

Al "Non essere", all'"Essere", all'"Io" (Brahman, Ātman), fanno invece le Upaniṣad risalire le cosmogonie. Prajāpati è ormai tramontato, l'astrazione filosofica si è sovrapposta alla formalità rituale. Dal "Non esistente" diventato "Esistente" scaturisce un uovo, che, rottosi dopo un anno, genera la terra, il cielo, le montagne, i fiumi, il mare, il sole, ecc. Altra volta è "l'Esistente", che, desideroso di divenir più crea il fuoco, da questo l'acqua, da essa la terra. Altra ancora è l'"Io" (Brahman e Ātman) che, in forma di uomo (puruṣa) primo fra tutti gli esseri, divide, annoiato d'esser solo, sé stesso in due parti, generando, così, marito e moglie, dal cui abbraccio nascono gli uomini. Egli crea inoltre le cose; oppure, creato lo spazio, ne fa conseguire il vento, da cui viene il fuoco, ecc.

Queste le varie concezioni upanisadiche dell'origine del mondo, concezioni del tutto panteistiche, come quelle secondo le quali "il primo principio, dopo aver creato le cose, entrò in esse, così che esso è in esse presente e per un lato è identico ad esse, differente per un altro" (Jacobi).

Periodo epico. - Assai maggiore sviluppo assume il mito cosmogonico nel massimo poema epico indiano, il Mahābhārata (v.), nel quale esso si svolge in numerose trattazioni unitarie e non più in cenni frammentarî, o disordinate aggregazioni di parti, e in cui si palesa evidente l'influsso della filosofia Sāíkhya (v.) e del culto di Viṣṇu (v.), assurto a divinità suprema, creatrice e regolatrice della vita d'ogni essere. Nei Purāna (v.) invece (scritti poetici di indole settaria, "tardo prodotto del genio epico indiano") le numerose narrazioni cosmogoniche risentono pure della dottrina del Vedānta (v.). Tutti gli elementi anteriori vengono utilizzati dall'epica, ma diretti sempre all'esaltazione di Viṣṇu nel quale s'identifica ogni massima divinità precedentemente invocata, mentre, insieme, si svolgono e da essa procedono i principî fondamentali del Sāṃkhya accennato: l'esistenza del puruṣa, cioè anima, e della prakṛti, materia, reciprocamente indipendenti, e quanto li costituisce e da essi emana.

Dai numerosi passi cosmogonici contenuti nel dodicesimo libro del Mahābhārata (e particolarmente là dove è esaltata la dottrina della liberazione, fondamento etico della cosmogonia epica) apprendiamo come Viṣṇu - al quale vengono dati i nomi più varî (Svayaṃbhū, l'"Esistente di per sé"; Keśava, Nārāyana, Puruṣa, ecc.) e attribuite le più alte proprietà che si possano riferire a divinità suprema - crea immediatamente, o attraverso altre creazioni, aria, fuoco, acqua, etere, terra e cielo sconfinati; dall'ombelico genera un loto che illumina tutto il mondo, combatte e uccide il demone Madhu, autore di male azioni, generato dalla tenebra. Diviene Brahman, dalla lunga discendenza umana e divina; crea giorno, notte, tempo, stagioni; i rappresentanti delle quattro caste, nel modo stesso che ci descrivono i testi vedici; crea dei, uomini, animali, demoni, tutti gli esseri mobili, cioè, e anche gl'immobili.

Mānavadharmaṣāstra. - Un'altra estesa trattazione cosmogonica si ha nel codice di legge dovuto a Manu (v.) (Mānavadharmasāstra, I, 5-35). Tale trattazione, citata in molte opere medievali, vale, come ben osserva il Jacobi, ad illustrare "lo stato delle opinioni sulla cosmogonia prevalente prima che i purāṇa assumessero la forma con la quale ci son giunti". L'universo non era al principio che tenebre e impercepibile e inconoscibile. L' "Esistente di per sé" (Svayaṃbhū) disperde le tenebre e genera le acque su cui pone un germe divino, che diviene un uovo dallo splendore del sole: in esso uovo egli nasce, quale maschio Brahman, progenitore di tutto il mondo. Dalle due parti dell'uovo spezzato vengono rispettivamente formati cielo e terra. Si originano poi ancora e il principium individuationis e l'anima e tutto quanto è dotato delle tre proprietà fondamentali (sattva "bontà"; rajas "passione"; tamas "tenebra") e i cinque organi dei sensi e gli esseri tutti e gli dei e il sacrificio, il fuoco, il vento, il sole, i Veda, il tempo nelle sue suddivisioni, i pianeti, i fiumi, gli oceani, le montagne, le pianure, le valli; le austerità, la parola, il piacere, il desiderio, il dolore: tutta intera, dunque, la creazione e quanto pur di spirituale v'abbia in essa: merito e demerito e pure le quattro caste. Diviso per metà il proprio corpo, l'"Esistente di per sé" diviene il maschio e la femmina, nella quale genera Virāj, donde nasce Manu, progenitore dell'umanità.

Bibl.: O. Geldner, Zur Cosmogonie des Ṛgveda, Marburgo 1908; H. Jacobi, Cosmogony and Cosmology, in Hastings, Encycl. of Religion and Ethics, cit.; A.M. Pizzagalli, La cosmogonia di Bhr???gu, in Mem. R. Ist. lomb. sc. e lettere, XXII (1910).

Le cosmogonie cinesi. - Le più antiche leggende dei Cinesi primitivi hanno riscontro con quelle di altri popoli dell'Asia Orientale. Dei ed eroi preparano la terra perché possa essere abitata dagli uomini (v. cina: Storia). Una delle leggende più antiche racconta che il mondo era stato ordinato da Fu-hsi e da sua sorella Nükua, la quale aveva piantato quattro zampe di tartaruga marina ai quattro angoli della terra per sostenere il cielo, poi aveva fuso delle pietre di cinque colori per completarlo, e infine, dopo aver ucciso un drago nero, aveva arginato i fiumi, ecc.

Più recenti sono le leggende riferite dagli scrittori taoisti del sec. IX d. C. relative a P'an-ku, il primo uomo, nato, al principio del mondo, dopo la separazione del cielo e della terra. Egli nacque dotato di complete conoscenze. Le immagini popolari lo rappresentano come un vecchio deforme e grottesco con una grande ascia, con la quale dalla materia informe crea il sole, la luna, le piante e gli animali. Il suo soffio diventa il vento, la sua voce il tuono, il suo occhio sinistro il sole, l'occhio destro la luna, il suo sangue scorre nei fiumi, il suo sudore diventa la pioggia, e infine i parassiti che infestano il suo corpo costituiscono il genere umano.

Più complessa è la cosmogonia di Chu Hsi (v.). Egli cerca di raccogliere in un sistema logico le antiche leggende cinesi per contrapporre, nella dottrina confuciana, una cosmogonia non meno complicata e grandiosa nel tempo e nello spazio di quella apportata dall'India dai religiosi buddhisti. Il grande periodo cosmico di 129.600 anni si divide in dodici periodi di 10.800 anni ciascuno; in questi lunghi periodi, da un caos primordiale si divide una parte pesante, che forma la terra, e una parte sottile che si eleva nello spazio e forma il sole, la luna e le stelle. La prima coppia d'ogni specie animale è generata dalla trasformazione della materia prima o dall'unione del principio maschile e femminile del cielo e della terra. In ogni essere si manifesta l'azione del principio primordiale (t'ai-ki). Esso è simile a una radice che germoglia e sale, si divide in rami, produce fiori, foglie e frutti. Ogni frutto appena formato possiede in sé stesso il principio creatore. Questo principio agisce sotto l'influenza d'una virtù celeste (T'ien-ming), la quale consiste in un flusso regolare di moto e di quiete che regola (li) la trasformazione e la produzione di tutti gli esseri. Ogni essere riceve in sé tutto il principio primordiale (t'ai-ki). P. es. nel cielo la luna è sola e isolata, ma quando essa spande la luce sui fiumi e sui laghi, si vede dappertutto senza che perciò si possa dire che la luna si è suddivisa, ecc.

Dal sec. XVII in poi, dopo i primi scritti di Matteo Ricci e dei suoi allievi, la Cina ha cominciato lentamente a prendere contatto con le dottrine cosmogoniche europee.

Bibl.: Per le leggende più antiche: H. Maspero, Légendes mythologiques dans le Chou King, in Journ. Asiatique, 1924; C. Puini, Le origini della civiltà secondo la tradizione e la storia dell'Estremo Oriente, Firenze 1891; per la leggenda di P'an-ku: Cordier, Hist. générale de la Chine, I, Parigi 1920, p. 52. Per la cosmogonia di Chu Hsi, P.S. le Gall, Tchou Hi, sa doctrine, son influence, Shanghai 1894.

Le teorie cosmogoniche.

Mentre alle voci nebulose; solare, sistema; stelle, ecc. sarà detto delle principali ipotesi cosmogoniche circa la genesi e l'evoluzione dei diversi corpi celesti, e una sintesi di tali ipotesi sarà fatta alla voce universo onde tratteggiare il pensiero moderno circa la struttura, il regime dinamico e il regime evolutivo di tutto il cosmo; a complemento dei capitoli precedenti riassumiamo qui in un cenno taluni dei momenti storici più importanti circa l'evolversi nei secoli delle concezioni cosmogoniche. Per la concezione ebraica (cosmogonia mosaica) v. creazione; genesi.

Durante l'era che s'intitola dai Sette Sapienti, s'incominciano a considerare come naturali, cose che prima erano ritenute soprannaturali, e l'uomo si pone per la prima volta alcuni problemi che attendono ancor oggi la loro soluzione. Secondo la tradizione, Talete (v.), uno dei Sette, fu il tramite attraverso il quale le nozioni geometriche e astronomiche dei Fenici e degli Egiziani giunsero in Grecia. Talete riteneva vivente la materia, a ciò indotto anche dalla virtù del magnete; e ammetteva che l'elemento primigeniti fosse l'acqua, sulla quale galleggiava la terra. Anassimandro (v.) ammetteva, come Talete, l'esistenza d'una materia primigenia, ma la riteneva infinita di massa e dotata di moto. Tutte le sostanze derivavano da essa per via di separazione e in essa si riconfondevano con l'andare del tempo, dando luogo così ad un perpetuo formarsi e dissolversi del mondo. Il moto dei corpi celesti era, secondo lui, originato da correnti aeree. Anassimene (v.) precisò invece la qualità della materia primitiva: essa è l'aria, infinita di quantità e dotata di moto; è essa che produce tutte le sostanze per via di rarefazione e condensazione. Anche la terra è un prodotto di tale condensazione, e galleggia sull'aria; le stelle sarebbero originate dalla rarefazione delle emanazioni terrestri, in quanto tale rarefazioue, spinta all'eccesso, trasforma dette emanazioni in fuoco, e la rapida rotazione del cielo condensa tale fuoco dando origine alle stelle, racchiudenti nel loro interno un nucleo terrestre.

Diogene d'Apollonia accettava il principio di Anassimene che l'aria fosse la materia primigenia di quantità infinita; ma affermava che la separazione degli elementi dipendesse dalla densità peculiare di essi. I più pesanti erano scesi dando origine alla terra, i più leggieri, salendo, avevano formato il cielo, il sole e le stelle. Egli introdusse però un elemento nuovo nel sistema anassimeneo, immaginando un' intelligenza che governa il mondo. Concetto che si vuole tolto da Anassagora; ma Diogene non affermò che tale intelligenza fosse distinta dalla materia, e le sue parole si possono anche interpretare nel senso che la materia stessa fosse dotata di intelligenza.

Il problema cosmogonico, però, non poteva fare un progresso decisivo finché a qualcuno non fosse accaduto di sospettare che il moto dei pianeti e della sfera celeste dipendesse, in tutto o in parte, dall'osservatore.

Questa, che si può considerare come una delle più feconde idee dell'ingegno umano, maturò nell'ambito della scuola pitagorica; e fu attribuita già dagli antichi, e recentissimamente anche dai moderni, a Filolao. Secondo il sistema cosmico di Filolao, il centro del mondo è occupato dal "Fuoco dell'universo" o "fuoco centrale", intorno al quale circolano con velocità diversa dieci corpi divini; cioè, in ordine di distanza dal centro: l'Antiterra, la Terra, la Luna, il Sole, e i cinque pianeti e la sfera delle stelle fisse, quest'ultima circondata dall'Olimpo incandescente. Così che il mondo rimane compreso fra due fuochi, entrambi invisibili; il secondo perché contiene gli elementi allo stato di purezza assoluta e quindi incolori, il primo perché la terra nel suo moto diurno gira attorno al fuoco centrale così da rivolgergli costantemente l'emisfero non abitato dall'uomo.

Il moto del sole si svolge in un piano diverso da quello della terra; il primo nell'eclittica, il secondo nell'equatore. La luce del fuoco centrale, per sé invisibile, viene assorbita dal sole e da esso riflessa in aspetto sensibile sul mondo, determinando (col moto della terra e della luna) il giorno e la notte, le stagioni, le fasi lunari, e via dicendo. Il corpo immaginario dell'antiterra, girante anch' esso intorno al fuoco centrale in un giorno siderale, e in perpetua congiunzione inferiore con esso, fu aggiunto da Filolao, al dire di Aristotele, in omaggio ai dogmi della scuola pitagorica, che considerava il numero dieci come il simbolo della perfezione.

Per quanto assurda sembri a noi l'ipotesi filolaica, essa serviva a rendere conto del moto del sole e della luna; e, fino a un certo punto, anche dei pianeti (salvo le stazioni e le retrogradazioni di cui non si aveva ancora un concetto esatto); non è ben chiaro invece quale moto, intorno al fuoco centrale, attribuisse Filolao alla sfera delle stelle fisse. Non conoscendo egli (come pare) il fenomeno della precessione degli equinozî, sarebbe stato logico che considerasse quella sfera come immobile, mentre l'ipotesi sua assegna chiaramente un moto a tutt'e dieci i corpi divini.

Gli elementi immaginarî introdotti da Filolao tolsero credito anche all'asserzione vera, contenuta nel suo sistema, della mobilità della terra; la quale continuò ad essere oggetto di discussione nelle scuole filosofiche e massime nella platonica. E, in fondo, ben può dirsi che sul dualismo imperniato sulla mobilità o immobilità della terra nello spazio, siano poggiate tutte le dispute che da Platone in poi diedero origine ai diversi sistemi cosmici degli antichi, che il lettore può trovare illustrati alla voce astronomia, e che culminarono nell'ipotesi, geocentrica per eccellenza, che è riassunta da Tolomeo nell'Almagesto, idea dominatrice del pensiero astronomico sino allo spirare del Medioevo.

Chiarita finalmente per opera di Copernico e dei suoi illustratori la circolazione eliocentrica dei pianeti, e crollato definitivamente l'edificio delle sfere materiali dopo la scoperta dei satelliti di Giove e dell'appartenenza delle comete al sistema solare, si comprese dall'un canto che lo spazio doveva essere vuoto, o riempito di tale materia che non ostacolasse il moto dei corpi celesti, e dall'altro s'incominciò a rimeditare sulla causa che impedisce ai pianeti d'allontanarsi o avvicinarsi più che tanto al loro centro di rivoluzione. Ed è così che con Cartesio ha inizio nella storia delle ipotesi cosmogoniche un nuovo capitolo, oggi non ancora chiuso. Cartesio, non pago dell'interpretazione puramente geometrica del moto eliocentrico, volle rendere conto della ragione fisica del sistema solare appoggiandosi alle scoperte che si venivano facendo col telescopio.

E se Isacco Newton ritenne di maggiore profitto per la scienza la considerazione dello stato attuale del mondo e della causa unica da cui tutti i moti celesti osservati si potevano far dipendere; nel secolo XVIII abbiamo il blocco delle speculazioni filosofiche e delle indagini con le quali E. Swedenborg, T. Wright, E. Kant, G. Lambert, G. Herschel e P. S. Laplace osarono affrontare il mistero dell'universo anche se sprovvisti ancora di quei dati che soli potevano stare alla base di un'indagine circa la struttura, il regime di moto e il regime evolutivo-fisico dei corpi celesti.

Ma di tutte queste indagini e ipotesi che si devono considerare come un meraviglioso preludio alle teorie cosmogoniche moderne, e di queste ultime, sarà detto, come già abbiamo avvertito, alle singole voci citate in principio di questo rapido cenno storico.

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