Cristianesimo

Enciclopedia del Novecento II Supplemento (1998)

Cristianesimo

Bruno Forte

Sommario: 1. Introduzione. 2. Il Nord del mondo: la crisi della modernità occidentale e la teologia come riserva di senso: a) Europa: verso la sintesi teologica e i sistemi aperti'; b) Nordamerica: le teologie della prassi. 3. Il Sud del mondo: il rovescio della storia e la teologia come coscienza critica della liberazione: a) teologia dal rovescio della storia'; b) liberazione e contesti storici dell'oppressione. 4. Le sfide dall'Oriente: l'ortodossia e il dialogo con le grandi religioni: a) l'Orientale lumen: l'ortodossia; b) il rapporto fra Israele e la Chiesa; c) la sfida delle altre religioni: Islam, religioni dell'India e dell'Estremo Oriente. 5. Prospettive della globalizzazione: le sfide e i processi di unità: a) le sfide della globalizzazione: ecologia, giustizia, etica; b) i processi di unità: teologia e spiritualità; ecumenismo e cattolicità; impegno per la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato. □ Bibliografia.

1. Introduzione

La situazione storica del cristianesimo nell'ultimo ventennio del Novecento è caratterizzata da un marcato processo di regionalizzazione, congiunto in maniera al tempo stesso inseparabile e dialettica al più generale fenomeno della globalizzazione. Nel villaggio globale quale è oramai divenuto il pianeta - in virtù delle connessioni consentite dalla rete informatica e a causa delle varie forme di interdipendenza economica e politica - le comunità cristiane si trovano sfidate a situarsi in maniera originale e creativa nei più diversi contesti sociali, culturali e spirituali. Al tempo del rinnovamento - legato per la Chiesa cattolica alla primavera del Concilio Vaticano II (1962-1965) e per le altre Chiese alla nascita e allo sviluppo del movimento ecumenico moderno e alle trasformazioni della teologia rispetto all'eredità ottocentesca - ha fatto seguito una condizione definita efficacemente di ‛spiazzamento' (a questo déplacement la rivista ‟Concilium" ha dedicato un'emblematica monografia nel 1978), frutto della nuova consapevolezza ed esperienza del pluralismo delle culture, delle urgenze storico-politiche, dei bisogni e delle espressioni spirituali e religiose. Nell'ambito della teologia - coscienza critica del vissuto cristiano ed ecclesiale - lo spiazzamento si è venuto delineando attraverso lo sviluppo - accanto al monopolio europeo tradizionale - di nuovi luoghi geografici di elaborazione teologica (America Latina, Africa, Asia), di nuovi protagonismi (in primo luogo quello dei laici e delle donne) rispetto al preponderante clericalismo e maschilismo del passato, e di nuovi metodi (in rapporto specialmente all'emergere del valore della prassi: ‛ortoprassi') rispetto all'esclusiva priorità del momento dottrinale-oggettivo (‛ortodossia'). La dialettica fra regionalizzazione e globalizzazione è precisamente il fenomeno che emerge come effetto caratteristico di queste trasformazioni: se l'attenzione alla ‛inculturazione' della fede richiede la recezione approfondita delle sfide provenienti dai contesti storico-sociali e l'assunzione insieme positiva e critica dei linguaggi - espressioni di eredità culturali e di sistemi relazionali fra loro anche molto differenti -, essa pone al contempo la questione decisiva della comunicazione della fede stessa, della possibilità, cioè, di mantenere legami reali di unità e di reciproca intesa fra teologie e prassi cristiane variamente contestualizzate. Peraltro, lo stesso processo di globalizzazione in atto a livello planetario viene a sfidare i pur necessari processi di inculturazione, affinché questi ultimi non assolutizzino a tal punto il singolo contesto da impedire il dialogo e l'incontro delle diversità in una rete comunicativa e in un'unità nella fede più vasta e profonda delle diversità stesse (tematica espressa dalle idee ecclesiologiche di communio Ecclesiarum e di Chiesa come comunione, dominanti nel Concilio Vaticano II e negli sviluppi della sua recezione, come ha evidenziato il Sinodo dei Vescovi a vent'anni dal Concilio del 1965, ma anche centrali nel recente dibattito ecumenico).

La presentazione del cristianesimo di fine secolo, qui tentata in maniera solo evocativa e per chiavi interpretative necessariamente fin troppo generali, muove dunque dalle analisi delle sfide contestuali e delle forme di inculturazione teologica e storica della fede (regionalizzazione), prendendo in esame successivamente: la cristianità occidentale, europea e nordamericana; quella latino-americana, asiatica e africana; e quella dell'Oriente, europeo (ortodossia) e asiatico (sfida delle grandi religioni). Una sezione conclusiva tenderà a individuare le sfide e i processi che dalla regionalizzazione muovono verso la non meno urgente unificazione, richiesta dall'impegno di proporre il messaggio cristiano al villaggio globale, di cui tutti - in maniera più o meno attiva e consapevole - facciamo parte.

2. Il Nord del mondo: la crisi della modernità occidentale e la teologia come riserva di senso

La parabola della modernità occidentale coincide col processo che va dal trionfo della ragione onnicomprensiva e totale - propria dell'illuminismo e della sistemazione idealistica - all'esperienza diffusa della frammentazione e del non-senso, seguita alla caduta degli orizzonti forti dell'ideologia, caratteristica del tempo cosiddetto postmoderno. Il ‛secolo lungo', l'Ottocento liberale e borghese, iniziato con la rivoluzione francese e conclusosi soltanto con la tragedia della prima guerra mondiale, cede il posto a quello che Hobsbawm ha chiamato ‟il secolo breve", segnato dall'affermarsi dei totalitarismi ideologici e sfociato nella loro crisi, di cui è metafora il fatale 1989 (crollo del muro di Berlino). Questa deriva è così rappresentata da Max Horkheimer e Theodor W. Adorno all'inizio della loro Dialettica dell'illuminismo: ‟L'illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l'obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata risplende all'insegna di trionfale sventura" (M. Horkheimer e T. W. Adorno, Dialektik der Aufklärung, Amsterdam 1947; tr. it., Torino 1966, p. 11).

Lo sviluppo della modernità occidentale risulta così costitutivamente ambiguo: da una parte, esso abbraccia i sogni e i progetti di emancipazione, che mirano a rendere l'uomo soggetto e non oggetto della propria storia, dall'emancipazione dei popoli sfruttati a quella delle classi e delle razze oppresse, all'emancipazione della donna. In questo senso, la modernità illuminata produce conquiste decisive e rappresenta attese ineludibili. D'altra parte, però, il tempo che va dall'illuminismo in poi è anche il tempo della violenza ideologica, messa in atto dai vari totalitarismi storici. In quanto presume di spiegare e dare senso a tutto, l'ideologia tende ad abbracciare l'intera realtà, fino a stabilire l'equazione compiuta fra ideale e reale: non c'è spazio in essa per la differenza o il dissenso. Perciò le espressioni storiche delle ideologie risultano tutte inesorabilmente violente: la realtà deve essere piegata alla potenza onnicomprensiva del concetto. Il sogno di totalità diventa totalitario: l'ebbrezza della razionalità ideologica produce la propria crisi. Come osserva il teologo evangelico Dietrich Bonhöffer, morto martire della barbarie ideologica del nazionalsocialismo nel 1945 nel campo di concentramento di Flossenbürg, ‟il padrone della macchina ne diventa lo schiavo e la macchina diventa nemica dell'uomo. La creatura si rivolta contro chi l'ha creata: singolare replica del peccato di Adamo! L'emancipazione delle masse sfocia nel terrore della ghigliottina. Il nazionalismo porta inevitabilmente alla guerra. L'ideale assoluto della liberazione conduce l'uomo all'autodistruzione. Alla fine della via per la quale ci si è incamminati con la Rivoluzione francese si trova il nichilismo" (D. Bonhöffer, Ethik, München 1949; tr. it., Etica, Milano 19692, pp. 86 ss.).

La crisi della ragione illuminata, manifestatasi in Europa nel fallimento dei vari totalitarismi ideologici, cede il posto nelle culture dell'Occidente alla cosiddetta ‛postmodernità', che - proprio in reazione alle certezze delle ideologie - si offre anzitutto come processo di abbandono della violenza totalizzante dell'idea e delle sue presunzioni di fondamento forte e di compimento assoluto. Se per l'ideologia tutto aveva senso, per il pensiero debole della condizione postmoderna nulla sembra avere più senso: è tempo di naufragio e di caduta; l'indifferenza sostituisce la passione ideologica. Si delinea così l'estremo volto della crisi epocale del secolo che volge alla fine: il volto della décadence. Così la descrive lo stesso Bonhöffer, riflettendo sul dramma della coscienza europea da lui vissuto in prima persona: ‟Non essendovi nulla di durevole, vien meno il fondamento della vita storica, cioè la fiducia, in tutte le sue forme. E poiché non si ha fiducia nella verità, la si sostituisce con i sofismi della propaganda. Mancando la fiducia nella giustizia, si dichiara giusto ciò che conviene [...]. Tale è la situazione del nostro tempo, che è un tempo di vera e propria decadenza" (ibid., p. 91). La decadenza priva l'uomo della passione per la verità, lo spoglia di quelle motivazioni forti che l'ideologia ancora sembrava offrirgli. Essa vorrebbe persuadere a un ottimismo ingenuo e universale, che non ha bisogno di tenere ferma la negatività dell'avversario, perché tende solo a piegarlo al proprio calcolo e al proprio interesse: è il trionfo della maschera a scapito della verità, al cui servizio tanto spesso lavorano i ‛persuasori occulti' della civiltà multimediale che si è andata imponendo con impressionante accelerazione in questi ultimi decenni del secolo. La cultura forte, espressione dell'ideologia, si è frantumata nei tanti rivoli delle culture deboli, in quella folla delle solitudini, in cui la penuria di grandi speranze collettive piega ciascuno nel corto orizzonte del suo ‛particulare'. Alle ragioni del vivere e del vivere insieme, si sostituisce la rivendicazione dell'immediatamente utile e conveniente: i conflitti etnici e l'emergere di particolarismi spesso ottusi e velleitari in questa fin de siècle ne sono una diffusa riprova. Questo è in maniera preponderante l'attuale orizzonte d'azione del cristianesimo in Occidente.

a) Europa: verso la sintesi teologica e i sistemi aperti'

Come reagisce la coscienza cristiana di fronte al compiersi della parabola della modernità, che dall'ebbrezza ideologica giunge al tempo della décadence? Essa, che ha avuto un indubbio ruolo nell'evolversi e nel determinarsi della crisi delle ideologie, si trova di fronte a sfide in gran parte impreviste. Se negli anni del fascino esercitato dai mondi ideologici la ‛teologia della speranza', precisata nel suo significato più profondo alla luce del Dio crocefisso (e compiutamente illustrata nelle opere dell'evangelico Jürgen Moltmann; v. anche teologia, vol. VII), e la ‛teologia politica' (elaborata dal cattolico Johannes Baptist Metz) avevano richiamato alla permanente vigilanza della riserva escatologica contenuta nella fede cristiana nei confronti di ogni assolutismo mondano; se la resistenza ai totalitarismi ideologici era stata un tratto diffuso delle comunità ecclesiali, anche a costo di altissimi prezzi, specie nei paesi del cosiddetto socialismo reale, la fine della contrapposizione in due blocchi delle società europee non ha prodotto l'integrazione sperata. Coagulare il consenso contro l'avversario ideologico era ben più facile che suscitarlo a favore di un orizzonte comune di senso: ecco perché la grande sfida che pare profilarsi in questi anni per la coscienza cristiana, soprattutto dell'Europa occidentale, è quella di offrire orizzonti unificanti, non ideologici e non violenti, capaci di motivare l'impegno comune per la costruzione di una società equa e solidale per tutti. Ciò spiega il bisogno, emergente nella teologia europea dei nostri giorni, di tornare a proposte ‛sistematiche', in grado di offrire una visione d'insieme della vita e della storia, e quindi tali da fondare una prassi impegnata, vincente sulla deriva dell'indifferenza. Dal punto di vista contenutistico queste proposte riprendono significativamente i temi centrali della teologia, e in particolare la questione di Dio, la specificità trinitaria del messaggio cristiano, la sua rilevanza per l'interpretazione dell'escatologia e per la lettura teologica della storia: dopo gli anni del rinnovamento ecclesiologico, connesso alla recezione del Concilio Vaticano II, e il predominante interesse cristologico degli anni sessanta - alla ricerca in Gesù, il Cristo, di un fondamento al tempo stesso storico e trascendente, alternativo alle seduzioni delle ideologie (si pensi ad esempio alle opere di Walter Kasper in Germania e di Christian Duquoc in Francia), o al contrario di un modello a esse confacente (come nelle ‛teologie della rivoluzione') - dagli anni ottanta in poi si è profilato un rinnovato interesse per la questione teologica pura e per le sue implicanze in rapporto ai vari aspetti della vita e della storia. Basteranno alcuni esempi significativi: gli stessi teologi che negli anni sessanta avevano elaborato soprattutto in Germania la proposta di una teologia della speranza, avvertono oggi l'urgenza di proporre una ‟dogmatica messianica" (Jürgen Moltmann) o un'organica ‟teologia sistematica" (come quella in tre monumentali volumi del luterano Wolfhart Pannenberg), centrate sulla rivelazione del Dio di Gesù Cristo. Alla stessa esigenza corrispondono in contesti diversi le opere di sintesi (come le numerose storie della teologia prodotte in questi anni a colmare una effettiva lacuna, fra cui quelle di E. Vilanova, G. Lafont, B. Mondin, R. Osculati e, a più mani, quelle edite dalle Edizioni Piemme o dalle Dehoniane; o in Italia le enciclopedie e i dizionari teologici e in Francia l'Initiation à la pratique de la théologie, in cinque volumi, o i tre volumi dell'Introduction à la théologie, diretta da Joseph Doré), ma anche lavori di presentazione organica della fede cristiana, prodotti da singoli autori, particolarmente impegnati nel dialogo col pensiero del cosiddetto postmoderno (come in Italia la Simbolica ecclesiale, in otto volumi, di Bruno Forte, costruita sul recupero della centralità della fede trinitaria e della forma storica nel pensiero teologico). Analoghi orientamenti teologico-sistematici ispirano opere come quelle dei teologi cattolici Edward Schillebeeckx (Olanda), Joseph Ratzinger e Walter Kasper (Germania), dell'evangelico Eberhard Jüngel, e come i più recenti tentativi di elaborazione teologica di provenienza spagnola (Olegario González de Cardedal, Josep Rovira Belloso, Andrés Torres Queiruga, ecc.). Va precisato che nessuno di questi lavori si propone come sintesi totale: è anzi in tutti manifesta una notevole vigilanza critica nei confronti della possibile ideologizzazione del cristianesimo. Si avverte però il bisogno di proporre una sintesi, anche se aperta, ispirata cioè a una ragione teologica storica, fortemente nutrita di ispirazione biblica. Anche il rapporto col vissuto spirituale ed ecclesiale e con la grande tradizione cristiana è considerato condizione non solo utile, ma necessaria, per preservare la riflessione critica della fede da tentazioni sistematiche di sapore ideologico. La teologia tende a offrirsi, insomma, come riserva di senso e proposta di motivazione e di speranza di fronte alla crisi del fondamento e alla rinuncia nichilista di molta parte della cultura europea postmoderna.

b) Nordamerica: le teologie della prassi

Se in Europa la teologia sembra reagire ai processi di frantumazione e di decadenza di questi anni con la ripresa dell'audacia sistematica del pensiero intorno alle questioni ultime, nell'altra parte del Nord del mondo, l'Occidente nordamericano, sono le ‛teologie della prassi' a restare in primo piano: la crisi dell'ideologia nel Vecchio Continente corrisponde qui a un certo ambiguo trionfalismo del modello americano (‛reaganismo'), fondato sull'esasperazione dell'individualismo dei diritti (rugged individualism) a scapito dei più deboli, incapaci di far valere i propri bisogni, spesso elementari e prioritari, rivendicandone la natura di diritti sociali. Si comprende, allora, perché le urgenze dell'emancipazione si profilino in questo contesto come normative per la riflessione credente: se la black theology (James Cone) porta avanti la presa di coscienza della dignità e del protagonismo della popolazione di colore, ancora oggetto di effettiva discriminazione, alla luce del messaggio di uguaglianza e di liberazione del Vangelo, mediato specialmente nei racconti del tempo della schiavitù, ricchi di una teologia espressa nel linguaggio ancestrale della cosmovisione africana (v. Cummings e Hopkins, 1991), la ‛teologia femminista' rivendica non solo il riconoscimento della piena parità e reciprocità fra uomo e donna, ma anche l'eliminazione dei pregiudizi ‛sessisti' nella vita sociale civile ed ecclesiale (M. Daly, R. Radford Ruether, E. Schüssler Fiorenza). Questa presa di coscienza intende nutrirsi sempre più di una riformulazione radicale dei fondamenti teologici dell'esistenza cristiana, a cominciare dall'immagine di Dio, ancora legata a una cultura maschilista (v. Johnson, 1992). La richiesta del ricorso a un ‛linguaggio inclusivo' da usare nella Bibbia e nella liturgia, tale cioè da evitare ogni discriminazione sessista, è un segnale della radicalità e della vastità di queste domande. L'esasperazione dei toni e la violenza che a volte assume la denuncia non devono oscurare le ragioni positive e l'ispirazione religiosa e spirituale di gran parte di questi approcci. Esse sono tanto più presenti, quanto più la riflessione si radica in una rilettura della memoria: all'interno e al di là della storia ufficiale - scritta dai vincitori (gli uomini) - si vuole riscoprire la presenza nascosta e repressa (anche se decisiva) della realtà femminile. I sistemi socio-culturali ed economici che si sono sviluppati nel tempo in Occidente (ma non solo in esso: si pensi ad esempio alla denuncia avanzata dalla ‛teologia asiatica della donna' dell'indonesiana Marianne Katoppo) hanno per lo più relegato la donna in una condizione di dipendenza e di sfruttamento, in cui essa è stata del tutto finalizzata ai bisogni e alle pretese del maschio. Perciò la teologia femminista si propone come teoria critica della liberazione, teologia dell'integralità umana e non solo femminile, tesa a correggere l'immagine di un Dio solo maschile, per aiutare il maschio, sull'esempio di Gesù, ad accettare le componenti femminili del proprio essere e la donna a esprimersi pienamente come persona, perché entrambi siano autenticamente umani secondo l'immagine di Dio in loro in un rapporto di piena reciprocità (ribadito, a partire dal racconto della Genesi, da papa Giovanni Paolo II nell'enciclica Mulieris dignitatem del 1988, dedicata appunto alla dignità della donna nella luce del messaggio cristiano). Accanto a queste teologie della prassi, sorte in risposta a urgenze concrete e a sofferenze secolari, va segnalata l'azione di coscienza critica svolta in America da molti credenti in favore della giustizia e della pace, in vista di un ordine economico più attento alle esigenze della solidarietà verso i più deboli. Ne è un esempio significativo l'azione dell'episcopato cattolico degli Stati Uniti, intervenuto su questi temi con documenti e pronunciamenti di grande rilievo, frutto spesso di lunga e sofferta gestazione. La crisi della coscienza americana si manifesta tuttavia anche in un bisogno rinnovato di certezze facili e di riferimenti forti, di fronte specialmente ai frutti negativi della rivoluzione dei costumi degli anni sessanta e settanta: il flagello dell'AIDS ha contribuito certamente all'accelerazione di questo processo. Non stupisce perciò la rinascita dei fondamentalismi, la banalizzazione della proposta religiosa (grazie anche all'uso commerciale dei media: ‟shopping for God in America"), il fascino esercitato da posizioni integralistiche anche all'interno delle Chiese tradizionali, e in generale la carenza di una riflessione teologico-sistematica profonda, capace di superare il pragmatismo e il conseguente relativismo morale. Emblematica è in tal senso l'evoluzione dell'autore del manifesto della secolarizzazione americana, Harvey Cox, che dalle posizioni di The secular city (1965) passa a quelle di Religion in the secular city (1984), dove afferma non solo la persistenza della religione, ma l'assunto che la società intera va compresa come fenomeno religioso. Il contributo di una vasta conoscenza biblica (basti pensare all'opera di Raymond E. Brown), di un ampio dibattito etico (si pensi alle discussioni suscitate dal caso Curran - il teologo condannato da Roma per le sue posizioni intorno alle questioni di etica sessuale e al tema dell'aborto a metà degli anni ottanta - ma anche più in generale alla faticosa ricerca di un'etica del discernimento spirituale, basata su una coscienza forte del primato di Dio e sulla continua verifica oggettiva ed ecclesiale delle inclinazioni e delle scelte soggettive), e di singoli pensatori dotati di vigore sistematico (come fra i cattolici Avery Dulles e David Tracy e fra gli evangelici Geoffrey Wainright), non pare incidere sui processi in atto, a volte segnati da forti contrapposizioni e da lacerazioni dolorose. La sfida del cambiamento al cristianesimo americano sembra ancora in gran parte da giocare.

3. Il Sud del mondo: il rovescio della storia e la teologia come coscienza critica della liberazione

Se nel Nord del mondo il cristianesimo pare chiamato a offrire un orizzonte di senso capace di far superare la crisi etica seguita al crollo dei sistemi ideologici della modernità, il contesto sociale e politico del Sud del mondo, soprattutto africano e latino-americano, spinge i credenti a una presa di coscienza delle situazioni di sfruttamento e di oppressione in cui versa la maggior parte dell'umanità e a un impegno per la liberazione e la giustizia, ispirato dalla fede nel Dio di Gesù Cristo. Scriveva alla fine degli anni sessanta Gustavo Gutiérrez, il padre della teologia della liberazione: ‟Da tempo si parla, nel mondo cristiano, del problema sociale o della questione sociale, ma solo negli ultimi anni si è presa chiara coscienza dell'ampiezza della miseria e, soprattutto, della situazione di oppressione e di alienazione in cui vive l'immensa maggioranza dell'umanità. Uno stato di cose che rappresenta un'offesa all'uomo e, conseguentemente, a Dio" (v. Gutiérrez, 1971; tr. it., p. 69). Il mondo delle non persone, di coloro cioè cui è negato di fatto il diritto di esistere e di svilupparsi nel rispetto della loro dignità umana, è retto da un sistema di dipendenza, per il quale alcuni paesi e classi sociali diventano sempre più ricchi e potenti in quanto altri (i paesi e le classi dipendenti) lo diventano sempre di meno. Non basta intervenire su questo stato di cose ispirandosi all'ideologia dello sviluppo (desarrollismo), perché questo tipo di azione resta pilotata dal più forte e mantiene quindi i paesi e i gruppi sociali più deboli nella loro condizione di sfruttamento. Ciò che occorre promuovere è una presa di coscienza degli oppressi, che da oggetto di alienazione li renda soggetti e protagonisti della propria storia: ma anche quest'opera di ‛coscientizzazione' dei poveri non potrà bastare, se al contempo non si agirà per la promozione di un nuovo ordine economico internazionale che modifichi le strutture oggettive di dipendenza, ponendo i popoli più deboli nella condizione di poter operare per la propria crescita (si pensi al capestro rappresentato dal debito internazionale di molti fra i paesi più poveri del mondo, il cui intero prodotto annuo non basterebbe a pagare gli interessi annualmente dovuti a ragione del debito contratto). La denuncia che è conseguenza di questa analisi è stata fatta propria dalla Chiesa latino-americana, specialmente nelle conferenze generali dell'episcopato di quel continente, a Medellín (Colombia) nel 1968 e a Puebla (Messico) nel 1979. L'assemblea tenutasi a Santo Domingo nel 1992, ribadendo l'esigenza della promozione integrale della persona umana e dell'inculturazione necessaria a una nuova evangelizzazione, ha prestato particolare attenzione alle culture indigene, afro-americane e meticcie. Anche il recente Sinodo per l'Africa, tenutosi a Roma nel 1994, ha preso atto di questa situazione di dipendenza, persistente al di là della fine apparente dei colonialismi, stimolando la Chiesa a ‟farsi voce di chi non ha voce" (come si legge nel documento postsinodale promulgato da papa Giovanni Paolo II a Yaoundé, Camerun, nel 1995), mentre il primo colloquio teologico della Federazione delle Conferenze Episcopali Asiatiche, tenutosi a Pattaya (Thailandia) nel 1994, ha sottolineato che ‟essere Chiesa in Asia" richiede un'attiva corresponsabilità di tutti i credenti ‟al servizio della vita".

a) Teologia dal rovescio della storia'

Che cosa è chiesto alla fede cristiana di fronte alle enormi situazioni di ingiustizia, che segnano il cosiddetto Terzo Mondo? L'effetto principale del grido di allarme lanciato dalla teologia della liberazione è stato quello di motivare le comunità cristiane a una scelta preferenziale per i poveri e per gli oppressi: se ciò non è avvenuto senza ambiguità e, talvolta, con cedimenti alle suggestioni di interpretazioni ideologiche (rispetto a cui ha messo in guardia il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede Libertatis nuntius, dell'agosto 1984), resta non di meno vero che raramente una riflessione teologica ha inciso più rapidamente e significativamente sulla prassi ecclesiale (come risulta dal documento successivo della stessa Congregazione Libertà cristiana e liberazione del 1986, ed è espresso nelle parole di papa Giovanni Paolo II ai vescovi del Brasile nell'aprile del 1986, quando la teologia della liberazione venne definita ‟non soltanto opportuna, ma utile e necessaria"). Ciò è dovuto anche alla gravità ineludibile delle urgenze cui la teologia liberatrice ha inteso rispondere: di fronte alla storia intesa in maniera illuministica come progresso, realizzato a prezzo dei vinti e degli sfruttati, sta il reverso de la historia, la memoria di secoli di oppressione, cancellata o ignorata, il presente di dolore, di lotta e di speranza dei deboli e degli emarginati, il loro sogno di un futuro diverso di liberazione. Il soggetto di quest'altra storia non è il borghese, che sta dietro all'ideologia occidentale di destra o di sinistra, ma l'insieme degli oppressi, la somma senza fine delle loro storie di sofferenza. Il povero si fa soggetto della propria storia quando recupera l'identità della sua memoria, che gli fa percepire l'immensa dignità del dolore passato, del dolore dei vinti, e impara a leggere con occhi nuovi il presente, cogliendo rapporti iniqui di dipendenza dove prima vedeva il frutto della fatalità o il prezzo di un'antica colpa di arretratezza, e progetta passi concreti per avanzare verso la liberazione. Nel contesto vivo di questo processo si leva la domanda decisiva da cui nasce la teologia liberatrice: ‟In che modo parlare di un Dio che si rivela come amore in una realtà marcata dalla povertà e dall'oppressione? Come annunciare il Dio della vita a persone che soffrono una morte prematura e ingiusta? Come riconoscere il dono gratuito del suo amore e della sua giustizia a partire dalla sofferenza dell'innocente? Con quale linguaggio dire a quanti non sono considerati persone che essi sono figli e figlie di Dio?" (v. Gutiérrez, 1986; tr. it., p. 19). Per i teologi della liberazione il mondo delle non-persone richiede l'abbandono di un'epistemologia razionalista, che si accontenti di riconciliazioni puramente ideali, a favore di un'epistemologia di sapore biblico, in cui comprendere significhi al tempo stesso amare e impegnarsi per gli altri. La ‛deprivatizzazione' del messaggio cristiano deve cominciare dal teologo stesso, chiamato a inserirsi vitalmente nella storia del suo popolo, per attualizzare in esso e con esso la memoria ‛pericolosa' dell'azione liberatrice di Dio, realizzata in Gesù Cristo. Si delineano così i tre momenti caratteristici del metodo della teologia della liberazione: la mediazione socio-analitica, che guarda al mondo dell'oppresso; la mediazione ermeneutica, che guarda alla rivelazione divina e cerca di comprenderne il progetto in relazione al povero; la mediazione pratica, rivolta all'agire trasformatore della realtà (v. Boff, 1978). In tal modo la teologia diventa la coscienza evangelicamente critica della prassi cristiana ed ecclesiale, capace di incidere nella trasformazione del reale, e non soltanto di interpretarlo: ‟Solo prendendo sul serio il dolore dell'umanità, la sofferenza dell'innocente, e vivendo alla luce pasquale il mistero della croce, in mezzo a questa stessa realtà, sarà possibile evitare che la nostra teologia sia un ‛discorso fatuo' (Giobbe, 16,3)" (v. Gutiérrez, 1986; tr. it., p. 203). Mistica e impegno storico, lungi dall'opporsi, verranno a incontrarsi in questa lettura della fede, mossa dalla carità attenta e dalla speranza vigile (v. Gutiérrez, 1984). In maniera significativa, negli ultimi due decenni, la teologia della liberazione è andata approfondendo le sue radici nella tradizione cristiana e nell'esperienza spirituale, riconoscendo la sua derivazione dalla mistica spagnola del siglo de oro, il Cinquecento, che incontra Dio non evadendo dalla storia, ma in essa e per essa, come è nelle figure dei grandi spirituali Teresa d'Avila, Giovanni della Croce e Ignazio di Loyola (v. Galilea, 1983). Divulgata attraverso la predicazione al popolo dei missionari giunti coi conquistatori e progressivamente emancipatisi da essi, questa mistica ha prodotto una forte valorizzazione della sofferenza del povero e dell'indio (si pensi all'opera di Bartolomeo de las Casas, cui Gutiérrez ha dedicato una monumentale ricerca) e conseguentemente una consapevolezza viva del fatto che il Dio di Gesù Cristo sta dalla parte del debole e dello sfruttato e giudica e chiama a conversione lo sfruttatore e il potente. La fedeltà alla terra e la fedeltà al cielo non sono separabili, quando è in gioco la sofferenza degli ultimi e dei vinti della storia.

b) Liberazione e contesti storici dell'oppressione

Il progetto messo in atto dalla teologia della liberazione in America Latina ha presto ispirato altri processi di elaborazione del sapere critico della fede: se in Nordamerica esso si è espresso - come si è visto - nella black theology e nelle varie forme della teologia femminista, in Africa e in Asia esso si è mosso a partire dai diversi processi di inculturazione della fede, caratteristici di questi continenti, accomunati da vastissime situazioni di dipendenza e di povertà (un esempio della diffusione capillare del modello è la teologia maturata nel contesto della sofferenza del popolo palestinese: v. Ateek, 1989). Per sottolineare la comunanza del punto di partenza e del metodo nella varietà dei contesti e per aiutare la conoscenza e lo scambio reciproco fra i teologi così impegnati ‟al servizio alla missione della Chiesa e come testimonianza per una nuova umanità in Cristo, espressa nella lotta per una società giusta", è nata e si è sviluppata in questi due decenni l'Associazione Ecumenica dei Teologi del Terzo Mondo (EATWOT, Ecumenical Association of Third World Theologians), riunitasi la prima volta in Tanzania nel 1976, dove fu prodotto il Manifesto di Dar-es-Salaam, che può considerarsi l'atto ufficiale di nascita della ‛teologia del Terzo Mondo'. Oltre a numerosi congressi teologici tricontinentali, in questi anni l'Associazione ha tenuto quattro assemblee generali, rispettivamente a Nuova Delhi (India) nel 1981, a Oaxtepec (Messico) nel 1986, a Nairobi (Kenya) nel 1992, e a Manila (Filippine) nel 1996. L'istanza della liberazione resta centrale, oltre ogni crisi e disillusione: ‟L'oppressione - ha affermato a Nairobi il teologo Jon Sobrino, facendo memoria dell'assassinio/martirio dei gesuiti salvadoregni nel 1989 - non è una moda; il grido degli oppressi continua a salire fino al cielo [...]; Dio continua ad ascoltare queste grida, continua a condannare l'oppressione e continua a incoraggiare la liberazione". E aggiunge la domanda inquietante: ‟Come può definirsi ‛cristiana' una teologia che passa al di sopra della crocifissione di popoli interi e della loro necessità di resurrezione, anche se nei suoi libri continua a parlare di un crocefisso e di un resuscitato di venti secoli fa?" L'istanza emergente è quella per una cristologia che testimoni un ‟mistero che dà vita" e offra un ‟paradigma per l'azione": ‟Ogni vera cristologia si fonda sulla cristoprassi" (tra i principali esponenti di queste posizioni ricordiamo, ad esempio, Aloysius Pieris e Tissa Balasurya, teologi singalesi, o George Soares-Prabhu, teologo indiano recentemente scomparso, o la minjung theology coreana, proposta da David Suh). La cristologia asiatica della sequela si caratterizza rispetto a quella latino-americana per una più marcata attenzione al dialogo interreligioso: nello sforzo di far spazio al patrimonio spirituale delle tradizioni non cristiane, si può correre il rischio, tuttavia, di ridurre Gesù Cristo a una semplice cifra dell'inesauribile mistero assoluto, ‟che ha mille nomi salvifici". L'urgenza di uscire da un cristianesimo coloniale, eurocentrico, è più che giustificata (ed è sottolineata in particolare in Africa: si pensi all'opera del cattolico Jean-Marc Elal o dell'anglicano John Mbiti, ma anche a segni significativi, come la nascita di una ‟Revue africaine de théologie" a Kinshasa, Congo): problematiche sono però spesso le forme in cui questo superamento viene proposto. Il cammino resta aperto: ‟Il grido per la vita - afferma il documento finale dell'Assemblea di Nairobi - ci sfida ad affermare costantemente il nostro impegno per trasformare ogni realtà, perché ogni vita fiorisca". In particolare, l'assemblea di Manila ha chiamato i teologi alla vigilanza nei confronti dei processi di globalizzazione economica in atto, che si presentano a tutto vantaggio delle economie forti contro le economie deboli, oltre che a una più acuta sensibilità verso il problema ecologico e le sfide delle culture indigene. Il cantiere della teologia sudamericana, africana e asiatica si allarga: la coscienza della fede del cristianesimo nel Terzo Mondo si fa più adulta e vigile, e sempre meno eurodipendente o legata a modelli teorici e pratici non inculturati. Ciò pone in maniera evidente la questione della comunione universale con le altre situazioni storiche del cristianesimo nell'unità della fede e della missione, anche in rapporto alla sfida crescente della globalizzazione culturale. Presumibilmente queste sfide impegneranno il lavoro di tutte le Chiese nei prossimi anni.

4. Le sfide dall'Oriente: l'ortodossia e il dialogo con le grandi religioni

L'Oriente può essere considerato come patria spirituale dai cristiani, perché è da esso che è venuto dapprima al mondo greco-latino e poi all'universo intero il messaggio della fede nel Figlio di Dio, incarnato, crocefisso e risorto. Se però l'Oriente europeo è il luogo proprio della cristianità orientale, e in particolare ortodossa, l'Oriente asiatico è la culla e l'ambito di diffusione delle grandi religioni con cui il cristianesimo si incontra oramai in maniera planetaria: l'ebraismo, santa ‟radice" (Romani, 11,18) della Chiesa, finalmente ristabilitosi nella Terra Santa dei Padri, dei re e dei profeti; l'Islam, nato in Arabia non senza continuità con la tradizione ebraico-cristiana, e teso sin dalle origini a una missione universale; le religioni dell'India, come l'induismo e il buddhismo, diffuso quest'ultimo oltre i confini del continente indiano, specie in Cina e Giappone; il taoismo, il confucianesimo, lo scintoismo, presenti con una storia plurimillenaria in queste culture. La sfida che viene da queste esperienze religiose all'identità e alla missione cristiana è quanto mai varia e complessa. Essa va articolata nei tre grandi ambiti, quello dell'Oriente cristiano, con le sue specificità e le istanze che da esso vengono all'intera ecumene del cristianesimo, quello dell'ebraismo, in cui la fede cristiana riconosce la testimonianza vivente del popolo dell'alleanza mai revocata col Dio dei Padri, e quello delle altre religioni, in maniera diversa rapportate alla teologia e alla prassi dei credenti in Cristo. Il contesto storico-culturale della cristianità ortodossa in Europa appare negli ultimi due decenni molto simile a quello della postmodernità occidentale, in quanto presenta analoghe crisi di identità e analoghi processi di disgregazione, accresciuti peraltro dall'esperienza diretta del totalitarismo sovietico e attraversati da fenomeni di risveglio religioso al tempo stesso ambigui e promettenti. I rapporti con l'ebraismo si situano nei vari contesti in cui i cristiani incontrano i loro ‛fratelli maggiori', ma hanno ovviamente un particolare significato in rapporto alla terra dei patriarchi, dei profeti e di Gesù, purtroppo ancora attraversata da grandi tensioni, connesse alle difficoltà di sviluppo del processo di pace avviato fra lo Stato d'Israele e i Palestinesi. La situazione socio-culturale dell'Estremo Oriente e dell'India è legata da una parte alla persistenza delle culture tradizionali, dall'altra ai cosiddetti processi di modernizzazione, che spesso sono fortemente ispirati, se non addirittura condizionati, dal modello occidentale, europeo e soprattutto nordamericano. La persistenza dei mondi religiosi in queste culture è un dato di fatto, anche là dove, come nella Cina comunista, c'è stata per decenni un'opera sistematica di propaganda ateistica, che sembra oggi cedere il posto a una tolleranza non di rado strumentale e ambigua. Il risveglio religioso che si osserva in questo paese - reazione alla violenza di fenomeni come la rivoluzione culturale, la cui tragicità e barbarie è ammessa dagli stessi attuali rappresentanti della via cinese al socialismo - costituisce una sfida di portata immensa non solo al cristianesimo, ma a tutte le grandi religioni mondiali.

a) L'Orientale lumen: l'ortodossia

Nel 1995 è stata pubblicata l'enciclica di Giovanni Paolo II Orientale lumen, che rende atto del contributo di cui l'intera ecumene cristiana è debitrice alle Chiese d'Oriente. L'apporto che esse offrono può essere riconosciuto in una serie di elementi preziosi: il senso profondo e la cura per la tradizione, intesa come trasmissione viva della grazia della rivelazione nella Chiesa sotto l'azione fedele e costante dello Spirito Santo; la centralità della liturgia, nutrita dal mistero proclamato nella parola di Dio e sorgente del mistero vissuto nella testimonianza della fede e della carità; la forte sensibilità pneumatologica, per cui la persona divina del Paraclito, divenuto spesso in Occidente il ‛divino sconosciuto', è rimasta al centro della contemplazione teologica e dell'esperienza spirituale; la testimonianza del monachesimo e l'attitudine apofatica della riflessione e della prassi credente. Queste costanti caratterizzano anche gli aspetti più significativi della vita delle Chiese ortodosse nel XX secolo, benché ci siano stati in esso dei cambiamenti profondi di carattere storico-politico, che hanno determinato specie nell'Europa orientale situazioni del tutto nuove per la fede e la riflessione dell'ortodossia. La Rivoluzione dell'ottobre 1917 ha posto la Chiesa russa in una condizione inedita di mancanza di potere e di aperta persecuzione, durata fino al 1989, quando la mutata realtà politico-sociale dei paesi dell'Est europeo ha determinato per essa e per le altre Chiese autocefale dei paesi ex comunisti la sfida non indifferente di contribuire alla rinascita morale e spirituale dei propri popoli. In entrambi i casi la domanda sull'identità e sulla missione dell'ortodossia si è presentata in maniera nuova alla teologia e alla prassi di queste Chiese. Inoltre, la diaspora seguita alla Rivoluzione d'ottobre ha portato molti credenti ortodossi a un incontro mai prima realizzato in maniera così vasta e feconda con la cultura dell'Occidente, favorendo da una parte la nascita di nuovi centri di pensiero teologico, come l'Istituto S. Sergio di Parigi e l'Istituto S. Vladimiro di New York, dall'altra lo sviluppo del dialogo ecumenico moderno, cui l'ortodossia ha attivamente e criticamente contribuito. Le sfide così profilatesi hanno trovato risposta in altrettanti sforzi di ripensamento e di elaborazione teologica: il bisogno di rafforzare il senso dell'identità ortodossa, al di là della fine di sistemi di potere che sembravano custodirla e definirla dall'esterno, ha portato a riscoprire il grande patrimonio della Patristica. La sintesi neopatristica, così avviatasi, ha avuto testimoni radicati nella tradizione, che, come G. Florovskij, hanno originalmente individuato - specialmente nella riflessione dei Padri greci - un modello di teologia al tempo stesso fedele all'identità cristiana e aperta a recepire la mediazione culturale della filosofia greca, che continua a segnare di sé la cultura europea. A questa ripresa di ‛ellenismo cristiano' altri hanno preferito un dialogo più vivo con il pensiero moderno, specialmente quello dell'idealismo tedesco, non rinunciando tuttavia a radicarsi nella grande tradizione biblico-patristica (così S. Bulgakov, N. Berdjaev, P. Florenskij). Altri ancora hanno tentato il recupero creativo dell'identità ortodossa sulla via di una teologia mistica e iconica (così V. Lossky, P. Evdokimov e, più recentemente, anche in dialogo col pensiero di M. Heidegger, C. Yannaras). I processi di cambiamento avvenuti hanno stimolato un'originale riflessione ecclesiologica, sia nel senso di valorizzare l'ecclesiologia eucaristica della Chiesa locale (N. Afanassieff, e in parte anche J. Meyendorff), sia in quello di riproporre l'ecclesiologia universale di comunione, radicata non di meno nell'eucaristia ed espressa nella centralità della figura del vescovo (come nel caso di Jean Zizioulas, che ha non poco influenzato la riflessione ecumenica sulla κοινωνία, compresa quella di un cattolico dello spessore di Jean Tillard). Non è mancato certo un diffuso atteggiamento di conservatorismo, soprattutto nell'ortodossia non direttamente toccata dall'esperienza dei regimi comunisti, come quella greca, dove spesso la stessa teologia accademica si è mantenuta nella linea di un confessionalismo piuttosto staticamente legato ai modelli della Scolastica ortodossa. L'ortodossia si trova comunque, in questi ultimi decenni del secolo, di fronte alla prova di un profondo ripensamento della propria identità e missione, non solo in rapporto alle trasformazioni storiche accennate, ma anche sotto la spinta del dialogo ecumenico (si pensi ai contributi di H. Alivizatos e N. Nissiotis): la stessa struttura basata sull'autonomia delle Chiese regionali (autocefalia) ha mostrato i suoi punti di debolezza, in quanto sembra aver esposto più facilmente le comunità dei credenti ai condizionamenti del potere politico e delle sue trasformazioni. La preparazione ormai pluridecennale del Sinodo panortodosso, non ancora realizzatosi, ha mostrato quanto urgenti e vive siano le questioni aperte in questo senso, pur evidenziando gli elementi di unità, soprattutto liturgica, spirituale e in parte culturale, che legano fra loro le Chiese di tradizione orientale. La tensione fra regionalizzazione e globalizzazione sembra in tal senso toccare anche l'ortodossia, in un modo che per essa appare del tutto inedito e che traccia probabilmente l'agenda degli sviluppi futuri della riflessione e della prassi al suo interno, ma anche del dialogo ecumenico con le altre tradizioni cristiane e con i mondi religiosi non cristiani.

b) Il rapporto fra Israele e la Chiesa

Nel vicino Oriente, nella Terra della promessa fatta ai Padri, l'ebraismo ha ritrovato ai nostri giorni, dopo quasi 2000 anni, la possibilità di esprimersi nella varietà e pienezza delle sue forme. Anche per questa decisiva novità, oltre che sotto lo stimolo tragico della meditazione sugli eventi della shoü'àh - l'immane catastrofe che ha posto con radicalità inedita l'interrogativo sul rapporto fra il Dio biblico e il dolore dei suoi figli e ha acceso una nuova sensibilità riguardo alle responsabilità dei cristiani nei confronti dell'antisemitismo -, il rapporto fra la Chiesa e Israele è stato oggetto in questi ultimi decenni di un'ampia riflessione teologica, che si è intersecata con eventi di non poca rilevanza storica (come ad esempio la visita di Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma il 13 aprile 1986 o il riconoscimento dello Stato d'Israele da parte della Santa Sede nel 1993). Alla tesi della ‛sostituzione', per la quale la Chiesa realizza compiutamente ciò che in Israele era solo implicito e ne prende perciò il posto nel disegno divino della salvezza, si è venuta opponendo la tesi dell'‛unicità dell'alleanza', secondo cui l'irrevocabilità dell'elezione escluderebbe ogni cesura fra antico e nuovo patto. Lo scisma intervenuto storicamente fra Chiesa e Israele - causa non ultima di molte forme di antisemitismo nella storia dell'Occidente - non sarebbe allora conforme alla volontà divina. Le due comunità dovrebbero svolgere ciascuna il suo ruolo nella comunione reciproca sotto il segno dell'unica chiamata divina: Israele come ‛radice', tenace testimone del mistero dell'elezione che separa e consacra, la Chiesa come albero, i cui rami si estendono nel tempo e nello spazio. Gesù Cristo, secondo questa prospettiva teologica, sarebbe l'anello di congiunzione fra le due comunità: sintesi, nella sua passione, della storia di sofferenza del popolo eletto, sorgente, nella sua resurrezione, della missione tesa al compimento della salvezza universale. ‟Torà fatta carne" - come ha scritto J. Schoneveld -, in lui il significato più profondo della Legge sarebbe divenuto trasparente alle genti: vivere al cospetto di Dio come autentica immagine di lui. Questa reciprocità profonda fra Chiesa e Israele non deve però oscurare l'elemento di differenziazione fra di essi. La differenza non va certo pensata in maniera discriminatoria, ma nella fedeltà all'identità spirituale delle due comunità, come fa, ad esempio, l'ebreo G. Scholem: ‟Ciò che l'ebraismo ha posto irrevocabilmente al termine della storia, come il momento in cui culmineranno gli eventi esterni, è divenuto nel cristianesimo il centro della storia, la quale si trova allora promossa al titolo particolare di ‛storia della salvezza'" (v. Scholem, 1970; tr. it., pp. 107 ss.). Si tratta di concepire in un'unica ‛economia' salvifica l'antica e la nuova alleanza, che pure restano distinte: ciò esclude ogni dualismo di contrapposizione fra di esse, come pure ogni logica di sostituzione, e richiede una prospettiva di effettiva complementarità, per la quale il Nuovo Testamento illumini di nuova luce l'Antico, ma questo sia considerato indispensabile per comprendere veramente il Nuovo. Il patto fatto con Israele mantiene cioè il suo valore nella storia di salvezza, e non solo non è minaccia o impoverimento, ma diviene ricchezza indispensabile per la Chiesa, che vi riconosce la sua ‛radice santa' e a esso si riferisce, nella sua permanente attualità, come a componente necessaria della propria più profonda identità spirituale. A sua volta, senza annullare l'antico, il nuovo patto resta offerta sempre attuale dell'eccedenza di senso donata in Gesù Cristo (si vedano, nelle pur diverse accentuazioni, le tesi di C. Thoma, F. Mussner, e più recentemente - ribadendo l'idea dell'‛alleanza mai revocata' - quelle di N. Lohfink: su questa via della complementarità/reciprocità si muoveva anche il punto 4 della dichiarazione Nostra aetate del Concilio Vaticano II). La sfida che resta aperta è quella di improntare sempre maggiormente le relazioni storiche fra cristiani ed ebrei a questa consapevolezza di unità nella distinzione e nella reciprocità, sulla via di un dialogo di amicizia e di cooperazione che - nella varietà dei contesti storico-culturali - possa dare una testimonianza comune della ricchezza che la tradizione biblica ebraico-cristiana è in grado di offrire a tutte le genti. Un onesto e approfondito riconoscimento delle colpe commesse, provocate o anche solo tollerate dai cristiani contro Israele nella storia, è per ognuno di essi condizione salutare di rinnovamento e di crescita, capace anzitutto di meglio conformare la Chiesa alle intenzioni e all'opera dell'ebreo Gesù di Nazaret, messia venuto a radunare l'Israele escatologico, senza per questo abolire l'alleanza eterna stabilita con i Padri, il cui significato resta valido nel disegno della salvezza, tesa per tutti verso il tempo della riconciliazione finale e dello shalom universale realizzato dalla presenza di Dio tutto in tutti (Romani, 9-11).

c) La sfida delle altre religioni: Islam, religioni dell'India e dell'Estremo Oriente

Dall'India e dall'Estremo Oriente viene al cristianesimo la sfida delle grandi religioni storiche dell'Asia: a motivo specialmente dei fenomeni di immigrazione in Occidente, acceleratisi negli ultimi decenni, ma anche per il ravvicinarsi delle distanze; fenomeno, quest'ultimo, dovuto ai processi di globalizzazione. Questi mondi religiosi (induismo, buddhismo, taoismo, confucianesimo, scintoismo) non sono più oggi per i cristiani una presenza astratta e lontana, ma interpellano la loro identità e missione in maniera quanto mai immediata. Lo stesso può dirsi dell'Islam, che con la radicalità del suo monoteismo e l'integralità delle sue forme interroga non poco la fede e la testimonianza cristiane. Anche in forza di queste urgenze si è andato sviluppando negli ultimi anni il dibattito intorno alla ‛teologia delle religioni': l'interrogativo che a esso soggiace riguarda la singolarità del Cristo in ordine alla salvezza. Sono le altre religioni vie equivalenti al cristianesimo per accedere al mistero della divinità e farne esperienza salvifica? Se sì, a che scopo impegnarsi per la missione al servizio dell'annuncio del Vangelo a tutte le genti? Se no, quale senso e autenticità ha il dialogo interreligioso e quale scambio di ricchezze spirituali è veramente possibile fra mondi religiosi diversi? La ricerca teologica sviluppatasi intorno a questi interrogativi, stimolata anche da gesti emblematici come l'incontro di Assisi delle religioni per la pace nel 1986, si muove fra due estremi: da una parte, l'‛esclusivismo', per il quale nessuna religione salva fuori del cristianesimo (è K. Barth a costituire il punto di riferimento più alto di questa posizione nel Novecento); dall'altra, il ‛pluralismo' di carattere relativistico, secondo cui il cristianesimo non è la sola religione assoluta, perché il divino ha più nomi e non si lascia incontrare solo in Gesù Cristo (è, ad esempio, la tesi di J. Hick, presbiteriano). In positivo, la posizione pluralistica afferma che le religioni non hanno solo valore di supplenza, ma sono diverse risposte umane all'unico mistero divino che chiama, secondo un modello di interpretazione della salvezza non cristocentrico, ma teocentrico (come propone, ad esempio, P. Knitter, cattolico). Molte di queste posizioni pluralistiche riconoscono Gesù come il Cristo, ma si rifiutano di accettare che la totalità del Cristo sia contenuta in lui: l'idea del Cristo diviene così una sorta di categoria teologico-salvifica universale, di cui la rivelazione cristiana non offre che un esempio, fosse pure il più alto (come suggerisce il cattolico di origine indiana R. Panikkar). A queste tesi è offerto uno sfondo ermeneutico dalla considerazione che il pensiero asiatico, specialmente indiano, non si costruisce sul principio di non contraddizione e quindi sulla contrapposizione, ma sull'allargarsi ospitale dell'identità, che può esprimersi perciò in una pluralità di forme concrete. Il conseguente superamento del linguaggio teologico dell'unicità sarebbe peraltro favorito dalla stessa κένωσις del divino in Cristo, che consentirebbe di ammettere altre vie di rivelazione storica analoghe a quella biblica, come per esempio quelle delle tradizioni religiose dell'India (su questo aspetto ermeneutico e sulla sua rilevanza teologica, si vedano le posizioni del teologo indiano F. Wilfred). Se la tesi esclusivistica può considerarsi oggi generalmente abbandonata, a eccezione di qualche gruppo o autore piuttosto integralista o fondamentalista, la concezione pluralistica viene da molti rifiutata, perché svuota di significato la rivelazione storica e l'esigenza della missione (si vedano in tal senso le tesi espresse dall'enciclica Redemptoris missio di Giovanni Paolo II del 1990, e il documento della Commissione Teologica Internazionale del 1996 dal titolo Il cristianesimo e le religioni, che insiste sull'unica mediazione di Gesù Cristo, sull'universalità dell'azione dello Spirito e sulla Chiesa come sacramento di salvezza, pur riconoscendo il valore salvifico che possono avere le grandi religioni). Si profila così la ricerca di un'interpretazione del rapporto fra cristianesimo e religioni all'insegna dell'‛inclusivismo': mantenendo ferma la necessità del Cristo e della sua mediazione, si prende sul serio la possibilità universale della salvezza (cfr. il contributo di J. Dupuis, Gesù Cristo incontro alle religioni, Assisi 1989, o le ricerche raccolte da Ganin D'Costa - v., 1990 - in risposta alle tesi di J. Hick). Di qui muovono diverse tendenze interpretative: per alcuni il cristianesimo compie i valori delle altre religioni, le quali, più che mediazioni salvifiche, sono segnali d'attesa (J. Daniélou, H. de Lubac, H. U. von Balthasar); per altri va riconosciuta una certa sacramentalità delle altre religioni (Y. Congar, E. Schillebeeckx); per altri ancora, infine, è determinante la distinzione fra storia generale e storia speciale della salvezza, in base alla quale le religioni hanno il valore di una mediazione di trascendenza, che tuttavia è attuata in pienezza solo nel cristianesimo (K. Rahner, H. R. Schlette). Frutto del déplacement subito dalla teologia cristiana a causa della pratica del dialogo con le grandi religioni mondiali, la riflessione teologica sulle religioni appare un campo di ricerca tuttora aperto e non poco problematico, anche per le conseguenze che essa comporta sul piano del rapporto fra proclamazione del messaggio e dialogo con mondi culturali e spirituali diversi dal cristianesimo (significativo è in tal senso il documento su Dialogo e annuncio, pubblicato nel 1991, dopo una lunga e non facile elaborazione, dagli organismi vaticani che si occupano rispettivamente dell'evangelizzazione dei popoli e del dialogo interreligioso).

5. Prospettive della globalizzazione: le sfide e i processi di unità

Se i fenomeni di regionalizzazione, fin qui rivisitati, incidono sul cristianesimo di fine Novecento, non meno esso è influenzato dal processo in atto a livello mondiale, designato come globalizzazione: tale processo ha un marcato carattere economico-politico, legato agli interessi delle grandi agenzie di potere operanti a livello multinazionale, ma presenta anche decisivi profili sociali e culturali, per la tendenza a omologare i comportamenti, pilotando desideri e aspirazioni collettive e individuali verso consumi o forme di consenso corrispondenti agli investimenti. La trasformazione del pianeta in villaggio globale, accelerata enormemente dall'esperienza della realtà virtuale consentita dall'universo multimediale e specialmente telematico, incide anche sulla sfera religiosa e spirituale. Fenomeni come il New Age o ‛Era dell'Acquario', dall'impatto vastissimo soprattutto nella cultura nord- e sudamericana, ma non trascurabile anche in altri contesti, sembrano assumere il bisogno di rassicurazione prodotto dall'accelerazione dei cambiamenti per rispondere a esso attraverso una sorta di ‛gnosi' per il popolo, in cui le subculture prodotte dalla dipendenza telemediale trovano garanzie psicologiche e consolazioni a buon mercato, perfettamente convenienti alle finalità delle grandi agenzie di consenso economico e politico del pianeta. Le contraddizioni della realtà effettiva della maggior parte dell'umanità restano tuttavia tali che risposte di questo tipo non tardano ad apparire alle coscienze più vigili come mistificanti e aleatorie. Ecco perché diventa quanto mai urgente individuare quali sono le grandi sfide irrisolte poste dai processi di globalizzazione e come il cristianesimo può contribuire a costruire in rapporto a esse un'umanità più giusta e felice, che sia più conforme al progetto divino di salvezza, rivelato in pienezza in Gesù Cristo.

a) Le sfide della globalizzazione: ecologia, giustizia, etica

La rete dei rapporti in cui la persona umana viene a trovarsi nel crescente processo di globalizzazione abbraccia tre sfere concentriche, di cui la prima riguarda la vasta casa dell'universo naturale, la seconda l'insieme delle relazioni storiche, la terza quella della coscienza del singolo. Le tre sfere sono interdipendenti, perché è ovvio che le opzioni richieste dalla prima devono essere situate nella responsabilità e libertà della terza, e questa d'altra parte non può esercitarsi senza il rapporto del soggetto agli altri soggetti storici e la sua responsabilità verso il mondo. Peraltro, è proprio la globalizzazione che stimola l'interscambio continuo fra le varie sfere relazionali, in quanto spinge continuamente l'individuo a sentirsi parte del tutto, esponendolo contemporaneamente al rischio di massificazione, tipico del villaggio globale. Si configurano così le tre grandi sfide con cui l'umanità intera, i singoli individui e le comunità sono chiamati a confrontarsi in questi anni di crescente e pervasiva globalizzazione: l'ecologia, la giustizia e l'etica.

La crisi ecologica, oggi al centro di tante denunce e allarmi, consiste nel turbamento indotto nei ritmi e negli equilibri naturali dalla trasformazione accelerata cui essi sono sottoposti a causa del comportamento umano. ‟Trasformazioni che prima avvenivano in milioni di anni possono ora avvenire (per lo squilibrio indotto) in poche decine di anni e le conseguenti variazioni per gli equilibri umani e sociali corrisponderanno a un'accelerazione di milioni di anni di storia [...] I tempi biologici e i tempi storici seguono ritmi diversi" (v. Tiezzi, 1984, p. 62). Le conseguenze di questa sfasatura sono riscontrabili negli effetti devastanti che essa ha sul deterioramento ambientale e sul ricambio energetico, che mettono in guardia rispetto ai sempre più evidenti limiti dello sviluppo. La crescita di complessità dell'Homo sapiens appare così inversamente proporzionale alla possibilità di durata dell'ecosistema: la minaccia ecologica si profila come la rivincita del tempo biologico sul tempo storico. La ricerca delle ragioni della crisi ha portato ad evidenziare le mentalità soggiacenti ai comportamenti nei confronti della natura: non è mancato chi nella violenza esercitata sui ritmi naturali ha visto un deleterio effetto dell'antropocentrismo biblico, propagandato dal cristianesimo (la denuncia fu avanzata nel 1967 da Lynn White Jr. sulla rivista ‟Science", ma è stata ripresa da molti: C. Amery, U. Krolzik, G. Liedke, E. Drewermann, ecc.). Al tempo stesso, questa provocazione ha spinto a riscoprire l'anima ecologista della fede cristiana, verificabile peraltro in grandi testimonianze storiche (si pensi solo al testo di Genesi, 2,15, che esplicita in senso positivo il dominio affidato all'uomo in Genesi, 1,28, o alla ‟custodia del creato" in San Francesco o, ancora, alla ‟reverencia" verso le creature richiesta da Ignazio di Loyola come espressione dell'amore per il Creatore). Segno di questo risveglio di responsabilità e di spiritualità ecologica sono ad esempio l'assemblea delle Chiese europee a Basilea nel 1989, quella ecumenica mondiale tenutasi a Seoul nel 1990 su giustizia, pace e salvaguardia del creato, e la settima assemblea del Consiglio Mondiale delle Chiese svoltasi a Canberra nel 1991 sul tema generale ‟Rinnova l'intero creato" (non pochi sono anche i contributi teologici sulla teologia della creazione, che preparano questo risveglio, tra i quali ricordiamo, ad esempio, quelli di P. Gisel e J. Moltmann fra gli evangelici, o di J. L. Ruiz de la Peña e A. Ganoczy fra i cattolici).

La questione sociale si presenta negli ultimi due decenni del Novecento come caratterizzata dalla vastità dei rapporti che essa investe: è ormai chiaro che la giustizia all'interno di un singolo paese dipende strettamente dalle situazioni di dipendenza economica e politica in cui esso si trova. L'ordine economico internazionale appare sempre di più come il solo quadro di riferimento all'interno del quale è possibile realizzare i cambiamenti decisivi per la sorte non solo di classi o gruppi sociali, ma di interi popoli (come è evidente nella questione del debito internazionale). D'altra parte, la fine del sistema della divisione del mondo in due blocchi ideologicamente contrapposti non ha affatto comportato la fine delle situazioni di sfruttamento o di abbandono dei paesi più poveri del pianeta. Si può perfino ragionevolmente temere che l'accentramento del potere politico mondiale nell'unico colosso americano possa produrre effetti ancora più devastanti, perché l'azione nei confronti delle singole situazioni potrà essere regolata dall'unico criterio della convenienza del più forte (si pensi alla differenza di tempestività e di mezzi fra l'intervento a favore del ricco Kuwait e quello in Bosnia, come pure al ruolo di coscienza critica esercitato da Giovanni Paolo II sul tema della cosiddetta ingerenza umanitaria). In questo quadro, il crollo delle ideologie che avevano veicolato le aspirazioni delle classi oppresse e dei popoli sfruttati non deve far dimenticare le legittime urgenze dei ‛senza voce' della terra. Risulta perciò significativo che al suo livello più altamente rappresentativo la Chiesa cattolica sia intervenuta in termini inequivoci sull'attuale forma in cui si presenta la questione sociale: la Sollicitudo rei socialis del 1988 e soprattutto la Centesimus annus del 1991 costituiscono una riflessione a tutto campo sui cambiamenti avvenuti specialmente negli ultimi decenni del secolo a livello planetario e, mentre denunciano l'iniquo sistema di dipendenze che regge i rapporti specialmente fra il Nord e il Sud del mondo, propongono l'urgenza di individuare una via economico-politica che superi tanto le rigidità del collettivismo e i suoi fallimenti storici, quanto gli egoismi miopi di un capitalismo assolutista e accentratore. I contributi di stimolo critico offerti dalle espressioni della teologia della liberazione nei diversi contesti rendono poi particolarmente vigili nei confronti delle scelte planetarie a partire dalle loro ricadute sulle concrete situazioni storiche di sofferenza e di miseria.

Infine, è la sfida etica che interpella la fede e la prassi dei cristiani nel tempo della globalizzazione: se la crisi delle ideologie ha prodotto, specie in Occidente, un vuoto di motivazioni dei comportamenti in vista di un fine superiore, la potenza e la violenza dello sviluppo scientifico più recente pongono a livello planetario problemi etici finora in gran parte inediti sul piano del rispetto della vita umana in tutte le fasi del suo sviluppo (dalle questioni relative alla genetica e all'aborto, a quelle che toccano le opzioni etiche nel campo dell'intervento medico, a quelle riguardanti l'eutanasia). Anche qui la novità degli ultimi decenni sta da una parte nella gravità e vastità delle questioni in gioco praticamente in ogni parte della terra, dall'altra nella relativa centralizzazione delle soluzioni che si vanno avanzando, connessa all'unificazione dei centri di potere scientifico, economico e politico che dominano il pianeta. La stessa possibile vigilanza dell'opinione pubblica è facilmente evasa o manovrata dalle agenzie multimediali collegate o addirittura pilotate da chi gestisce le scelte nei campi della ricerca e della produzione. Se si è messo in atto un rilevante dibattito etico, che investe i rapporti fra etica e politica, etica ed economia, etica e scienza, se la cosiddetta ‛bioetica' è divenuta disciplina centrale della riflessione teologico-morale (si pensi, ad esempio, solo in Italia alle ricerche di A. Bompiani, E. Sgreccia, A. Spinsanti, D. Tettamanzi, ecc.), non c'è dubbio che la questione decisiva riguarda il fondamento e la fondazione della morale: esiste un criterio assoluto e oggettivo in base al quale si possa discernere ciò che è bene e ciò che è male? E - qualora non esista - è sufficiente il convenzionalismo per fondare comportamenti eticamente leciti e a lungo termine non alienanti per l'esistenza umana personale e collettiva? Se invece esiste, come è possibile accedervi? E quale rapporto esso ha con il riferimento ultimo e assoluto, cui si dà il nome di Dio, e con la sua rivelazione storica? Se la cosiddetta ‛morale autonoma' sembra cercare risposta a questi interrogativi all'interno della razionalità del soggetto umano (si vedano i contributi teologici di A. Auer e S. Bastianel), la morale ‛eteronoma' ricerca fuori della soggettività il fondamento e il criterio dell'etica, e lo fa non solo ripensando l'universale esperienza religiosa (con rischi non indifferenti di riduzione al minimo comun denominatore, come sembra che accada nella Dichiarazione per un'etica mondiale approvata nel 1993 a Chicago dal cosiddetto ‛Parlamento mondiale delle religioni', che paradossalmente potrebbe valere ‟etsi Deus non daretur"), ma soprattutto riproponendo l'universalità dello specifico cristiano del Dio, che è amore, e la corrispondenza che essa ha nell'autotrascendenza dello spirito umano (si pensi in tal senso alla riproposta della ‛verità etica' e della sua forza irradiante e liberante, contenuta nell'enciclica di Giovanni Paolo II Veritatis splendor del 1993 e anche nell'Evangelium vitae del 1995, sul valore inviolabile della vita umana). Si può prevedere che queste questioni di fondazione saranno nei prossimi anni sempre più rilevanti, anche per la risoluzione delle urgenti problematiche settoriali, che richiedono orizzonti non arbitrari di riferimento.

b) I processi di unità: teologia e spiritualità; ecumenismo e cattolicità; impegno per la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato

Quali vie e processi di unità offre il cristianesimo di fine Novecento per rispondere alle sfide dell'attuale globalizzazione, senza lasciarsi catturare dalle logiche di potere che presiedono all'interconnessione crescente del pianeta? A conclusione delle riflessioni proposte è possibile individuare vie percorribili dalla fede e dalla teologia cristiana, preoccupate di situarsi responsabilmente negli sviluppi della globalizzazione: in primo luogo, la via della teologia e della spiritualità; quindi, quella dell'ecumenismo e della cattolicità; infine, l'impegno evangelico della carità al servizio della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato.

La via della teologia e della spiritualità corrisponde al primato della fede nell'esistenza cristiana: se la modernità, caratterizzata dall'ambizione di imporre a ogni cosa l'ordre de la raison, aveva separato, se non addirittura contrapposto, il momento razionale e il momento esperienziale nella vita del credente - producendo quel divorzio della teologia dalla spiritualità, che aveva reso la teologia piuttosto arida e intellettualistica e la spiritualità piuttosto sentimentale e intimistica - appare urgenza ineludibile dell'epoca postmoderna quella di saldare nuovamente questi due ambiti. La ragione di ciò è facilmente intuibile: se la teologia intende proporre un orizzonte globale di senso senza per questo cadere nella ‛cattura' ideologica, essa dovrà continuamente riferirsi alla singolarità del vero offerta dalla rivelazione e alla concretezza dell'esperienza cristiana, testimoniata nel vissuto e trasmessa nella vivente tradizione della fede ecclesiale. Solo a questa condizione il ‛sistema' teologico resterà aperto all'eccedenza della vita e alle sorprese della relazione col Dio vivente. Ciò spiega l'ampio ricorso di questi ultimi decenni alla narrazione e alla testimonianza in teologia, ma anche il rinnovamento biblico teologico diffusosi nell'ambito dell'esperienza spirituale dei credenti (con una varietà di metodi e di approcci critici ed esistenziali di cui ha offerto un bilancio significativo la Pontificia Commissione Biblica con il documento del 1993 sull'Interpretazione della Bibbia nella Chiesa, accolto favorevolmente per la sua apertura di orizzonti tanto dagli addetti ai lavori, quanto a livello pastorale). Si è ormai consapevoli a livello di coscienza critica della fede che una teologia senza spiritualità può risultare vuota, mentre una spiritualità senza teologia rischia di essere cieca. Sulla stessa linea, si avverte l'urgenza di un più vivo radicamento del teologo nella vita della Chiesa, intesa, quest'ultima, al tempo stesso come suo luogo ermeneutico originario e come destinataria prioritaria del suo servizio di riflessione critica (si pensi all'Istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla Vocazione ecclesiale del teologo del 1990, ma anche - in campo evangelico - alla riscoperta dell'idea di ‛tradizione apostolica' a partire dalle ricerche di E. Schlink). Ma non è solo all'interno della teoria e della prassi cristiane che si è andata riscoprendo la saldatura fra riflessione ed esperienza vissuta: è anzi apparso sempre più chiaro nel crogiolo della crisi delle ideologie che l'alternativa non ideologica della fede sta appunto nella possibilità di testimoniare un rapporto con la verità nutrito di ascolto e di dialogo con l'altro, a partire dalla preghiera come condizione dell'essere accolti nel mistero di Dio. Da una parte, la verità della teologia appare più precisamente non come qualcosa che si possiede, ma come ‛qualcuno dal quale lasciarsi possedere' nell'obbedienza della fede e nell'adorazione (in maniera dunque più corrispondente all'idea biblica di 'emet, ovvero di verità intesa come fedeltà, e dunque verità duale, pattizia e non monistica, necessitante e violenta); dall'altra, la preghiera si lascia riscoprire nella sua specificità cristiano-trinitaria come esperienza del pregare ‛in' Dio, piuttosto che del pregare ‛un' Dio indistinto, e dunque come preghiera rivolta per il Figlio nello Spirito al Padre, aperta ad accogliere il dono dall'alto, dal Padre, per il Cristo Gesù nello stesso Spirito. Lungi dall'apparire come fuga dal mondo, secondo la critica di moda negli anni dell'ideologia totalizzante, la dimensione contemplativa della vita nella sua specificità trinitaria cristiana (resa dall'idea paolina dell'essere nascosti ‟con il Cristo in Dio": Colossesi, 3,3) sembra offrirsi come riserva di integralità umana e di autentica socialità. Una certa ripresa numerica delle vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa nel mondo (dopo gli anni della crisi, segnati da un forte calo e anche da molti abbandoni, secondo ritmi analogamente riscontrabili nel mondo evangelico), la crescente coscienza dell'identità spirituale e della missione dei laici cristiani (attestata dal Sinodo dei vescovi a essi dedicato, i cui risultati sono raccolti nell'esortazione Christifideles laici del 1989), la diffusione di nuovi movimenti di spiritualità, che ha conosciuto una vastità e una rapidità impressionante in questi decenni (si pensi allo sviluppo di quelli nati prima del Concilio, come l'Opus Dei e i Focolarini, ma anche all'espandersi di quelli diffusisi dopo il Vaticano II, come il Cammino neocatecumenale, i gruppi carismatico-pentecostali e il Rinnovamento nello Spirito Santo, o Comunione e liberazione; queste esperienze trovano ampio riscontro in ambito protestante, specialmente nei movimenti di risveglio nell'esperienza del Consolatore), e il propagarsi di nuove esperienze della ‛mistagogia' cristiana, che hanno ampia presa anche sui cosiddetti ‛tiepidi' o ‛lontani' (si pensi ai contributi del cardinale C. M. Martini sulla lectio divina dei testi biblici, utilizzati nelle più diverse traduzioni in tutto il mondo), costituiscono altrettante riprove esistenziali di questa nuova situazione. Anche in base a queste considerazioni, si può supporre che il futuro del cristianesimo o sarà più marcatamente spirituale e mistico, e quindi ricco di esperienze del mistero divino e di riflessioni fatte a partire da esse, o potrà ben poco contribuire alla crisi e al cambiamento in atto nel mondo. Più in generale c'è chi si è spinto ad affermare che ‟il XXI secolo o sarà religioso o non sarà" (A. Malraux), volendo con questo sottolineare come la ripresa della questione di Dio e della ricerca del suo volto in questi anni di fine secolo è tutt'altro che effimera, ma segna una linea di tendenza decisiva e duratura, alla quale i credenti non dovranno risparmiare il proprio impegno di fede e di intelligenza.

La via dell'ecumenismo e della cattolicità corrisponde alla nostalgia di unità che, sia pur in forma ambigua e complessa, si affaccia nei processi di globalizzazione: se l'ecumenismo moderno nasce agli inizi del Novecento dall'esperienza dello scandalo di annunciare divisi il Vangelo della riconciliazione nei paesi di missione (Conferenza delle Società Missionarie Protestanti a Edimburgo nel 1910), l'istanza di riconciliazione fra i cristiani è resa oggi più urgente dai processi di scristianizzazione dell'Occidente e dal bisogno di una nuova evangelizzazione, che fanno riconoscere come campo tutt'altro che secondario di azione missionaria proprio i paesi di antica cristianità. In particolare, è in Europa - culla delle divisioni fra i cristiani - che la disgregazione seguita al crollo del muro di Berlino e l'emergere violento dei regionalismi e dei nazionalismi sfida le Chiese a porsi come segno e strumento di riconciliazione fra loro e al servizio dei loro popoli (si pensi alla seconda Assemblea Ecumenica Europea, tenuta a Graz nel 1997, sul tema della riconciliazione oggi in Europa, e, prima ancora, al Sinodo dei vescovi sull'Europa del 1991 e al lavoro congiunto della Conferenza delle Chiese Europee e del Consiglio dei vescovi cattolici d'Europa, con varie assemblee, fra cui quelle di Erfurt e di Santiago, rispettivamente prima e dopo la caduta del muro di Berlino). Sul piano teologico è significativo come la riflessione ecumenica, dopo aver dedicato una privilegiata attenzione alle forme sacramentali fondative della comunità - come si desume dal documento approvato da Fede e Costituzione a Lima nel 1982 su Battesimo, Eucaristia e Ministero, frutto della tenace passione ecumenica e della competenza soprattutto del teologo M. Thurian - si vada concentrando ora sul tema della κοινωνία, che esprime non solo un'esigenza di ripensamento ecclesiologico riguardo alla struttura e alla vita interna delle Chiese, ma anche un'attenzione alla sfida che il bisogno di unità emergente dalle nuove divisioni pone alle comunità cristiane (si pensi alla V Conferenza Mondiale di Fede e Costituzione tenutasi a Santiago de Compostela nel 1993, e alla rilevanza che in essa ha avuto appunto il tema della κοινωνία, destinato presumibilmente a occupare ancora a lungo l'agenda della ricerca teologica ecumenica). In questo contesto, emerge una nuova, diffusa attenzione alla cattolicità, intesa sia secondo il suo significato di universalismo geografico, reso più che mai attuale proprio dai processi di globalizzazione del pianeta, sia secondo il senso di pienezza e totalità, che rimanda all'integralità della fede e della attualizzazione della memoria del Cristo. Se nel campo della teologia missionaria il tema della cattolicità si fa strada tanto in ambito cattolico, quanto evangelico (si pensi alle opere di H. Bürkle, S. Dianich, A. Seumois), è significativo che in ambito ecumenico si dedichi una nuova attenzione alla riflessione sul ministero di unità universale nella Chiesa (si pensi, ad esempio, al documento del Gruppo misto di Dombes sul Ministero di comunione nella Chiesa universale del 1985, e all'enciclica Ut unum sint del 1995, ma anche ai lavori ecclesiologici di singoli teologi, come ad esempio J. Tillard). Certamente un contributo notevole alla riscoperta della cattolicità, come esigenza e condizione della missione cristiana, viene dal papa di questi due decenni, Giovanni Paolo II: il suo pontificato, caratterizzato da un vasto ministero di itineranza apostolica, da una parte ha evidenziato la ricchezza della regionalizzazione della Chiesa, dall'altra ha fortemente ribadito le esigenze dell'unità dottrinale e pastorale sul piano universale (si pensi solo alla monumentale impresa del Catechismo della Chiesa cattolica, promulgato nel 1992, e inteso come punctum referentiae per il magistero e la catechesi di tutte le Chiese particolari). La rilevanza di quest'azione è stata palese in alcuni emblematici processi di cambiamento storico-politico, come quello della crisi dei regimi del cosiddetto socialismo reale, ma va considerata soprattutto nella sua specificità spirituale di riproposizione del Vangelo come messaggio di vita e di salvezza tanto per le singole situazioni culturali, quanto per la crescita nell'unità e nella pace dell'intera famiglia umana. In questa direzione va in particolare l'indizione del giubileo dell'anno 2000, proposto come un itinerario di conversione e di rinnovamento per tutti i credenti, chiamati come singoli e come Chiesa a far memoria dei doni di Dio, ma anche a riconoscere le proprie colpe, personali e collettive, e a ripensare la propria identità e missione centrate sul mistero trinitario di fronte alle sfide del nuovo millennio cristiano, specialmente in chiave ecumenica e nell'ottica del dialogo interreligioso. L'esigenza acutamente riemergente della cattolicità non ha, insomma, nulla di trionfalistico, ma si coniuga con una più viva coscienza del bisogno di rinnovamento e di conversione della stessa Chiesa, come emerge chiaramente dall'enciclica Tertio millennio adveniente del 1994, secondo cui ‟riconoscere i cedimenti di ieri è atto di lealtà e di coraggio che ci aiuta a rafforzare la nostra fede" (n. 33).

Infine, la testimonianza evangelica della carità nell'impegno per la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato, appare come il terzo grande campo di azione per il cristianesimo della fine del secolo: si è detto come le sfide della giustizia sociale risultino oggi interconnesse con quelle dei rapporti internazionali di dipendenza e con la questione ecologica. Questo stretto intreccio appare con grande chiarezza quando si considerino i processi in atto nell'ottica della globalizzazione, superando visuali regionalistiche a volte troppo anguste: il cristianesimo, religione universale diffusa nei contesti storici e culturali più diversi, appare qui soggetto privilegiato per tener desta una coscienza critica attenta a difendere la qualità della vita per tutti e capace di farsi voce specialmente di chi non ha voce e di fronteggiare, con la forza di un impatto morale e spirituale di grande portata, le logiche che fossero esclusive ed egoistiche delle grandi agenzie di potere economico e politico sul piano mondiale. Certamente, i credenti non devono contare su altri mezzi che su quelli della loro testimonianza e della vitalità della loro fede e operosità evangelica: tuttavia, il patrimonio spirituale, che si esprime in maniera densa e concreta nella vastissima rete di opere di volontariato e di solidarietà che le Chiese hanno saputo esprimere con inesausta creatività di fronte ai bisogni umani più diversi, anche nel nostro tempo di mutamenti rapidi e spesso drammatici (si pensi all'azione della Caritas a livello internazionale e nei singoli paesi, come agli interventi coordinati dal Consiglio Mondiale delle Chiese o a quelli dell'organismo pontificio Justitia et pax), costituisce al tempo stesso un contributo, una proposta e una sfida all'umanità intera per l'edificazione di un villaggio globale che sia più a misura d'uomo, più sollecito nei confronti della giustizia e più disinteressato e generoso nel servizio della pace e di comportamenti ecologicamente responsabili. Dai singoli fronti dell'impegno (come quello del recupero dalla dipendenza dalla droga, o dell'azione umanitaria in favore dei profughi e dei rifugiati, o del contributo ai dialoghi di riconciliazione), alle prospettive globali di cooperazione fra i popoli, le culture e gli stessi mondi religiosi diversi, il compito dei cristiani non si presenta né facile, né ristretto. L'articolazione delle legittime esigenze della regionalizzazione con quelle non meno urgenti della globalizzazione rappresenta secondo la logica della carità evangelica la linea di impegno domandata oggi alla presenza cristiana, dovunque diffusa. Certo, i credenti in Cristo non potranno raccogliere queste grandi sfide da soli: il comune impegno con le altre comunità religiose e con tutti gli uomini e le donne ‛di buona volontà' appare condizione indispensabile dell'azione da svolgere. Ma forse oggi i cristiani sono pronti più di altri, e certamente più che nel loro stesso passato, a vivere questo servizio al tempo stesso universale e locale, perché la buona novella cui hanno creduto raggiunga i confini della terra e non manchi a ogni persona umana il servizio di una fede e di una carità rispettose e disinteressate, vissute nella sequela del Dio crocifisso.

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