BANTI, Cristiano

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 5 (1963)

BANTI, Cristiano

Giorgio Di Genova

Nacque il 4 genn. 1824 a Santa Croce sull'Arno da agiata famiglia. Entrato all'Accademia di Siena, studiò con il neoclassico Francesco Nenci, dal quale derivò la capacità di comporre quadri storici. Di questo periodo sono il declamatorio Galileo dinnanzi al Tribunale dell'Inquisizione,che fu molto apprezzato nell'ambiente accademico, e il dipinto di maniera In chiesa,che assieme all'altro dà un'esatta misura del suo primo stile, improntato a un'energica struttura della composizione e a un'accuratezza tutta accademica nel disegno.

Andato in seguito a Firenze, prese a frequentare il caffè Michelangelo, in quell'epoca luogo di riunione per gli artisti fiorentini e per quelli di passaggio. Qui entrò in contatto con il gruppo dei macchiaioli. Il B. aderì al movimento, in cui vide una possibilità maggiore di ritrarre la natura e gli effetti di sole, per cui aveva una forte predilezione, e giunse a riacquistare il Galileo per toglierlo dalla circolazione, perché diceva che "con quel quadro aveva disonorato l'arte senza saperlo" (Cecioni).

Fornitosi di uno specchio nero, sul quale la macchia si vedeva più spiccata e decisa, andò con il Signorini, il Pointeau e il Borrani a Montelupo, adattandosi, pur di stare a contatto con la natura, a molti disagi. Sempre per studiare dal vero gli effetti di sole, nel 1860 andò con il Cabianca a raggiungere il Signorini a La Spezia. Con gli stessi, l'anno seguente andò a Parigi per conoscere la pittura di Troyon e Corot e quindi, con il Cabianca, si stabilì a Piantavigne presso Castelfranco di Sopra per continuare i suoi "studi di paese".

Dipingeva molto, ma raramente sue opere apparivano in pubblico, perché era così esigente da rimanere difficilmente soddisfatto del suo come dell'altrui lavoro.

Nel 1870 fece parte della giuria della I Esposizione italiana d'arte di Parma e fu in questa occasione che, per una discussione su un quadro del Dalbono, cominciarono i dissidi tra lui e il sarcastico Signorini, che con il Cecioni ed il Sorbi faceva parte della giuria. Nel 1875 si recò nuovamente a Parigi e nel 1879 a Londra per conoscervi la pittura inglese.

Come era logico accadesse in un pittore quale il B., che proveniva dall'educazione classica, con il tempo aumentarono i suoi dissensi e le sue riserve sulla pittura macchiaiola, di cui spesso criticava i punti deboli. Cosicché, non andando più d'accordo con gli amici macchiaioli, intorno al 1880 si ritirò nella sua villa di Montorsoli presso Castelfiorentino. Di lì, in seguito alla morte della moglie, Leopolda Redi, andò a stabilirsi nell'altra sua villa del Barone a Montemurlo presso Prato, dove trascorse quasi ininterrottamente gli ultimi venti anni della sua vita, senza mai tralasciare di soccorrere gli amici pittori, coi quali aveva riallacciato i rapporti, ospitandoli o comprandone le opere.

Il 1887 lo vide nuovamente a Londra, dove fu estasiato dalle opere d'arte antica della National Gallery e dove volle conoscere il pittore Whistler.

Schivo di riconoscimenti ufficiali, fu tuttavia nominato professore all'Accademia di Firenze. Inoltre il Ridolfi, allora direttore delle Gallerie fiorentine, apprezzando la sua profonda cultura, lo nominò membro della commissione di riordinamento degli Uffizi.

Morì nella sua villa di Montemurlo il 4 dic. 1904, lasciando nella sua palazzina di piazza dell'Indipendenza in Firenze una cospicua raccolta di opere in cui veniva attestato lo sviluppo della pittura a macchia dalle sue prime esperienze. Tale collezione, che giungeva fino alla seconda maniera del Boldini e comprendeva anche opere del napoletano Michele Tedesco e dei piemontesi Fontanesi, Bertea e Avondo, andò dispersa in una vendita all'asta dieci anni dopo la morte dell'artista.

La pittura del B., anche quando è più genuina e spontanea, risente sempre della sua formazione classica ed è anche per questo che, in un certo periodo della sua produzione (si veda, per es., Boscaiole,Firenze, Gall. d'Arte Moderna), subì l'influenza del romano Giovanni Costa. Molte sue opere restarono incompiute, ora perché l'artista, insoddisfatto, le lasciava a metà, ora perché erano frutto del suo sperimentalismo; ma anche queste, insieme alle altre, alcune delle quali ricche di preziosismi cromatici che richiamano la pittura veneta classica, attestano il forte interesse dell'artista per gli effetti di luce solare ed il suo grande amore per la natura. I soggetti sono per lo più donne campagnole, trecciaiole, ecc., colte in momenti della loro vita quotidiana ed atteggiate ad intima nobiltà (si vedano Figure di contadine all'aperto e Confidenze),"perché - come egli ebbe a scrivere in una lettera del 1903 a Gustavo Uzielli (Vitali, p. 248) - ho amato sempre l'eleganza nell'arte". Particolarmente noti tra i suoi dipinti sono, oltre ai già citati, Eleonora d'Este e il Tasso (Firenze, Gall. d'Arte Moderna), il ritratto del Boldini (1860), Ragazza sdraiata sull'erba che trattiene con le mani un'anitra che dibatte le ali, Livorno in festa, Tre vecchie in riposo, Il ritorno dalla pesca nel lago di Bientina, che fu venduto a caro prezzo a Londra, e Le predone, quadro eseguito in diversi anni.

Il B. fu un artista di secondo piano, un macchiaiolo minore, e più che ai dipinti la sua fama è dovuta alla sua opera di mecenate, alla sua conoscenza dell'arte antica ed alla sua notevole sensibilità estetica che lo portò spesso a dare giudizi esattissimi e validissimi ancor oggi, come quello, per esempio, sui limiti del Signorini contenuto in una lettera del 13 febbr. 1873 al Cabianca (Vitali, pp. 233 s.). La sua poetica può essere riassunta con le parole da lui scritte allo stesso Cabianca il 25 febbr. 1875: "Io vorrei vedere un poco l'arte sbarazzata da certi pregiudizi che potrebbero esserci molto nocivi col tempo, gradirei vedere un'arte più splendida trattata con sicurezza e larghezza, più facile, infine, senza rinunziare alle qualità volute e note ormai agli artisti in progresso... la pittura delle Belle Epoche è impossibile a rifarsi, ci manca tutto; ma non sarebbe mica male risovvenirci di quando in quando di certi artisti..." (Vitali, pp. 239 s.).

Queste affermazioni dell'artista riflettono la situazione dell'arte al momento in cui la lettera fu scritta: ormai la "macchia" era in crisi e la pittura toscana poteva contare ancora solo sulle robuste personalità di Fattori e Lega. Tuttavia il B. stesso non fu esente da pregiudizi; non riuscì ad abdicare dalla sua formazione accademica e la sua indole aristocratica gli impedì di assimilare fino in fondo, nello spirito e quindi anche nell'arte, il nuovo linguaggio rivoluzionario della pittura a macchia, da lui ridotta essenzialmente a effetti esteriori.

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