COLOMBO, Cristoforo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 27 (1982)

COLOMBO (Colom, Colomo, Colón), Cristoforo

Marianne Mahn-Lot

Nacque nel 1451 a Genova, nel vico dell'Olivella, presso la torre di questo nome della quale il padre era guardiano, da Domenico e Susanna Fontanarossa. Questo risulta dal confronto sistematico di parecchi documenti notarili.

Le principalì fonti della biografia del C. sono le Historie della vita e dei fatti di C. C. per don Fernando Colombo suo figlio, Venezia 1571 (traduzione italiana di un originale spagnolo perduto, attribuito al figlio del C., data alle stampe dopo la morte dell'autore presunto), e la Historia de las Indias del domenicano Bartolomé de Las Casas (parte I, capp. 1-182; parte II, capp. 1-38, dell'edizione a cura di J. Pérez de Tudela, I-II, Madrid 1957), che poté attingere agli archivi del Colombo. Da un secolo, a partire dalla monografia di H. Harrisse (1872), si discute l'autenticità della biografia attribuita a Fernando (l'ultimo libro apparso sulla questione è quello di A. Rumeu de Armas, Hernando Colón, historiador del descubrimiento de América, Madrid 1973). Non è questo il luogo di entrare nei dettaglì della controversia. Ma importa sapere che, come ha fatto osservare A. Cioranescu (ChristopheColomb: les sources de sabiographie, in La découverte de l'Amerique, Paris 1968), i dati delle Historie, esclusi alcuni dettagli minimi, compaiono tutti sviluppati nell'opera di Las Casas, del quale sono innegabili sia lo scrupolo sia l'accuratezza dell'informazione. Basta dunque riferirsi a Las Casas: le Historie comprendono certamente capitoli di Fernando e di prima mano, ma essi sono citati e utilizzati dal domenicano. Si può dunque prescindere dalle Historie (che mescolano il vero al falso) e basarsi sulla Historia de las Indias, integrandola con altre fonti e naturalmente con i documenti autografi dello stesso C., che sono numerosi.

Le discussioni sulla patria del C. - se fosse catalano, galiziano, corso, scandinavo, o altro - non hanno alcun interesse perché motivate da pregiudizi nazionalistici o dal gusto del romanzesco. Dovrebbero essersi esaurite da tempo, almeno dal 1931, quando a cura della città di Genova furono pubblicati, a Genova appunto, tre volumi infolio (C. C. Documenti e prove della sua appartenenza a Genova), in cui figurano numerosi documenti notarili relativi al C., a suo padre Domenico e al nonno Giovanni. Tra le altre prove dell'identità del C. con Cristóbal Colón (che era il suo nome spagnolo) se ne cita una assolutamente incontrovertibile: nel 1470, il C. riconosceva un debito verso un certo Girolamo del Porto; ora, nel codicillo del testamento dell'ammiraglio delle Indie è ricordato lo stesso personaggio. Altra conferma è offerta dal "documento Assereto" (così chiamato dal nome di chi lo scoprì e pubblicò nel 1904), rendiconto alla casa Centurione, grossa ditta di Genova, di cui il C. era agente commerciale a Madera, nel quale egli compare come "Cristoforus Columbus, civis Januae". Altrove ancora, nel suo primo testamento, il C. afferma esplicitamente di essere nato a Genova e chiede al suo erede di costituirvi una rendita a favore di una persona della sua famiglia. Egli intratteneva rapporti di amicizia con Nicolò Oderigo, ambasciatore genovese in Castiglia, e gli affidò la copia dei documenti regi che costituivano i suoi privilegi. Se si pretende ancora di discutere il luogo esatto di nascita lo si deve alle Historie attribuite al figlio Fernando: nel primo capitolo, l'autore di questa biografia esita tra alcuni borghi della riviera ligure: Nervi, "Cugureo", Bugiasco, oppure la città di Savona (in ogni caso, questi luoghi appartenevano tutti alla Repubblica di Genova).

Senza negare l'origine ligure del C., alcuni storici fra i quali il più rappresentativo è Salvador de Madariaga (1944), hanno voluto risalire nella sua genealogia e fare di lui il discendente di ebrei catalani emigrati nella riviera ligure nel XIV secolo. L'autore pretende che il C. abbia circondato di mistero le sue origini (quando invece, come si è visto, egli non nascose mai il suo attaccamento alla Repubblica di Genova). Tutto ciò che scrive e fa il C. secondo de Madariaga sa di ebraismo, soprattutto il suo misticismo biblico. A riprova adduce che il C. arrivò fino al punto di adottare davanti alla sua firma una sigla triangolare che ricorda gli usi della Cabala. Si può replicare che il messianismo del C. era condiviso da molti suoi contemporanei, che erano ferventissimi cristiani, e che questo aspetto non apparve per niente sospetto ai re cattolici. Se il C. fu forse cabalista, non era certo ebreo per questo, così come non lo era stato Raimondo Lullo nel sec. XIV. Se il C. avesse lontane origini ebraiche (forse per parte di madre) non si sa. Che i suoi avi siano stati dei catalani fuggiaschi sembra molto improbabile, perché avrebbero conservato nell'esilio il ricordo della loro lingua. R. Menéndez Pidal (1942) ha fatto notare che non si riscontra alcun catalanismo nella lingua usata dal Colombo. I suoi scritti sono in castigliano impregnato di lusitanismi, dato che egli visse a lungo in Portogallo. Sapeva naturalmente il dialetto genovese, ma esistono solo pochi frammenti suoi in lingua italiana. Un altro studioso, che non è però uno storico di professione, S. Wiesenthal (1973) ha creduto di poter rinnovare la tesi di un C. "ebreo segreto", nella supposizione che egli cercasse un nuovo mondo per farvi stabilire i suoi correligionari perseguitati. Ma è una costruzione che non resiste alla critica.

Il C. era il maggiore tra tre fratelli e una sorella; i fratelli, Bartolomeo e Giacomo (in Spagna fu chiamato Diego), parteciparono alle fortune dell'ammiraglio delle Indie. Il padre Domenico era cardatore di lana e tessitore; il C. e Bartolorneo ne appresero il mestiere, ma non si limitarono a ciò.

È probabile che il C. abbia frequentato scuole di calligrafia (sia lui sia suo fratello, scrive Las Casas, avevano una grafia molto bella con la quale avrebbero potuto guadagnarsi la vita); sicuro è che apprese degli elementi di cosmografia. Poté forse farsi iniziare al mestiere allora abbastanza diffuso di disegnatore di carte, che comportava una conoscenza rudimentale del latino (per scrivere le leggende); certo non è vero, come supposero lo pseudo Fernando e Las Casas, che avesse studiato all'università di Pavia: egli stesso scrisse, in una lettera ai re cattolici, che non era dotto. Fu un autodidatta, mosso, secondo una sua espressione, da una immensa curiosità verso i segreti del mondo. In una lettera dichiarò di avere cominciato a navigare in giovanissima età, a quattordici anni. A. Gallo(De navigatione Columbi, Genova 1506) lo conferma e assicura che il C. e il fratello Bartolomeo appena raggiunsero la pubertà si imbarcarono, seguendo l'uso della famiglia, in cui, quindi, ci sarebbe stata una tradizione marinara. Si sa che i Colombo erano imparentati con la famiglia dei Fieschi, mercanti e navigatori. Il C. stesso affermò di non essere il primo ammiraglio della sua famiglia, ma, a tutt'oggi, non si sa quale valore dare a tale affermazione.

Nel 1470 Domenico Colombo si stabilì non lontano da Genova, a Savona, dove acquistò una taverna e vendeva formaggi e vino, pur continuando ad esercitare il mestiere del tessitore. È probabile che il C. viaggiasse all'inizio per conto del padre e facesse acquisti di partite di vino; si sa comunque, perché egli lo raccontò, che per un certo tempo, intorno al 1472, fu al servizio di Renato d'Angiò, pretendente al trono di Napoli in concorrenza con gli Aragonesi. Ma ben presto si associò ai traffici mercantili delle grandi ditte genovesi, divenendo agente commerciale e fattore delle famiglie Di Negro e Spinola. Era presente sicuramente nella flotta armata da queste due ditte che nel 1474 andò ad acquistare resina e mastice a Chio. Fu anche agente dei Centurione, protettori del Banco di S. Giorgio, interessati alle miniere d'oro del Sudan, dopo che l'oro era stato dichiarato base monetaria sulla piazza di Genova.

Non solo il Mediterraneo, ma anche lo Oceano Atlantico faceva parte dell'orizzonte mentale del giovane navigatore. Per andare in Inghilterra le navi da carico passavano per il grande porto di Lisbona dove i Genovesi avevano il loro quartiere, perché, grazie alla loro fama di navigatori e cartografi, erano spesso utilizzati dai sovrani portoghesi, e alcuni ricevettero il titolo di ammiraglio. All'inizio del sec. XIV, un genovese era stato ammiraglio della flotta del re Dionigi. Un altro genovese fu il primo a scoprire il lontano arcipelago delle Canarie: Lanzaroto, che diede il nome ad una delle isole. Per conto dell'infante Enrico il Navigatore, il pilota Usodimare aveva esplorato la costa della Guinea. Grazie alla bussola e al timone di poppa, la navigazione d'alto mare aveva fatto la sua apparizione: stipulando contratti con la corte del Portogallo, vari marinai, dei quali molti erano stranieri e soprattutto italiani, prendevano possesso di nuove isole e arcipelaghi (Porto Santo e Madera nel 1420, le Azzorre in un periodo di venti anni: ultima isola scoperta, Flores, nel 1452). Il C. partecipava della febbre generale per queste isole, che si cominciò a rappresentare su carte a partire dal sec. XIV, anche quando erano immaginarie, come le Isole di San Brandano segnate sulla carta di Pizzicani del 1467 nella Biblioteca di Parma (la leggenda diceva che il santo le aveva percorse per anni, scoprendovi l'inferno e il paradiso); come le Antilia o Isole delle sette città, nelle quali si raccontava che erano fuggiti sette vescovi con i loro fedeli al tempo dell'invasione della Spagna ad opera dei Mori; come infine Brasil, della quale si riparlerà in seguito.

Non rimangono ritratti coevi del C., ma un dipinto della galleria del Giovio si avvicina alle descrizioni dei contemporanei. Questo ritratto, presente nella galleria di Paolo Giovio a Como a partire almeno dal 1537, è conforme alle caratteristiche del cranio esumato nel 1945 (A. A. Pedroso, El verdadero retrato de Colón, in Studi colombiani, III, Genova 1952, pp. 25 ss.). Las Casas che, lo conobbe nel 1496, di ritorno dal suo secondo viaggio (corroborato da Fernández de Oviedo, cronista delle Indie, che lo vide a più riprese), scrive che il C. era di statura alta, che aveva i capelli di un biondo rossiccio (divennero presto grigi), che il suo aspetto imponeva il rispetto, che parlava con eloquenza e gravità; aggiunge che era parco nel mangiare e nel vestire, che la sua pietà era profonda. Il ritratto di Como gli attribuisce uno sguardo meditativo, che evoca l'aspetto, mistico del personaggio.

Eccellente navigatore, superiore ai suoi contemporanei, si è detto, fl C. ebbe a parecchie riprese il comando di una nave. Las Casas e lo pseudo Fernando hanno lasciato intendere che egli era forse imparentato con due corsari che avevano ricevuto il soprannome di Colombo o Coullon: ciò significava ignorare che il primo ("Colombo el Viejo") si chiamava in realtà Guillaume Casenove, guascone al servizio di Luigi XI, e che il secondo ("Colombo el Joven") era il greco Georgias Bissipat, passato anch'egli al servizio della Francia. I due biografi, ispirandosi ad una cronaca del Sabellico, credettero che il C. avesse partecipato nell'equipaggio del Casenove all'attacco di galeazze veneziane al largo di Capo San Vincenzo in Portogallo, ma questa battaglia ebbe luogo nel 1485, quando il C. soggiornava nel reame di Castiglia. Deve esserci stata confusione con un'altra battaglia di San Vincenzo, quella del 1476 (la si conosce da documenti genovesi), e della quale le circostanze quadrano bene con la vita del C.: nell'agosto del 1476 un convoglio commerciale genovese si dirigeva verso l'Inghilterra e aveva appena oltrepassato Cadice: su cinque navi, due appartenevano agli Spinola e ai Di Negro. La flotta fu attaccata al largo del Capo San Vincenzo da tredici navi francesi al comando del Bissipat. Nel corso del combattimento, la nave sulla quale era il C. s'incendiò, ed egli poté scampare a nuoto, guadagnando la riva e recandosi quindi a Lisbona. Ripartì il 12 dic. 1476, con due navi genovesi che erano scampate al disastro e che si diressero a Bristol, da dove il C. passò a Gallway in Irlanda.

Molto probabilmente andò poi in Islanda, come afferma Las Casas in base a un opuscolo del C. sulle cinque zone abitabili, del quale egli riporta un passo: "Yo navegué el año de 1477 en el mes de hebrero ultra Tilé, isla, cien leguas, cuya parte austral dista del equinocial setenta y tres grados, y no sesenta y tres, como algunos dicen, y no esta dentro de la linea que incluye al Occidente, como dice Ptolomeo, sino mucho mas occidental. Y a esta isla, que es grande como Inglaterra, van los Ingleses con mercaduria, especialmente los de Bristol, y al tiempo que yo alla fui no estaba congelado el mar" (Historiade las Indias, I, c.3). "Tilé" è la "Thulé" della quale parla il geografo dell'antichità Tolomeo (il C. avrà posseduto l'editio princeps della sua Geographia, del 1478, nella quale l'isola figura nell'area approssimativa delle isole Faeroes). La grande "Tilé o di cui parla il C. è l'Islanda. Scrisse anche di essere stato "a cento leghe oltre [Tilé]" (il Caddeo ha supposto ingegnosamente che "ultra Tilé" sia un errore per "a otra Tile", ma allora non si sa che senso potrebbe mai avere la menzione delle "cento leghe"). Forse potrebbe essere arrivato fino alla Groenlandia, approfittando di una temperatura clemente ("no estaba congelado el mar"). E lo storico danese V. Steffanson ha stabilito che l'inverno 1476-77 fu particolarmente mite (Ultima Thule, London 1942). Avrebbe raggiunto, allora, la latitudine enorme di 78° N, come del resto lascerebbe supporre la decifrazione, eseguita da A. Bernardini-Sjoestedt (1961), di una nota apposta dal C. nel margine di una copia della Historia rerum di Enea Silvio Piccolomini che egli possedeva: un tratto orizzontale tra due punti seguito da ("78" a significare la latitudine di 78°, (si tratta, nel passo annotato, della Cina del Nord). Si tenga presente che la Groenlandia fu colonizzata dagli Scandinavi verso l'anno Mille, e che le colonie cristiane vi erano cadute in decadenza nel sec. XIV. C'era stata anche una penetrazione vichinga nel "Vinland" (Terranova e regione vicina all'imbocco del San Lorenzo). Di tutto ciò era rimasto un certo ricordo nella memoria collettiva, che si combinava con il mito dell'isola "Brasil", parola che in gaelico vuol dire "grande isola". Su tutto il litorale atlantico si credeva all'esistenza di quest'isola: essa è disegnata, ad esempio, nel portolano genovese di Angelino Dalorto datato 1325-1330, dove figura collocata a sudovest dell'Islanda. A partire dal 1480 (poco dopo il passaggio del C. in questo porto), i marinai di Bristol intrapresero una spedizione l'anno per scoprire o riscoprire "Brasil". Il C. lo sapeva certamente, come prova la lettera che un mercante inglese, John Day, gli indirizzò alcuni anni dopo (lettera rintracciata e pubblicata da L. A. Vigneras, in Hisp. Am. Hist. Review, XXXVI [1956], pp. 503-509): parlando di Giovanni Caboto che nel 1496 sbarcò su di un litorale sconosciuto, Day scrisse al C. che si trattava sicuramente di "Brasil", già scoperta "in otros tiempos", cioè molto tempo prima. Come che sia, dal 1477 il C. può aver concepito l'idea di un periplo ad Ovest: su uno dei suoi libri egli annotò ad esempio che a Gallway vide due cadaveri portati dal mare e che erano "uomini del Catai" (la Cina).

Al ritorno dal suo viaggio nel Nord, il C. si stabilì nel regno del Portogallo che era allora il centro di un grande movimento di esplorazioni rivolto verso il litorale africano: si cercava una rotta verso le spezie dell'India, che dopo l'avanzata turca giungevano in Europa sempre più difficilmente. L'esplorazione aveva raggiunto già il Golfo di Guinea, acquisendo come vantaggi commerciali il pepe di Malaguette, la polvere d'oro di Timbuctù, e soprattutto la tratta degli schiavi negri, che sembrerà sempre al C. - come ai suoi contemporanei - cosa dei tutto naturale. Egli lavorava sempre per le case commerciali di Genova (il "documento Assereto" testimonia che faceva acquisti di zucchero a Madera a nome dei Centurione). Navigava anche su navi portoghesi: si sa che fu al "Castello de La Mina", un po' più a nord dell'Equatore, dove era concentrato il commercio dell'oro e degli schiavi e da dove le navi ritornavano a Lisbona facendo una vuelta per le Azzorre, la qual cosa rappresentava un bel risultato della navigazione d'alto mare.

In quest'epoca il C. si sposò con una fanciulla di rango elevato, Felipa Moniz Perestrello, figlia di Isabella Moniz (imparentata con la nobilissima famiglia dei Braganza) e di Bartolomeo Perestrello, primo capitano dell'isola di Porto Santo, allora deceduto. Andò a vivere a Porto Santo, dove la suocera mise a sua disposizione le carte del Perestrello, che era stato anch'egli avido di esplorazioni. Nel 1480 0 1481 gli nacque un figlio, Diego.

Questi anni di soggiorno in Portogallo sono fondamentali per capire la genesi della scoperta. Il Las Casas parla (al cap. 13 della Historia de las Indias, sulla base dei "libros de memoria" del C. oggi perduti) degli indizi sulle terre occidentali allora raccolti dal C. (lo pseudo Fernando, nel cap. 9, fa la stessa enumerazione e nello stesso ordine). Un pilota, Martin Vicente, gli parlò di un pezzo di legno, trovato a 450 leghe al largo del Capo San Vincenzo, lavorato dalla mano dell'uomo, ma senza intervento del ferro. A Porto Santo il cognato gli mostrò dei bambù dal diametro enorme. Sentì parlare di pini di una specie sconosciuta arenatisi sulle rive delle Azzorre; nell'isola di Flores furono scoperti due cadaveri umani "dal viso largo". Un pilota di Madera pretendeva di avere avvistato tre isole, navigando lontano verso l'Ovest. Gli venne anche raccontato che al tempo dell'infante Pedro, nel 1447, una nave spinta dalla tempesta sarebbe approdata nell'isola di Antilia, e così via. Di tutto ciò avevano conoscenza altri e non solo lui. Ma ciò che sembra abbia fecondato il sogno del C. furono le conoscenze libresche che egli acquisì con una rapidità sbalorditiva, perché dovette imparare il latino, o almeno approfondirne la conoscenza. Ciò avvenne quando, lasciato Porto Santo, si stabilì a Lisbona dove ritrovò il fratello Bartolomeo che vi aveva aperto una bottega di cartografo. Acquistò dei libri che riempì ai margini di postille (si contano duemilacinquecento postille, pubblicate in facsimile nell'opera di C. de Lollis del 1892): in primo luogo la Historia rerum di Enea Silvio Piccolomini (il papa Pio II), stampata nel 1477, e la Imago mundi del cardinale francese Pierre d'Ailly, stampata nel 1480 (le due opere sono conservate nella Biblioteca Colombina di Siviglia). Quest'ultimo libro fu messo a disposizione di Las Casas quando scrisse la sua Historia e il domenicano dice che le annotazioni latine del C. gli permisero di capire le concezioni geografiche del futuro ammiraglio delle Indie. La descrizione del mondo di Pierre d'Ailly si conforma alle idee di Aristotele sulla rotondità della terra e sulla sua piccolezza. Fu Aristotele a scrivere che la regione delle colonne d'Ercole e l'India sono bagnate dallo stesso oceano; Seneca, Plinio e, per i dottori cristiani, Alberto Magno e Ruggero Bacone, affermarono la stessa cosa. D'Ailly adottò per l'Eurasia la misura di un astronomo dell'antichità, Marino di Tiro: 225° (ciò avrebbe portato il litorale orientale, dell'Asia alla longitudine attuale dell'Alaska). Si discuteva allora su quale fosse la dimensione del grado. Il C. accettò la misura dell'astronomo arabo Alfragan: 56,4 miglia nautiche; ma, traducendo le miglia arabe in miglia italiane, giunse a una dimensione di 45 miglia nautiche, in luogo delle 50 miglia calcolate da Tolomeo, l'astronomo di Alessandria, la cui Geographia, riscoperta nell'Occidente nel sec. XV, era alla base della conoscenza dell'ecumene. Il mondo abitato sarebbe dunque stato più piccolo di un decimo di quanto si diceva comunemente. Il C. annotò a margine della Imagomundi che la fine delle terre verso l'Oriente e quella delle terre verso l'Occidente sono molto vicine e in mezzo c'è un piccolo mare (l'Atlantico). Il C. leggeva anche Marco Polo (molti manoscritti del quale circolavano allora in Portogallo), che parlava del Cipango (il Giappone), a 30° ad est del Catai (la Cina). I viaggi di Marco Polo in Estremo Oriente avevano, all'inizio del sec. XIV, provocato un rifacimento delle carte di Tolomeo (che attribuiva solo 180° all'Eurasia e ignorava il Giappone). L'interesse per l'Asia era stato ravvivato dal ritorno a Firenze, nel 1439, del veneziano Nicolò Conti, che aveva vissuto venticinque anni in India e Cina. Un mappamondo genovese del 1475 (oggi nella Biblioteca nazionale di Firenze) mostra un Sudest asiatico molto allungato e disegna la penisola indocinese sotto forma di "coda di drago". Si ritrova lo stesso tracciato sul mappamondo del tedesco Henricus Martellus (1489). E si vede ancora più chiaramente che il C. non era il solo a credere alla piccolezza dell'Oceano Atlantico quando si esamina il globo (1492) di Martin Behaim, un norimberghese trasferito in Portogallo. Sia Martellus, sia la carta genovese e Behaim hanno sicuramente una fonte comune, che una teoria recente individua in un mappamondo del 1428, realizzato da Pedro di Portogallo (Gallez, 1975, e Davies, 1977).

La celebre lettera di Toscanelli pone un problema di autenticità di cui conviene parlare qui, perché la corrispondenza di questo dotto ha fatto scorrere molto inchiostro. Paolo dal Pozzo Toscanelli era un umanista di Firenze, interessatissimo a molti problemi e in particolare a quello della scoperta di una rotta oceanica, perché apparteneva ad una famiglia di banchieri che la decadenza del commercio delle spezie aveva intaccato nelle sue fortune: e a tale scopo era in rapporti con principi portoghesi che aveva conosciuto al concilio di Firenze del 1439. Conosceva anche Nicolò Conti, che risiedette a Firenze dal 1439 al 1443, e leggeva come tutti Marco Polo. La prima lettera del Toscanelli che interessa la storia del C. sarebbe stata indirizzata, in latino, dal fiorentino nel 1474 a un canonico di Lisbona, Fernan Martins, che aveva vissuto a lungo in Italia: interpellato da Martins, a nome della corte di Lisbona, sulla possibilità di raggiungere l'India verso Ovest, rispose affermativamente e accompagnò la sua lettera con una carta (ora perduta), dove indicava le distanze tra Lisbona e Antilia, tra Antilia e Cipango, tra Cipango e Catai. La lettera ricordava anche che nella Cina del Gran Khan vivevano dei cristiani, che da duecento anni il Gran Khan chiedeva al papa l'invio di dotti, che ultimamente un viaggiatore (sicuramente Conti, che però non è nominato) l'aveva ricordato a Eugenio IV. Questa missiva in latino ci è nota per la copia che ne fece il C. su un piccolo quaderno rilegato alla fine della sua copia della Historia rerum e non presenta alcuna traccia di anacronismo. Egli l'avrebbe conosciuta nel modo seguente: avendo sentito parlare di questo documento che l'interessava moltissimo e dato che Martins era ormai deceduto, egli avrebbe scritto a Toscanelli per il tramite di Lorenzo Gerardi, un fiorentino residente a Lisbona. Toscanelli gli avrebbe risposto mandandogli la copia di ciò che aveva scritto a Martins, carta compresa. La "lettera a Martins" ci è nota anche per traduzione spagnola: Las Casas, che la riproduce (al capitolo 12), afferma di averla avuta tra le mani. Essa figura ugualmente, in italiano, nelle Historie dello pseudo Fernando. La carta invece si è perduta (è stata ricostruita solo ora), ma Las Casas dice che era stata in suo possesso. Naturalmente il C. avrebbe ringraziato il fiorentino. Da qui una seconda lettera di Toscanelli a lui (non datata ma anteriore, evidentemente, alla morte di Toscanelli nel 1482), della quale Las Casas e lo pseudo Fernando riferiscono il contenuto: è un incoraggiamento al C. a perseverare nel suo magnifico progetto. Sia l'uno sia l'altro biografo dicono che lettere e carte di Toscanelli incoraggiarono vivamente il Colombo. Il dubbio avanzato sulla loro autenticità da H. Harrisse (1884) deriva dal fatto che il C. non sembra essersi mai servito dell'autorità di Toscanelli nelle trattative con la corte di Portogallo e poi con quella di Castiglia. Ma forse egli pensava che le distanze calcolate dal fiorentino fossero troppo grandi per rendere verosimile una traversata dell'Atlantico, e propendeva per una maggiore prossimità della costa asiatica. Las Casas afferma che durante la prima traversata il C. consultava la carta di Toscanelli, ma è probabile che si trattasse piuttosto di una carta fatta dal C. stesso per adattarvi le misure di Toscanelli. In ogni caso non si vede chi avrebbe avuto interesse a falsificare la corrispondenza di Toscanelli, e la tendenza attuale degli storici è di ritenerla autentica.

La sicurezza che aveva il C. di giungere in un tempo abbastanza breve sul litorale asiatico meravigliò i contemporanei. Parlava di quelle terre "come se le tenesse sotto chiave nella sua stanza" scrive Las Casas (Historia, cap. 31). Bisogna ricordare a questo punto l'ipotesi detta del "pilota sconosciuto", che è stata rimessa in onore da un libro recente (J. Manzano y Manzano, Colóny su secreto, Madrid 1976). Essa è riferita da Las Casas: il C. avrebbe ospitato in casa a Madera o a Porto Santo un pilota moribondo che sorpreso dalle tempeste tornava da una terra lontanissima, che gli avrebbe lasciato una carta e delle misure di posizione. Fernández de Oviedo (1535) racconta la stessa storia. M. Bataillon e altri studiosi hanno pensato che si trattasse di una leggenda, diffusa da coloro che volevano diminuire i meriti del Colombo. Tuttavia Las Casas, che professa una grande ammirazione per lui, non esita a dichiarare la sua adesione a questo aneddoto che i primi compagni del C. gli narravano all'inizio del sec. XVI nell'isola di Hispaniola. La lettera di J. Day, della quale si è parlato prima, su "Brasil", faceva forse allusione a questa scoperta (l'ipotesi è di D. Ramos, 1972). J. Manzano ne è sicuro e pensa di avere scoperto il "segreto di Colombo": il pilota sarebbe stato il solo sopravvissuto, nel 1476, di una spedizione iniziata nel 1474; sarebbe approdato nel Nuovo Mondo con un equipaggio abbastanza numeroso, che si sarebbe mescolato alla popolazione indigena (ciò che spiegherebbe, ad esempio, perché il C. nel suo diario di bordo abbia annotato che nell'estremità occidentale di Haiti c'erano donne quasi bianche e come mai abbia potuto rilevare in questa regione brocche di terra cotta simili a quelle castigliane). Las Casas adduce anche una testimonianza interessante: nella isola di Cuba, nel 1514, degli indigeni gli parlarono di uomini bianchi e barbuti che sarebbero giunti nella vicina isola di Haiti qualche anno prima della scoperta del Colombo. J. Manzano crede che le informazioni lasciate dal "pilota" fossero così precise che da esse il C. avesse desunto la sicurezza di trovare una terra a 750 leghe esatte. Tutti questi indizi e altri ancora non adducono prove decisive in favore di una prescoperta. Se così fosse, ci sarebbe da chiedersi perché il C. si sarebbe abbandonato a tanti calcoli e avrebbe letto tanti libri dotti se gli fosse bastato di seguire un itinerario preciso.

Verso il 1484 il C. propose il suo grande progetto al re Giovanni II di Portogallo: prometteva di raggiungere il Cipango e altre terre sconosciute, chiedeva la copertura delle spese e, in caso di riuscita, il titolo di ammiraglio e il diritto di portare speroni d'oro. Il cronista portoghese J. Barros (che scrisse verso il 1539 in base a buone informazioni) afferma nella sua prima Decada, pubbl. nel 1552 a Lisbona, che, davanti alla sua insistenza, il re, mandò il C. da don Diego Ortiz, da maestro Rodrigo e maestro Giuseppe (Vizinho); ma costoro ne ritennero vane le parole perché ciò che diceva, a loro avviso, era basato sull'immaginazione. Questi personaggi erano buoni cosmografi e non furono affatto convinti dagli argomenti del C. sulla piccolezza dell'Atlantico. Il re, interessato soprattutto ai progressi dell'esplorazione sul litorale africano, non volle impegnarsi in spese di sorta per un obiettivo ipotetico. Altri navigatori gli proposero di armare delle caravelle a loro spese, e Las Casas suppone (cap. 28) che Barros non abbia indicato la ragione principale del rifiuto di Giovanni II: costui avrebbe ottenuto dal C. indicazioni precise sull'itinerario da seguire e avrebbe inviato un pilota a tentare l'avventura; una tempesta l'avrebbe fatto fallire.

Il C., sapendo ora di non potere sperare niente dalla corte di Lisbona, all'inizio del 1485 partì per l'Andalusia. La sorella della moglie, recentemente deceduta, viveva a Huelva dove si era sposata. Lasciando a Lisbona il fratello Bartolomeo, portò con sé il figlio Diego e sbarcò nel piccolo porto di Palos.

I successivi andirivieni del C. nel regno di Castiglia hanno costituito per gli eruditi un rompicapo che J. Manzano ha risolto nel suo Cristóbal Colón. Siete años decisivos de su vida. 1485-1492 (Madrid 1964), utilizzando molto le deposizioni degli abitanti di Palos nel processo che oppose più tardi gli eredi del C. alla Corona. A Palos dunque il C. fu ricevuto e incoraggiato dal padre Antonio Marchena (da non confondere con il padre Juan Pérez Marchena che egli conoscerà solo nel 1492), cui il Manzano lascia intendere che avrebbe confidato il suo "segreto". Questo cosmografo di fama lo raccomandò ad alcuni personaggi della corte, allora a Cordova: in particolare a Diego Deza, domenicano e precettore del principe ereditario, e al Talavera, futuro arcivescovo di Granada, allora confessore della regina. Dopo Cordova il C. si recò sicuramente a Siviglia, dove risiedevano molti italiani, in particolare i banchieri fiorentini Berardi che più tardi lo finanzieranno. Quindi raggiunse di nuovo la corte, e ad Alcala de Henares il 20 genn. 1486 fu introdotto per la prima volta alla presenza dei giovani sovrani, Ferdinando e Isabella. Secondo il racconto del cronista Bernaldez, che lo conobbe bene in Andalusia, parlò loro con molta sicurezza e mostrò il suo mappamondo in modo da suscitare in loro il desiderio di conoscere "queste terre" (Historiade los reyes católicos, cap. 118). Con "queste terre" bisogna intendere sicuramente Cipango e Catay, reame del Gran Khan secondo Marco Polo. Più tardi, nel prologo al suo giornale di bordo, il C. ricorderà che egli intrattenne le loro Altezze su questo principe, che da molto tempo chiedeva di entrare in rapporto con i cristiani. Sicuramente egli seppe accattivarsi l'attenzione di Isabella, parlando dell'aspetto religioso dell'impresa. Alla fine dell'anno i due sovrani dettero incarico ad un gruppo di dotti di studiare il progetto sotto la presidenza del Talavera. Questa, che fu detta impropriamente la "giunta di Salamanca", si concluse a Cordova nella primavera del 1487 con un rifiuto.

Las Casas lascia intendere che c'era una bella differenza tra il sapere dei dotti e l'esperienza dei marinai: una parte di quelli era imbevuta della dottrina aristotelica di un ecumene emerso dall'Oceano iniziale che occupava solo una piccola parte della sfera, e affermava che tutto il resto della terra era coperto d'acqua e che vi si poteva navigare solo bordeggiando le rive e le coste (cap. 29). Aggiungevano addirittura che chi navigasse diritto verso ponente, come proponeva il C., non avrebbe potuto ritornare essendo il mondo curvo, andando verso occidente. si discende, e al ritorno sarebbe stato necessario risalire la pendenza. Il C., secondo Bernaldez, allegava che l'insieme di questo mondo era fatto tutto per essere percorso. I dotti invocavano anche, sull'autorità di s. Agostino, la impossibilità che esistessero antipodi abitabili, sia al Sud che all'Ovest. Solo tre zone della terra erano considerate adatte alla vita umana. Questo genere di argomenti poteva incontrare solo il disprezzo del C., che conosceva per esperienza diretta le zone torride dell'Africa e quelle glaciali dell'Islanda. Fu sicuramente per replicare che scrisse un trattato sulle cinque zone abitabili, oggi perduto.

Aveva fatto però buona impressione sul Talavera, perché non bisogna immaginarsi il C. come l'avventuriero millantatore che certi storici, come de Madariaga, rappresentano. Egli aveva allora trentacinque anni e, insiste Las Casas, la sua persona ispirava rispetto, la sua parola era contemporaneamente eloquente e sensata. Talavera gli fece dunque concedere delle sovvenzioni per poter seguire gli spostamenti della corte. I sovrani stavano preparando una nuova impresa di interesse nazionale, ma non si disinteressarono del progetto del Colombo. Durante questo periodo di attesa il C. si trasferì a Cordova, dove riprese il mestiere di cartografo e si occupò del commercio di libri a stampa. Presso un farmacista genovese fece la conoscenza di Beatriz Enriquez Arana, orfana, sorella di un biscaglino, con la quale convisse e che gli diede il 15 agosto dell'anno 1488 un figlio, Fernando. Egli non la sposò, per ragioni rimaste oscure, ma le assicurò sempre il mantenimento e la ricordò nel suo testamento. Fu chiamato al campo reale a più riprese: nell'agosto del 1487 a Malaga, città mora appena capitolata; alla fine del 1489 davanti a Baeza assistette all'arrivo di due francescani che portarono ai sovrani un ultimatum del sultano d'Egitto: porre fine alla guerra o provocare la distruzione dei luoghi santi in Palestina. Da quel momento in poi il C. fu sempre ossessionato da Gerusalemme e propose varie volte ai sovrani di impiegare tutto l'oro, che la sua impresa avrebbe procurato, alla riconquista della Terrasanta: progetto che non appariva affatto folle nel clima della fine del sec. XV, quando correva una profezia che annunciava l'arrivo dalla Spagna di colui che avrebbe ricostruito la santa casa di Sion. La fine della guerra andava per le lunghe e l'impazienza del C. cresceva. Si sa che egli riprese contatto con il re del Portogallo, perché possediamo il salvacondotto che il 20 marzo 1488 gli indirizzò, Giovanni II. Non sembra però che egli abbia dato seguito a questo invito, e se lo fece si trattò di un va e vieni molto rapido e senza risultato.

Il fratello Bartolomeo era rimasto in buoni rapporti con la corte di Lisbona: l'apprendiamo da un appunto di sua mano (Las Casas dichiara di riconoscerla senza alcun dubbio) nel margine del libro di Pierre d'Ailly tanto spesso consultato dal fratello e da lui stesso: Bartolomeo vi afferma di trovarsi presente a Lisbona nel dicembre del 1487 al ritorno di Bartolomeo Diaz che aveva superato il Capo di Buona Speranza. Nel 1488 il C. mandò il fratello (Las Casas, cap. 29) alla corte d'Inghilterra. Bartolomeo fu ricevuto dal re Enrico VII al quale presentò un mappamondo accompagnato da versi latini. Si sa da altra fonte che egli si recò in seguito nel regno di Francia, dove dovette soggiornare per parecchio tempo, perché fu lì che gli giunse la grande notizia della scoperta del Nuovo Mondo. Anche in Francia dovette interessare la corte al progetto del C., se in una lettera ai re cattolici il C. poté scrivere di aver ricevuto dai re d'Inghilterra e di Francia lettere che anche Ferdinando e Isabella avevano letto. Scoraggiato di non ottenere alcuna risposta decisiva in Castiglia, era sul punto di recarsi in Francia quando il potente duca di Medinaceli gli offrì ospitalità a Puerto Santa Maria, in Andalusia. In questo porto il C. s'intrattenne con un vecchio marinaio il quale gli raccontò che durante un viaggio in Irlanda i venti l'avevano spinto all'Ovest fino alla vista di una terra "che doveva far parte della Tartaria". Il duca offriva di finanziare le spese dell'armamento dell'impresa (si veda una lettera, ritrovata, del duca a Mendoza, ed. in Manzano, 1964, p. 172, e la Historia di Las Casas, cap. 30). Ma i protettori che il C. aveva a corte - in questo momento si trattava soprattutto del fastoso cardinal Mendoza, soprannominato "il terzo re" - intervennero presso la regina perché non si lasciasse sfuggire un affare "magnanimo", che meritava il patronato di un sovrano. Isabella fece venire il C., ma nessuna decisione fu ancora presa.

Questa volta la pazienza del C. sembrava avere toccato il fondo. Si recò a La Rabida per riprendervi il figlio e partire con lui per la Francia. Vi ritrovò l'amico Marchena, che mandò a cercare a Palos il medico Garcia Fernández, versato in astrologia. Ripresero i contatti con la corte, cui partecipò il padre Juan Pérez che (secondo una testimonianza al processo) era stato al servizio della regina negli uffici finanziari e, si aggiunge, fu per un certo periodo il suo confessore. Il religioso scrisse a Isabella che convocò subito il C. a Santa Fé, il campo sotto Granada, alla fine dell'anno 1491. Qui ebbe luogo una riunione di dotti alla quale assisté Alessandro Geraldini, genovese e legato del papa, che raccontò nell'Itinerariumadregiones sub aequinoctiali plaga constitutas (ed. Roma 1631) come dei prelati avessero invocato l'autorità di Niccolò da Lira e di Ss. Agostino per negare la possibilità di navigare verso la parte inferiore della terra. Geraldini si rivolse allora a bassa voce al card. Mendoza seduto davanti a lui, affermando che Niccolò da Lira e Agostino ignoravano tutto della cosmografia, come era dimostrato dal fatto che i Portoghesi avevano scoperto un altro emisfero e avevano trovato la zona torrida piena di popolazioni. Il 2 genn. 1492 cadde finalmente la città di Granada e il C. assistette alla resa del re Boabdil. Questo avvenimento grandioso lasciava presagire altri ancora più grandi: il C. fu ammesso a presentare le sue richieste. Chiese 2.000.000 di maravedí per armare tre caravelle, il titolo di ammiraglio (al quale erano annesse prerogative finanziarie, sul modello di quelle dell'ammiraglio di Castiglia), la facoltà di farsi chiamare don Cristóbal Colón, la carica di viceré delle isole e terreferme che egli avrebbe scoperto. Le sue richieste sembrarono esorbitanti: congedato, si allontanò da Granada a cavallo. Ma fu raggiunto a due leghe di cammino da un alguacil, perché la regina aveva cambiato idea dopo un intervento del tesoriere d'Aragona, Luis de Santangel. Las Casas (cap. 32) mette in bocca a quest'ultimo un discorso patetico rivolto a Isabella: quale disonore per la Corona di Castiglia se un altro sovrano avesse accettato la proposta del Colombo. La questione del denaro poi, non era un ostacolo, perché egli era pronto ad anticiparlo. Deza non dovette essere meno eloquente: il C., in una lettera del 21 dic. 1504 (in Caddeo, 1941), gli attribuì il merito di averlo trattenuto in Castiglia, quando era già in cammino per uscirne. Il 17 aprile fu firmato il contratto tra il C. e la Corona: le "Capitolazioni di Santa Fé".

Nel preambolo, si elenca ciò che i reali accordano al C. per ricompensarlo di ciò "que ha descubierto" negli oceani. Il periodo "lo que ha descubierto" è piuttosto inatteso: il Manzano ne conclude (nel suo Colon y su secreto)che il C., per ottenere il consenso dei sovrani, abbia loro rivelato il suo "segreto". Ma il testo originale delle "capitolazioni" è sparito e la citazione è tratta da una conferma di esse (Las Casas trascrisse: "lo que ha de descobrir"). Si può supporre che quando il C. fece trascrivere il contratto sui registri reali, al ritorno del suo viaggio riuscito, abbia chiesto questa sostituzione di parole. O che "lo que ha descubierto" figurava sull'originale, ma a titolo di anticipazione, come era il caso per il titolo, che gli si attribuisce, "don Cristóbal Colón". Nelle clausole delle "capitolazioni", comunque, si conveniva che il C. sarebbe stato ammiraglio, viceré e governatore delle terre che avrebbe scoperto; che avrebbe partecipato per un ottavo alle spese delle merci trasportate dalla sua piccola flotta e avrebbe percepito un ottavo dei benefici dell'impresa. Gli si concedeva il diritto a un decimo dell'oro, delle spezie e altre derrate preziose che si sarebbero scoperte, e l'ereditarietà di tutte queste prerogative. La spedizione fu finanziata per metà dal Santangel, che anticipò 1.000.000 di maravedí, prelevati sui fondi della Santa Hermandad della quale era amministratore; il C. fornì l'altro milione grazie a prestiti dei suoi amici genovesi di Siviglia e del fiorentino Berardi. Su sua richiesta, Ferdinando e Isabella consegnarono al loro futuro ammiraglio lettere credenziali per il Gran Khan o qualunque altro principe dell'India.

Nominato capitano generale della flotta il C. ebbe difficoltà a procurarsi le navi e a reclutare gli equipaggi. Alla fine ricchi armatori di Palos, piloti sperimentati e molto interessati alle scoperte, Martin Pinzón e suo fratello Vicente, fornirono due caravelle, la "Niña" e la "Pinta". Il C. affittò una nao, nave di circa cento tonnellate, la fece armare come caravella e la chiamò "Santa Maria".

Durante i preparativi ebbe nel porto conversazioni con un vecchio pilota, Pedro Vasquez de la Frontera, che aveva partecipato nel 1452 a un viaggio nell'Atlantico del portoghese Diego de Teive per cercarvi le Indie. Partiti dalle Azzorre verso Sudovest i navigatori erano stati fermati dal Mar dei Sargassi, poi, sperando di raggiungere al Nord l'isola Brasil, erano stati portati dai venti fino all'altezza dell'Irlanda. Pedro era convintoche se il vento fosse stato favorevole si sarebbero trovate terre andando in linea diritta all'Ovest, e, secondo la deposizione di un testimone al processo, incoraggiava i marinai di Palos, parlando loro sulle piazze pubbliche e chiamandoli a partecipare a questo viaggio perché avrebbero scoperto una terra ricca. La partecipazione dei Pinzón a questa avventura in pieno Oceano sconosciuto fu un fattore psicologico determinante; alla fine un centinaio d'uomini accettò di arruolarsi. Oltre all'equipaggio la spedizione comportava un interprete di arabo, greco ed ebraico, e dei funzionari reali.

La grande partenza ebbe luogo da Palos il 3 ag. 1492, dopo che tutti si furono confessati e comunicati. Il C. cominciò subito un giornale di bordo (ne esiste un riassunto, trascritto dalla mano di Las Casas: nelle loro opere Las Casas e lo pseudo Fernando hanno utilizzatoe interpolato questo stesso testo). Il C. decise di raggiungere anzitutto le Canarie, perché desiderava seguire il 28° parallelo di latitudine N: sicuramente la carta che seguiva a questa latitudine precisa indicava Cipango.

La navigazione si faceva ad occhio: il tempo infatti era, misurato con una clessidra e la velocità delle navi veniva stimata in base a quella degli oggetti galleggianti. Per misurare la latitudine il C. si serviva di un semplice quadrante. Faceva il punto tutti i giorni, ma sulla carta che egli faceva vedere notava una distanza inferiore a quella che aveva stimato, perché l'equipaggio non fosse spaventato dalla lunghezza del percorso.

Dopo uno scalo nell'arcipelago delle Canarie, le tre caravelle misero la vela l'8 settembre alle otto del mattino, a San Sebastiano, porto di Gomera. La flotta fu spinta dal flusso costante degli alisei. Il 19 settembre il C. fece il punto: pensava di avere percorso 400 leghe e annotò che doveva esserci in quei paraggi un certo numero di isole. Poteva pensare in effetti di essere vicino ad Antilia, a mezza strada tra le Canarie e Cipango. Quando la flotta entrò nel Mar dei Sargassi, ci fu un momento di panico, poi ci si ricordò che Vasquez de la Frontera aveva attraversato quella zona. Il 25 settembre Martin Pinzón venne a bordo della "Santa Maria" per restituire al capitano generale una carta che gli aveva prestato e si meravigliò che non si fossero viste ancora le isole ivi dipinte. Cipango, circondata di isole, doveva esservi rappresentata a 750 leghe dalle Canarie, perché questa cifra aveva ossessionato il Colombo. Il 30 settembre il C. osservò che l'ago della bussola variava di un punto all'Ovest, constatando, così il fenomeno della declinazione magnetica: l'ago calamitato si rivolge verso il polo magnetico e non verso il polo reale. Riuscì a tranquillizzare i suoi uomini facendo prendere l'altezza della stella polare all'alba, in unmomento in cui la deviazione è quasi nulla.

Alla fine di tre settimane nessuna riva era in vista e l'equipaggio cominciava a farsi prendere dal panico. Il 6 ottobre Martin Pinzón, che seguiva il tragitto sulla stessa carta del C., chiese di inclinare verso sud-ovest, temendo che avessero mancato Cipango, perché avevano superato le 750 leghe. Anche il C. lo credeva, ma affermò che il suo scopo era di arrivare alle Indie (cioè sulla costa della Cina). Nondimeno, avendo visto uccelli migratori dirigersi verso sud-ovest, fece mettere la prua verso quella direzione (senza questa decisione sarebbe arrivato in Florida). A partire dal 10 ottobre il malcontento rasentò la rivolta: uno dei testimoni del processo del 1512, che aveva partecipato alla spedizione, disse di aver sentito i marinai dire che erano perduti; un altro, di aver udito il Pinzón suggerire al C. di far impiccare una mezza dozzina di marinai. Il d'Angleria, che l'apprese sicuramente dalla bocca del C. al suo ritorno, arrivò a scrivere che gli spagnoli progettavano di gettare in mare il capitano genérale dopo trenta giorni di navigazione.

L'11 ottobre alle ventidue, un'ora prima che si levasse la luna, il C. a poppa della "Santa Maria" distinse una luce lontana. Alle due del mattino, il marinaio Rodrigo de Triana, salito sul castello anteriore della "Pinta", avvistò una striscia bianca di sabbia e gridò: "Terra!". Subito fu tirato un colpo di bombarda. Al levarsi del sole i cristiani sbarcarono, portando la bandiera reale di Castiglia, e il C., che d'ora in poi si fece chiamare ammiraglio, prese possesso davanti a un notaio, a nome di Ferdinando e Isabella, dell'isola corallina dell'arcipelago delle Bahamas alla quale diede il nome di San Salvador. Gli Indiani - questo è il nome che egli dette loro dall'inizio - accorsero in gran numero, e il C. li descrisse nudi, con i capelli lisci, e con la pelle dello stesso colore di quella degli abitanti delle Canarie. Subito s'instaurò uno scambio: sonagli e specchi contro gomitoli di filo di cotone. Poi la flotta cominciò l'esplorazione delle isole che il C. s'immaginava vicine a Cipango o allo stesso Catai. Bordeggiò una parte del litorale nord di Cuba (lì fu constatato per la prima volta l'uso del tabacco), quindi sbarcò ad Haiti, dove il C. sperava di trovare l'oro (perché gli si parlava di "Cibao" che egli confuse con "Cipango") e che battezzò con il nome di "Hispaniola" o "Isola spagnola". Gli indigeni - dei Tainos dai miti costumi - si mostrarono accoglienti, donarono piccoli pezzi di oro e soccorsero gli spagnoli colpiti da un disastro durante la notte di Natale, quando la "Santa Maria" si sfasciò su uno scoglio non lontano dalla riva. Disponendo ormai solo di due navi, l'ammiraglio non poteva ricondurre in Spagna tutto il suo equipaggio: sistemò pertanto trentotto uomini in un forte costruito in fretta e furia ("La Navidad") e rimise le vele il 2 genn. 1493. Una tempesta lo gettò in una delle isole delle Azzorre, da dove raggiunse il porto di Lisbona. Il re Giovanni II lo fece venire a corte ed avanzò pretese sulle terre scoperte: le isole oceaniche fino a una certa latitudine gli appartenevano in virtù di un trattato con il re di Castiglia. Il cronista J. Barros aggiunge che il re si rabbuiò quando vide che gli indigeni portati dal C. non erano neri né avevano i capelli crespi come quelli della Guinea, ma avevano lo stesso aspetto, lo stesso colore e gli stessi capelli degli abitanti dell'India, per la quale egli si affannava tanto (nondimeno i Portoghesi non credettero che il C. ritornasse dalle Indie propriamente dette: sono loro che dettero il nome di "Antilhas" alle isole scoperte). Molto indispettito di non avere accettato l'offerta del C. qualche anno prima, si rifiutò però di farlo assassinare come suggerivano i suoi consiglieri, e lo rimandò dopo avergli regalato un abito scarlatto. Poco dopo l'ammiraglio era a Palos, quindi a Siviglia, seguito da sette indiani piumati, che portavano pappagalli e oggetti d'oro. Quando giunse a corte, allora a Barcellona, i sovrani avevano già ricevuto un suo rapporto (spedito da Lisbona) del quale conosciamo la copia, indirizzata a Santangel.

Questa lettera fu pubblicata subito a Barcellona, poi tradotta in latino (prima edizione, Roma, maggio 1493) e riprodotta in seguito molte volte: è un compendio entusiasta della scoperta delle "Indie". Un milanese, l'umanista Pietro Martire d'Angleria, stabilito alla corte dei re cattolici, si fece interprete della meraviglia generale in alcune epistole ai suoi amici, e intitolò De Orbe Novo le Decades che cominciò a redigere sulla scoperta: fu così il primo ad impiegare la denominazione di "Nuovo Mondo". Il C., per conto suo, interpretò in termini mistici ciò che aveva compiuto, affermando di essersi fatto messaggero presso i sovrani del nuovo cielo e della nuova terra di cui parlò nell'Apocalisse s. Giovanni. All'epoca non sembrava affatto assurdo confondere i due piani: quello delle realtà d'ordine geografico e quello delle realtà soprannaturali, dato che si localizzavano il paradiso e l'inferno sul globo terrestre.

Naturalmente, l'ammiraglio ricevette un'accoglienza trionfale da Ferdinando e Isabella. I sovrani sollecitarono subito dal papa una bolla (Inter caetera, maggio 1493) che stabiliva una linea di demarcazione tra le esplorazioni portoghesi e le esplorazioni spagnole, linea che passava a cento leghe all'ovest delle Azzorre e al di là della quale isole e terre ferme sarebbero state sotto la giurisdizione castigliana. Avevano fretta di vedere il C. proseguire la sua impresa, sia perché speravano che trovasse oro e spezie sia perché avevano ricevuto mandato dal papa di predicare il Vangelo agli Indiani.

Una vera e propria spedizione di colonizzazione fu messa in piedi. Diciassette navi partirono da Cadice il 25 sett. 1493 con milleduecento uomini (fra i quali il padre e lo zio di Las Casas), bestiame e sementi. Il C. era accompagnato dal figlio maggiore Diego e dal fratello minore Giacomo (Diego in spagnolo) che aveva fatto venire da Genova. L'ammiraglio mise la prua un po' più a sud dell'anno precedente, ciò che gli permise di raggiungere le Piccole Antille; a 750 leghe esatte, incrociò un'isola che egli chiamò per questa ragione Deseada (J. Manzano suppone che il "pilota" gli avesse rivelato che in questo punto preciso si "entrava nelle Indie"). Un gentiluomo genovese, Michele Cuneo, partecipava alla spedizione, e ne lasciò un resoconto (in Raccolta..., a cura di C. De Lollis, 1892). Alla Martinica e alla Guadalupa fecero una penosa constatazione: trovarono resti di pasti antropofagi. In effetti quegli indigeni (temuti dai Tainos delle Grandi Antille) appartenevano all'etnia cannibale dei Caribi. Quando la flotta, dopo avere scoperto Porto Rico, si ritrovò a La Navidad, la guarnigione dei trentotto spagnoli rimasta li era sparita, sicuramente massacrata in seguito a depredazioni e stupri di donne indigene. Era un pessimo inizio per la colonizzazione. L'ammiraglio gettò le fondamenta di una nuova città, Isabella, ma i rifornimenti erano insufficienti e molti spagnoli si ammalarono. Il 30 genn. 1494 l'ammiraglio e viceré mandò un memorandum ai sovrani: preoccupato dal costo dell'impianto nell'isola, egli proponeva di ridurre in schiavitù i Caribi antropofagi e di mandarli a vendere in Spagna, come carico di andata sulle navi. Dopo aver fatto costruire il forte di Santo Tomas in mezzo a una valle che chiamò, Vega real, vicino a corsi d'acqua auriferi, e avere istituito un consiglio di governo presieduto dal fratello Giacomo, riprese il mare il 24 apr. 1494, con tre piccole caravelle, per continuare l'esplorazione che gli avevano prescritto Ferdinando e Isabella. Avendo identificato, secondo quanto pensava, Hispaniola e Cipango, sperava che Cuba fosse l'inizio del continente asiatico e cominciò a bordeggiare la costa sud. Tenne come sempre un giornale di bordo, che consegnò più tardi al cronista Bernaldez (si ha da lui la pittoresca relazione di questo viaggio, che Pietro d'Angleria ha narrato anche lui nelle sue Decades). Un indiano convertito serviva da interprete. Secondo lui la gente di Cuba parlava della provincia di "Magon"; e il C. subito pensò a "Mangi" che designava, in Marco Polo, la Cina del Sud. Alla fine di cinquanta giorni, non vedendo la fine di questo litorale interminabile, il C. fece giurare al suo equipaggio, davanti a un notaio, che si trattava di una terra ferma e dell'inizio delle Indie. Atto molto irrazionale in apparenza, ma che era una precauzione giuridica: il C. si giustificava così in anticipo di interrompere un'esplorazione che gli era stata ordinata. Il 29 settembre, dopo avere fatto acqua alla Giamaica, la flotta fu di ritorno a Isabella, dove il C. arrivò malato di una artrite che diventerà cronica. Ebbe il piacere di trovarci il fratello Bartolomeo, che era passato dalla Francia in Spagna e di là ad Hispaniola.

Secondo J. Manzano (1972), il C. avrebbe compiuto un viaggio d'esplorazione verso il Sud nel corso dell'inverno 1494-1495, costeggiando lungo il litorale del Venezuela e delle Guiane fino al 6° di latitudine Nord. Ma il Manzano basa la sua ipotesi principalmente su di una lettera di Pietro d'Angherio al cardinale Carvajal, la cui datazione (1496), fornita nell'edizione postuma, è indubbiamente errata; e non sussiste alcun elemento decisivo che permetta di datare al 1494 e non al 1498 questa prima scoperta dell'America meridionale, ignota a tutti i contemporanei.

Le assenze prolungate del viceré avevano provocato una situazione catastrofica a Hispaniola. Gli Spagnoli sì erano dispersi nell'isola alla ricerca dell'oro e si rendevano odiosi agli indigeni. Ci furono delle rivolte, delle battaglie in cui questi disgraziati furono massacrati a colpì di bombarda e dilaniati da cani feroci. Il C. trovò naturale considerare i prigionieri come schiavi di guerra e mandarli a vendere in Spagna: ciò continuò nel corso degli anni successivi. Il viceré e suo fratello Bartolomeo (che egli aveva nominato adelantado, cioègovernatore militare) passarono l'anno 1495 a cercare di trarre profitto dall'isola, perché, il C. aveva lasciato intendere ai sovrani che essa nascondeva molte ricchezze. La miniera d'oro vicina a Santo Tomás fu scoperta l'estate del 1495 (da allora il C. identificò Hispaniola non solo con Cipango ma anche con l'"Ofir" del re Salomone). Il C. impose agli indigeni un tributo eccessivamente pesante: ogni adulto doveva presentare ogni tre mesi un sonaglio da falcone pieno di polvere d'oro, o fornire venticinque libbre di cotone tessuto. Questo significava sottomettere la popolazione a un modo di vita che non poteva sopportare e a partire da quel momento il numero degli abitanti cominciò a diminuire in maniera allarmante. In fatto poi di evangelizzazione, il benedettino Boyl, che non aveva mostrato alcuno zelo, ripartì dal 1495 con un certo numero di scontenti.

Il C. tuttavia non si disinteressava dei Tainos che pure trattava così male. Incaricò un religioso intelligente, Ramón Pane, di apprendere la lingua degli indigeni e di raccogliere le loro "antichità" (la piccola memoria etnografica che costui redasse fu trascritta da Fernando Colombo e riassunta dal d'Angleria). Egli stesso scrisse qualche pagina interessante sulla religione degli abitanti dell'isola, dei quali aveva constatato la credenza nell'immortalità dell'anima. Fin tanto che le miniere d'oro non avessero dato un rendimento, la colonizzazione sarebbe fallita, perché il viceré, considerato straniero, non sapeva imporsi a degli spagnoli indisciplinati. Un inquisitore reale, Aguado, sbarcò alla fine del 1495. Deluso nelle sue speranze, il C. affettò una pietà ostentata: devotissimo a s. Francesco, leggeva dalla giovinezza l'ufficio quotidiano e cominciò a farsi crescere la barba e ad adottare il saio francescano.

Il C. rientrò in Spagna nella primavera del 1496, per giustificarsi alla corte. Molti di quelli che tornavano con lui erano malati, di una malattia che si chiamò sifilide: l'avevano contratta dagli Indiani, fra i quali era endemica e senza gravità. Dopo un soggiorno in Andalusia presso il cronista e prete Bernáldez, il C. fu convocato dai sovrani a Burgos, dove ricevette una buona accoglienza (perché Aguado non aveva potuto provare niente di grave contro di lui). Vi ritrovò i suoi due figli che erano stati nominati paggi presso il principe ereditario. In una lettera il C. ricorda di aver spiegato come le pene e le spese sostenute avessero un fine temporale e spirituale. Addusse poi che occorrevano tempo e perseveranza per avere dalla colonia un buon rendimento e che il fratello, rimasto ad Hispaniola aveva fondato da poco sul litorale sud il porto di Santo Domingo; annunciò che un'altra miniera d'oro era stata scoperta non lontano di là, a San Cristóbal.

Prima di ripartire in esplorazione, il C. volle assicurare l'avvenire della sua famiglia e ottenne dai sovrani l'autorizzazione a costituire un maggiorascato, cioè un feudo con primogenitura. Quest'atto (febbraio 1498) del quale non si possiede l'originale, è sicuramente autentico, checché ne abbiano detto alcuni, perché se ne conosce una ratifica reale del 1501. I privilegi finanziari dei C. e i suoi titoli di ammiraglio e di viceré passeranno al figlio maggiore Diego. Costui s'impegnerà ad incaricare a Genova una persona della famiglia Colombo, che vi aveva domicilio, di acquistare azioni del Banco di S. Giorgio e di impiegarne il reddito per qualche opera buona che riguardasse Gerusalemme. Questo maggiorascato è già una sorta di testamento.

Durante i due anni che il C. passò allora in Spagna, si legò ad un certosino della grande abbazia di Las Cuevas, presso Siviglia, l'italiano Gaspare Gorricio e presso di lui cominciò a depositare i suoi archivi. Ci furono difficoltà finanziarie piuttosto forti per armare sei navi a spese della Corona, ma anche un importante concorso finanziario di Giovanni Berardi, e per reclutare trecentotrentatré persone (fu necessario accettare dei condannati per reati comuni) fra le quali trenta donne. Lo scopo della spedizione era, da un lato, di portare ad Haiti lavoratori e rifornimenti; dall'altro di fare una nuova spedizione verso il Sud. Era in effetti indispensabile per Ferdinando e Isabella sapere quali nuove terre cadessero sotto la loro giurisdizione: in base al trattato di Tordesillas con il Portogallo (1494), la linea definita dalla bolla Inter caetera era stata spostata indietro di 370 leghe a ovest delle isole del Capo Verde (successivamente il C. sarà richiesto per la delicata fissazione di questa distanza). L'ammiraglio divise quindi in due l'armata: tre caravelle, comandate da Pedro Arana, fratello di Beatriz, puntarono direttamente verso Hispaniola; le altre tre sotto il comando del C. misero la prua più a sud. La partenza ebbe luogo il 30 maggio 1498. Il giornale di bordo di questo terzo viaggio è perduto, ma Las Casas e Fernando ne hanno dato larghi estratti. La flotta dell'ammiraglio discese fino alla latitudine delle Isole del Capo Verde, quindi, a causa di una terribile calura, fece rotta verso sud-ovest. Il 31 luglio fu avvistata la terra: era un'isola a tre vertici (vicina alla costa del Venezuela), che per questa ragione il C.. chiamò Trinidad. Quindi i vascelli penetrarono in un mare d'acqua dolce, compreso tra le foci del delta dell'Orinoco, dove si produssero tali vortici che rischiarono di venire inghiottiti. Il 2 agosto, il C. fece prendere possesso della terra (che egli supponeva un'isola) presso la penisola di Paria che bordeggiò invano, sperando di farne il giro. Gli indigeni portavano gioielli di guanin - miscugliodi oro e rame - e bevevano una bevanda fermentata di mais, la chibcha. L'ammiragho scrisse una lunga lettera ai sovrani accompagnata da una carta. Egli si chiedeva se il fiume possente del quale aveva scoperto la foce non venisse dal paradiso terrestre, oppure da un immenso paese più a sud del quale nessuno avesse mai avuto conoscenza. Sofferente agli occhi e d'insonnia, il C. non si fermò in quei paraggi e dopo avere costeggiato l'isola Margarita (l'isola delle perle), riguadagnò Haiti e sbarcò a Santo Domingo. Là si trovò davanti ad una situazione rivoluzionaria: l'alcalde mayor, Roldán, aveva fatto secessione con settanta coloni; il versamento del tributo era cessato, c'erano state rivolte di indigeni e tre caravelle, cariche di schiavi, attendevano nel porto di partire per la Spagna. Molti coloni erano ritornati in patria e vi avevano portato gravi accuse contro i fratelli Colombo, questi stranieri che tradivano il loro paese di adozione. Per farsi dei partigiani, il C. istituì allora il sistema del repartimiento, che avrà un triste avvenire: egli "donava" a certi spagnoli la sovranità su di un cacico e i suoi sudditi, che avrebbero dovuto eseguire tutti i lavori che si richiedevano. C'è da chiedersi se il C. fu così cattivo amministratore come si è detto. Il cronista Fernandez de Oviedo (1535) lo contesta, affermando che non era obiettivamente possibile contenere sia coloro che volevano guerreggiare, ma non stabilirsi nel luogo, sia coloro che intendevano stabilirsi nelle terre scoperte. Di fatto egli non era più obbedito e reclamava a corte l'invio di un magistrato che l'aiutasse a fare giustizia. Invece del magistrato nell'agosto del 1500 sbarcò nell'isola il commendator Bobadilla, munito di poteri di governo, che fece arrestare i tre fratelli Colombo e li rimandò in catene in Spagna. Appena sbarcati a Cadice essi furono liberati e la regina espresse loro il suo rincrescimento per il trattamento che avevano subito: ma l'ammiraglio non ritornò più viceré di Hispaniola, anche se conservò i suoi diritti sul decimo dei profitti.

D'altra parte il suo monopolio delle scoperte era ormai violato: grazie alla carta del "Paria" che egli aveva inviato, altri partirono sulle sue tracce: la costa delle perle, il litorale sud del Venezuela e delle Guiane, le foci del Rio delle Amazzoni furono esplorati da Yañez Pinzón, Peralonso Niño, Ojeda, Vespucci e altri, dal 1499 al 1504. Per due anni il C. restò inoperoso e s'installò a Las Cuevas presso fra' Gaspare Gorricio; con il suo aiuto, identificò nella Bibbia e nei suoi commentatori tutti i passi relativi alla "santa città di Sion e alla conversione delle isole dell'India": è ciò che viene chiamato il "Libro delle profezie", conservato nella Biblioteca Colombina. Rileggendo Marco Polo e Tolomeo, il C. si persuase che dovesse esistere un passaggio al Nord del Paria per penetrare nel Mar della Cina, trovare il Chersoneso d'oro (l'Indocina) e le isole delle spezie. Prima di partire un'ultima volta, consegnò a Nicolò Oderigo, ambasciatore genovese presso i re cattolici, copie del suo Libro di privilegi. Gli originali furono depositati a Las Cuevas (insieme con molti altri documenti: parecchie centinaia di loro, per la maggior parte scomparsi, figurano nell'inventario redatto dal padre Gorricio verso il 1520 (Serrano y Sanz, 1930). Raggiunti i cinquantuno anni il C. mise per iscritto le sue ultime volontà, ingiungendo al figlio Diego di costituire una rendita in favore di Beatriz Arana e di farsi consigliare in tutto da fra' Gaspare.

L'11 maggio 1502 il C. riprese il mare, conducendo con sé il fratello Bartolomeo e il giovane figlio Fernando, dell'età di tredici anni. Le autorità di Hispaniola gli rifiutarono l'ingresso nel porto di Santo Domingo; la sua ultima esplorazione si svolse lungo l'America centrale, dall'Honduras a Panama (che egli chiamò Veragua), in mezzo a terribili tempeste. I suoi interpreti indigeni gli parlarono dell'esistenza di un grande mare a nove giorni di marcia all'Ovest (il Pacifico). Ma le navi facevano acqua; il C. passò un inverno difficile a Belén, fondata il giorno dell'Epifania del 1503. Il 15 aprile ripresero il mare, ma poco più di due mesi dopo (25 giugno) furono costretti ad arenare le caravelle - ormai inutilizzabili - sulla costa settentrionale della Giamaica. Da lì due amici devoti del C. - Méndez e il genovese Fieschi - dovettero partire in piroga per Hispaniola a cercare di ottenere una nave, che ebbero solo dopo otto mesi. Il C. poté tornare in Spagna solo nel novembre del 1504, incanutito e provatissimo nel fisico. La sua protettrice, la regina, morì il 26 novembre. Tenace, il C. moltiplicò i passi presso Ferdinando per rientrare nei suoi privilegi di viceré, ma invano. Scrisse al nuovo papa, Giulio II (genovese come lui) il resoconto del suo ultimo viaggio, accompagnandolo con schizzi di carte di Bartolomeo dove appaiono, sull'America del Sud, le parole "Mondo Novo".

Il C. morì a Valladolid il 19 maggio 1506.

Il codicillo del suo testamento e firmato Don Cristóbal Colón, ammiraglio viceré e governatore delle isole e della terra ferma scoperta e ancora da scoprire". Fu seppellito a Las Cuevas, poi, nel 1544, la salma fu trasferita nella cattedrale di Santo Domingo. L'arrivo dei Francesi ad Haiti provocò un nuovo trasferimento, nel gennaio del 1796, a La Havana; quindi, quando Cuba fu ceduta agli Stati Uniti nel 1899, ci fu un ultimo trasferimento alla cattedrale di Siviglia. Ma è quasi sicuro che nel 1796 sia stata esumata per errore la salma del figlio Diego, e che la sua continui a riposare a Santo Domingo.

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De Lollis, Genova 1892-1894, composta di sei parti diverse in quattordici volumi (la prima parte, di tre volumi, raccoglie gli Scritti del C.: il terzo è costituito da una raccolta di facsimili di autografi; la seconda parte è consacrata ai documenti privati, la terza alle fonti italiane, la quarta e la quinta contengono una serie di monografle dei colombisti italiani dell'epoca; nella sesta, infine, è contenuta la bibliografia degli scritti ital. sul C.); Autografos de Cristóbal Colón y papeles de América, a cura della duchessa di Berwick y Alba, Madrid 1892; Los Pleitos de Colón, a cura di C. Fernandez Duro. Madrid 1892-1894; Pleitos colombinos, a cura di A. Muro Orejón-F. Pérez Embid-F. Moralles Padrón. Madrid 1958-64; C. Jane, Select documents illustrating the four voyages of Columbus, I-II, London 1930-1935; A. Muro Orejón, Cristóbal Colón. El original de las capitulaciones de 1492 y suscopias contemporaneas, Sevilla 1950; Giornale di bordo di C. C. (1492-1493), a cura di R. Caddeo, Milano 1939; Relaz. di viaggi e lettere di C. C. (1493-1506), a cura di R. Caddeo, Milano 1941; Libro de los privilegios del almirante don Cristóbal Colón (1498), a cura di C. Pérez Bustamante, Madrid 1951; The Journal of Christopher Columbus, a cura di C. Jane-L. A. Vigneras, London 1960; Diario de Cristóbal Colón, a cura di C. Sanz, Madrid 1962; Les oeuvres complètes deChristophe Colomb, a cura di A. Cioranescu, Paris 1961, Pietro Martire d'Angleria, De Orbe Novo. Decades, Compluti 1516; Opus epistol. Petri Martyris Anglerii, Paris 1650; G. Fernández de Oviedo, Historia general y natural de las Indias, Sevilla 1535 (ora nella Biblioteca de autores españoles, CXVII-CXXI, Madrid 1959); Bartolomé de Las Casas, Historia de las Indias, a cura di A. Millares Carlo, Mexico 1951 (vedi anche l'ediz. a cura di J. Pérez de Tudela, Madrid 1957); Historie del signore don Fernando Colombo della vita e de' fatti dell'Ammiraglio don C. 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