Croce: la lezione di De Sanctis

Croce e Gentile (2016)

Croce: la lezione di De Sanctis

Emma Giammattei

La grande fedeltà

All’indomani della morte di Benedetto Croce, Gianfranco Contini e Francesco Flora posero con ragioni complementari la questione del rapporto instaurato dal filosofo con la figura e il pensiero di Francesco De Sanctis (1817-1883; cfr. Contini 1953 e Flora 1953). È una questione che pur nella diversità fra lo storico della letteratura e il filologo, sia per la posizione rispetto al crocianesimo, sia per l’approccio metodologico, apparve a entrambi preliminare al discorso intorno a Croce, da qualsiasi versante – della critica, dell’estetica, dello storicismo, dell’etica – lo si affrontasse. Non si poteva fare la storia intera del pensiero crociano senza porre il ruolo di De Sanctis al centro di quell’itinerario appena concluso, molteplice e costitutivamente intersettivo, lontano dagli schemi monologici e dalle intolleranze della pura filosofia. Parallelamente, nel considerare la parabola e l’immagine del grande critico irpino, e la sua effettiva presenza nella cultura italiana otto e novecentesca, risultava innegabile, come «ineliminabile dato storico» (Savarese 1967, p. 171), che la costruzione del primo ritratto integrale dell’autore della Storia della letteratura italiana (1870-1871) fosse da accreditare all’opera diuturna e instancabile di recupero, di difesa, di riproposta editoriale e di riattivazione teoretica originale da parte del seguace più geniale e prensile. Com’è noto, senza di essa, molte delle carte sarebbero rimaste disperse e ignote – e furono invece portate alla luce con umile fatica anche attraverso rapporti difficili con eredi e vecchi allievi (Carteggio Croce-Laurini, con un’appendice di scritti di G. Laurini, a cura di G. Genovese, 2005; Carteggio fra Benedetto Croce e Francesco Torraca, con introduzione e note di E. Guerriero, 1979). In particolare le lezioni dei corsi universitari del 1871-74 e quelle della scuola privata, prima del 1848, furono raccolte dai quaderni dei suoi alunni e «riscritte tutte per dar loro un assetto decoroso» (B. Croce, De Sanctis-Gramsci, «Lo spettatore italiano», 1952, 5, pp. 294-95, poi in Id., Terze pagine sparse, 1° vol., 1955; poi in Id., Scritti su Francesco De Sanctis, a cura di T. Tagliaferri, F. Tessitore, 2 voll., 2007, d’ora in poi SFDS, p. 576).

Si può intanto tenere presente, a proposito di questa riscrittura, quanto Croce aveva dichiarato nel 1908 a Renato Serra e a Luigi Ambrosini, nel ricordare di avere copiato metà della Logica di Hegel: «fin che una cosa io non la vedo scritta con la mia lettera sulla mia carta non mi pare essermela appropriata» (B. Croce, Discorrendo di sé stesso e del mondo letterario. Un’intervista, «Il Marzocco», 11 ottobre 1908, poi in Id., Pagine sparse, 1° vol., Letteratura e cultura, 1943, p. 213). Inoltre, senza l’attiva dedizione di Croce, la parte edita dell’opera del maestro avrebbe continuato, almeno per allora, fra Otto e Novecento, a essere messa in quiescenza nelle zone o del mito inattingibile, quello cioè del ‘genio’ non comunicabile ad altri del professor De Sanctis, o della distanza di una figura ‘superata’, come gli stessi allievi diretti, da Vittorio Imbriani a Pasquale Villari a Bonaventura Zumbini, avevano decretato e lasciato decretare ai rappresentanti del «Giornale storico della letteratura italiana». E invece, dall’esterno dell’accademia, Croce impose al dibattito culturale del suo tempo un pensiero vivo, messo ai margini dalla scuola storica e dal carduccianesimo (da Giosue Carducci, presentissimo nella scuola come ispettore e membro delle commissioni ministeriali della Pubblica Istruzione) e che ora rientrava in circolo con una rinnovata sigla. Prelevata da una solitudine inefficace, la parola desanctisiana divenne infatti tutt’insieme l’oggetto, lo strumento e l’insegna della battaglia intrapresa da Croce a favore del metodo estetico, dell’autonomia dell’arte, di un’idea organica di letteratura e insieme di storia nazionale nell’espressione letteraria. C’era in più da riprendere una ricerca antimetafisica, di vera storia, tutta versata nei «problemi particolari», e da rimettere in onore nello stesso tempo un grande modello intellettuale dal valore etico-politico, un uomo intero. Difatti De Sanctis critico estetico è giudicato da Croce uno dei «rari psicologi moralisti» posseduti dall’Italia:

Nessuno più di lui concepì ed eseguì la critica della poesia sotto l’aspetto rigorosamente estetico, prescindendo da ogni considerazione estranea; ma ciò non valse a mutarlo in una macchina estetica, in un estetizzante, insensibile a ogni altro interesse della vita (B. Croce, prefazione a F. De Sanctis, Saggio critico sul Petrarca, 1907, poi in Id., Una famiglia di patrioti ed altri saggi storici e critici, 1919; SFDS, p. 201).

La formula desanctisiana che connette strettamente la letteratura e la vita, l’arte e il bisogno di storia, viene assunta con energica persuasione dall’allievo. Il saggio del 1913 si situerà al centro della grande stagione di questa impegnativa operazione culturale e teorica, negli anni 1893-1920: dalla Storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte (1893) e dalla Critica letteraria. Questioni teoriche (1894) fino al volume collettaneo Una famiglia di patrioti, che mette insieme gli studi sulla famiglia dei Poerio-Imbriani e quelli dedicati a De Sanctis, e ai Primi saggi (1918): qui la prefazione, di grande interesse per gli studiosi, fa il punto del percorso della «vittoria sul partito avverso», cioè su storici e critici positivisti (p. XIV) ormai in una prospettiva di autostoricizzazione e di racconto in progress. Nel 1920, nell’Introduzione allo studio delle opere di Benedetto Croce firmata da Giovanni Castellano ma organizzata e ispirata, quando non redatta senz’altro, dallo stesso Croce (cfr. Taccuini di lavoro, 2° vol., 1917-1926, 1987, pp. 108-27; B. Croce, Lettere a Giovanni Castellano: 1908-1949, a cura di P. Fontana, 1985), nel capitolo intitolato “Il De Sanctis e il Croce” si riassumevano con efficacia didascalica i due punti chiave della relazione, una volta chiarito non poter essere Croce un nuovo De Sanctis perché «una personalità non si ripete, come non si ripete un’epoca storica […] poiché superflui sono i duplicati». E dunque: dapprima assodamento e difesa «degli acquisti compiuti dal De Sanctis nella teoria dell’arte e nella critica e storiografia dell’arte», e poi accentuazione di «un’aggiunta o svolgimento». La vera continuità e fedeltà implica sempre la correzione e l’adeguamento, non foss’altro che per il tempo trascorso nella storia del pensiero. Alle tracce di elementi rappresentativi e figurativi, ovvero della vecchia ‘imitazione della natura’, ancora presenti come residuo incombusto nell’idea desanctisiana di arte come forma, si faceva risalire la tentazione, da correggere e in realtà corretta da Croce, «di svolgere la serie degli artisti come rappresentatori di questo o quell’aspetto di una data materia, e perfezionatori di questa o quella rappresentazione particolare» (G. Castellano, Introduzione allo studio delle opere di Benedetto Croce. Note bibliografiche e critiche, 1920, pp. 225-26). Per Croce nel mondo dell’arte non c’è luogo alla continuazione di compiti, a «impiegati del destino», dal momento che l’antecedente dell’intuizione pura non è il reale (il contenuto, o il fantasma del contenuto) ma il puro sentimento mediatore, il suono per dir così del passaggio del reale nell’interiorità. Dopo questa soglia, continueranno con sempre intensa dedizione le indagini e la pubblicazione di materiali, di documenti, di lettere e lezioni, nonché la riflessione su questo o quel saggio – rilevantissima quella del 1924 sulla conferenza La scienza e la vita. Il discrimine, mobile e niente affatto assoluto, non irreversibile, è segnalato semmai dal fatto che la direzione del filosofo non sarà verso il «vero De Sanctis» (F. Tessitore, introduzione a SFDS, p. XXXVIII) quanto verso il proprio tempo attraverso il De Sanctis da lui ricostituito: che è un capitolo irrinunciabile del ‘vero Croce’.

Francesco De Sanctis: il saggio del 1913

Consacrato al critico-scrittore e al fondatore della prosa critica moderna («la sua prosa è veramente prosa, cioè la forma superiore dell’espressione umana», SFDS, p. 260), il saggio del marzo 1913 chiude nella sua linea essenziale il primo ciclo della «Critica» e la prima serie delle “Note sulla letteratura italiana nella seconda metà del secolo XIX”. Ai saggi polemici, ai ristabilimenti di verità circa i pretesi «errori» e la deplorata approssimazione storico-filologica del De Sanctis degli anni Novanta (La critica letteraria, 1894; Francesco De Sanctis e i suoi critici recenti, 1898), alla pubblicazione delle Lezioni, alle edizioni dei maggiori testi desanctisiani quali innanzi tutto il Saggio critico sul Petrarca (1907), la Storia della letteratura italiana (1912), e di quelli inediti o rari, a cominciare dalle lettere, nel 1912, faceva seguito la riflessione puntuale e stringente sul ‘caso’ De Sanctis (Giammattei 1987) in pagine tra le più belle e letterariamente dense di Croce, aderenti al genere del ritratto intellettuale. Non è irrilevante, in tal senso, che il numero seguente della rivista testimoniasse, da parte del filosofo napoletano, la volontà di volgersi dalla letteratura contemporanea alla storia: a partire dal fascicolo di maggio, egli faceva uscire, per tutto l’anno 1913, l’intera summa Intorno alla storia della storiografia. Nell’avvertenza Ai lettori nell’ultimo fascicolo del 1914 avrebbe dichiarato conclusa la prima serie della rivista, con il proposito di inaugurare un nuovo corso, sostanziato di studi storici, accompagnati di fatto dalle Ricerche e documenti desanctisiani, dalla pubblicazione delle lettere inedite, dei discorsi politici e delle lezioni. Il programma fu realizzato, con la consueta lena e regolarità, tra il 1913 e il 1917 (L’opera di Benedetto Croce. Bibliografia, 1964; cfr. SFDS). Inoltre, un’appendice dello studio su De Sanctis poteva ritenersi l’articolo La critica erudita e i suoi avversarii, del luglio 1913, ulteriore contrapposizione della linea De Sanctis-Croce contro «grammatici, giornalisti, estetizzanti» (La letteratura della nuova Italia, t. 3, 1915, p. 390).

Nel saggio si individuava la singolare temporalità dell’opera desanctisiana nel troppo tardi-troppo presto. Il concetto dell’inattualità veniva qui per la prima volta nettamente esplicitato, sebbene già adombrato nei precedenti contributi crociani sull’argomento. Solo se si tiene conto di questo processo, sintomatico intanto della frammentarietà della cultura napoletana (cfr. B. Croce, La vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1900, «La Critica», 1909-1910, poi in Id., La letteratura della nuova Italia, 4° vol., Appendice, 1915, pp. 233-319), incapace di sistema a fronte dello spessore innegabile delle sue elaborazioni, si può intendere il senso del saggio che Croce, dopo aver curato nel 1912 l’edizione laterziana della Storia della letteratura, dedica a De Sanctis, il significato profondo della temporalità controversa in cui lo situa: «Le opere del De Sanctis comparvero, non sappiamo se si debba dire troppo tardi o troppo presto»; e della mancata ricezione:

L’Italia non si accorse allora che nel suo seno e per opera di un suo figliuolo si era prodotto uno di quei rari rivolgimenti, che fanno epoca nella storia del pensiero: si era compiuta la crisi della critica letteraria (SFDS, p. 252).

Nel 1921, nella seconda edizione della Letteratura della nuova Italia, le modifiche: si era prodottosi veniva producendo e si era compiutasi compieva illustrano il senso di un tragitto aperto e non concluso, da De Sanctis a Croce, in direzione opposta ai «ritorni al De Sanctis» nel frattempo esibiti contro il suo massimo interprete ed editore (Giammattei 1987, p. 70).

Ciò che conta è che la centralità e l’egemonia desanctisiana, allora generalmente date per acquisite, risultano nel 1913, agli occhi di Croce, al contrario apparenti, di facciata, consumate nel rito del nome; con la medesima diffidenza egli valuterà sia le velenose dichiarazioni di Vittorio Cian sulla «mancanza di un successore» del critico irpino, in verità dirette contro di lui, Croce, sia appunto quei «ritorni al De Sanctis» di volta in volta decretati, tra il primo Novecento e gli anni Trenta, da Giuseppe Antonio Borgese, da Giovanni Gentile e persino dai rappresentanti del «Giornale storico», in realtà strenui avversari del metodo estetico ma ancor più della potente macchina concettuale di Croce.

In vista di queste pagine Croce aveva cominciato nel 1911 a «ripercorrere le opere del De Sanctis» (Taccuini di lavoro, 1° vol., 1906-1916, 1987, pp. 260 e segg.) insieme con quelle di Luigi Settembrini; e contestualmente preparava l’edizione delle Pagine sparse di Francesco De Sanctis – tra le quali la rara prefazione all’epistolario leopardiano, il primo gruppo di lettere – poi apparse sulla «Critica» lungo tutto il 1912. Nello stesso anno, 1911, usciva anche il libro su Giambattista Vico – l’altro maestro situato da lui in una sorta di «fuori tempo, ossia troppo presto» come «secolo decimonono in germe» che aveva trovato intorno a sé, tra i contemporanei, «il deserto e il silenzio» (La filosofia di Giambattista Vico, pp. 282-83). In questa duplice analoga considerazione della temporalità, appare operante, in corrispondenza con la riflessione teorica coeva che culmina con Teoria e storia della storiografia (1917), l’idea dinamica di storia in quanto riserva di storicità, di ‘messaggi’ che in ogni momento possono essere intesi e ripresi e dove nulla è demandato alla meccanicità del processo. Segnatamente, l’opera desanctisiana, frutto di una biografia eroica, dispersa tra le vicissitudini dell’azione patriottica, dell’esilio, dell’impegno politico, appariva tardi rispetto al reale itinerario del pensiero e dell’insegnamento del critico-professore, ormai nella stagione trionfante della critica della chiosa e delle fonti; ma troppo presto rispetto all’elaborazione reattiva contro il positivismo di Croce e Gentile, impegnati in un mutuo esaltante addestramento filosofico nell’ultimo decennio dell’Ottocento.

Il saggio possiede una complessa fisionomia di stratificata, conclusiva sintesi dei precedenti testi crociani intorno al suo oggetto privilegiato. Pochissimo ritoccato, nella Letteratura della nuova Italia, rispetto alla redazione apparsa sulla «Critica», lo studio, infatti, riprende concetti e puntuali sintagmi già bene sperimentati da Croce, ma ora in una dimensione opportunamente aggiornata. Per es., la definizione della Storia della letteratura italiana come «la sola storia intima che finora si abbia», era stata anticipata nel volume La critica letteraria: «E la sua Storia della letteratura italiana è una vera storia intima dell’Italia» (La critica letteraria, 18962, p. 113; SFDS, p. 62). In questo caso, la precisazione aggiuntiva riguarderà, nel testo del 1913, il carattere di «romanzo della vita dell’Italia» di quella fondamentale opera. E altresì l’opposizione grande/piccolo, che si affianca, nel saggio, a quella intimo/esteriore, circolava già, sia nella memoria su Francesco De Sanctis e i suoi critici più recenti (1898), sia nelle pagine di quel capitolo di Kulturgeschichte costituito dalla Vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1900 (1909). Dopo la morte di De Sanctis, «non si voleva più filosofia ma scienza – si legge infine nella Nota del 1913 – non storia in grande ma storia in piccolo (anzi non storia grande, ma storia piccola)». E la scrittura desanctisiana viene polemicamente contrapposta a «la piccola poesia e la piccola prosa» a essa contemporanea (pp. 360, 379; SFDS, pp. 251, 263).

In particolare l’individuazione della Storia della letteratura come «romanzo», rinvia a una questione essenziale, non sempre messa in rilievo. A questo proposito non si può infatti trascurare il posto che nella riflessione di De Sanctis e in un primo tempo, in misura problematica, anche di Croce, ebbe il modello di storia letteraria teorizzato e praticato da Friedrich Schlegel: la Geschichte der alten und neuen Literatur (1815) di Schlegel ebbe larga diffusione in Italia, e in particolare nell’ambito della cultura napoletana, la più disponibile e versata alla speculazione. Si tratta di un testo importante per De Sanctis, che lo conobbe nella traduzione del professor Francesco Ambrosoli e nella bella e maneggevole edizione napoletana della Tipografia della Sibilla, del 1834, sei anni dopo la prima edizione milanese. La seconda edizione di questo libro, presso il tipografo Marotta, ebbe tra le mani e postillò Benedetto Croce, il quale, nel 1907, negli appunti intitolati Memorie della mia vita, delineava, tra i progetti da realizzare, una Storia universale della letteratura antica e moderna «SINTETICISSIMA, sul tipo del libro di Federico Schlegel, ma fatta con criteri ed erudizione moderna» (Memorie della mia vita. Appunti che sono stati adoprati e sostituiti dal “Contributo alla critica di me stesso”, 1966, p. 34). Nel 1853, inoltre, in prigione a Castel dell’Ovo, De Sanctis aveva tradotto, insieme con la Wissenschaft der Logik (1812-1816) di Hegel, i primi due volumi dello Handbuch einer allgemeinen Geschichte der Poesie (1832-1833) di Johann Karl Friedrich Rosenkranz, «il solo, che abbia compresa la poesia nell’universalità della sua esplicazione, non ci essendo nazione o età che sia rimasa fuori del suo vasto ordito», pubblicati dalla Tipografia del Vaglio (cfr. B. Croce, Pagine sparse di Francesco De Sanctis. Il “Manifesto” per la traduzione del Rosenkranz (1852), «La Critica», 1912, 10, pp. 146-47). Nell’esilio torinese, l’anno dopo, traduceva sul «Cimento» le pagine dello storico Georg Gottfried Gervinus dedicate alla letteratura italiana, e ne discuteva in un numero seguente. È un interesse da valutare proprio in ragione dello sviluppo di taluni concetti portanti nella Storia della letteratura e del problema della storiografia letteraria affrontato da Croce. Nell’ambito dell’hegelismo critico viene verificato infatti, nel contatto con le prime grandi opere di storiografia letteraria, il paradosso della filosofia della storia, di assegnare al discorso estetico un posto modesto, ma di condensare nel concetto di totalità la «esthétisation secrète de la philosophie» (Witte 1990, p. 74).

Nasceva e si precisava nella riflessione e nelle applicazioni di questi intellettuali, che a vario titolo costeggiano il pensiero hegeliano, l’idea della storia letteraria nazionale: da Schlegel a Gervinus a Rosenkranz si affermava la funzione sociale della storia letteraria, percepita come contributo alla formazione dell’identità nazionale. In particolare per Schlegel, gli eventi della letteratura – cioè le opere – realizzano il compimento nel dominio estetico di un processo politico non ancora compiuto. Parallelamente la storia viene letta secondo i parametri dell’opera d’arte, in una totalità simbolica, e la dimensione politica è interpretata con categorie estetiche. Per De Sanctis si tratta di una sequenza di proposte teoriche e di modi di fare storia della letteratura che egli poté sentire come prossimi e omogenei, per il rapporto organico configurato fra cultura e processo unitario della nazione, laddove, negli articoli su Abel-François Villemain e su Jules Janin, espresse tempestivamente la dissimilazione rispetto al modello di critica delle ‘Belles lettres’, fondata sul gusto e sulla «bellezza di pensieri e di stile» (F. De Sanctis,Memorie storiche e letterarie di Villemain, in Id., Saggi critici, a cura di L. Russo, 1° vol., 19794, pp. 208-15; per gli interventi su Janin, pp. 168-90).

Nel recensire nel 1855 il primo volume della Geschichte des neunzehnten Jahrhunderts di Gervinus, c’è tutta la sua capacità di storicizzare e autostoricizzarsi in itinere, in relazione al tempo della scrittura. De Sanctis aveva buon gioco nel considerare spuntato l’anticlassicismo assoluto del critico a proposito di Vittorio Alfieri e Ugo Foscolo, dove il classicismo ‘politico’ andava invece attraversato e riconosciuto nelle peculiari declinazioni reattive. Ma invitava a fare la tara sul paradigma romantico della letteratura nazionale, da lui stesso condiviso:

Egli vuole una letteratura popolare cavata dall’intimo della nazione, e l’arte e la scienza in una compiuta indipendenza. Non ci è alcuno che non abbia oggi la stessa opinione: è il progresso del secolo. […] Un’epoca storica non va però giudicata col criterio presente. Le epoche sono momenti transitori, che non rispondono a nessun concetto assoluto. Verrà un tempo, che il concetto di umanità sarà sostituito a quello di nazionalità; né però gli storici futuri avranno il diritto di censurare il movimento nazionale odierno (F. De Sanctis, Giudizio del Gervinus sopra Alfieri e Foscolo, in Id., Saggi critici, cit., pp. 225-26; nostro il corsivo).

La questione del rapporto di identità e sovrapposizione delle due rubriche, dell’estetico e del politico, della storia della letteratura e della storia della nazione, è assai chiaro a De Sanctis, nel momento stesso in cui adopera e si accinge ad adoperare, in chiave storicistica e autostoricistica, quel modello storiografico. Croce, assiduo lettore dei Saggi critici sin dal 1880, conosceva bene questa pagina. In una lettera a Gentile del 1897, riprendendo le fila intrecciate del discorso sul materialismo storico, sulla filosofia della storia e sulla storia della letteratura orientata verso l’idea di nazione, esortava l’interlocutore a intendere il carattere militante dell’ipotesi del progresso come ‘azione teorica’, da contestualizzare nei processi storico-politici:

Se nel 1848 un patriota italiano avesse detto: la filosofia della storia ci mena a considerare come necessaria l’unità italiana; la scienza è con noi, ed è contro i retrivi; ecc., – avrebbe avuto torto? (B. Croce, G. Gentile, Carteggio, 1° vol., 1896-1900, a cura di C. Cassani, C. Castellani, introduzione di G. Sasso, 2014, p. 38).

Con l’avvento del positivismo, il gran libro di De Sanctis sarebbe stato giudicato come «opera d’arte», non di scienza, ma esso poneva invece problemi teorici circa il rapporto tra l’arte e la storia, nonché tra filosofia dell’arte e materialismo storico, che Croce riprende e ripensa e che sono alle origini della sua avventura intellettuale.

Il saggio del 1913 risulta in questa prospettiva un momento significativo. Nell’illustrare l’itinerario del suo maestro, nelle movenze stesse del ritratto improntato ai toni di un epos commosso e all’espressività del crescendo, sono ormai accertati, per Croce, il significato sentimentale (Savarese 1967) e il laborioso privilegio di un’eredità e continuità nello svolgimento del potenziale teorico. C’è il superamento dell’idealismo astratto e insieme l’esigenza, «ito in frantumi il sistema», di non dimenticare Hegel, «formola del pensiero moderno» (B. Croce, Come Hegel fosse ben conosciuto in Italia. Quel che ne pensò il De Sanctis, «La Critica», 1942, 40, pp. 174-76, poi in Id., Pagine sparse, 3° vol., Postille, osservazioni su libri nuovi, 1943; SFDS, pp. 545-46); e c’è l’estetica applicata, la capacità di lettura dell’opera d’arte come forma vivente, come individualità organica, eppure connessa profondamente ai «bisogni della vita», alla mutabilità perenne di questa. Ebbene, questi nuclei problematici vengono rivissuti e innervati entro l’itinerario gnoseologico di una mente diversamente orientata, polemica e strategica, dotata della disciplina logica fornitale prima, al liceo, da un «tomistico insegnante di filosofia», Giuseppe Prisco, e poi all’università dalle lezioni dell’«antipositivista ed antievoluzionista e acuto concettualista» Antonio Labriola (prefazione a Primi saggi, cit., p. 10). Subito dopo, dal riconoscimento del suo «nume tutelare» (Ai lettori, «La Critica», 1914, 12), spesso indicato come «Padre», l’allievo aveva preso quindi l’abbrivo determinante, ma per approdare con costruzione progressiva al tema centrale suo proprio: «che cosa sia il fare storiografico» (Contini 1967, p. 74). Con conseguenze rilevanti che costituiscono un articolato capitolo di storia della critica e della filosofia, dall’ultimo Ottocento al primo Novecento fino alla metà del 20° sec., che ora gli studiosi possono considerare nel suo complesso grazie ai tomi, a cura di Teodoro Tagliaferri e Fulvio Tessitore, che compongono la massima parte delle pagine di Croce sul suo maestro ideale (cfr. l’introduzione di F. Tessitore, pp. XIII e segg., e la Nota ai testi di T. Tagliaferri, pp. XLIX e segg. in SFDS). Da questa summa appare agevolmente verificabile che il rapporto Croce-De Sanctis costituisce per lo stesso Croce un tema di discussione e di polemica, che accompagna il ripensamento diretto, la ripresa, la correzione e insieme l’adesione per tutta la vita (Savarese 1994). Agisce, anche in questo ambito, la tensione autostoricizzante e dunque metateorica, che è forse l’insegnamento metodologico primario appreso dal maestro.

La diacronia dei contesti polemici, il variare dei fronti, determinano in parte le varie fasi e stagioni del rapporto del filosofo rispetto al suo auctor, le soglie di una riflessione omogenea nella fedeltà, continua nel tempo, ma niente affatto statica, e ricchissima di sfumature. Alla battaglia antipositivistica degli anni Novanta, che mentre contrasta Emilio Bertana, Rodolfo Renier e Alessandro D’Ancona, strappa l’insegna del maestro ai cattivi o immemori allievi (Zumbini, Villari), subentrano nel primo Novecento le risposte a coloro i quali, come Cian, come Giovanni Papini, contestavano a Croce il titolo di «successore» di De Sanctis. Già nella postilla del 1910 Ancora del «metodo critico» il contesto è cambiato. Il nuovo generale interesse per l’autore dei Saggi critici è diretto soprattutto contro il suo maggiore esegeta, il quale dovrà puntualizzare reattivamente:

Anche contro il De Sanctis (al quale si vanno prodigando ora, in odio mio, finte dimostrazioni di riverenza) si fece valere, per anni e anni, che era un “filosofante”, un “teorizzante”, un “sistematico”, uno spirito perso dietro le “astrattezze” e le “formule”. Chi credono, dunque, d’illudere, i miei cari avversarii col richiamare il gran nome di lui? Quella del De Sanctis, critico insopportabile, è storia finita appena ieri; e io la rammento bene, perché, a farla finire, pars magna fui (Pagine sparse, 1° vol., cit., pp. 112-14).

Dopo, negli anni Trenta, seguirà da parte di Gentile, di Borgese, e persino degli antichi avversari del metodo estetico, i professori del «Giornale storico», la conclamata Necessità di “tornare al De Sanctis” («La Critica», 1932, 30, 6, poi in Pagine sparse, 3° vol., cit.; SFDS, p. 518), con ritorni all’indietro proposti da differenti versanti ideologici, comunque in chiave di dissimilazione da Croce e dal ‘De Sanctis di Croce’. La riflessione sul lascito teorico di De Sanctis non va scissa dunque dalla dimensione dialogica e polemica. Per queste continue riprese e immissioni del ‘suo’ De Sanctis nel dibattito culturale attuale, di volta in volta riorientate e adeguate all’orizzonte degli interlocutori, Carlo Dionisotti nel 1946 avrebbe potuto additare una «teocrazia desanctisiana» della Storia della letteratura italiana passata grazie a Croce come «tavola della legge» (C. Dionisotti, Postilla a una «lettera scarlatta», in Id., Geografia e storia della letteratura italiana, 1967, pp. 19-20). E Contini nello stesso anno – un anno spartiacque nell’ambito della storia qui considerata – nell’introduzione all’opera desanctisiana riconosceva nel mito e nel dogma scolastico intitolati a De Sanctis il fatale «deposito divulgativo di un’interpretazione celebre» (Contini 1949, p. 3; Id. 1970, p. 499), e la ragione conseguente della difficoltà a parlare con animo oggettivo della figura del critico irpino e della forma in sé e per sé del suo pensiero. L’opera desanctisiana non appariva facilmente separabile dall’impronta del suo primo editore, promotore ed esegeta; e solo dopo l’edizione einaudiana e l’approccio filologico alle carte del critico irpino si è cominciato a intravedere, insieme alle «ragioni del testo», una modalità di storicizzazione non puramente contrappositiva (che è poi un modo opposto e speculare di dipendenza dall’avversario). Certamente, come ebbe a notare Gennaro Savarese, l’esigenza di una ricostruzione del «De Sanctis in sé, cioè nei suoi problemi e nei suoi tempi», si incrociò sin dall’inizio con l’evoluzione mentale del filosofo stesso, il quale negli anni Ottanta-Novanta dell’Ottocento «era profondamente immerso nella comprensione del “mondo degli uomini”, delle forme storiche fondamentali della prassi» (Savarese 1967, p. 163). E peraltro ebbe ragione Vittorio De Caprariis (1955), nell’ambito del pensiero laico di derivazione crociana, quando osservò che per risalire al «vero» De Sanctis occorreva fare i conti con la guida pionieristica di quegli studi, anche per poi rifiutarla.

La figura di De Sanctis e l’autobiografismo crociano

Bisogna dunque necessariamente tenere conto dell’«intrinseca complessità del problema» che appare evidentissima già nella quantificazione bibliografica, vale a dire nelle centinaia di pagine degli scritti di Croce dedicati a De Sanctis, dal 1882 al 1952, senza contare, come giustamente è stato osservato, «le citazioni o le intere pagine di altre sue opere» dove la presenza di De Sanctis coincide con i luoghi nevralgici dell’argomentazione (F. Tessitore, introduzione a SFDS, p. XIII). E Contini da parte sua aveva appunto sottolineato la continuità e densità eccezionale di questo interesse, il valore di una «fedeltà durata settant’anni giusti, in una vita nella quale, meno per la lunghezza che per l’intensità, la Natura, data la posta in gioco, parve aver superato se stessa» (Contini 1953, 1972, p. 71). Per fare bene intendere il valore perentorio di questa fedeltà, vale la pena citare lo stesso Croce nella prefazione all’edizione da lui curata nel 1907 del Saggio critico sul Petrarca che tanti avversari e non intendenti aveva trovati, vivo l’autore. Pur essendo impegnato in altri lavori, spiegava il filosofo, non aveva saputo dire di no all’editore Morano, il quale gli chiedeva di curare la ristampa di quel saggio importante ma rimasto lettera morta. E con questa dichiarazione:

Il nome di Francesco De Sanctis, di un uomo dal quale sento di aver molto imparato, suona sempre per me con così “affettuoso grido” che non potrò mai resistere al suo appello, finché avrò vita. E (chi sa?) anche dopo morto, se alcuno l’offenda, io salterò fuori dalla fossa, den Kaiser, den Kaiser zu schützen! (SFDS, p. 202).

Dove il prelievo dell’immagine heiniana del granatiere che balza dalla tomba per difendere il suo imperatore, Napoleone ormai sconfitto, restituisce in pieno il significato militante e animoso dell’opera ravvivatrice condotta da Croce. Nella medesima prefazione, il critico sottolineava la necessità dell’atteggiamento polemico nel rivendicare la validità del pensiero storico-critico del maestro, a fronte della mitezza di De Sanctis:

Il De Sanctis non amava molto le polemiche dirette e personali; il che non so fino a qual punto fosse poi un bene. Certo, egli ci ha lasciato, per questo riguardo, una poco piacevole eredità: quelle polemiche dirette, da cui il De Sanctis rifuggì, le abbiamo poi dovute far noi, suoi epigoni; giacché le sue, indirette, impersonali o allusive, non solo non vennero comprese nel loro vero senso, ma non furono neppure avvertite (SFDS, p. 202).

Ecco, il dispiegamento delle idee desanctisiane, nell’ambito dell’estetica e della storiografia, risulta in passaggi siffatti secondo una linea diretta di trasmissione. Croce eredita e prende su di sé le battaglie, contro Villari, contro Ruggiero Bonghi, contro Carducci, che erano state eluse da De Sanctis, anche perché ora, tra Otto e Novecento, egli sa precostituire, insieme con Gentile, un fronte d’azione contro il positivismo e la scuola storica; laddove la solitudine di De Sanctis nel proprio tempo, anche all’interno del gruppo intellettuale di provenienza, degli hegeliani, da Bertrando Spaventa a Imbriani ad Angelo Camillo De Meis, è forse il dato più significativo, attestato dal romanzo di quest’ultimo Dopo la laurea, del 1868, dove il professore per antonomasia viene ritratto nel personaggio, soggetto a lunghi sonni, di Epimenide. Bisogna considerare la serie cospicua di limitazioni e sottovalutazioni provenienti dai suoi stessi amici e allievi, da Villari a Diomede Marvasi allo stesso De Meis, per non parlare di Imbriani, divenuto presto fervente avversario dell’antico maestro, o di Spaventa il quale, in privato, con degnazione di filosofo giudicava da «gazzettiere» o da romanziere d’appendice le prove del critico (la conferenza del 1872 La scienza e la vita viene paragonata a una «Notte di Natale, piena di botti»; Imbriani legge la Storia della letteratura come un «romanzo alla Dumas padre», cfr. Carteggi di Vittorio Imbriani, a cura di N. Coppola, 3 voll., 1963-1965). L’argomento ricorrente e conclusivo era però di quelli davvero difficili da controbattere, perché prendeva le forme dell’elogio iperbolico: essere De Sanctis artista e non critico, il suo metodo essere legato al genio personale, quasi divinatorio e quindi non trasmissibile, storicamente improduttivo. «Lui sparito ne siamo ora a quel di prima» sintetizzava la Commemorazione in onore di Francesco De Sanctis, di De Meis, nel 1884.

E dunque la cattiva ricezione sincronica del pensiero desanctisiano ha origine e prende forza all’interno della cultura napoletana che lo aveva espresso. Emerge la sostanziale incomprensione, da parte del gruppo elitario degli ideologues napoletani, del modello di prosa democratica adottato da De Sanctis, oggettivazione stilistica di un nuovo modo di intendere la funzione dell’intellettuale (cfr. Giammattei 1987, pp. 67-68; Ead., Il romanzo di Napoli. Geografia e storia letteraria nei secoli XIX e XX, 2003, pp. 58-70). Quando nel paesaggio nazionale si leva l’astro di Carducci, si formerà tra aule universitarie, scuole del Regno d’Italia, giornali, ministero della Pubblica Istruzione con le commissioni per la scelta dei libri di testo, un modello invece saldo e coeso che diverrà l’asse resistente della cultura italiana, dove la Storia della letteratura italiana del critico irpino non troverà posto (B. Londero, Giosue Carducci e i problemi della scuola secondaria classica, 1998). Quel testo ritornerà molto più tardi, ma, come si evince dalle reattive pagine di Dionisotti, con l’aura di un’esercitata teocrazia, sovrapposta, di fatto, all’altra teocrazia più urticante perché più recente, di colui che si era presentato come il «successore» di De Sanctis.

Nel 1953, Flora, tenendo conto di questo «lungo sonno» e della sfortuna critica di De Sanctis prima dell’intervento crociano, avrebbe connesso strettamente le due figure sotto il segno dello storicismo:

non v’è in Italia né fuori, una tradizione di cultura in cui il De Sanctis possa essere inteso e collocato nella sua sfera storica, se non è lo storicismo o umanismo assoluto di Benedetto Croce (Flora 1953, p. 228).

Se è da oggettivare e limitare la posizione di un critico quale Flora, ben dentro la tradizione del crocianesimo, si deve altresì riflettere sulle opposte risultanze che hanno portato nella storiografia della critica e della filosofia anche recente, alla netta e poco storicistica separazione dei profili di De Sanctis e di Croce: ci sono capitoli di storia della critica dedicati al primo dove non compare, neppure come problema, la storia del viaggio testuale tramite le edizioni e ristampe crociane, né emerge il valore determinante della lettura crociana, generatrice anche dei contrappositivi ‘ritorni al De Sanctis’ giocati in senso anticrociano. E, fatto ancora più singolare, sono stati pubblicati libri e saggi generali sul pensiero crociano, senza De Sanctis, evidentemente confinato nei limiti della critica letteraria (cfr. F. Tessitore, introduzione a SFDS). Giova ricordare che nel sistema culturale, nel processo della ricezione, la «creazione del precursore» modifica la nostra concezione del passato e, nella fattispecie, del «vero De Sanctis» in virtù dei nessi inediti generati dall’opera dello scrittore venuto dopo (M. Corti, Principi della comunicazione letteraria, 1976, pp. 15-16).

Da questo punto di vista si potrebbe osservare, di rincalzo, che il principio della contemporaneità storiografica del passato aveva indotto Croce – in uno dei paradossi a lui cari e che in quanto tali portano al limite il ragionamento – a rovesciare risolutamente i termini della temporalità cronologica e quindi il concetto stesso di influenza e di discendenza, quando citava il pensiero di Alfred de Vigny a proposito degli antecedenti o predecessori: «si j’écris leur histoire ils déscendront de moi» (B. Croce, Opere di poesia sotto il segno di…, «La Critica», 1936, 34, p. 319, poi in Id., Pagine sparse, 3° vol., cit., p. 80).

Rimane significativa, ai fini della comprensione dell’interprete e dell’interpretato, la continuità del filo che Croce intesse intorno al suo autore, tale da intrecciarsi in modo organico con l’opera medesima del filosofo, scandita lungo settant’anni dal pensiero e dalla figura morale e politica del maestro non conosciuto di persona – a differenza di Imbriani, di Antonio Tari e di Labriola –, e presto proiettato nella luce ideale di un’immagine intravista per le antiche vie dell’università. La temperie culturale e l’habitat circoscritto della prima formazione crociana permettono il contatto con gli ultimi rappresentanti di quello che era stato ancora il mondo di Francesco De Sanctis. La giovanile lettura dei Saggi e della Storia della letteratura italiana tra il 1880 e il 1882 e i precoci esperimenti critici del brillante scolaro liceale, ricondotti nella memoria del protagonista al prestito dei Saggi critici da parte di un «compagno calabrese» (SFDS, p. 575), appaiono congruenti con la presenza tra i professori del collegio La Carità di figure di sopravvissuti: il vecchio Leopoldo Rodinò, allievo di Basilio Puoti e collaboratore intorno al 1840 di De Sanctis per una Grammatica italiana non condotta a termine, onesto vocabolarista (cfr. L. Rodinò, Repertorio per la lingua italiana di voci o non buone o mal adoperate, a cura di E. Giammattei, 1996), e il devoto compagno di De Sanctis, Ferdinando Flores, depositario di manoscritti desanctisiani come l’autografo del poemetto La prigione e la traduzione a quadri sinottici dei primi due libri della Logica di Hegel e curatore della traduzione di De Sanctis dei primi due volumi del Manuale di una storia generale della poesia di Rosenkranz (1853). In quel vecchio mondo che si trovava, anche per ragioni generazionali, ai margini del positivismo trionfante nei «palagi delle accademie», Croce riconosce e presagisce una verità nuova, ancora tutta da svolgere, e invece rimossa e sepolta o comunque sottovalutata nel suo potenziale teorico (Galasso 1990). L’interesse per la critica letteraria si affianca inizialmente – aderendo alla temperie culturale degli anni Ottanta – all’attrazione esercitata sul giovanissimo alunno del liceo dal Carducci poeta e giornalista d’eccezione nel suo momento di maggior consenso nazionale, attestato dalla collaborazione al «Fanfulla della domenica». E c’è già la passione per la storia, «il cuore nel cuore» (B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, a cura di G. Galasso, 1989, p. 16). Sotto questa molteplice spinta, il patrocinio ideale della figura di De Sanctis, in certa misura più antica, innesca, dopo le prove necessarie e propedeutiche dell’erudizione, un processo mentale irresistibile. Il punto di partenza è la letteratura e l’estetica: questo speciale abbrivo condiziona e determina ogni grado della riflessione posteriore (p. 54). Si è scritto, anche di recente, di un «uso tendenzioso» da parte di Croce dell’opera del maestro irpino, in particolare del modello di storia letteraria (Antonelli 2011). In verità, la questione tocca ragioni più profonde, attinenti all’identità stessa del filosofo. Converrà appena accenare qualche osservazione, tenendo conto dell’edizione degli scritti crociani su De Sanctis che consente analisi diacroniche puntuali di un itinerario complesso, ricco di sfumature e di riformulazioni. La lunga fedeltà attestata dalle pagine di Croce consacrate all’auctor per eccellenza suo risulta spesso, nei passaggi di carattere più densamente autobiografico, nei termini di un’identificazione, ora suggerita ora negata («certo, io non sono il De Sanctis, né la pretendo al De Sanctis», aveva detto nell’intervista del 1908), o nell’immagine di un passaggio di testimonio che si gioca tra la terza e la prima persona:

È da correggere il De Sanctis nei vari punti che abbiamo toccato? Se mai si tratterà di correggere il De Sanctis col De Sanctis, cioè di sviluppare meglio i suoi stessi pensieri. E, se mi si consente di accennare per un istante all’opera mia, vorrei dire che questo per l’appunto io ho tentato: 1°) col delineare un’idea di storia letteraria, nella quale sia possibile il più completo rispetto dell’individualità degli artisti, e il progresso venga presentato come quello generale dello spirito umano, che si riflette nell’arte, e non già come progresso di arte da un artista all’altro; 2°) col proporre e mettere in atto, rigorosamente e scrupolosamente (e persino, se così piace, pedantescamente), una critica d’arte affatto libera da ogni interferenza di giudizi circa il valore logico o morale dell’astratto contenuto (il De Sanctis, da quell’Ercole che egli era, aveva lavato le stalle d’Augia della critica, e io, da modesto igienista, vi ho eseguito un supplementare, ahi quanto fastidioso!, lavaggio, e una diligente disinfezione col sublimato); 3°) infine (e questo mi attribuisco a maggior merito, posto che merito ci sia), col far valere praticamente, e formolare teoricamente, e dedurre filosoficamente, il carattere lirico dell’arte, interpetrando l’alquanto vago concetto desanctisiano della “forma” come intuizione pura, e questa, a sua volta, come intuizione lirica (B. Croce, Per la storia del pensiero di Francesco De Sanctis, «Atti dell’Accademia pontaniana», 1912, 7, p. 19, poi con il titolo De Sanctis e l’hegelismo in Id., Saggio sullo Hegel, seguito da altri scritti di storia della filosofia, 1913, 2006; SFDS, p. 220).

È un passo che si cita integralmente per la sua rilevanza di sintesi, e per il ruolo che vi assume Croce, nel rivendicare «l’opera mia» sia pure all’insegna di un sermo humilis che egli adotta solo al cospetto del maestro. Ancora nel 1952, il coraggio di correggere De Sanctis negando generi e scuole, concetti operativi nelle lezioni napoletane, lo aveva reso – si legge nella nota De Sanctis e Taine – «più veramente De Sanctis del De Sanctis» (SFDS, p. 574).

Le attestazioni di questo raddoppiamento onomastico, ovvero di questa sdoppiata unità, già discusse da Savarese (a proposito dei binomi padre-figlio, predecessore-successore: Savarese 1994) rinviano a un costante tema di riflessione da parte del filosofo. Nel Contributo alla critica di me stesso l’immagine di una continuità così intima, come appunto di padre e figlio, prenderà i tratti paradossali di Croce giovane-vecchio, che corrisponde pienamente all’idea che egli aveva proposto del tempus desanctisiano, troppo tardi-troppo presto e dei libri del maestro: «vecchi oramai di mezzo secolo e così giovani ora per il nostro popolo» (Francesco De Sanctis e il pensiero tedesco, «Giornale d’Italia», 8 giugno 1912, poi in SFDS, p. 248). Si legge infatti dell’incontro adolescenziale con il pensiero di De Sanctis:

Ma se allora io avessi compreso a pieno il pensiero del De Sanctis, possedendolo nella sua idea fondamentale e in ogni particolare giudizio [...] sarei stato un mostro di natura, un ragazzo vecchio, o addirittura il De Sanctis medesimo, cangiato di vecchio in adolescente.

Agisce, nell’autoritratto, l’aura di una comune malinconia, di ascendenza hegeliana pur nell’ascosa radice biografica dell’orfano («Una malinconia che sentì profondamente anche l’Hegel» aveva scritto nella discussione con Gentile Intorno all’idealismo attuale, «La Voce», 1913, poi in Id., Conversazioni critiche, serie I, 1918, pp. 67-95).

È il 1915. Non sono inutili, a nostro avviso, i rinvii alla dimensione familiare e affettiva del rapporto con De Sanctis, già messa in luce dagli interpreti, che implica la comunanza di memorie e di luoghi condensata in Un angolo di Napoli (1912) e in tale modo la realizzazione mentale di una «gelosa primogenitura» (Savarese 1994) che dovette, per es., spiacere segretamente, già nei primi anni della loro amicizia, a Gentile, anche lui estimatore e ottimo conoscitore dell’opera e delle carte inedite del grande dimenticato. Né è superfluo ricordare che è Gentile a mettere l’amico sulle tracce del fondo di preziosi documenti conservato dalla famiglia De Meis (cfr. B. Croce, G. Gentile, Carteggio, 1° vol., cit., pp. 102-03); e che, nel 1922, si farà lui stesso editore di De Sanctis pubblicando per Laterza il volume intitolato Manzoni. Studi e lezioni con materiali in parte «dal Croce già tralasciati, e rimasti perciò inediti» (prefazione, pp. V-VI).

È nello stesso tempo da sottolineare il valore di un autobiografismo ognora trasceso (Savarese 1994), cioè attento all’esemplarità, già storicamente atteggiata, di questo o quel dato della propria biografia, dalla quale si espunge ciò che non pertiene alla storia del pensiero.

La questione terminologica

Rimane innegabile che l’allievo continui per tutta la vita a ‘tornare’, lui sì davvero, a De Sanctis, così come gli accadrà per analoghe ma più potenti ragioni teoretiche di ‘tornare’ a Hegel, suo eterno «amore e cruccio». E De Sanctis e Hegel torneranno insieme, benevoli revenants, in una notte d’insonnia, in Una pagina sconosciuta degli ultimi mesi della vita di Hegel («Quaderni della “Critica”», 1949, 5, 13, pp. 1-19, poi in Id., Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, 1952, 1998). È lo straordinario «ghiribizzo», novella o rêverie, dove De Sanctis, nella parte del giovane napoletano Francesco Sanseverino, dialoga, in un fantastico «fuori tempo», con l’autore della Phänomenologie des Geistes, come «colui che più acutamente vide i difetti pei quali il sistema di Hegel sarebbe caduto in pezzi, e insieme ne affermò ed esaltò i concetti che appartengono al presente e all’avvenire» (B. Croce, A proposito del dialogo con Hegel, «Giornale d’Italia», 19 marzo 1949, poi in Id., Terze pagine sparse, 2° vol., 1955, pp. 273-74). In un gioco di riverberi e allusioni, veniva rappresentata l’altra relazione, speculare a quella instaurata del Croce stesso rispetto a De Sanctis (Sasso 1975; Sasso 1994).

Certamente il prelievo del tesoro intellettuale desanctisiano possedeva un’attrattiva assai forte proprio in quanto si trattava di un pensiero ‘aperto’ e non chiuso nella forma del trattato, filosofia di fatto e non di nome, viva nelle applicazioni. Questa appunto abbisognava – come già osservò Contini – di un’«integrazione teoretica e sistematica» (Contini 1953, 1972, p. 73) e, si può aggiungere, di una stabile nomenclatura teorica, necessaria prima alla battaglia antipositivistica e poi nel primo Novecento alla difesa della teoria estetica dagli attacchi e dai fraintendimenti.

L’aggiustamento concettuale e terminologico è una costante, secondo un movimento che Croce sintetizzerà nel 1951, a proposito del significato di forma:

Riconoscere quella forma come intuizione, potenza conoscitiva del tutto distinta dalla Logica e di necessità suo antecedente, era ciò che si prestava facile a chi ai problemi del De Sanctis si accostava movendo da una passione e continuità filosofica maggiore di quanto egli avesse posseduto, e mirava ad assicurare il frutto dell’opera sua (B. Croce, Il posto del De Sanctis nella storia della critica d’arte, «Letterature moderne», 1951, 2, pp. 481-85, poi in Id., Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, cit.; SFDS, p. 437).

Negli anni in cui Croce inaugura questa pratica denominatrice, di perenne precisazione, a partire dall’estetica applicata di De Sanctis, egli non era né poteva essere inteso dai vecchi allievi del professore. Recensendo sull’«Opinione liberale» i due saggi La critica letteraria e La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, Francesco Torraca lodava genericamente la grande cultura del giovane critico, ma poi non poteva fare a meno di eccepire lo sfoggio di citazioni e l’eccesso di calore polemico: «Metteva conto – chiedeva – di spendere tanta fatica in dispute di questa specie? A tanta dottrina, a tanto lavoro mentale, corrisponde il risultato che si riduce, in sostanza, a una definizione?» (Arte, storia e metodo storico, «L’opinione liberale», 24 e 25 gennaio 1896, poi in Carteggio fra Benedetto Croce e Francesco Torraca, cit., tav. XXV; nostro il corsivo). È stato invece opportunamente osservato che il problema delle scelte linguistiche, di una prosa conveniente ai temi filosofici è «questione formativa essenziale» (Lolli 2001, pp. 24-27) che viene affrontata a ridosso della sistemazione, da parte di Croce, del pensiero desanctisiano. All’esortazione di Labriola a riprendere il «galvanismo fraseologico» del grande critico irpino (A. Labriola, Lettere a Benedetto Croce. 1885-1904, 1975, p. 10) per costruirsi una nuova estetica fondata sull’organicità dell’opera d’arte, corrisponde la realizzazione di una macchina concettuale governabile, di uno strumento agevole, anche ai fini della polemica, grazie alla leggibilità e stabilità delle definizioni. Da qui discende, del resto, la scelta del sistema in quanto forma letteraria cioè retorica nell’accezione più estesa: «l’amore pel sistema o per la forma letteraria del sistema […] dopo un pezzo che non se ne scrivevano più, almeno in Italia […] e sfidando il ridicolo dell’impresa» (B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, 1996, p. 200; nostro il corsivo). Agli occhi di Croce, intellettuale quanto mai avvertito sulla questione del consenso, e sensibile all’organizzazione della comunicazione, «l’incertezza della terminologia» era stato uno dei fattori, e non irrilevante, della sottovalutazione del magistero di De Sanctis («In queste formule – si legge nella Critica letteraria – è il vero pensiero animatore del De Sanctis come critico d’arte. Ma, d’altra parte, non mancano confusioni di parole», SFDS, p. 115). Le correzioni servono intanto a «prevenire» le reazioni scandalizzate degli eruditi: così per es. nella prefazione alle lezioni raccolte da Torraca (F. De Sanctis, La letteratura italiana nel secolo XIX. Scuola liberale – Scuola democratica, 1897, poi in SFDS, p. 117). Qui, di contro, Croce deve rilevare la concretezza e solidità delle «esposizioni storiche» contenute nelle Lezioni, dove il criterio distintivo risultava eminentemente politico, nei termini di liberale e di democratico applicati alla letteratura. Tanto da aggiungere:

Quell’indirizzo che ora si chiama (lascio stare se bene o male) del materialismo storico, e che consiste nel concepire i fatti della storia nella loro genesi e sviluppo dai più semplici elementi materiali, ha spesso, nel De Sanctis, un rappresentante non dottrinario. E ciò sembrerà naturale quando si pensi che quell’indirizzo è nato dalla suggestione dell’esperienza storica, e non può non avere precursori e rappresentanti in tutti gli storici dallo sguardo acuto, dalle vedute realistiche, e messi in condizioni da poter bene osservare (p. 113).

È il periodo che registra la compresenza, sul tavolo di Croce, di De Sanctis e di Labriola, come emerge con evidenza dal serrato dialogo con Gentile. In ogni caso, la necessità della correzione a De Sanctis, il quale mette ognora a rischio nelle singole analisi «le categorie prestabilite», viene sempre sottolineata. Nell’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902), nel capitolo dedicato all’unico rappresentante in Italia di un’autentica ricerca di filosofia dell’arte, egli afferma che il De Sanctis estetico non è pari al critico e allo storico della letteratura; che

la forma, le forme, il contenuto, il vivente, il bello, il bello naturale, il brutto, l’immaginazione, il sentimento, la fantasia, il reale, l’ideale, e tutti gli altri termini che egli adopera con vario significato, richiedono una scienza su cui si appoggino e da cui derivino (Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, a cura di G. Galasso, 1990, p. 471; SFDS, p. 181).

Pure, il centro teorico è costituito da una densa citazione dal Saggio critico sul Petrarca che Croce sottoscrive come propria, integralmente inclusa nella pagina. Qui forma e caos originario si fronteggiano. Insieme con De Sanctis Croce sa bene che la storia del Caos possiede il suo fascino, che «anche l’arte ha il suo mondo anteriore: anche l’arte ha la sua geologia» (Estetica, cit., pp. 466-67; SFDS, p. 179): è l’inespresso, il magmatico, il «barbaglio di luci e colori» che ciascuno conserva in se stesso, come memoria ontogenetica. L’estetica appare

quando apparisce la forma, nella quale quel mondo è calato, fuso, dimenticato e perduto. La forma è sé medesima, come l’individuo è se stesso; e non ci è teoria tanto distruttiva dell’arte quanto quel continuo riempirci gli orecchi del bello, manifestazione, veste, luce, velo del vero o dell’idea (Estetica, cit., pp. 466-67; SFDS, p. 179).

È un passo dove il riconoscimento della verità dell’arte – come forma e non come espressione di qualche cosa di antecedente – si fa pathos, in un crescendo di evidenza drammatica:

Il mondo estetico – ripete Croce con il suo De Sanctis – non è parvenza, ma è sostanza, anzi è esso la sostanza, il vivente: i suoi criteri, la sua ragion d’essere non è in altro che in questo solo motto: io vivo (Estetica, cit., pp. 466-67; cfr. la postfazione del curatore, pp. 675-77).

E quindi l’imprecisione delle definizioni, la manchevolezza «nell’analisi, nell’ordine, nel sistema» appaiono ampiamente compensate «dal contatto continuo in cui egli tiene il lettore con le opere d’arte reali e concrete, e del sentimento del vero che mai non l’abbandona» (Estetica, cit., p. 471; SFDS, p. 181). Per concludere con l’affermazione della vitalità dell’opera aperta, di quel metodo estraneo alle formule dell’imparaticcio hegeliano e dell’idealismo astratto: «Pensiero vivo, che si rivolge a uomini vivi, disposti a elaborarlo e a continuarlo» (Estetica, cit., p. 471; SFDS, p. 181). Tanto è vero che nell’Aesthetica in nuce (1929) si ritroverà De Sanctis insieme non già con i filosofi di professione, ma fra i critici di poesia e d’arte, come Charles Baudelaire, Gustave Flaubert, Walter Horatio Pater – «Essi solo veramente consolano delle trivialità estetiche dei filosofi positivisti e della faticosa vacuità dei cosiddetti idealisti» (Filosofia. Poesia. Storia, 1952, a cura di G. Galasso, 1996, p. 294) –. Vent’anni dopo, nel saggio conclusivo del 1951 Il posto del De Sanctis nella storia della critica d’arte riassumeva:

Che cosa è la forma estetica? È necessario darle il suo nome. E questo nome è stato dato non dal De Sanctis, ma da un suo successore nel lavoro della critica, che l’ha chiamata l’“intuizione” e con ciò l’ha distinta da tutte le altre forme dello spirito. L’indeterminatezza di questa “forma” non altrimenti qualificata produsse nel De Sanctis molteplici errori […] (Il posto del De Sanctis nella storia della critica d’arte, in Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, cit., pp. 219-20; SFDS, p. 438).

È un processo costante, ricchissimo di attestazioni omogenee, che va di pari passo con la messa in rilievo, sempre ribadita, del valore sostanziale della critica e dell’estetica desanctisiane, colte in atto, nella comprensione e restituzione del testo letterario. Già nel 1897, introducendo le lezioni sulla Letteratura italiana nel secolo XIX, l’indicazione sull’«incertezza della terminologia» causata dall’elaborazione poco rigorosa dei principi, vigorosamente pensati ma lasciati inconditi, faceva luogo all’accoglimento della tesi essenziale: che l’arte consiste tutta nella forma, che «“tutto ciò che vive ha diritto di interessare”» (SFDS, p. 115). E nel saggio inaugurale, quello che apre la battaglia contro il metodo storico e a favore del metodo estetico, La critica letteraria, l’attenzione del giovane teorico della rifondazione dell’estetica si era subito volta all’analisi delle «denominazioni» e in particolare al confronto «tra vecchio e nuovo significato» di una «frase», critica letteraria, appunto, che a Croce suonava ormai «oscura». In De Sanctis, avrebbe sottolineato Contini, «la mobile teoria e nomenclatura è tutta e solo funzionale strumento immediato per l’esercizio della critica» (Contini 1953, 1972, p. 75); il problema decisivo è per lui costituito dal concetto complesso, fra storia e antropologia storica della letteratura, del «limite dell’ideale» con importanti implicazioni nella dialettica fra idealismo e realismo. Il progetto crociano, di ampio orizzonte epistemologico, adopera invece – tornerà a dire Contini – una «nuova terminologia tecnica sempre meravigliosa di fertilità» (Contini 1967, 1972, p. 65), ricorre cioè alla moltiplicazione dei termini, fermo restando il principio morale e retorico accolto da Blaise Pascal della necessità di définitions claires e axiomes évidents (Giammattei 1987). Nell’introduzione alla Scelta di scritti critici (1949) Contini individuava nella prosa desanctisiana una mutabilità linguistica scevra da apriorismi, concentrata intorno a talune parole chiave della cultura di secondo Ottocento, nella duplice pronuncia idealistica e positivistica, come ideale, reale, vita, malattia, «monadi semantiche» che veicolano nel medesimo significante significati diversi o contigui e che il critico mobilita con sempre nuove specificazioni e combinazioni (e in tale senso, la Storia della letteratura italiana poté risultare addirittura «la meno comprensibile delle opere del De Sanctis»). Laddove «nel Croce, semmai, evolve il sistema, con immediate variazioni nomenclatorie» (Contini 1949, 1970, p. 526). Bisogna aggiungere, però, per meglio fare intendere un siffatto percorso, che il filosofo era stato testimone ben memore delle accuse di Bonghi e di Spaventa alle soluzioni linguistiche dall’apparenza occasionale o giornalistica del critico irpino nell’aderire al testo e afferrarne il senso, e seppe, conseguentemente, ricavarne un insegnamento prezioso. Basti qui ricordare che considerando la conferenza tenuta nel 1879 da De Sanctis sull’Assommoir (1877) di Émile Zola, dove con spregiudicatezza si attraversavano gli steccati fra modello idealistico e modello realistico, il manzoniano e rosminiano Bonghi, professore di storia della filosofia a Napoli grazie al ministro De Sanctis, e brillante deputato della Destra, aveva collegato la crisi della critica al vocabolario confuso e alla terminologia antiquata e torbida: egli ne riconosceva la genesi nel vecchio equivoco hegeliano, nell’identificazione «del pensato col pensiero, dell’immagine coll’immaginato, della cosa coll’idea» (R. Bonghi, Horae subsecivae, 1883, cit. in E. Giammattei, Il romanzo di Napoli, cit., p. 58).

Si trattava dunque, per l’«antiprofessorale» Croce, da una parte di trarre frutto da una ricerca antisistematica e perciò estranea, nella sostanza, alle soluzioni ricevute dell’hegelismo scolastico, e da ricondurre per questa riluttanza a regole e formule – come egli osservò – alla temperie culturale romantica; e dall’altra di innestare quell’esperienza estetica tutta calata nell’individualità del suo oggetto – l’opera d’arte – in una forma mentale rigorosa e però a sua volta «mobile come il movimento; che partecipi della vita delle cose; che tasti ‘il polso alla realtà’» (B. Croce, Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, in Id., Saggio sullo Hegel seguito da altri scritti di storia della filosofia, 1913, p. 146). In questo ulteriore ambito concettuale, quello che era il punto di partenza, la critica letteraria, definisce non già uno spazio applicativo, ma è senz’altro «filosofia in azione» (Discorrendo di sé stesso e del mondo letterario, in Pagine sparse, 1° vol., cit., p. 210). Poteva dunque scrivere all’amico Karl Vossler nel 1911:

Ti confesso che non ho mai pensato a far di proposito il critico letterario […]. Quel tanto di critica letteraria che io ho fatto è stata informata al desiderio di mettere ben in chiaro, per exempla, l’ossatura della critica letteraria. Dico scherzando che non ho mai preteso di essere un pittore, ma un maestro di disegno […]. L’architettura o l’ossatura metodica della mia critica è forse anche più sicura di quella del De Sanctis; e sotto questo rispetto certamente ha giovato e può giovare, perché prima la critica italiana (e non solo italiana) era quasi tutta anti-metodica o ametodica (lettera del 19 ott. 1911, in Carteggio Croce-Vossler 1899-1949, a cura di E. Cutinelli Rèndina, 1991, pp. 152-53).

L’arte e la storia

Una prospettiva privilegiata per comprendere dall’interno l’itinerario crociano in relazione a De Sanctis, nella svolta fra Otto e Novecento, è costituito naturalmente dal carteggio fra Croce e Gentile, tra i più importanti del Novecento e ora restituito alla forma sua propria (B. Croce, G. Gentile, Carteggio, cit.). In particolare la discussione che si intreccia fra i due, nei primi determinanti anni dell’amicizia e del sodalizio intellettuale, verte sui concetti di forma e contenuto, di interessante, di contenuto estetico o anestetico, sulla formula desanctisiana «limite dell’ideale».

Quando i due si incontrano Croce ha già scritto due testi essenziali come La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte e il saggio polemico La critica letteraria. E a essi spesso rinvia Gentile, per confermare la sintonia e l’accordo sui temi che più intensamente li implicano, in quella fervida stagione del pensiero italiano: il materialismo storico, la filosofia della storia e il concetto di arte. Così, dopo aver letto l’articolo di Gentile Arte sociale (1896), Croce ne approva la formula centrale, che è un suo credo e corrisponde alle idee di De Sanctis «quando siano correttamente trattate»: «l’opera d’arte è un fatto – aveva scritto Gentile –. Non si può prima che sia, dire come potrà o dovrà essere» (cit. in G. Galasso, Nota del curatore, in B. Croce, Estetica, cit., p. 676; cfr. pp. 647-55). A partire da questo assunto, cioè la realtà fattuale dell’opera d’arte che produce la sua propria legislazione, il dialogo concerne, sulla scorta dei concetti desanctisiani di forma e contenuto, e della riformulazione crociana di contenuto, interessante o non interessante, il rapporto fra il concetto dell’arte e la natura della storia:

Ho piacere ch’Ella torni sulla questione della natura della storia. La chiave del problema è nel concetto dell’arte. Io desidererei ch’Ella tenesse presente una nota alla prefaz. della 2° ediz. del mio volumetto sulla Critica letter.; dove credo di aver formulato con esattezza il grosso errore logico che commettono coloro i quali pongono il bello nell’espressione o nella forma, e poi vogliono accanto al bello formale porre un bello del contenuto, un contenuto estetico. Il che equivale, dicevo io, a cercare una forma nella forma! (lettera del 1° genn. 1898, in B. Croce, G. Gentile, Carteggio, cit., p. 83).

Su questa via, e con la premessa liberatoria che non si può stabilire un «contenuto assolutamente non interessante», la distinzione fra interessante e non interessante ha valore «1° come fatto storico; 2° come criterio pratico subiettivo (e quindi anche medio)» (lettera del 6 nov. 1898, p. 164). Inoltre Croce nella medesima lettera contesta al peculiare kantismo di Gentile che si possano tenere insieme l’attività teoretica, etica ed estetica in un medesimo ordine, dal momento che «il bello è ciò che sembra bello» e dunque connesso alla storicità, al variare della vita. Ancora riprendendo e chiarendo il senso della polemica, sulla scorta del concetto integrale di forma di De Sanctis, e contro l’idea sostenuta da Zumbini, che si possa dare un contenuto estetico o anestetico, Croce era indotto a illustrare concretamente e sinteticamente il suo pensiero. Anche nell’ambito della vita artistica si forma una scala di bisogni che risponde allo «svolgimento complessivo della personalità e civiltà» (p. 164). In questo ambito l’individuazione dell’interessante ha a che fare con l’idea stessa di storia e di unità della storia che era al centro della memoria coeva Intorno alla storia della coltura (1895). Nel riproporre la memoria sulla «Critica» nel 1909 il filosofo ne avrebbe riaffermato l’argomentazione di fondo: fatto storico è ciò che ci interessa della vita del passato, e storiografia è il racconto dei fatti del passato che muovono, ai vari livelli di «storia grande» o di «storia piccola», il nostro interesse. Molto significativa si rivela da questa prospettiva la citazione desanctisiana che il giovane Croce discuteva nella prima parte del saggio La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, dove la determinazione del contenuto interessante, indifferente in sede estetica (appunto perché nell’arte il contenuto è la forma stessa), veniva affermata come individuazione del contenuto come antecedente, come dato del problema artistico. E De Sanctis un po’ oscuramente aveva scritto: «La scienza dell’arte comincia quando il contenuto vive e si muove nel cervello dell’artista, e diventa forma, la quale è perciò il contenuto» (cit. in G. Galasso, Storicità della poesia: estetica e storicismo in Francesco de Sanctis, «Archivio di storia della cultura», 1991, 4, pp. 141-63).

Nel 1918, nella prefazione che componeva insieme i Primi saggi, l’autore ripercorreva infine l’itinerario teorico dall’abbrivo, quando gli era balenata la verità, auspici De Sanctis e Labriola, della connessione-distinzione fra arte, conoscenza dell’individuale «immaginato o puramente possibile» e storia come «rappresentazione estetica del reale» (B. Croce, Primi saggi, cit., p. XI). Si potrebbe dire pianamente, proprio tenendo presenti le pagine intensissime dello scambio epistolare tra Croce e Gentile su questo punto, che l’interessante costituisca l’interfaccia fra l’arte e la storia. Si apriva così, per lui, la stagione di un altro arduo percorso logico-filosofico. Qui importa semmai che De Sanctis sia stato scelto e sempre confermato a guida, dal superamento dell’estetica hegeliana e dell’hegeliana «morte dell’arte», fino alla soglia di una concettualizzazione ulteriore, che concerne, lo si ripete, il fare storiografico. Mentre gli rimarrà estranea la modalità critica come esecuzione, invece costitutiva della capacità di lettura di De Sanctis, il quale ha il problema diverso «di consistere, sfuggendo ai suoi stessi dinamismi esplicativi» (Luciani 1983, p. 165). Di un’accezione particolare di contenuto, interna alla struttura del testo, potrà trarre frutto, per il tramite di Croce editore pertinace di De Sanctis, non a caso il giovane Erich Auerbach, il quale nel 1921, nella tesi di dottorato Zur Technik der Frührenaissancenovelle in Italien und Frankreich, vi intesserà le prime ri;fles;sioni sul concetto di realismo e di figura (Zur Technik der Frührenaissancenovelle in Italien und Frankreich, 1971; trad. it. La tecnica di composizione della novella, 1984). Ci riferiamo a una delle Pagine sparse desanctisiane messe insieme nel 1934 da Croce e accompagnate da Contributi alla sua biografia e supplemento alla bibliografia, nel capitolo intitolato dal curatore “Critica del principio dell’estetica hegeliana” e poi citato e messo in onore da Auerbach. Con geniale anticipazione del formalismo novecentesco il lettore acutissimo di Dante vi affermava che «il contenuto è figura, quando non è più il semplice materiale, ma la materia organizzata» (F. De Sanctis, Pagine sparse. Contributi alla sua biografia e supplemento alla bibliografia, a cura di B. Croce, 1934, p. 29), individuando nel taglio e montaggio del proprio materiale il passaggio retorico dall’extra-testo a ciò che è in un senso ampio già figura testuale, e dunque linguaggio secondo, metafora letteraria.

Agli inizi del Novecento la rubrica delle “Note sulla letteratura italiana” che avrebbe condotto sulla «Critica» per il decennio della prima serie implica per Croce il contatto diretto e sistematico con la letteratura del cinquantennio unitario da Giovanni Prati a Gabriele D’Annunzio, in una sequenza e gerarchia tutte da costituire. Da questo esercizio critico, descritto nel Contributo alla critica di me stesso nella sua genesi, di «testo di prediche» dal valore di esemplificazione, emergeranno con evidenza due questioni complementari, le quali anzi rappresentavano per l’autore dell’Estetica due versanti di un medesimo nuovo problema: la storia della letteratura come tradizione e l’appuramento storico-estetico della letteratura del giorno scissa tra valore e consumo, convergono ora verso il tempo perturbato del Moderno, introducono l’interrogativo circa il posto dell’arte nella società di massa (B. Croce, Di un carattere della più recente letteratura italiana, «La Critica», 1907, 5, 3, pp. 177-90, poi in Id., La letteratura della nuova Italia, 4° vol., cit.; cfr. Id., Contributo alla critica di me stesso, cit., pp. 60-63). Si tratta di un nesso decisivo in sede teorica, che De Sanctis non sentiva né poteva percepire nella sua ulteriore natura problematica, limitandosi, a un certo momento, assai presto, a non occuparsi più degli scrittori viventi, come Prati e Antonio Bresciani, e a fare critica militante ricostruendo la memoria letteraria e il canone storiografico, organizzando e riconfigurando il passato. Per il titolare della filosofia dello spirito, diversamente, la partita concernente l’evento contemporaneo – nel campo artistico o dell’accadere storico – è aperta su tutto l’orizzonte della temporalità.

Nel 1908, vale a dire al centro della serie delle “Note”, la conferenza di Heidelberg L’intuizione pura e il carattere lirico dell’arte rappresenta, come si sa, una significativa riformulazione e conseguente messa in discussione dello strumentario e lessico concettuale dell’Estetica del 1902. A Giuseppe Prezzolini, il quale gli poneva la domanda essenziale – come mai dalla sensazione individuale che-non-si-ripete, può nascere un’opera d’arte intesa dagli altri e poi comunicabile nel tempo come tradizione – Croce rispondeva rinviando al nucleo di quella memoria, al passo in cui l’impianto di matrice desanctisiana aveva bruciato ogni residuo di rispecchiamento; la stessa natura, res, è attività, spiegava, e differisce dal pensiero come una forma dello spirito si distingue dall’altra. E quindi:

La vita vissuta, il sentimento sentito, la volizione voluta è certamente irriproducibile, perché nessun fatto ha luogo più di una volta sola […]. Ma l’arte rifà idealmente ed esprime la mia istantanea situazione; e l’immagine da lei prodotta, si scioglie dal tempo e dallo spazio, e può essere rifatta e ricontemplata nella sua ideale realtà da ogni punto del tempo e dello spazio. Appartiene non al mondo ma al sovra-mondo, non all’attimo fuggente, ma all’eternità. Perciò la vita passa e l’arte resta (lettera del 29 ott. 1908, in B. Croce, G. Prezzolini, Carteggio, a cura di E. Giammattei, 1° vol., 1904-1910, 1990, pp. 130-31).

L’immagine, unico possesso dell’arte, è ciò che fissa e mette in salvo nel sovra-mondo la situazione, l’«attimo fuggente». La natura lirica dell’arte – chiarisce Croce al giovane dubbioso, in questa lettera rivelatrice per evidenza didascalica – «è per me il ponte tra il problema gnoseologico e quello pratico»; inoltre, le forme della natura, della società, «io le considero come gruppi empirici, e quindi come contingenze storiche» (pp. 130-31). Si tratta, com’è noto e come si è controllato nel corso di queste pagine, di una svolta, agli occhi dello stesso fondatore dell’estetica novecentesca, determinante un nuovo ordine di concetti e di temi, in parte originati dal contatto con la letteratura del giorno, con la poesia ancora senza nome. Nel 1910, discutendo con Giovanni Alfredo Cesareo la stroncatura del manuale di Storia della letteratura italiana (1908) di questi, pubblicata mesi prima sulla «Critica» nel 1909, Croce doveva tornare a difendere la Storia desanctisiana, in quanto punto di partenza per ogni lavoro serio sulla letteratura italiana. Contestualmente, il filosofo ricordava però che a scuola non gli riusciva di intenderla, quella Storia, e amava invece gli analitici e ampi Saggi critici (Note a G.A. Cesareo, Per una “Storia della letteratura italiana”, «La Critica», 1910, 8, pp. 73-80). Approntandone l’edizione laterziana, da una parte confermava il giudizio circa la Storia della letteratura come «la più libera di tutte le storie letterarie» e insieme «un libro che rappresenta tutto il dramma della vita italiana» (B. Croce, Il De Sanctis e il pensiero tedesco, 1912, poi in Id., Una famiglia di patrioti, cit.; SFDS, pp. 247-48). Nel 1917 nel laboriosissimo saggio bibliografico consacrato agli Scritti di Francesco De Sanctis e la loro varia fortuna che anche prefigurava nell’ultima parte il “Disegno di una edizione completa ed ordinata delle opere”, una “Nota” finale rifaceva infine i conti su quanto sussisteva di vivo e di inerte nella esperienza intellettuale del predecessore:

De Sanctis tracciò (particolarmente nella Storia della letteratura italiana) una storia civile e filosofica, dipingendo su questa trama le personalità degli artisti. Ma tra il fondo e le figure, tra la storia civile e filosofica e la storia propriamente artistica, talora rimaneva una sorta di parallelismo, tal’altra si faceva una qualche confusione, onde gli artisti, dei quali pur così energicamente il De Sanctis sentiva e affermava l’irriducibile valore individuale, venivano come ad essere abbassati a rappresentanti e documenti dei vari moti civili e filosofici; e a ciò concorreva forse il concetto ancora troppo realistico e non sufficientemente lirico, al quale il De Sanctis si atteneva circa la forma artistica. L’avanzamento, dunque, non può aver luogo se non correggendo il De Sanctis col De Sanctis (SFDS, p. 385).

Molto diverso è il tono delle argomentazioni crociane circa il rapporto fra forma artistica e storia quando egli parla senza lo schermo della continuità da difendere e, per dir così, in proprio, come l’autore della filosofia dello spirito il quale ha anche approntato i quadri della tradizione letteraria moderna della nuova Italia. Nella “Licenza” al quarto tomo della Letteratura della nuova Italia, si trova difatti la più forte pronuncia dell’autonomia della letteratura e della non fondatezza di una storia letteraria come testo tutto d’un getto, dove sia vigente la deducibilità e connessione degli atti artistici. È il 1915 e Croce presenta e difende la sua serie storiografica della contemporaneità letteraria, in termini che giova citare largamente da pagine pochissimo note:

Ma, riconoscendo che questi saggi sono saggi (e come potrei diversamente se li ho intitolati così?) e non sono un libro disegnato e scritto di getto, non vorrei, con l’omettere un’altra avvertenza, concorrere a rafforzare un’idea di storia letteraria, che ho tenuta sempre erronea quando mi appariva presso grandi critici e storici, e che non terrò per buona ora, che vedo con lei amoreggiare brillanti e incauti scrittori. Anche se fondessi questi saggi in esposizione unitaria, ciò che ne verrebbe fuori mancherebbe pur sempre di quella «connessione», che taluni richiedono alla storia letteraria. E che cosa domandano, veramente, in siffatta richiesta? Non intendo parlare di coloro che vagheggiano nient’altro che un ordinamento degli scrittori e delle opere per generi o sottogeneri e regioni e scuole e altri aggruppamenti siffatti; e nemmeno di quegli altri che, descritte certe condizioni (la razza o l’ambiente o l’avvenimento), vogliono vederne dedotte a fil di logica le opere letterarie, come effetti da cause; perché dovrebbe essere ormai evidente che i primi confondono la storia con la sistematica delle scienze naturali, e gli altri la negano addirittura: i primi dimenticano che la storia è individualità, e i secondi che essa è libertà. [....] Certo, in virtù dell’unità della storia, la storia dell’arte è inseparabile dalla storia sociale e dalla filosofica, ma è distinta nell’inseparabilità e non è identificabile con quelle. Chi, non bene meditando, trascorre a questa identificazione, finisce, se vuol essere conseguente, col porgere una presunta storia letteraria, dalla quale è volato via ciò proprio che fa che la poesia sia poesia (La letteratura della nuova Italia. Saggi critici, 4° vol., 1915, pp. 224-25; nostri i corsivi).

È in sede estetica, dunque, che Croce tocca concretamente e tempestivamente la libertà e individualità della storia. Da questo momento la difesa del modello desanctisiano sottolineerà preferibilmente meno la forma del racconto etico-politico quanto l’approccio critico ai singoli artisti, i ritratti isolati che scandiscono la Storia (Galasso 1991). Su questo punto la «presa di distanza» dal suo eroe intellettuale – protettore e protetto – viene forse consumata prima del 1936, anno della Poesia. Introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura, che esibisce in esergo, nella doppia dedica, l’antico binomio oppositivo De Sanctis-Carducci (cfr. F. Tessitore, introduzione a SFDS, pp. XXXIV-XXXVI), ricomposto dialetticamente nella sintesi crociana. Il sentimento di lontananza rispetto ai problemi posti a De Sanctis dall’idea di storia letteraria come genere particolare di storia – del resto definiti da Croce nella loro intrinseca genesi storica, ovvero romantica e risorgimentale – in effetti oscilla e circola a tratti con modulazioni differenti. Innanzi tutto l’esigenza della correzione e dell’aggiunta al fine di riconvertire e convogliare l’opera e la figura del maestro nel proprio tempo, non fanno mai dimenticare al filosofo, in nessun momento, l’unicità irripetibile della Storia desanctisiana, la sua nutriente solitudine, dalla quale è sempre possibile prelevare emblemi e funzioni: la centralità di Machiavelli, a non dir altro, ovvero della lezione di lunga gittata del realismo; o metafore di eccezionale valenza conoscitiva come quella, così determinante nell’opera di Croce, di malattia (Ciliberto 1983; Giammattei 1987; Giammattei 2001, in partic. “Croce e la funzione-Imbriani”, pp. 153-89; Conte 2005). In questo itinerario, effettivo ma liberamente percorso e sempre, lo si è visto, con diverse inflessioni, alla fine il vecchio Croce, nell’ottobre 1952, potrà istituire una sorprendente continuità fra il libro di Bernard Berenson sui pittori italiani della Rinascenza e la Storia della letteratura italiana, «col suo insistere sul carattere poetico proprio dei poeti, e qui di ciascun pittore» (B. Croce, Sulle teorie del Berenson, «Lo spettatore italiano», 1952, 5, poi in Id., Terze pagine sparse, 1° vol., cit., pp. 189-90). Ancora una volta, il discorso va inteso in situazione, non in sé, in una referenzialità non mediata: in questo caso contro altre «diadi» che andavano sostituendo quella, antica di cinquant’anni, «De Sanctis-Croce», che lo aveva congiunto tutta la vita con il «maestro e compagno di studii» (SFDS, p. 576).

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