Classica, Cultura

Enciclopedia Dantesca (1970)

Classica, Cultura

Manlio Pastore Stocchi

. Nella Firenze ancor priva di uno Studium generale (che ebbe solo nel 1349) D. non poté seguire un corso regolare di studi superiori. D'altra parte affiora qua e là anche presso i suoi biografi antichi la consapevolezza che fra i disagi e le amarezze dell'esilio non ultima croce fosse per il poeta la penuria di libri di cui inevitabilmente egli dové soffrire nel corso della vita povera ed errabonda che condusse proprio mentre attendeva alla composizione dei trattati dottrinali e della Commedia. Questi rilievi devono essere tenuti presenti e valutati anche per una determinazione della cultura classica di D., sia per quanto riguarda la sua estensione materiale sia per una definizione della sua particolare inflessione, cioè del senso che essa assume considerata nella sua totalità come espressione della vita spirituale del poeta. Infatti in entrambe le prospettive l'irregolarità e la difficoltà degli studi compiuti da D. sono fatti determinanti; ciò non vuol dire peraltro che essi pesino negativamente, ché anzi se in alcuni casi la cultura classica dantesca sembra denunciare lacune vistose anche rispetto alla media contemporanea, per un altra verso la relativa indipendenza dagli schemi vigenti nelle scuole ufficiali del secondo Duecento le consente una libera varietà d'interessi, di giudizi, e spesso di geniali e precorritrici intuizioni. Valga per tutti l'esempio di Omero, cui in celeberrimi versi (If IV 86-88) è conferita, con una convinzione autonoma maturata direttamente sulla testimonianza delle fonti antiche, la signoria su tutti gli altri poeti del passato, Virgilio compreso, laddove la posizione della cultura regolare (rispecchiata per esempio nella Historia destructionis Troiae di Guido delle Colonne) era ben diversa e ricordava il poeta greco per lo più solo per irriderlo e vituperarlo come obliquo e mentitore (e non per nulla il recupero definitivo dei poemi omerici sarà dovuto, una generazione più tardi, a un altro irregolare di genio, il Boccaccio). È inevitabile perciò che la cultura classica di D. non si lasci ricondurre legittimamente né entro i confini del sapere medievale né verso le nuove terre dell'Umanesimo, sebbene larghe coincidenze sembrino congiungerla ora all'uno ora all'altro dei due domini (ma in ogni caso non si tratta di spregiudicato eclettismo bensì d'indipendenza più o meno cosciente dagl'indirizzi recepiti). Ne segue a nostro avviso la vanità di ogni tentativo compiuto per definirla rigidamente in funzione di categorie astratte quali appunto il Medioevo, o l'Umanesimo, a volta a volta considerandola ferma su attardate posizioni medievali o protesa a divinare motivi e spiriti umanistici. Indubbiamente la notizia che D. ebbe del mondo antico non supera quella corrente fra Duecento e Trecento e rimane anzi decisamente inferiore per conoscenza dei testi e per consapevolezza dei problemi ai risultati conseguiti da alcuni circoli progrediti, specie in Val padana (v. MUSSATO). Ma non è tanto di questo dato che occorre tener conto, quanto appunto del fatto che in D. è viva l'esigenza di un rapporto personale e diretto con l'antichità: esigenza che ovviamente non sempre riesce a realizzarsi e più volte s'incanala, per la forza oggettiva delle cose, nelle linee proprie del sapere tardomedievale, ma spesso giunge a risultati originalissimi recuperando al disopra delle sollecitazioni culturali coeve il senso nativo e non adulterato della cultura classica o piegando a fruizioni inedite (ciò che è particolarmente evidente nella Monarchia) l'esempio e l'autorità degli antichi. Occorre dunque tentare una definizione che non sia eteronoma ma trovi nel rilievo concreto degli specifici atteggiamenti danteschi le proprie norme di riferimento: pertanto il presente ragguaglio si propone innanzitutto un rapido censimento della cultura classica di D., lasciando impliciti gli sviluppi particolari su singoli autori e problemi (è infatti sottinteso il rinvio volta per volta alle rispettive voci) e insistendo piuttosto sulle forme, i modi e le circostanze in cui il mondo antico venne facendosi noto al poeta; in secondo luogo si riferirà circa il posto che quella cultura occupa nell'opera dantesca, in assoluto e nei suoi rapporti con le altre componenti. Occorre infine premettere l'avvertenza che ‛ cultura classica ' è formula elastica, che già nella sua accezione più elementare designa tanto le dirette conoscenze di letteratura antica quanto, più in generale, l'intero complesso delle cognizioni relative al mondo classico in tutti i suoi aspetti, dalla storia alla mitologia al costume e via dicendo. Nel caso di D. e in genere di ogni dotto del suo tempo il secondo senso non è affatto implicito nel primo: non tutta l'antiquaria medievale, infatti, risale alle fonti primarie e legittime e per molti aspetti rappresenta il frutto di tardive illazioni che ne fanno piuttosto, nonostante i riferimenti alla civiltà antica, espressione caratteristica della cultura medievale. Per esempio, l'accenno alla salvazione di Traiano di Pd XX 112 ss. ripete una notissima leggenda medievale e pur riguardando un personaggio della storia romana non può riferirsi che indirettamente alla cultura classica di Dante. In generale, perciò, l'indagine in questo campo deve tener conto non solo delle ascendenze verticali ma anche di possibili interventi per così dire orizzontali; in altri termini, occorre sempre considerare la possibilità di apporti laterali dalla tarda letteratura cronistica ed enciclopedica (e l'incidenza di questi interventi spuri offrirà un utile elemento di valutazione generale).

Un momento di particolare rilievo nel suo itinerario conoscitivo è indicato dallo stesso D. nel periodo che seguì alla morte di Beatrice, quando, per vincere la tristizia invincibile e impaziente di conforto, decise di ritornare al modo che alcuno sconsolato avea tenuto a consolarsi e si pose a leggere il De Consolatione Philosophiae di Boezio e il Laelius de amicitia di Cicerone. È invero questione in questo noto passo del Convivio (II XII 2-3) di un accostamento alla filosofia in circostanze rievocate non certo con oggettivo rispetto della verità storica e variamente cimentate nelle discussioni degli studiosi (v. DONNA GENTILE), ma ciò che importa rilevare, pur con le debite cautele circa l'attendibilità documentaria della testimonianza, è la sicurezza con cui l'incontro con Boezio e Cicerone è fissato al difuori dell'ambiente della scuola - dove almeno l'opera del primo (com' è attestato fra l'altro dalla quantità dei commenti) aveva larghissima fortuna - e posto ad avviare un'esperienza in gran parte autodidattica per l'urgere di un'esigenza tutta interiore che il carattere retorico-moralistico del Laelius e del De Consolatione, richiamandosi alla tematica dei sentimenti, delle relazioni e delle sventure umane (ciò che ne fa, in un certo senso, due opere tipicamente umanistiche) poteva soddisfare con immediata rispondenza. Questo significa - e non importa se nella realtà storica o nella ricostruzione volutane più tardi forse richiamandosi anche, di lontano, al racconto agostiniano della conversione filosofica operata nel santo dalla lettura dell'Hortensius (cfr. Conf. III IV 7) - che D. intende porre il suo primo orientamento culturale ben definito in una prospettiva che non si prosegue tanto nel successivo tirocinio filosofico compiuto ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti (Cv II XII 7), che comporterà fra l'altro l'acquisizione di una tecnica dimostrativa e quindi di un linguaggio specifici, quanto nell'interesse per la sapienza e la poesia degli antichi (onde la philosophia perennis di Aristotele non entra nella prospettiva classica: e non se ne farà qui altro cenno). Certo allora egli già possedeva arte di gramatica (cioè conoscenza del latino) sufficiente a fargli intendere, avvegna che duro gli fosse ne la prima, quei testi non fra i più ardui: ciò sottintende uno studio non superficiale dell'Ars minor e maior di Donato e delle Institutiones di Prisciano, la conoscenza dei manuali di retorica quali il De Inventione ciceroniano e la Rhetorica ad Herennium e di qualche Poetria medievale, e naturalmente un certo esercizio sui testi. Ma questi ultimi saranno stati, come voleva la prassi degli studi secondari, in prevalenza mediolatini: i Disticha Catonis, il Theodulus, il Pamphilus, l'Esopus di Gualtiero Anglico, forse l'Elegia sive de Miseria di Arrigo da Settimello, ecc. Alla lettura dei magni auctores, del resto largamente raccomandata nei banchi scolastici, erano soprattutto riservati i corsi universitari, ma talvolta nemmeno in una sede prestigiosa come lo Studio di Bologna riusciva agevole, come attesta un noto documento bolognese del 1321, organizzarne un insegnamento decoroso; a maggior ragione doveva essere duro, nella Firenze di quasi trent'anni prima, penetrarne da soli i profondissimi sensi.

Nella Vita Nuova si riassume e si chiude, pur con aperture sui nuovi orientamenti già in atto durante la composizione del libretto (ma, come s'è accennato, la cronologia al riguardo non può essere rigorosa), il ciclo degli studi propedeutici danteschi, di cui l'opera riproduce, per così dire, la topografia e la proporzione nei rapporti interni. Ed è significativo che proprio l'inevitabile esibizione dei riferimenti ai poeti antichi, già per sé stessa abbastanza contenuta rispetto alle altre componenti culturali della Vita Nuova, consenta il più delle volte il rimando a una fonte intermedia: a parte il noto caso della citazione omerica di Vn II 8, si osservi che l'accumulo delle citazioni da Virgilio, Lucano, Orazio (Ars poetica) e Ovidio (Remedia amoris) a Vn XXV 9-10 non può assumersi come documento di un'effettiva familiarità con i versi di quei poeti, giacché il proposito a cui essi sono addotti - esemplificare e autorizzare l'uso dell'apostrofe e della prosopopea - è un problema trattato secondo la falsariga delle Poetrie medievali (cfr. per esempio Goffredo di Vinsauf, Documentum de arte versificandi II II 22-24) donde con tutta probabilità saranno desunte anche le auctoritates pertinenti. Queste e simili citazioni insomma non escludono, certo, la possibilità di una frequentazione anche assai precoce dei magni auctores, ma non sono sufficienti di per sé ad attestarla. Indubbiamente Virgilio, Ovidio, Lucano e Stazio erano presenze nonostante tutto così vive nella civiltà letteraria medievale che a una notizia indiretta e frammentaria quale potevano fornirla le fonti manualistiche non era impossibile si accompagnasse, almeno nel caso di Virgilio, una precoce e diretta esperienza del testo (anche se un Brunetto Latini, delle cui letture virgiliane si è dubitato, fornirebbe degli argomenti in contrario). Ma D. stesso, proprio nel caso dell'Eneide, pone in relazione la lettura più meditata e partecipe del poema virgiliano con gli sviluppi poetici e dottrinali consegnati al bello stilo delle canzoni maggiori (If I 86-87). L'assunzione di Virgilio quale maestro e autore, in altre parole l'istituzione di un rapporto privilegiato con l'Eneide, si riconduce in tal modo agli stessi anni cui è riferita la lettura del Laelius e del De Consolatione Philosophiae. Questo sarà benissimo, come s'è detto, uno spunto di cronologia affatto ideale; e tuttavia anche su questo piano (che è poi quello su cui si svolge la cronologia poetica della Commedia) esso conserva e anzi accresce il suo valore per una documentazione non soltanto esterna. Il mondo classico e la cultura che ne è espressione cominciano ad assumere dimensione e vitalità soverchianti, nonché una capacità autonoma di suggestione e di svolgimento, nella prospettiva annunciata nella chiusa della Vita Nuova: il proposito nato dalla mirabile visione si concreterà e si attuerà degnamente nella familiarità sempre più stretta con i ‛ regulati poetae ' e con quanti usi sunt altissimas prosas (VE II VI 7). Di queste acquisizioni più d'uno ha tentato di stabilire una cronologia relativa, e persino assoluta, il più possibile rigorosa; ma i dati su cui ci si è fondati sono nella maggior parte dei casi fallaci o non significanti. Della difficoltà di giungere a risultati certi in questo campo si indica qui solo qualche esempio. Abbastanza di recente le Satire di Persio sono state definite con sicurezza l'ultima accessione nella biblioteca di D. perché l'unica reminiscenza certa appare assai avanti nella Commedia (Pd XI 1; cfr. Persio Sat. I 1) e il nome stesso del poeta, taciuto nella rassegna del Limbo, compare solo in quella specie di appendice (Pg XXII 100) che D. avrebbe composto per aggiungere agli antichi illustri nominati nel IV dell'Inferno i personaggi di cui avrebbe acquisito conoscenza più tardi. Ma sebbene le ragioni esposte più sopra rendano abbastanza plausibile l'ipotesi di una conoscenza scarsa e tardiva di un'opera peraltro abbastanza nota e diffusa nel Medioevo, resta la difficoltà di accettare un dubbio argumentum e silentio; mentre i due elementi positivi sono troppo esigui per escludere con certezza la possibilità che risalgano a conoscenze indirette (il sentenziosissimo primo verso delle Satire aveva pure una tradizione indipendente nei Flores moralistici!). In questo caso le conclusioni sono, a rigore, perfettamente adiafore. Ugualmente ancipite si presenta il caso delle tragedie senechiane, delle quali il Parodi ha mostrato indubbi riflessi sin dai primi canti dell'Inferno. Il problema è di primaria importanza perché una conoscenza diretta delle Tragedie non solo rappresenterebbe un'esperienza letteraria di cui bisognerebbe tener conto nel definire certo colorito fosco e sanguinoso della prima cantica, ma mostrerebbe D. assai presto in contatto con l'alta cultura veneta che aveva uno dei suoi punti-forza nel possesso integrale del corpus tragico senechiano. Eppure in tal ordine non sono consentite conclusioni recise, se appena si pensi all'amplissima tradizione extravagante di versi isolati e sentenze che sostituì quasi del tutto nel Medioevo la diffusione, rimasta privilegio di pochi fino ai primi decenni del Trecento, delle Tragedie. E similmente ogni reminiscenza di autori per cui sia attestata la tradizione in excerpta fornisce, per l'impossibilità di stabilire se il riflesso provenga dal testo integrale o dall'excerptum, dati cronologicamente ambigui. In altre parole, bastava scorrere lo Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais o una qualsiasi enciclopedia affine o derivata (ciò che in un ambiente culturale dominato da un Brunetto Latini era esercizio abbastanza ovvio) per ricavarne innumerevoli flores, generalmente assai brevi e avulsi dai rispettivi contesti e perciò quasi muti come testimoni della cultura classica, ma fruibili per eventuali riprese e variazioni sul tema dinanzi alle quali è necessaria molta prudenza prima di vedervi i documenti di una reale e databile acquisizione alla biblioteca di Dante. Una specie di controprova per quanto veniamo affermando è data talvolta dal fatto che persino autori direttamente noti a D. possono in qualche caso essere citati di seconda mano: per esempio Cv IV XXIX 4 attesta una conoscenza diretta di Giovenale; pure, citando genericamente il poeta in Cv IV XII 8 insieme con altri scrittori latini che hanno biasimato le ricchezze, D. attinge quasi certamente a una qualche raccolta di flores topici sull'argomento. Per queste ragioni è preferibile seguire, piuttosto che sparsi indizi esterni, la logica con cui si sviluppa una cultura classica, qual è quella di D., caratterizzata da un'intrinseca forza espansiva che la porta ad accrescersi per linee interne di suggestioni, di accostamenti, di richiami da testo a testo e che ha i suoi limiti non tanto nelle preclusioni della routine culturale del tempo (avvezza del resto a procedere per accostamenti estrinseci rispondenti all'opportunità didascalica) quanto - come s'è detto - nella condizione umana e sociale del poeta.

Che tra le scoperte più entusiasmanti procurate dalla lettura del Laelius e del De Consolatione Philosophiae fosse quella dei vocabuli d'autori e di scienze e di libri dice D. stesso (Cv II XII 5): alla maggior parte di quei nomi non sarebbe corrisposta mai una reale dimensione, ma ciò non ne diminuiva l'interesse suggestivo né attenuava la capacità di annodare le fila di ulteriori riferimenti sino a comporre un soddisfacente tessuto storico e dossografico. La conoscenza di antiche scuole filosofiche e degli scolarchi maggiori, che risulta qua e là, per esempio, dal Convivio e dalla Commedia, risale certo in gran parte a un attento lavoro di emarginazione (in senso anche materiale: quei nomi saranno stati richiamati come marginalia nei codici usati da D.) e di collegamento, compiuto in prevalenza sulle opere filosofiche di Cicerone e sulle epistole di Seneca oltre che sulla Metafisica di Aristotele (si veda per esempio la dossografia di Cv IV VI 9 ss. con i raffronti, in verità piuttosto sovrabbondanti, del Busnelli). In questa ricerca non hanno ovviamente particolare risalto quegli interessi cosmologici e metafisici cui nella cultura del Due-Trecento soddisfaceva per altre vie e con altri metodi la scolastica: anche il Somnium Scipionis con il commento amplissimo di Macrobio sarà recepito piuttosto nelle sue inflessioni moralistiche (cfr. Pd XXII 127 ss.) conformemente alla novità dell'atteggiamento dantesco volto alla considerazione della dottrina classica relativa al comportamento e ai destini dell'uomo. In questo senso, mentre si spiega anche la relativa indifferenza di D. per il Cicerone maestro d'oratoria caro ai dicitori fiorentini del secondo Duecento, appare legittimo riconoscere una sostanziale omologia tra le letture e gl'interessi accennati sopra e l'esplorazione propriamente letteraria del mondo classico. Del resto a D. come in genere a tutti i lettori medievali è estraneo il concetto di poesia come finzione: i vari procedimenti esegetici, allegorizzanti o moralizzanti o anagogici (cfr. Cv II I), ove non fosse direttamente fruibile l'immediata significazione della lettera, erano sempre in grado di recuperare un nucleo di verità esemplari anche dai testi in apparenza più bugiardi e più refrattari a tale esercizio, come per esempio avveniva largamente con le moralisationes ovidiane. Anche nel suo rapporto con i ‛ regulati poetae ', perciò, D. avrà inteso soprattutto accostare valori di umanità e di sapienza, e la lezione di bello stilo che egli dichiara di dovere a Virgilio non riguarda, se badiamo al significato medievale del termine ‛ stylus ', gli aspetti formali ma le qualità di una tematica solenne e nobilmente morale. I caratteri strettamente formali delle opere antiche, anzi, sono quelli che trovano D. meno deferente, tanto che sul piano dell'ardimento inventivo e della sua realizzazione secondo le risorse del mestiere letterario gli apparirà possibile una gara vittoriosa con Lucano e Ovidio (If XXV 94). Ciò non significa, naturalmente, che D. disconoscesse i valori propriamente poetici dei classici; e basti per tutti, a documento della sua sensibilità di lettore, l'esempio di Pg XXVII 37-39, dove si ha non il semplice ricordo del mito di Piramo e Tisbe ma la commossa rievocazione di due dolcissimi versi ovidiani (Met. IV 145-146). Solo che questa sensibilità non giunge a definirsi compiutamente a livello della consapevolezza critica (né del resto la cultura medievale avvertiva la necessità di una definizione siffatta) e rimane soverchiata da altri motivi che lievitano più vistosamente l'opera dantesca. Virgilio Ovidio Lucano Stazio sono infatti presenze vitali nell'opera di D. soprattutto in virtù di una lettura in cui il loro valore di testimonianze (il più sovente intese come vere e proprie testimonianze ‛ storiche ') prevale sensibilmente sull'apprezzamento estetico e persino sulla scoperta dei sensi metaletterali. Ciò è evidente persino per il favoloso Ovidio, i cui miti, anche nelle figurazioni del Purgatorio, sono proposti non già con riferimento alle moralitates ingegnosissime e astratte che ne avevano cavate i dotti medievali (e ancora Giovanni del Virgilio ne escogiterà di ben curiose) ma per il valore di paradigma che assume la condotta umana dei personaggi negli eventi narrati: con una funzione insomma analoga a quella universalmente riconosciuta alle istorie. Ma in questo senso Virgilio e Lucano sono presenze assai più intense, non solo per la quantità delle riprese particolari ma soprattutto perché l'Eneide e il Bellum civile sono i pilastri su cui riposa la visione che D. ha dei destini terreni dell'uomo e della dimensione storica in cui questi destini si realizzano. E si tratta di storia reale, di cui, nelle vicende di Enea e di Cesare, i due poeti hanno registrato gli eventi decisivi: perciò essi, e soprattutto Virgilio, sono auctores essenziali nella Monarchia non meno che nella Commedia. Questa prospettiva di lettura, abbastanza ovvia per Lucano, di cui appunto si dubitava se non fosse piuttosto storico che poeta, era coraggiosamente personale riguardo all'Eneide, generalmente interpretata nel Medioevo in chiave morale o addirittura anagogica (anche questa interpretazione era nota a D. - che ne riflette qualche spunto - attraverso un commento simile a quello parziale di Bernardo Silvestre; tuttavia crediamo che il commento di Servio, a lui con tutta probabilità ugualmente noto, potesse temperarla con le sue tendenze decisamente razionalistiche). In questo modo la cultura classica di D. trovava ancora un elemento specifico di coesione interna che, oltre a giustificare in una visione organica il reciproco rapporto dei poeti maggiori, favoriva l'aggancio senza salti qualitativi del loro insegnamento a quello dei prosatori. Livio che non erra (If XXVIII 12) si connette a Virgilio (di cui attesta la veridicità storica con le prime pagine delle Storie dedicate a Enea e ai suoi discendenti) perché la sua narrazione integra e conferma la linea ideologica aperta dell'Eneide. Invero le citazioni delle Deche sono nell'opera dantesca abbastanza scarse e talvolta imprecise: e capita che a Livio siano attribuite notizie desunte quasi certamente da altra fonte (v. CANNE). Eppure sarebbe difficile negare il profondo debito ideologico di D. verso lo storico latino (o, se si vuole, la necessità della sua lezione): il poeta, che con tutta probabilità non possedette mai i costosissimi tomi liviani, li lesse in fretta e li citò a memoria ma non se ne lasciò sfuggire il pensiero informatore e vi si attenne anche contro l'argomentare di s. Agostino che nel De Civitate Dei vedeva gli antichi eventi, riferiti da Livio con piena fede nel sacro e fatale destino di Roma, soprattutto come segni terribili del silenzio divino. Così verso il mal noto Livio D. era spinto da un interesse di tipo umanistico, nel senso che nel grande storico egli trovava un conforto ai suoi ideali umani e civili. E può essere istruttivo osservare che da Paolo Orosio, che gli fu assai più familiare e cui deve gran parte delle conoscenze storiche relative al mondo classico, D. non mutui affatto l'impostazione ideologica delle Historiae adversus Paganos, di ascendenza dichiaratamente agostiniana. Allo studio approfondito del manuale orosiano, che muovendo da Adamo correlava le grandi monarchie asiatiche, il popolo d'Israele, i Greci e i Romani in una sintesi veloce e nitida, D. era mosso dalla necessità di recuperare, intorno a quella zona privilegiata della storia che è per lui la storia di Roma, lo spazio degli antecedenti e delle connessioni orizzontali dove andava ambientata quella vicenda della translatio imperii nella cui prospettiva si giustificava ai suoi occhi la finale legittimità dell'Impero romano (cfr. per esempio Mn II VIII). Il finalismo entusiasta di siffatta concezione, però, incentrandosi sulla civiltà romana, respinge ai margini con una funzione secondaria e subordinata le altre grandi civiltà del passato (con l'eccezione, naturalmente, del popolo ebraico), le quali anche sul piano della simpatia umanistica riescono raramente a emergere con il valore suggestivo di qualche loro vicenda o figura. Invero mentre la grecità mitica di Ulisse e dei personaggi connessi al ciclo Cebano (Capaneo, Anfiarao, Eteocle e Polinice, Tideo e Menalippo...) è frequentata con un interesse di cui hanno tutto il merito i patroni latini Ovidio e Stazio, le persone e le azioni esemplari della civiltà greca, pur celebrate per esempio da Cicerone e da Seneca, hanno nell'opera di D. un rilievo che appare esiguo anche in rapporto alle conoscenze e agli apprezzamenti correnti nella cultura medievale. Persino la sapienza dei Sette Savi, così largamente fortunata e citata fra Duecento e Trecento, non ottiene che un cenno, per di più molto impreciso (Cv III XI 4; ma v. Solone), mentre nessun riscontro hanno le imprese e le virtù proverbiali di un Cimone, di un Aristide, di un Temistocle, di un Pericle, nemmeno là dove ne tornava quasi necessario il ricordo, negli esempi del Purgatorio (l'eccezione di Pisistrato in Pg XV 90-105 rende ancora più interessante la questione). E necessario però valutare queste omissioni con tutte le cautele richieste dagli argomenti a silentio; ché certo, se in una qualche misura la sproporzione tra mondo romano e mondo greco rispecchia sia l'oggettivo divario medievale tra le due possibilità di conoscenza sia la diffusissima riluttanza ad accostare i Greci, gran parte dei silenzi di D. andranno attribuiti ai limiti di un'informazione particolarmente insufficiente e irregolare in questo campo. Molto pesa il fatto, per noi indubitabile, che egli avesse cognizione scarsa o nulla di quel Valerio Massimo cui fin quasi ad oggi è stata affidata la memoria e la celebrazione scolastica delle antiche virtù. Eppure da quei suoi deboli fondamenti D. seppe trarre talvolta conclusioni profondamente nuove e vere, come il già ricordato giudizio su Omero o la definizione di Atene come la città onde ogne scïenza disfavilla (Pg XV 99; cfr. Pg VI 139 ss.): documenti di un'attitudine spregiudicata che probabilmente deve qualche cosa a una certa filellenia che il platonico s. Agostino ostenta talvolta in polemica verso la civitas romana, ma che giunge a definirsi con intenti originali in una linea di pensiero diversa, mirante più alla conciliazione che all'opposizione, come del resto suggerisce esplicitamente la composizione bilingue della bella scola nel Limbo.

Il caso or ora prospettato dovrebbe chiarire come la scarsità dei dati non escluda una loro particolare pregnanza e come non vi sia reale incompatibilità tra un rilevamento quantitativamente secondario e il peso che è possibile assegnargli nella formazione culturale e ideologica di Dante. E qui torna opportuno ricordare che di certi testi classici D. si serve in modo estrinsecamente strumentale, come di repertori per informazioni o per dotte reminiscenze richieste dai precetti della retorica; ad altri invece è avvicinato da una viva e feconda consonanza spirituale. La gerarchia fra i due ordini non si rispecchia sempre direttamente in termini quantitativi: cioè una densa fruizione strumentale non sempre è testimonianza di una profonda esperienza di cultura. Per esempio, nella tetrarchia apparentemente monolitica dei poeti maggiori Virgilio Ovidio Lucano Stazio il computo delle presenze materiali esplicite o implicite non autorizza una sicura discriminazione interna, mentre l'adozione del criterio qui accennato permette subito di riconoscere che, a dispetto delle apparenze, Lucano - il poeta di Catone - è autore rivissuto più congenialmente che non Stazio, imitatissimo ma per lo più lungo le linee esterne dell'ornatus retorico e della aemulatio (e similmente può comprendersi come nella Commedia i riflessi virgiliani non soverchino quantitativamente quelli ovidiani, mentre è pur certissima la prevalenza di Virgilio come modello classico su Ovidio). Ciò non significa che la costellazione di autori individuabile intorno al nucleo rapidamente esplorato nelle righe che precedono sia privo d'interesse per una definizione non estrinseca della cultura dantesca. Così è tutt'altro che privo di significato l'uso dei poeti satirici, che è in genere di tipo prettamente medievale (ha cioè l'aspetto del ricorso alle auctoritates) e soggiace talvolta, come si è accennato, al sospetto di un'origine indiretta, ma pure testimonia un apprezzamento abbastanza vivo per una poesia che almeno in Giovenale - non a caso il più largamente citato e persino discusso (cfr. Cv IV XXIX 4 ss.) - ha toni elevati e moralmente risentiti che esorbitano dalla definizione della satira come genere dimesso e l'avvicinano piuttosto all'alta poesia della virtù. Orazio satiro del resto è francamente accompagnato ai poeti del bello stilo (subito dopo Omero!) in If IV 89: dove però (sia detto con la dovuta deferenza verso altre opinioni diverse dalla nostra) è probabile che D. gli assegnasse quella prestigiosa collocazione non tanto quale satiro ma quale poetico maestro di poeti nell'Epistola ad Pisones. E a quest'ultimo proposito si noti che l'unica autorità addotta in fatto di poetria sia appunto l'epistola oraziana, mentre nessun cenno esplicito è concesso alle artes medievali cui in definitiva D. deve in gran parte la sua poetica: omaggio significativo, anche se privo di conseguenze sostanziali. Di altri poeti latini non è probabile che D. fosse lettore familiare, anche se i commenti della Commedia sono stati talvolta prodighi di raffronti che vanno cadendo a poco a poco o perché si rivelano superflui o perché la tradizione di quei testi esclude che D. potesse averne notizia. Non c'è ragione, per esempio, di conservare per Pg I 2 la navicella del mio ingegno il rinvio a Properzio III III 22 " ingenii cymba " dacché si è riconosciuto il carattere topico dell'immagine, né di inferire con il Pézard da pochi e minimi particolari la conoscenza delle Silvae staziane: giacché se anche, come pare, lettori dugenteschi avessero avuto a Padova qualche conoscenza degli elegiaci latini, di Catullo e delle Silvae, niente prova che D. fosse altrettanto curioso o fortunato (è dubbio persino che a tale proposito lo fosse un Petrarca!). Non è opportuno del resto entrare qui in ulteriori particolari nella discussione di questi casi minori. Basti osservare che qualche altra lettura di poesia latina andrà piuttosto cercata fra gli scrittori dei bassi tempi, alle soglie del Medioevo: ma di Prudenzio, Ausonio, Paolino da Nola ecc. fino a Venanzio Fortunato, non vi sono nell'opera dantesca che scarsi e opinabili riflessi, insufficienti in ogni modo a definire un atteggiamento e un giudizio. Paradossalmente, è forse più indicativa l'attenzione che D. presta ai poeti arcaici, Ennio, Cecilio Stazio, Plauto, Terenzio, sebbene vi siano tutte le ragioni per affermare che dei due comici maggiori egli non lesse le commedie, mentre l'opera degli altri è perduta anche per noi. Giustamente si è rilevato che Cecilio, Plauto e Terenzio sono nominati in Pg XXII 97-98, insieme a L. Vario Rufo, seguendo il modello di Orazio (Ars poet. 53-54). Pure è molto probabile che D. ne rilevasse con particolare interesse i nomi mosso dall'alta considerazione in cui l'arcaicizzante gusto ciceroniano teneva i vecchi poeti esprimendosi in giudizi polemicamente laudativi e in frequenti citazioni: tale è il caso del passo di Ennio riferito in Mn II IX 8 attraverso Cicerone, De Officiis I XII 38. Per quanto riguarda i prosatori il discorso non può essere molto diverso. Ai cenni che ne abbiamo dato sparsamente occorre aggiungere qui l'unico ricordo di Vegezio in Mn II IX 3, che potrebbe essere di seconda mano; ma certo il De Re militari ebbe una qualche diffusione a Firenze alla fine del Duecento, se non altro nel volgarizzamento procurato da Bono Giamboni, e forse D. lo lesse allora in veste toscana: naturale che all'epoca della Monarchia non l'avesse più a disposizione e si limitasse a citarlo, in modo vago, solo affidandosi alla memoria. Il già ricordato canone dei prosatori eccellenti nel De vulgari Eloquentia (II VI 7) comprende invero, oltre a Livio e Orosio, anche Plinio e Frontino et multos alios, quos amica sollicitudo nos visitare invitat, e riesce problematico non tanto per la sua ristrettezza quanto perché quale modelli di altissima prosa accoglie due scrittori, l'uno decisamente minore, l'altro, nonostante l'importanza della Naturalis Historia, non particolarmente celebrato dalla tradizione. È evidente che D. conobbe di ambedue soltanto i nomi, ma non è facile scoprire quali considerazioni lo spingessero ad attribuirvi tanto prestigio; si può supporre che Plinio gli fosse raccomandato dagli estratti o dalle citazioni rinvenute in qualche compilazione scientifica medievale. Piuttosto, dal momento che ne consigliava come utilissimum lo studio a quanti si esercitano alla ‛ suprema constructio ', D. doveva essere ben cosciente che in quel luogo del De vulgari Eloquentia si trattava non già di stabilire un canone affatto ideale che, come quello del Limbo, potesse comprendere anche l'inaccessibile Omero, bensì di fornire un programma ragionevole di letture possibili, delle quali tuttavia una parte gli era negata. Egli doveva perciò avvertire con piena consapevolezza la natura per così dire personale e contingente dei limiti imposti alle sue conoscenze dei classici; e sentire più pungente quella amica sollicitudo spesso delusa che lo invitava, come dice, a visitarli. Questo è un tratto isolato e alquanto implicito, eppure caratterizza efficacemente un altro aspetto del rapporto di D. con il mondo antico, cioè l'incapacità di trovar quiete entro i confini ordinari di una cultura classica tutta risolta e appagata nei testi pacificamente ammessi. Certo nemmeno D. ha letto di più: ma in lui c'è già una sollicitudo che lo avverte come anche ciò che comunemente non si sa e non si legge dovrebbe essere letto e conosciuto, perché la scienza dell'antichità non si esaurisce, come ritenevano ancora molti soddisfatti dottori del suo tempo, nel canone riconosciuto ufficialmente.

D'altra parte i caratteri peculiari della cultura classica dantesca non si saprebbero riconoscere compiutamente se non si tenesse conto di un aspetto generalmente meno osservato della questione, cioè dei sussidi di cui D. poteva giovarsi per essere in grado di fare buon uso delle sue fonti. Se infatti i testi gli fornivano conoscenze sul mondo antico e orientamenti ideologici e poetici, occorre chiedersi in quale maniera e in quale misura egli fosse guidato a intenderli, o in altre parole quali fossero gli strumenti della sua filologia (in senso ovviamente assai lato). La prima difficoltà che D. ha dovuto superare nella lettura dei classici riguardava la comprensione letterale ai livelli più elementari del lessico e della costruzione sintattica. I testi grammaticali già ricordati erano tutti impostati sulla distinzione fra le parti del discorso e procedevano al riguardo con notevole astrattezza, indulgendo peraltro a una minuta esemplificazione di eccezioni e casi aberranti di cui decidevano la legittimità secondo l'esempio degli auctores; pochissimo o nessun luogo era fatto alla sintassi. Non stupisce perciò che D. incorra in fraintendimenti soprattutto per incertezza riguardo alla costruzione: un caso fra i più noti si ha in Cv II V 14, dove le parole di Venere a Cupido nell'Eneide (" Nate, meae vires, mea magna potentia, solus, / Nate, patris summi qui tela Thyphoia temnis ", I 664-665) sono tradotte Figlio, vertù mia, figlio del sommo padre, che li dardi di Tifeo non curi, cioè come se il nesso fosse " Nate patris summi, qui tela Thyphoia temnis " invece di " qui tela Thyphoia patris summi temnis ". C'è chi ha fatto gran caso di errori simili e li ha persino considerati, valutandoli nella loro diversa natura e frequenza, quali indizi per un preciso itinerario cronologico. In realtà rilievi siffatti, talvolta posti al servizio di tesi quanto meno dubbie (si veda il volume del Ferretti citato in bibliografia) vanno raccolti con estrema cautela e sottomessi in primo luogo al vaglio del buonsenso. Si osservi per esempio che in pratica solo nel Convivio si hanno traduzioni letterali di passi latini, mentre la Commedia comporta per lo più libere reminiscenze o allusioni e citazioni a memoria: i dati sono perciò eterogenei e nulla di certo si può ricavare, in genere, dal loro confronto quantitativo (come l'incidenza percentuale ‛ degli errori ') o qualitativo. A parte questo, un'altra pecca degli studi su tale aspetto della cultura dantesca è un eccesso di astrattezza, mentre sarebbe necessario ricordare non solo che i volgarizzamenti coevi documentano eguali se non addirittura maggiori incertezze nell'interpretazione dei classici, ma che persino il Boccaccio e talvolta lo stesso Petrarca incorrono in sviste non diverse da quelle dantesche.

Alla generale inadeguatezza della preparazione grammaticale debbono aggiungersi altre cause oggettive, come la difficoltà di lettura presentata dai codici del Due-Trecento (la cui lettura cursoria, anche per un lettore del tempo, era resa estremamente insidiosa dalla scarsa perspicuità della grafia gotica libraria, dalla punteggiatura incerta o mancante ecc.) e la lezione assai scorretta di quei deteriores. Errori di lettura o accoglimento di lezioni guaste non possono quindi mancare nell'opera dantesca (per lo più documentati in una citazione) e indubbiamente manca a D. ogni consapevolezza di questi ostacoli e della necessità di strumenti atti a superarli. Sebbene non si possa affermare che D. abbia ignorato le esigenze di una sia pur rudimentale critica del testo (giacché eventuali casi tacitamente risolti non sono riconoscibili dallo studioso), è certo che per un esercizio cosciente di una qualche acribia gli mancarono due presupposti di fatto: in primo luogo la possibilità di possedere contemporaneamente più di una copia di opere classiche per il riscontro anche non sistematico delle varianti e in secondo luogo una larga esperienza diretta formata sulla casistica della tradizione volgare, giacché per esempio la tradizione delle rime frequentate nella sua giovinezza in molti casi non superava i confini regionali o addirittura urbani (e talvolta si esauriva in una cerchia di amici) e raramente acquistava spazio e respiro sufficienti a farla riconoscere e a differenziarne con evidenza i tratti autentici da quelli spuri (una qualche importanza alla genuinità del testo era invece attribuita nelle grandi scuole giuridiche, ma resta da dimostrare che D. abbia avuto contatti con esse). Come la grammatica è sottratta a ogni prospettiva storica e bloccata in una sua astratta immutabilità, così al testo non è riconosciuta quella vita storica che si esplica nelle vicissitudini della tradizione, sicché l'autorità dei classici appare indiscutibile a D. non solo nella sententia ma anche nella forma in cui essa è attestata, e la voce spesso affiochita e incrinata che il codice deteriore tramanda è ascoltata con la medesima venerazione dovuta alla parola stessa dell'autore antico. In ogni modo si può ragionevolmente concludere che D. fu, in rapporto alle condizioni generali della cultura classica nel suo tempo e alla sua particolare situazione di studioso, lettore dei classici più attento e più corretto che non molti dei suoi contemporanei; un confronto, poniamo, con il commento latino ai Documenti d'Amore di Francesco da Barberino può dare la misura, per contrasto, del suo acume e della generale correttezza delle sue citazioni.

Fin qui s'è detto della lezione e della comprensione grammaticale; resta da accennare agli strumenti per una comprensione più approfondita sia del significato e valore complessivo delle opere classiche sia degl'infiniti riferimenti storici, mitici, letterari, di costume ecc. di cui ciascuna è ricchissima. I testi, e non soltanto i maggiori ma in genere tutti quelli adoperati nella scuola, erano di solito preceduti nei codici da accessus con notizie biografiche sull'autore, cenni sulla struttura, sulla definizione retorica, sul significato generale e sullo scopo dell'opera. Talvolta in luogo dell'accessus scolastico era premessa una Vita di buona ascendenza antica: per Lucano, ad esempio, sono attestate nella tradizione manoscritta medievale tanto biografie di questo secondo tipo quanto accessus scolastici. A fonti siffatte risalgono evidentemente gli accenni biografici relativi a Virgilio e, ciò che più importa, i tratti di un'etopea delicata e affettuosa che peraltro deve molto alle suggestioni benigne di Donato e di Servio e pochissimo alle fantasie medievali sul divino poeta. La biografia di Stazio (Pg XXI 82-102 e XXII 64-93), nonostante la presenza di elementi apocrifi o poeticamente immaginati (la nascita tolosana, la conversione), può considerarsi il migliore esempio dell'acuta attenzione che D. presta ove occorra all'inquadramento cronologico degli autori antichi: il riferimento sincronico al principato e alla persecuzione di Domiziano (storicamente fondato) non vi rimane infatti un dato esterno ma costituisce lo spunto della vicenda spirituale vissuta dal poeta latino (del resto per una più larga coscienza dei rapporti cronologici, che permettesse un'ordinata visione prospettica del passato, era in generale possibile il ricorso al Chronicon di s. Girolamo o a qualche cronografia affine, dove il fiorire di scrittori e filosofi era registrato con riferimento al luogo e alle contingenze sincroniche). Il bilancio di quanto D. deva alle glosse che accompagnano i testi classici nei manoscritti non è stato ancora tentato, anche perché gli scolii non sono sufficientemente noti. L'opera di Virgilio ci sembra letta, come s'è accennato, in una prospettiva in certa misura serviana; per quanto riguarda Stazio converrebbe istituire un rapporto sistematico con il commentario tardo-antico attribuito a Lattanzio Placido; per altri autori si potrebbero in primo luogo considerare gli scolii antichi, il cui materiale è stato variamente conglobato nei commenti medievali, per ricavarne almeno una prima serie d'indicazioni probabili. Non dubitiamo che in tal modo si preciserebbero cospicui debiti di D. non solo per quanto riguarda l'esegesi particolare ma anche per quella più vasta e approfondita conoscenza del mondo antico che ne caratterizza tutta l'opera.

Ci si può chiedere a questo punto se dal complesso di queste letture strumentali e dalla frequentazione così assistita degli auctores D. ricavasse una reale consapevolezza della vitale unità del mondo classico e giungesse a riconoscere nella cultura che ne era espressione e monumento un complesso di valori organicamente connessi in un'esperienza compiuta, esemplare nella sua totalità e non soltanto per questo o quell'aspetto particolare. La risposta non può essere che negativa: non tanto perché l'informazione di D. sarebbe stata in ogni caso insufficiente a questo fine, ma soprattutto perché la visione storico-culturale dantesca esclude recisamente l'autonomia della storia antica e l'eteronomia della vita spirituale classica e scopre nell'una un intervento provvidenziale che la subordina e la salda in un'unica prospettiva alla vicenda della redenzione, nell'altra (come testimonia soprattutto l'assortimento degli exempla nel Purgatorio) manifestazioni valide solo nella misura in cui sembrano obbedire agli stessi imperativi della virtù e della spiritualità cristiane. Eppure, nonostante l'indubbio carattere medievale di siffatte prospettive (o, se si preferisce, di siffatta mancanza di prospettiva), è innegabile la straordinaria verità storica dei particolari volta per volta evocati: se, per esempio, si astrae dalla tesi perseguita nella Monarchia si deve convenire che gli episodi e i personaggi fittamente ricordati nel trattato (specialmente nel libro II) conservano - ciascuno entro il proprio ambito particolare e concluso - una vigorosa autenticità di atmosfera; e così nella Commedia un episodio come quello di Traiano e la vedovella (Pg X 73 ss.), pur ispirato da una contraffazione medievale, è composto in una sobria e solenne dignità di lineamenti per così dire iconografici (si tratta, infatti, di una scena già concepita come ‛ raffigurata ') che è al di là del gusto gotico e anticipa certi ‛ trionfi ' della pittura umanistica. In altre parole, nell'opera dantesca gli antichi cavalieri addobbati alla dugentesca non compaiono mai: compaiono invece, per lo più accolti con magnanima simpatia, i loro archetipi autentici, ed è questa una scelta cosciente che riguarda anche i personaggi solo poetici (e non si riflette abbastanza al senso profondo della decisione di D. quando per esempio scarta, per le riprese nel suo poema in volgare, le Istorie Tebane a vantaggio della Tebaide di Stazio). Se anche si volesse - ciò che noi non faremmo - tener ferma la ‛ medievalità ' di questi e simili tratti, occorrerebbe in ogni caso riconoscervi uno spirito più vicino alle altissime esperienze culturali dell'Europa transalpina del secolo XII che non all'ambiente di cui sono ancora espressione, quanto a fedeltà verso i lineamenti del mondo antico, un Armannino giudice, poniamo, o lo stesso Boccaccio quando vagheggia una contraffatta e velleitaria antichità nelle opere anteriori al Decameron. E resterebbe in ogni modo da spiegare questo distacco, a guardar bene non meno straordinario che una decisa marcia verso il futuro, dalla cultura classica qual era praticata provincialmente, con ancora isolate eccezioni poverissime di vero pensiero umanistico, nell'Italia del tardo Duecento e del primissimo Trecento, per recuperare nel passato il respiro europeo delle grandi scuole di letteratura fiorite due secoli prima. Indubbiamente la cultura classica di D. è subordinata a un contesto ancora medievale, pure la sua particolare inflessione dà la prova perentoria che il poeta non guarda al passato né si lascia condizionare in tutto dal presente ma si tende, con indipendenza e slancio tanto più mirabili quanto più modesti e ordinari ne sono i loro fondamenti, in uno sforzo di recupero che annuncia tempi nuovi. Basterebbe, per convenire in questa conclusione, osservare che quando una soluzione medievale e una raccomandata dai classici gli propongono un'alternativa, e gli è consentita una scelta, D. non ha mai incertezze nella decisione: sceglie il De Consolatione Philosophiae e non il Liber consolationis et consilii di Albertano, l'Ars poetica di Orazio e non la Poetria nova di Goffredo di Vinsauf, Livio e Virgilio e non Pietro Comestore, Martino Oppaviense o Gualtiero di Châtillon; adoperandosi così, scrive acutamente Guido da Pisa, " ut libros poetarum, qui erant totaliter derelicti et quasi oblivioni traditi... renovaret ".

Bibl. - Si indicano soltanto alcuni scritti di carattere generale, largamente orientativi e generalmente forniti di ulteriore bibliografia: D. Comparetti, Virgilio nel Medio Evo, rist., I, Firenze 1967, 239-283; M. Scherillo, Alcuni capitoli della biografia di D., Torino 1896; ID., D. e lo studio della poesia classica, in Arte, scienza e fede ai giorni di D., Milano 1901, 217-248; K. Vossler, La D.C. studiata nella sua genesi e interpretata, II I, Bari 1927; G. Ferretti, I due tempi della composizione della D.C., Bari 1935, 201-243; A. Renaudet, D. humaniste, Parigi 1952; P. Renucci, D. disciple et juge du monde gréco-latin, ibid. 1954; G. Funaioli, D. e il mondo antico, in Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di B. Nardi, I, Firenze 1955, 321-338; A. Ronconi, Per D. interprete dei poeti latini, in " Studi d. " XLI (1964) 1-44; G. Martellotti, D. e i classici, in " Cultura e scuola " 13-14 (1965) 125-137; G. Padoan, D. di fronte all'umanesimo letterario, in Atti del Congresso internazionale di studi danteschi, II, Firenze 1966, 377-400; E. Paratore, L'eredità classica in D., in D. e Roma. Atti del Convegno di studi, Firenze 1965, 3-50 (ora in Tradizione e struttura in D., ibid. 1968). Per altre indicazioni su figure e problemi particolari, v. alle singole voci.