Cultura

Dizionario di filosofia (2009)

cultura


Termine che indica, da un lato, l’insieme delle cognizioni intellettuali che, acquisite attraverso lo studio, la lettura, l’esperienza, l’influenza dell’ambiente e che, rielaborate in modo soggettivo e autonomo, diventano elemento costitutivo della personalità, contribuendo ad arricchire lo spirito, a sviluppare o migliorare le facoltà individuali, specialmente la capacità di giudizio, e, dall’altro, l’insieme delle conoscenze, valori, simboli, concezioni, credenze, modelli di comportamento, e anche delle attività materiali, che caratterizzano il modo di vita di un gruppo sociale.

Nel mondo antico

Non il termine, ma la nozione di c. si ritrova già nel pensiero antico, dove essa indica l’educazione dell’uomo a una vita propriamente umana, rappresentata di solito dalla vita in società e, a livello più elevato, dall’esercizio delle attività intellettuali. Il significato della παιδεία greca è certo storicamente mutato, nel corso dei secoli, in connessione con i mutamenti intervenuti nella concezione della società e dei valori, ma fin dal 5° sec. a.C., in seguito al consolidarsi della democrazia e al diffondersi della sofistica, essa viene a designare il processo di formazione dell’individuo che, attraverso l’educazione, giunge al possesso delle tecniche necessarie per la convivenza sociale e per la partecipazione alla vita politica. Nell’insegnamento socratico e nei dialoghi di Platone la nozione di παιδεία assume un’impronta marcatamente etica, e la partecipazione alla vita politica viene a collegarsi con la ricerca filosofica. In Aristotele e, ancor più nettamente, nel pensiero ellenistico questa dimensione etico-politica della παιδεία passa in secondo piano in seguito al primato attribuito alla vita contemplativa rispetto alla vita attiva, e quindi al prevalere della figura del sapiente che osserva distaccato le vicende del mondo su quella del filosofo impegnato nella costruzione della città. Si afferma così un ideale di formazione dell’uomo eminentemente aristocratico, che esclude dall’ambito della cultura il lavoro manuale, il quale è riservato agli strati inferiori e agli schiavi, considerati come ‘strumenti animati’. Questo ideale viene accolto anche nel mondo romano, al momento della recezione del pensiero greco e soprattutto delle teorie filosofiche ellenistiche. In Cicerone la cultura animi viene identificata con la filosofia, e la sua funzione diventa quella di condurre gli uomini da una vita selvaggia (o contadina) a una vita civile, ossia a un’esistenza propriamente umana che è vita associata, partecipazione alla comunità. La nozione di c. tende così a esprimersi attraverso termini come humanitas o civilitas, e in tale veste verrà accolta dal Medioevo.

La visione medievale

Nell’età di mezzo, tuttavia, la c. assume un significato nettamente religioso, trovando una struttura istituzionale nell’organizzazione del sapere. Il processo di formazione dell’uomo viene ricondotto a fini trascendenti, a un destino ultraterreno: la vita terrena è semplice preparazione alla vita eterna, a un’esistenza contrassegnata dall’alternativa tra salvezza e dannazione. Contemporaneamente tale processo assume un’articolazione precisa nelle arti del ‘trivio’ (grammatica, retorica, dialettica) e del ‘quadrivio’ (aritmetica, geometria, astronomia, musica), ossia in un insieme sistematico di discipline che sono oggetto d’insegnamento nei chiostri e, in seguito, nei nuovi centri di elaborazione e di trasmissione del sapere rappresentati dalle università. Al di sopra di queste varie arti c’è ancora la filosofia, ma una filosofia divenuta ‘ancella della teologia’, che trova il proprio fondamento e il proprio culmine nella fede cristiana e alla quale viene attribuito, in primo luogo, un compito di chiarimento, di giustificazione e di difesa delle verità religiose. Anche quando, a partire dal sec. 12°, si afferma una relativa autonomia del sapere filosofico rispetto alla speculazione teologica, esso si presenta pur sempre come una forma di conoscenza inferiore e preparatoria alla rivelazione, che in caso di divergenze deve cedere di fronte a quest’ultima.

I modelli di formazione nell’Eta moderna

L’Umanesimo segna un recupero del significato mondano che la nozione di c., come formazione dell’uomo, possedeva nell’antichità. Non più la contemplazione di Dio e la salvezza eterna, ma la vita nel mondo, all’interno della comunità e dei suoi ordinamenti, costituisce lo scopo cui deve tendere l’educazione: questo è il senso dell’humanitas, il termine nel quale si esprime il nuovo ideale della cultura. Nutrita delle humanae litterae, vale a dire della lettura diretta degli autori antichi e del ritorno alla classicità che questa rende possibile, l’humanitas designa un modello di formazione dell’uomo in funzione dell’uomo, orientato verso la vita civile, ossia un modello che poggia sulla considerazione di tutte le cose come «create per la salute degli uomini» (come dice Petrarca nel De sui ipsius et multorum ignorantia) e sull’affermazione della centralità dell’uomo nel mondo, definita in base al rapporto tra microcosmo e macrocosmo. Una linea di continuità abbastanza agevole da cogliere collega – attraverso la diffusione europea dell’Umanesimo e il libertinismo seicentesco – questa nozione di c. al programma illuministico: un programma che presuppone, almeno in linea di principio, la comunicabilità del sapere a tutti gli uomini, in quanto partecipi di una medesima natura razionale. Con l’Illuminismo la concezione della c. si spoglia del carattere aristocratico che aveva mantenuto ancora all’inizio dell’età moderna; nel suo ambito vengono a confluire per la prima volta non soltanto la moderna scienza della natura, ma anche – e l’Encyclopedie ne costituisce la prova inequivocabile – le ‘arti meccaniche’ portatrici del progresso tecnico. La c. tende così a coincidere con il complesso delle cognizioni acquisite dall’umanità, le quali devono essere trasmesse da una generazione all’altra e accresciute attraverso l’impiego dei poteri razionali dell’uomo.

I nuovi significati di cultura

Nella seconda metà del 18° sec. si compie una svolta decisiva nella storia della nozione di c., una svolta rappresentata soprattutto dal trapasso da un significato ‘soggettivo’ a un significato ‘oggettivo’ della c., che si può percepire anche linguisticamente attraverso la caduta del complemento di specificazione che aveva fino ad allora accompagnato di solito il termine. La c. appare ancora considerata, non di rado, come un processo di formazione; ma tale processo risulta determinato in base al riferimento a un patrimonio intellettuale che è proprio non più del singolo individuo, ma di un popolo o anche dell’umanità intera. In questa prospettiva le fasi successive di sviluppo della c. vengono a coincidere con le tappe del cammino dell’umanità. Così Herder, nelle Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit (1784-91; trad. it. Idee per una filosofia della storia dell’umanita), concepisce la c. come un processo che coinvolge l’intero genere umano, il quale viene a distaccarsi dalla propria origine naturale e si educa progressivamente, seguendo un piano provvidenziale che si attua attraverso il passaggio da un popolo all’altro. Da Herder, per il tramite della scienza etnologica tedesca della prima metà dell’Ottocento, il nuovo concetto di c. perviene all’antropologia evoluzionistica, trovando una definizione esplicita in Primitive culture (1871; trad. it. Alle origini della cultura) di E. B. Tylor. E qui avviene un altro mutamento semantico, non meno importante. La c. non designa più – come avveniva ancora nella concezione illuministica – soltanto le attività specificamente intellettuali, ma comprende anche i costumi e tutte le capacità acquisite e trasmesse socialmente; di conseguenza, vi è c. ovunque esista o sia esistita una società umana con propri modi di vita. Questa estensione del concetto di c., da un lato, a tutte le manifestazioni dell’esistenza sociale di un popolo, dall’altro, a qualsiasi popolo indipendentemente dal suo livello di sviluppo, ha costituito il fondamento teorico dei vari tentativi di ricostruzione delle tappe di sviluppo dell’umanità, compiuti dai principali esponenti dell’antropologia evoluzionistica, i quali fanno tutti appello al presupposto dell’uniformità del processo evolutivo dei diversi popoli. Anche quando gli studi antropologici respingeranno tale presupposto, criticando quei tentativi come ‘storia congetturale’, essi si richiameranno pur sempre al significato tyloriano di c., e cercheranno anzi di precisarlo e di svilupparne le implicazioni. Nei primi decenni del 20° sec. soprattutto la scuola di F. Boas ha reso il significato tayloriano il concetto-chiave della scienza antropologica, definendolo come un complesso di ‘abiti’ e di ‘prodotti’ materiali che non si trasmette per via genetica ma che è invece oggetto di apprendimento. Così caratterizzato, il concetto di c. si è trasformato in una nozione collettiva, la quale designa una pluralità di c. individuali che richiedono di essere studiate nella loro peculiare fisionomia storica (come sostiene Boas) oppure nella loro struttura interna e nelle correlazioni funzionali tra i loro elementi (come asserisce B. Malinowski). Ciò che di fatto esiste, e a cui si riferisce la ricerca antropologica, non è più la c. umana in generale, ma sono le varie c., l’una differente dall’altra. La struttura portante delle c. viene così individuata da A. Kroeber e da altri autori (come R. Benedict e C. Kluckhohn) in un sistema di valori specifico, che può essere ricostruito sulla base delle regole che presiedono al comportamento concreto dei membri di una società e delle sanzioni che colpiscono i comportamenti devianti. Ma la c. diventa anche un fattore plasmante della personalità degli individui che ne fanno parte: a ogni c. corrisponde un tipo particolare di personalità, definito come ‘personalità fondamentale’, rispetto a cui le personalità dei singoli individui rappresentano semplici variazioni oppure, quando se ne discostino troppo, forme devianti. In tal modo il riconoscimento della pluralità delle c. tende a sfociare nel relativismo culturale, ossia in una concezione filosofica fondata sul postulato dell’eguaglianza assiologica delle varie c., che si richiama, da un lato, allo storicismo diltheyano e a Spengler, dall’altro, al relativismo di ispirazione darwiniana di W. G. Summer, l’autore di Folkways (1906). Molti dei presupposti dell’antropologia della prima metà del Novecento appaiono tuttavia ormai rimessi in questione. Ciò vale già per la tesi dell’autonomia della c. da qualsiasi condizione extra-culturale, e per la conseguente dicotomia tra mondo animale, caratterizzato da una trasmissione per via genetica, e mondo umano, caratterizzato dalla trasmissione culturale fondata sull’apprendimento. Gli studi sul comportamento animale hanno infatti spostato la linea di demarcazione tra natura e c., ponendo inequivocabilmente in rilievo che anche altre specie animali, oltre all’homo sapiens, sono capaci di apprendimento, e quindi possono produrre e trasmettere c., e hanno altresì dimostrato che il linguaggio non è prerogativa esclusivamente umana, ma si trova presso le specie più svariate. Come l’antropologia evoluzionistica aveva esteso il concetto di c. ai popoli primitivi, così l’etologia sta ormai imponendo un ulteriore allargamento del suo ambito; tanto che ormai appare del tutto lecito parlare di ‘c. animali’. Anche la tesi dell’assoluta individualità delle c., su cui poggiava il relativismo culturale, risulta in crisi: se è vero che ogni c. possiede una propria fisionomia che può essere caratterizzata storicamente, ciò non toglie che sia possibile condurre un’analisi comparativa delle varie c., rintracciare in esse degli ‘universali culturali’ o delle regolarità statistiche, derivanti dall’azione di condizioni biologiche e psicologiche, e perfino determinare le principali fasi di sviluppo, in qualche misura comuni a tutte. Soprattutto il neoevoluzionismo ha cercato di individuare i grandi mutamenti tecnologici attraverso i quali si è compiuto il passaggio da una condizione primitiva allo stato di civiltà, ponendo in rilievo l’importanza decisiva di due ‘rivoluzioni’: la rivoluzione agricola, in virtù della quale la coltivazione e l’allevamento del bestiame hanno preso il posto delle tecniche di caccia, di pesca e di raccolta, e la rivoluzione urbana, che ha segnato il trapasso dalla vita di villaggio alla vita di città. D’altra parte lo sviluppo della ricerca antropologica ha messo in luce l’impossibilità di studiare una qualsiasi c. isolatamente, prescindendo dai suoi rapporti con altre culture. Specialmente nel secondo dopoguerra il contatto tra c. e i processi di acculturazione sono diventati un tema centrale d’indagine; e ciò ha condotto a considerare le varie c. come strutture complesse che agiscono l’una sull’altra in situazioni disparate di eguaglianza o di diseguaglianza, di convivenza pacifica o di ostilità, d’indipendenza reciproca o di dominio-subordinazione, di scambio o d’influenza unilaterale. A partire dagli ultimi decenni del 20° sec. il concetto di c. si è così venuto trasformando da nozione storico-filosofica (o pedagogica) in un concetto scientifico, utilizzato all’interno di un preciso contesto disciplinare. In tale forma esso compare non soltanto nell’antropologia, ma anche nella psicanalisi e – seppure in maniera meno esplicita – nella sociologia contemporanea. In Totem und Tabu (1912-13; trad. it. Totem e tabu), per es., Freud ha affrontato il problema dell’origine della c. umana, sulla base del postulato del parallelismo tra ontogenesi e filogenesi, tra sviluppo psichico individuale e sviluppo culturale della specie: l’analisi del sorgere della c. ai primordi dell’umanità deve condurre alla scoperta di quelle medesime strutture inconsce, di quegli stessi meccanismi di rimozione che si trovano alla radice della formazione della personalità. In questa prospettiva Freud rintraccia all’origine della c. una situazione traumatica corrispondente a quella che genera la nevrosi: il parricidio originario, che mette fine al monopolio sessuale delle donne da parte del padre tiranno e suscita nei figli che l’hanno ucciso un rimorso collettivo, il senso di colpa per il delitto compiuto. Il complesso di Edipo diventa così la chiave per spiegare il passaggio dall’orda primitiva, caratterizzata dal dominio assoluto del padre, a un’organizzazione sociale in cui i rapporti tra i membri del gruppo sono regolati dal divieto dell’incesto. Per quanto criticata da vari antropologi, in partic. da Malinowski, la concezione freudiana della c. e della sua origine è stata accolta da un importante filone di studi psicanalitici. G. Róheim, per es., ha difeso, in The riddle of the sphynx (1934), la tesi dell’universalità del complesso di Edipo proponendosi di dimostrare l’identità della situazione infantile in tutte le società, e la derivazione delle differenze culturali dal diverso tipo di trauma che si verifica nell’infanzia. Anche nella sociologia contemporanea il concetto di c. è stato oggetto di un tentativo di definizione, orientato a differenziare tra loro c. e civiltà come due processi paralleli, l’uno comprendente le manifestazioni creative e quindi i valori di ogni società e l’altro coincidente con il progresso tecnico-scientifico (A. Weber), oppure a distinguere la c. dalla società come un sistema a essa coestensivo ma pur sempre specifico, in quanto costituito da sistemi simbolici che rendono possibile la socializzazione della personalità e che mediano l’inserimento dell’individuo nel gruppo (T. Parsons). Vi è ormai un accordo piuttosto diffuso in sociologia nel ritenere la c. come un insieme concatenato di modi di pensare, sentire e agire (Durkheim) più o meno formalizzati, che, essendo appresi e condivisi da una pluralità di persone, servono, in modo a un tempo oggettivo e simbolico, a costituire queste persone in una collettività particolare e distinta. Naturalmente, possono variare gli ambiti territoriali e i confini sociali delle collettività di riferimento: così che in un unico contesto globale (per es., le c. nazionali) possono esistere una molteplicità di c. ‘parziali’ (per es., le c. regionali, etniche, la c. dei giovani, ecc.). In questo caso si usa il termine di subcultura (o sottocultura). Si è inoltre sviluppato un indirizzo di sociobiologia (E. O. Wilson) che, in contrasto con la tradizione sociologica, ritiene che anche i tratti culturali della personalità, al pari delle caratteristiche fisiche degli individui, siano iscritti, almeno in parte, nel patrimonio genetico e, in quanto tali, soggetti alle leggi dell’evoluzione biologica.

Cultura e filosofia della storia

All’elaborazione del concetto di c. in contesti disciplinari specifici ha fatto riscontro il suo impiego in sede storiografica o per la costruzione di filosofie della storia. Tra queste occorre ricordare – per la vasta diffusione avuta nel primo dopoguerra – la concezione di Spengler, che in Der Untergang des Abendlandes (1918-22; trad. it. Il tramonto dell’Occidente) ha interpretato la storia come storia di c. superiori appartenenti a una medesima specie biologica, e quindi sottoposte alle leggi di sviluppo e di decadenza proprie di tale specie. Al pari di un qualsiasi organismo vegetale o animale, infatti, anche le c. percorrono un loro ciclo vitale predeterminato, e vengono a morte allorché esso si sia concluso, ossia quando il loro complesso di possibilità si sia esaurito. Ma la differenza di patrimonio biologico che le caratterizza fa sì che ogni c., una volta distaccatasi dal seno dell’umanità primitiva, dia vita a un proprio mondo simbolico, del tutto eterogeneo rispetto a quello delle altre culture. La profezia dell’imminente tramonto dell’Occidente si congiunge in tal modo con una concezione relativistica della storia che ha largamente agito pure su antropologi e sociologi, e che è stata in seguito rielaborata da Toynbee in A study of history (1934-39; trad. it. Studio della storia). Nella filosofia del Novecento il concetto di c. è presente anche in altri indirizzi, i quali se ne sono avvalsi per sottolineare il carattere simbolico specifico dell’attività umana e per proporre una definizione dell’uomo come ‘animale simbolico’ (come ha fatto Cassirer nella Philosophie der symbolischen Formen, 1923-29; trad. it. Filosofia delle forme simboliche), oppure per designare un mondo formale trascendente rispetto alla vita (come ha fatto G. Simmel), o più sovente per analizzare la crisi della civiltà e il processo di massificazione della società contemporanea (come hanno fatto Ortega y Gasset, Huizinga, Adorno, Marcuse e numerosi altri). Ma nessuno di questi indirizzi ha dato luogo a nuove formulazioni significative del concetto di c., il cui uso appare piuttosto subordinato a interessi speculativi di altro genere.

Storia della cultura

La ‘storia della c.’ o (com’è anche chiamata, con locuz. forse più precisa) ‘storia della civiltà’ è sorta verso la metà del sec. 18°, in base a un’esigenza di ampliamento dell’oggetto della storia tradizionale, limitata sostanzialmente agli eventi politico-militari. Nel Siecle de Louis XIV (1751; trad. it. Il secolo di Luigi XIV), Voltaire si propose esplicitamente di allargare l’orizzonte della ricerca storica al di là delle guerre, delle conquiste, delle vittorie e delle sconfitte, delle vicende dinastiche – che costituiscono un tessuto relativamente uniforme, comune a tutte le epoche – per considerare anche i mutamenti del costume, i fenomeni artistici e letterari, le dottrine filosofiche, le credenze religiose, lo sviluppo delle scienze e le loro applicazioni tecnologiche, i progressi delle industrie e del commercio, che consentono invece di individuare un periodo storico nella sua specifica fisionomia. A quest’impostazione si ispirano anche l’Essai sur les moeurs et l’esprit des nations (1756; trad. it. Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni) dello stesso Voltaire, in cui sono enunciate le linee fondamentali della concezione illuministica della storia, e le altre grandi opere della storiografia settecentesca, ossia quelle di Hume, di Robertson, di E. Gibbon. Nell’Ottocento si viene invece costituendo una ‘storia della cultura’ distinta e contrapposta alla ‘storia dello Stato’: la prima ha per oggetto le manifestazioni intellettuali di un popolo, mentre la seconda narra le vicende politiche (o politico-economiche), che hanno il loro centro nell’azione dello Stato. La distinzione tra i due tipi di storia è però entrata in crisi ormai da tempo, in seguito al riconoscimento – comune non solo alla storiografia marxistica, ma a tutte le principali scuole storiografiche contemporanee – dei nessi che intercorrono tra struttura economica, sistema politico e c. (nel senso di complesso delle manifestazioni intellettuali) di un’epoca.

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