DAI BENI IMMOBILI AI BENI VIRTUALI

XXI Secolo (2009)

Dai beni immobili ai beni virtuali

Antonio Gambaro

Una economia di beni immateriali

Uno dei tratti caratterizzanti la fase storica attraversata dai Paesi sviluppati tra la fine del 20° e l’inizio del 21° sec. è senza dubbio la cosiddetta economia dei beni immateriali. Da un lato, all’interno dell’economia di impresa, acquistano sempre maggiore rilevanza il patrimonio tecnologico posseduto e l’avviamento commerciale, due beni tipicamente immateriali; dal lato del mercato, la cosiddetta globalizzazione esalta l’importanza di quei beni come gli strumenti finanziari e le informazioni che possono essere trasmesse a grande distanza in tempo praticamente nullo. Molti dei discorsi che si intessono riguardo alla globalizzazione dei mercati hanno come punto di riferimento esplicito, o, più spesso, implicito, gli scambi finanziari e i flussi di informazioni su grande distanza, fenomeno in effetti nuovo; mentre i riferimenti allo sviluppo del commercio globale sono più emotivi perché si tratta di un fenomeno non nuovo.

In un contesto simile acquista rilievo la dilatazione dell’economia finanziaria propiziata da una serie di nuovi strumenti e tecniche i quali, se talvolta sono una mera riedizione di modelli già presenti nella storia economica, tuttavia galvanizzano gli operatori. Situazione non scevra da pericoli. In ogni caso ciò che conviene rilevare è che la parte di ricchezza economica detenuta in forma finanziaria è divenuta un multiplo della ricchezza posseduta da persone ed enti sotto forma di beni materiali.

Su altro versante viene assai enfatizzata l’economia della conoscenza, intendendo le conoscenze come la risorsa fondamentale ai fini delle produzioni più avanzate e quindi, nell’insieme, la risorsa, sia individuale sia collettiva, più importante ai fini dello sviluppo economico e non solo. Al riguardo non si deve dare eccessivo peso alle proclamazioni ufficiali che promettono azioni generiche a favore di un fortissimo sviluppo del patrimonio di conoscenze collettive e nemmeno alla propaganda mediante la quale i diversi attori economici sottolineano l’ammontare delle risorse destinate alla voce Ricerca e sviluppo (Research and development, R&D). Importanti sono invece i modelli esemplari che alcuni sistemi economici offrono all’imitazione altrui e che sono fonti costanti di ispirazione. Nel 21° sec. il fatturato delle attività educative inglesi non solo è un multiplo del fatturato dell’industria automobilistica inglese, ma ha anche superato il fatturato della City.

Il passaggio epocale è quindi quello che vede la metamorfosi delle forme di detenzione della ricchezza e delle forme di accumulazione del capitale, entrambe indirizzate verso la dimensione dell’immateriale.

A livello di macroevidenze il fenomeno colpisce per la sua imponenza e per il radicale mutamento di mentalità e di attrezzatura epistemologica che esso esige.

I beni nel linguaggio del diritto

Qualunque forma di detenzione della ricchezza presuppone un ordinamento giuridico che la tuteli e la protegga.

Tale bisogno di tutela ordinamentale è ancora più intenso nel caso dei beni immateriali, i quali per loro natura sono esposti a facili atti di appropriazione altrui e, salvo il caso dei segreti, non sono suscettibili di forme di autotutela. Infatti i discorsi che si intrecciano relativamente ai nuovi beni immateriali presuppongono che essi siano oggetto di una qualche forma di proprietà privata oppure siano beni pubblici, nel senso di beni appartenenti a una collettività organizzata. Simile presupposto è però lasciato generalmente nel vago perché in effetti le categorie giuridiche non sono del tutto pronte ad accogliere le nuove forme di manifestazione della ricchezza. Anche il linguaggio non è assestato. La dizione beni immateriali è una delle tante in uso. Si parla anche di beni intangibili e di beni virtuali, locuzione quest’ultima che acquista una sfumatura di significato ulteriore indicando quei beni che esistono sulle reti telematiche, e, in questo caso, alla problematicità dell’inquadramento giuridico, si aggiungono le difficoltà di governare la rete con regole giuridiche efficaci. La parola più problematica rimane tuttavia: bene/i. La variabilità di significati è in questo caso enorme. Tale variabilità non deriva soltanto dagli usi, amplissimi, della parola bene nel linguaggio comune, ma anche dalle profonde diversità di concetti che tale termine evoca nel lessico delle diverse scienze sociali. Nei discorsi degli economisti, che sono pensati sostanzialmente in inglese, in qualunque idioma vengano poi veicolati, la parola bene traduce spesso asset, che indica qualsiasi elemento attivo del patrimonio oppure veicola l’idea di utilità economicamente sfruttabile. I depositi bancari sono quindi ‘beni’, come lo sono i brevetti e i trade secrets. Ma, sempre nel linguaggio economico, anche la conoscenza è un bene, così come lo è la difesa nazionale, che viene considerato il bene pubblico per eccellenza. Il linguaggio giuridico richiede tassonomie più rigorose, posto che le categorie giuridiche hanno una funzione demarcativa: esse, cioè servono a indicare l’ambito di applicazione di una disciplina specifica, e, viceversa, a escludere l’applicazione di altre discipline specifiche.

La proprietà dei beni in civil law e common law

Nel linguaggio giuridico il problema che si pone in un mondo che vorrebbe essere globale e comunicante è che le due grandi tradizioni giuridiche occidentali, quella di common law, attualmente presente nei Paesi di lingua inglese, e quella di civil law, presente in Europa continentale, ma anche in America Latina e in Asia, non condividono lo stesso concetto di bene in senso giuridico; con la conseguenza che anche la nozione di proprietà (e quella correlata di possesso) non sono affatto identiche. Sicché nel mondo globale si parla di proprietà e di intellectual property per indicare i nuovi beni immateriali, ma con ciò si evocano concetti e tassonomie giuridiche niente affatto collimanti tra loro (Candian, Gambaro, Pozzo 1992).

Giova quindi anzitutto chiarire le ragioni di tale diversità di classificazione. Storicamente tutti i sistemi giuridici europei conoscono l’opposizione tra iura in rem e in personam e ne fanno una categoria ordinante fondamentale per l’intero settore del diritto privato patrimoniale; da qui essa diffonde la propria influenza organizzatrice su quasi tutto l’ordinamento.

Non vi è parimenti dubbio che in tutte le esperienze che si raccolgono nella tradizione giuridica occidentale il nucleo centrale originario cui si riferiscono gli iura in rem è costituito dall’organizzazione politico-giuridica delle situazioni di appartenenza immobiliari, alla cui costruzione in forma logica e sistematica hanno atteso generazioni di giuristi. Nel lungo periodo storico il diritto di proprietà e i diritti reali in generale ci appaiono, sotto il profilo istituzionale, come le forme tecniche che presiedono alla ripartizione tra le persone delle utilità generate da un fondo, urbano, ma soprattutto agricolo o forestale. L’Europa, terra d’origine della tradizione giuridica occidentale, è stata, da Carlo Magno sino al 19°-20° sec., un immenso paese agricolo ad agricoltura intensiva. La terra, bene immobile per eccellenza, ha costituito per secoli il bene economicamente e socialmente più importante. I beni mobili erano considerati secondari. Conviene quindi osservare come il legame tra la terra e le utilità che essa produce è pur sempre un legame identificativo di un diritto nello spazio geografico. Nell’Europa della civiltà medievale il guado, la parrocchia, il feudo munito di privilegio di bassa giustizia, sono sempre identificati attraverso un toponimo. Però quest’ottica poteva avere due svolgimenti diversi a seconda che si considerasse la terra come un fondo potenzialmente fruttifero oppure la si considerasse come un territorio le cui utilità erano mediate dalle attività umane dei suoi abitanti. L’ordine feudale era tutto orientato in questo secondo senso e invitava a pensare che la parte più significativa della signoria era costituita del diritto di esigere pedaggi, di amministrare la giustizia, di imporre il rispetto di monopoli. Ora, questi diritti riferiti al territorio erano tutti beni immateriali, sicché si coglie la ragione per cui quando nei sistemi di common law la signoria divenne proprietà, quest’ultima fu concepita come un insieme di diritti, poteri, facoltà, privilegi. Poiché però era la proprietà immobiliare la parte più rilevante dell’assetto proprietario, anche le proprietà mobiliari si potevano orientare in senso immateriale. La proprietà degli uffici ne è stato un esempio, ma in tempi più moderni nei sistemi di common law anche il diritto di autore e i diritti di monopolio concessi al titolare di un brevetto di invenzione industriale, così come l’avviamento commerciale (goodwill), vennero arruolati tra gli oggetti di proprietà.

In direzione opposta si poteva muovere dall’idea per cui la tutela erga omnes garantita dalla proprietà si collega e discende da quell’altra per cui il dominium non può che essere approccio e confronto tra l’uomo e il cosmo (Grossi 1989, p. 364), e quindi l’aspetto caratterizzante della categoria si rinviene in un diritto di utilizzare e disporre direttamente di una res corporalis, senza badare troppo alla struttura di governo del territorio. In questa seconda direzione la fisicalità della terra e dei suoi frutti naturali veniva posta al centro della scena. Non senza dare, però, origine a un sistema molto complesso, perché in non poche circostanze le forme di godimento della terra erano più d’una e spettanti a soggetti diversi; sicché si ammetteva la pluralità dei dominia, i quali erano spesso dominia iuris aventi quindi per oggetto un’entità incorporale, collegata solo spazialmente al fondo. Nello ius commune europaeum queste idee convivono contribuendo a una visione realistica per cui i godimenti prolungati e stabili delle utilità di un fondo si debbono considerare pars dominii, con ciò rendendo assai ampia la categoria dei dominia, che assieme alle servitutes diverranno i diritti reali (Grossi 1968). In definitiva, si deve riconoscere che nell’Europa agricola l’atteggiamento dell’uomo rispetto alle cose poteva essere pensato talvolta in funzione delle utilità collegate ai diritti di utilizzazione della terra, diritti che sono ontologicamente beni immateriali, e talaltra in funzione del fondo stesso che nella dimensione proprietaria è la quintessenza delle res corporales. E codesta ambivalenza poteva essere sciolta solo dalla riflessione giuridica, non essendo nessun’altra branca del sapere umano interessata a essa.

Giova ricordare in proposito che il diritto romano lasciò in eredità al diritto intermedio una tassonomia, dovuta a Gaio, di difficile comprensione perché, nella lettura che ne potevano fare gli interpreti, poneva i diritti reali limitati tra le res incorporales, assieme all’hereditas e alla obligatio, mentre poneva la proprietà tra le res corporales (Pugliese 1982, p. 1137). La ragione di ciò stava nell’idea che la proprietà racchiude in sé ed esaurisce tutte le potenzialità economiche della cosa corporale, e quindi quando la cosa sia posseduta a titolo di proprietà il valore del diritto che entra all’attivo del patrimonio è eguale al valore della cosa stessa. Naturalmente però il concetto di valore implica, operativamente, quello di stima, e le stime sono da sempre condotte dagli estimatori i quali, essendo al corrente delle inclinazioni del mercato, traducono in termini economici le qualità oggettive delle cose stesse, sicché non vi può essere incertezza circa la priorità logica della cosa rispetto al diritto su di esse. Se si svolge questa sequenza, troppo ovvia per essere avvertita, si comprende come divenisse spontaneo elidere il medio del diritto di proprietà e considerare direttamente le cose stesse. Al contrario, quando nel patrimonio entrava un diritto reale limitato, una universalità di beni, e così pure il diritto a ricevere una cosa corporale o una prestazione di servizi, il linguaggio non poteva elidere il riferimento al diritto soggettivo inteso come interesse tutelato dall’ordinamento, perché il valore delle cose era solo il punto di partenza di un calcolo che doveva condurre a individuare il valore economico del diritto e non della cosa. Ma poiché la prima classe di beni che formava il patrimonio erano i diritti di proprietà e quindi le res (corporales), tutti gli altri diritti patrimoniali che lo componevano vennero denominati per contrappunto res incorporales, la cui caratteristica ontologica era quella di non poter essere oggetto di percezione sensoriale e quindi, per sineddoche, del tatto.

L’indicazione romanistica non sarebbe stata sufficiente a orientare la tradizione giuridica di civil law verso una visione rigidamente fisicalista dell’oggetto della proprietà, se non fossero occorsi due fattori concomitanti. Da un lato il bisogno della sistematica giuridica di fornire un inquadramento coerente all’istituto del possesso; dall’altro lato l’esigenza, avvertita dai primi studi economici moderni, di ricompattare la gestione dei fondi assegnando tutti i diritti, poteri e facoltà a un unico soggetto: il proprietario individuale. In questo modo il diritto di proprietà tornava a confondersi con la cosa stessa, diventava di nuovo una res corporalis. Con ciò il diritto europeo codificato poteva proclamare un ritorno al diritto romano classico, ponendo tra parentesi l’esperienza giuridica medioevale dello ius commune europaeum, colpito da una sorta di damnatio memoriae, ma ovviamente ciò comportò anche una profonda frattura con le esperienze di common law. Se le idee giuridiche dovessero rappresentare il diritto positivo vigente, si dovrebbe osservare come l’immagine della proprietà individuale compatta e assoluta che diviene sinonimo della cosa corporale che ne costituisce l’oggetto, non ha mai avuto troppo senso; ciascuna proprietà è sempre stata definita da un insieme, variabile, di limiti. Sicché, se si adotta l’idea che esiste una pluralità di situazioni proprietarie, la confusione tra il diritto e le cose diviene una semplificazione poco sensata perché tutte le stime economiche debbono riferirsi al valore del diritto che entra nel patrimonio del soggetto e non alle caratteristiche fisiche della cosa in sé. Tuttavia la stessa immagine, consentendo una particolare sottolineatura dell’elemento della assolutezza, si prestò assai bene a una esaltazione del diritto di proprietà, visto come cardine del nuovo ordine economico e sociale uscito trionfante dalle rivoluzioni borghesi. Esaltazione non poco diffusa nella letteratura giuridica ottocentesca, la quale non si dava troppo carico del fatto che tale ordine vigeva da più tempo in Inghilterra, dove simili visioni non potevano avere corso.

Il dominio e le cose nella civiltà industriale e postindustriale

In realtà vi era anche un motivo più profondo per concentrare l’attenzione sulla proprietà fondiaria individuale, ed era il desiderio di mantenere solido il legame tra cultura giuridica e cultura politico filosofica. In effetti, tra il 17° e il 19° sec., il diritto di proprietà sembrò restituire in una cifra unica l’accumulazione di tutti gli sviluppi del pensiero che erano andati svolgendosi nel mondo occidentale. I grandi temi della cittadinanza e della partecipazione politica; della giusta distribuzione della ricchezza e dell’eguaglianza tra gli uomini; della libertà di intraprendere e di sviluppare le proprie personalità, sembravano racchiusi nel destino della proprietà.

In proposito dominava ancora la scena l’insegnamento della scuola del diritto naturale, che aveva scandagliato a lungo la questione della legittimità giuridica e morale della proprietà privata giungendo a conclusioni che avevano trovato consacrazione nella Costituzione federale americana e nella Déclaration des droits de l’homme et du citoyen del 1789. Ora, quel dibattito, e quell’esito, che veniva solennemente sancito in carte fondamentali dell’ordinamento giuridico era stato condotto in relazione alla proprietà fondiaria individuale perché sembrava che, ove si fosse riusciti a dimostrare la legittimità della proprietà individuale privata della terra, che si assumeva essere stata originariamente data da Dio in comunione a tutti, si poteva facilmente dimostrare la legittimità di ogni altra forma di proprietà a guisa di corollario.

Non stupisce quindi che la letteratura giuridica si sia fatta corifea di una impostazione tanto prestigiosa.

In ogni caso, il concorso di vari fattori ha fatto sì che i codici civili dell’Europa continentale abbiano codificato una disciplina della proprietà e del possesso che è pensata in riferimento ai beni corporali, sia mobili sia immobili. Nel codice civile tedesco (Bürgerliches Gesetzbuch, BGB) questo riferimento è esplicitato in modo inequivocabile, posto che il par. 90 prevede che cose nel senso della legge siano solo le cose corporali. Nel codice francese e in quello italiano manca una presa di posizione esplicita, ma la disciplina della proprietà e del possesso è applicabile integralmente solo assumendo il medesimo presupposto: la pubblicità immobiliare e i suoi effetti era organizzata, sino a tempi recentissimi, in funzione della coincidenza tra la proprietà e la cosa corporale, salva la trascrizione di diritti reali limitati, tipizzati per via legislativa.

Durante la prima rivoluzione industriale l’impostazione fisicalista dell’oggetto della proprietà sembrò ricevere conferma della sua modernità. La società industriale è la società del macchinario e del manufatto. Il prodotto dell’industria, sia esso un bene finale sia esso un bene strumentale, è dotato di una fisicalità talvolta massiccia. Grandi navi e grandi aeroplani segnano l’apogeo della tecnica industriale. In generale è da osservare che queste conferme provenienti dalla civiltà materiale che si radicò nei Paesi europei occidentali nel 19° sec. andavano di pari passo con l’affermarsi di regole del traffico giuridico che facevano leva sul possesso, ossia sul controllo fisico di un bene materiale, e sembravano confermare la modernità della soluzione espressa nei codici civili europei. I prodotti della civiltà industriale infatti sono in gran parte beni mobili a uso rivale, rispetto ai quali la compattezza del dominio nel senso di attribuzione a un solo soggetto di tutte le utilità che la cosa può generare appare la soluzione più razionale.

Nella tradizione di civil law, una volta codificato un assetto proprietario che sembrava adatto alla prima rivoluzione industriale, ci si è avveduti che l’evoluzione successiva si orientava in senso opposto. La diffusione della ricchezza detenuta mediante beni immateriali di cui si è parlato agli inizi ha solo reso più evidente un fenomeno già avvertibile. Infatti, in un ordinamento sempre più organizzato, le utilità generate dalle cose dipendono in larga misura da regole giuridiche e non dalle caratteristiche materiali delle cose stesse. Sotto un profilo economico è certo rilevante che un terreno sia montano, collinare o pianeggiante, ma rilievo ancora maggiore assumono le regole giuridiche che lo concernono: che sia edificabile o meno; che sia incluso nel territorio delimitato in cui possono svolgersi produzioni agricole contrassegnate da un marchio prestigioso come Champagne o Parmigiano-Reggiano. Nei sistemi giuridici complessi il valore economico dei beni che compongono il patrimonio è in larga misura la sintesi di regole giuridiche vigenti; e il diritto vigente è essenzialmente un ordine immateriale.

La proprietà delle idee tra fondamenti etici e regole giuridiche

È da ricordare come gli ordinamenti giuridici abbiano da tempo preso in considerazione beni immateriali come il diritto di autore (copyright), il brevetto di invenzione industriale, i marchi di fabbrica e i segni distintivi in generale. Nei sistemi europei continentali queste normative sono confluite in una apposita disciplina scientifica che ha preso il nome di diritto industriale; perciò talora si parla di proprietà industriale, creando una discrepanza terminologica con le esperienze di common law, ove il diritto industriale è sconosciuto come settore disciplinare e si preferisce quindi l’espressione intellectual property, certo più adatta alla realtà contemporanea. In conseguenza di ciò e, parallelamente, in conseguenza della impossibilità di fare riferimento alla pur ricca e sofisticata tradizione dottrinale in materia di diritti di proprietà, i nuovi beni sono stati disciplinati estendendo a essi la normativa esistente in materia di beni immateriali, e, principalmente in tema di brevetti e di diritto d’autore, le cui apposite leggi sono state infatti recentemente riformate per adattarle ai nuovi bisogni. Tuttavia il disagio dei giuristi non esegeti è palpabile. Anche le prassi operative sono in difficoltà e spesso in contraddizione con la normativa. Il problema fondamentale è che la nomenclatura dei nuovi beni rende manifesta da subito la loro origine americana, essendo abituale, tranne che in Francia, conservare la denominazione originaria in lingua inglese. Non è qui importante discettare se ciò dipenda dal fatto che gli Stati Uniti sono stati nella seconda metà del 20° sec. il luogo più creativo del pianeta, oppure se ciò dipenda dall’egemonia politica che tale Paese ha esercitato. Rileva invece ricordare che gli Stati Uniti sono, quanto a tradizione giuridica, un Paese di common law e che per il common law non solo la lista dei beni immateriali è sempre stata una lista aperta così come è sempre stato ovvio che si tratta di beni oggetto di proprietà; ma, e soprattutto in quella esperienza giuridica, è ormai acquisito che i diritti di proprietà sono un fascio variabile di diritti, poteri, privilegi e immunità, sicché il retroterra culturale e teorico dei nuovi beni è dato appunto dalle teorie della proprietà che sono, come si può bene immaginare in riferimento a un istituto giuridico indagato da secoli, estremamente ricche e articolate. In Europa continentale tale retroterra è spesso incomprensibile. Non sorprende quindi che l’estensione della tutela proprietaria ai nuovi beni virtuali sia percepita negli ambienti giuridici di civil law come una manifestazione arrogante dell’egemonia americana (Berra, Meo 2006).

In realtà il problema dei nuovi beni viene discusso su due piani diversi: il primo attiene alla legittimità del diritto di esclusiva concesso al loro autore; il secondo attiene alle forme tecniche più appropriate per disciplinare tale attribuzione.

Sul primo aspetto giova eliminare un malinteso che rende difficile comprendere come la discussione sia impostata. Molti infatti ritengono che benché sia chiaro come le idee possano essere frutto solo del cervello umano, tuttavia la creazione di una nuova idea o di un nuovo trovato sia spesso il prodotto di interazioni tra diversi cervelli, sicché non è possibile individuarne l’autore e, di conseguenza, colui che può vantare un titolo di proprietà, giungendo alla conclusione che il diritto di proprietà non può essere attribuito. Ciò tuttavia è ingenuo. Normalmente infatti la cooperazione tra diverse persone può essere organizzata e coordinata proprio al fine di pervenire a nuove idee. In questa circostanza, che è quella normale, il soggetto giuridico che presiede a tale attività di organizzazione e coordinamento può essere, e normalmente è, un soggetto virtuale: una società, una fondazione, un ente pubblico, lo Stato. In riferimento ai soggetti la tradizione giuridica occidentale ha precorso di gran lunga i tempi, sicché le forme di soggettivizzazione dei gruppi sono svariatissime. Una volta costituito il soggetto giuridico virtuale, le sofisticate e complesse modalità mediante le quali l’apporto creativo dei singoli viene riconosciuto e premiato all’interno del gruppo organizzato sono del tutto irrilevanti ai fini della discussione teorica circa l’appropriabilità del nuovo bene, ed essa può svolgersi secondo il paradigma delle precedenti discussioni relative alla legittimazione che gli individui possono reclamare sui beni di qualsiasi tipo.

Eliminato un possibile fraintendimento iniziale nell’esaminare i fondamenti dell’attribuzione dei beni in proprietà, non si deve perdere di vista che negli Stati Uniti si tende ad analizzare tale problema sotto il profilo della legittimità etica e sotto quello, discosto, ma in fondo convergente, della razionalità economica. In Europa, al contrario, la tendenza è rivolta ad analizzare il problema teorico sotto il profilo delle analogie con la tradizionale tutela del diritto di autore e del brevetto industriale.

La tendenza coltivata negli Stati Uniti è però quella dominante. Al riguardo si è già accennato al fatto che, in tema di legittimazione degli individui ad appropriarsi dei beni, la storia del pensiero occidentale ha inanellato una lunghissima tradizione di modelli argomentativi, e a questi modelli anche la discussione odierna si riallaccia in modo vistoso. Tale tradizione di ricerca non può essere qui riferita, ma solo riassunta ricordando come, se è vero che il problema di stabilire le condizioni necessarie affinché un individuo o un gruppo organizzato possa legittimamente reclamare ‘questo è mio e di nessun altro’ esiste da sempre, esso è stato risolto da tempo assegnando il titolo necessario al primo occupante un certo territorio, oppure a colui o coloro che lo hanno occupato scacciando definitivamente i precedenti abitanti. Risolto questo problema, in una economia di caccia e raccolta residuano questioni marginali che non mettono in discussione la struttura sociale. Al massimo possono portare alla dissoluzione del singolo gruppo e alla formazione di un altro, che però avrà la stessa organizzazione del precedente. Infatti la divisione della preda o del frutto è una questione che attiene all’organizzazione interna del gruppo (Sacco 2007, p. 263) il quale funge da soggetto giuridico che attua l’appropriazione legittima. Il contesto muta nelle società agricole non solo perché l’appartenenza si manifesta in forma di proprietà tendenzialmente esclusiva e non di riserva di alcune utilità selezionate, ma perché è la stessa sopravvivenza della struttura sociale che dipende dal riconoscimento della situazione di appartenenza. Il ciclo agrario infatti impone che colui che ha predisposto il fondo, provveduto alla semina e alla irrigazione, sia il medesimo soggetto che si appropria del raccolto, mentre durante tale ciclo tutti gli altri debbono essere esclusi, nel senso tipicamente fisico che a essi è vietato attraversare i confini del fondo salvo ben calibrate eccezioni. Ciò equivale a dire che la scelta a favore dell’attività agricola è eguale alla scelta a favore di forme di appartenenza tendenzialmente esclusive sui fondi agricoli; ma è proprio l’inevitabilità di tale soluzione che dà adito al problema di decidere se il raccolto spetti a colui che ha materialmente coltivato il fondo, o a colui che ha un titolo giuridico su di esso.

Le società espansive debbono però affrontare l’ulteriore problema delle terre vacanti, ossia quelle sottratte con la forza ad altre popolazioni. Sia la società greca sia quella romana e quelle europee a partire dall’epoca delle grandi scoperte geografiche hanno dovuto affrontare il problema dell’attribuzione delle terre vacanti, e il modo con cui lo hanno razionalizzato concettualmente, ossia giuridicamente, ha avuto non nascosti riflessi sulla razionalizzazione del problema relativo alla distribuzione dei frutti delle proprietà rimaste in patria.

Giova anche ricordare come quelle società, poiché avevano alle spalle secoli o millenni di esperienza agricola, concepirono il problema della legittimazione ad appropriarsi delle terre vacanti utilizzando un assunto inespresso, ma decisivo, per cui chi può legittimamente dire ‘questa terra è mia’ implica che quella porzione dello spazio terrestre non solo è interamente sua e di nessun altro, ma che è sua per sempre, nel senso che dopo di lui sarà dei suoi figli e dei figli dei suoi figli, i quali eventualmente potranno cederla ad altri volontariamente, o concederla in uso ad altri in cambio di un canone, senza per ciò scalfire la legittimità della proprietà primigenia, perché il concetto di proprietà, essendosi ibridato con le idee di terra e di famiglia, ne ha acquisito il gene dell’eternità.

Infine, si deve premettere che la penultima fase dell’espansione delle popolazioni europee, durante i secoli 17°-18°, abbia coinciso con l’apogeo della scuola del diritto naturale; perciò la discussione circa la legittimazione ad appropriarsi delle terre vacanti si svolse secondo i canoni dell’argomentazione di filosofia morale. Al contrario l’ultima fase del colonialismo europeo, nel 19° sec., coincide con l’affermazione del positivismo giuridico, grazie al quale ci si poteva limitare a dire: ‘questa terra è mia perché su di essa ho un titolo riconosciuto dallo Stato’, mettendo così alla porta i filosofi e chiamando gli avvocati per risolvere gli eventuali conflitti di vicinato.

Le colonie inglesi che diedero vita agli Stati Uniti si formarono nella penultima fase dell’espansionismo europeo e hanno perciò incorporato nella loro mentalità giuridica i canoni generali della discussione giusna­turalistica adottando con entusiasmo la soluzione di John Locke, che svolse il seguente itinerario argomentativo: a) ogni individuo è reso da Dio padrone del proprio corpo e delle proprie energie; b) parimenti, ogni individuo è padrone e signore (ergo: proprietario) dei frutti del suo lavoro; c) perciò il colono si appropria legittimamente dei frutti che ha coltivato; d) quanto alla terra in sé, poiché essa è stata data da Dio agli uomini perché la coltivino (e perciò non ai nativi che vivono di caccia e raccolta), il colono europeo se ne appropria in maniera legittima purché ne rimanga altrettanta per gli altri (coloni europei) che sopravvengano.

Nelle colonie poste sulla costa atlantica degli Stati Uniti quest’ultima condizione sembrava facilmente soddisfatta (sempre fatta una solenne astrazione per i diritti dei nativi) e perciò non sorprende che questa razionalizzazione del problema della legittimità morale del diritto di proprietà sia divenuta il credo americano. Ciò anche in conseguenza del fatto che il suo corollario immediato (per cui se ogni individuo ha un diritto naturale alla proprietà esclusiva dei frutti del suo lavoro solo egli stesso può disporne con atto della sua volontà) è alla base del celebre slogan no taxation without representation, da cui prese le mosse la Rivoluzione americana e in definitiva la fondazione degli Stati Uniti d’America.

Richiamato ciò, diviene più semplice comprendere le ragioni per cui quando, nella seconda metà del 20° sec., si sono aperti gli enormi spazi della cibernetica, la discussione sulla appropriabilità del bene essenziale per il controllore di tali spazi, ossia il software, si sia stata impostata negli Stati Uniti secondo il paradigma lockiano. Coloro che sostengono l’appropriabilità del software fondano la propria argomentazione sul fatto che i programmi per elaboratori sono il frutto di investimenti dedicati alla ricerca e sviluppo dei medesimi e quindi, quando un programma utile viene confezionato, esso è esattamente come il frutto del lavoro del colono e quindi naturalmente suo e a titolo di proprietà. Il legislatore americano si è fatto convincere da questo argomento ed è stato generoso nel riconoscere tutela proprietaria all’ideatore di un nuovo programma facendosi inoltre promotore, con successo, della loro più intensa tutela sul piano internazionale. Attualmente, in base agli accordi TRIPs (Trade Related aspects of Intellectual Property rights), la tutela del software è necessaria per i singoli Stati essendo uno dei prerequisiti obbligatori per partecipare alla WTO (World Trade Organization) quindi, in definitiva, per avere voce in capitolo nella regolazione degli scambi transnazionali.

Coloro che sostengono che il regime ottimale sia quello della non appropriabilità individuale, dando vita al movimento open sources, fanno valere il fatto che ogni software incorpora una grande porzione di lavoro comune, nel senso che rappresenta uno sviluppo di programmi già esistenti frutto di libera ricerca. Si usa cioè l’argomento lockiano inverso per sostenere che quanto è frutto del lavoro di tutti deve rimanere di tutti, come avviene normalmente per le nuove scoperte che sono frutto della libera ricerca scientifica condotta in università e accademie.

I nuovi beni immateriali: individuazione e tutela

In generale occorre sottolineare come i nuovi beni virtuali sono a uso tendenzialmente non rivale, nel senso che la loro fruizione non è necessariamente riservata a uno solo o a pochi individui selezionati. Come si ricorderà, la terra coltivabile non può essere aperta a tutti, perché altrimenti nessuno la coltiverà. Questo approccio però non vale per i beni virtuali, anche se alcuni, come i domain names, sono analoghi ai segni distintivi e quindi non tollerano attività confusorie. Le utilità che essi procurano non sono quindi necessariamente discendenti da un uso esclusivo. Infatti la loro tutela proprietaria è sostenuta dalla opportunità di incentivare la loro produzione. In questo senso si argomenta dal fatto che la produzione di nuovi beni immateriali necessita di investimenti. È vero infatti che il software è un bene a uso non rivale, ma i programmatori hanno bisogno di hardware, che invece è un bene a uso rivale, così come hanno bisogno di altre attrezzature: scrivanie, locali, denaro, che sono necessariamente beni esclusivi. L’argomento in realtà sottintende una preferenza per l’investimento di tipo imprenditoriale rispetto a forme di investimento collettive. Tale preferenza ha certamente ricevuto il collaudo della storia recente. Tuttavia è piuttosto arduo sostenere che la grande produzione di scritti scientifici che vi è stata negli ultimi decenni, la quale eguaglia come mole tutta la produzione scientifica precedente, si pone in un rapporto di causa effetto rispetto alla tutela del diritto di autore accordata ai ricercatori. In realtà l’incentivo connesso all’aspetto economico del diritto di autore ha un’influenza minimale sulla produzione scientifica, mentre i suoi risultati sono aperti a tutti, salva la presenza di balzelli irrisori.

Nel caso specifico del software l’argomento tecnico che i sostenitori del movimento delle open sources fanno valere è che l’accesso ai codici sorgente consente un continuo miglioramento grazie ad apporti collettivi degli utenti, posto che la complessità del lavoro dei programmatori cresce esponenzialmente mentre la elaborazione di nuovi programmi non può essere automatizzata. In sintesi si sostiene che, poiché la produzione di software dipende interamente dal cosiddetto capitale umano, l’attività cooperativa spontanea e amatoriale è molto più promettente ed efficiente della cooperazione organizzata mediante la struttura gerarchica dell’impresa. In effetti, agli inizi del 21° sec., si possono già individuare alcuni esempi di programmi creati mediante forme di cooperazione spontanea che non hanno nulla da invidiare ai prodotti imprenditoriali (Berra, Meo 2006).

Il secondo piano su cui la discussione viene svolta riguarda gli strumenti di tutela dei nuovi beni virtuali. Al riguardo giova osservare che le caratteristiche ontologiche rilevanti di tali beni sono date da una totale dematerializzazione e una potenziale universalizzazione del loro accesso. La prima di tali caratteristiche si scopre facilmente se si pensa al tradizionale diritto di autore figlio della cosiddetta rivoluzione Gutenberg. L’opera letteraria, artistica o scientifica veniva infatti sempre divulgata attraverso un supporto materiale. Conseguentemente la sua tutela poteva concretarsi con l’appropriazione e distruzione delle copie contraffatte. Parimenti avveniva e avviene con i prodotti muniti di marchio contraffatto. In sostanza i rimedi giuridici posti a tutela del diritto di esclusiva sono stati pensati in funzione della circolazione di beni materiali. Il libro diffuso in Internet invece non può tornare di proprietà dell’autore o del titolare del copyright. La stessa situazione si viene a creare con il software, con i domain names, con le opere musicali diffuse sulla rete, con i filmati, con le creazioni pubblicitarie, con tutto ciò che, esistendo indipendentemente da un corpus mechanicum, entra nel novero dei beni puramente immateriali.

La tutela di tali beni, nei limiti in cui deve essere concessa, si può concretizzare solo in tutela di tipo risarcitorio, con la quale il titolare del diritto leso è risarcito in denaro per la perdita o il danno subito, oppure mediante tutele di tipo inibitorio, ossia mediante ordini dell’autorità giudiziaria che proibiscano la continuazione della condotta lesiva. Simili mezzi di tutela presuppongono però un ordinamento giuridico sofisticato e forte, capace cioè di far rispettare le decisioni giudiziali o arbitrali.

Sennonché non è questa la situazione del diritto globale. Tradizionalmente infatti l’ordine internazionale si fonda sugli Stati, intesi come gli unici soggetti idonei a costituire l’ordinamento internazionale. Sicché le eventuali debolezze istituzionali di un singolo Stato, l’inefficienza del suo apparato giurisdizionale, l’inefficacia dei provvedimenti formalmente adottati, si riflettono sull’effettività delle tutele accordate a livello internazionale. Come si è accennato, l’ordinamento internazionale prevede una pluralità di accordi tra Stati volti a proteggere la cosiddetta proprietà intellettuale. Il più rilevante ai fini del discorso che si sta conducendo è l’accordo TRIPs (firmato a Marrakech il 15 aprile 1994 e integrato nella WTO), ma è noto che non tutti gli Stati aderiscono alla WTO e anche alcuni aderenti appaiono parecchio distratti rispetto alle obbligazioni assunte. Sul piano della effettività della tutela la protezione della proprietà intellettuale non è mai stata così debole.

Probabilmente è stata proprio la consapevolezza della debole tutela di cui godono i nuovi beni virtuali che ha indotto gli Stati più progrediti, sull’esempio e la spinta degli Stati Uniti, ad accordare ai loro proprietari una protezione formalmente assai intensa.

Questa tendenza si muove in due direzioni, entrambe consone alla tendenza di fondo della law of property di common law. In un senso, si assiste a un ampliamento delle creazioni intellettuali proteggibili. Nell’altra direzione, si assiste, invece, a una estensione delle aree di esclusività che la titolarità di detti beni assicura al loro proprietario.

Sotto il profilo tecnico giuridico entrambi questi ampliamenti sono promossi da una rinnovata concezione del diritto di autore. La possibilità di proteggere i nuovi beni mediante la tutela brevettale è stata scartata, avendo la direttiva 91/250/CEE seguito il modello americano. Tradizionalmente il diritto di autore tutela un’opera dell’ingegno nel settore scientifico, artistico e letterario assicurando all’autore l’esclusiva di una forma originale di espressione di una idea. L’intento di assicurare una remunerazione all’investimento e al rischio imprenditoriale su cui si fonda, come si è detto, la tutela dei nuovi beni, è estranea alla funzione classica del diritto di autore. Nei secoli immediatamente alle nostre spalle il diritto di autore ha quindi protetto lo scienziato, lo scrittore, il musicista nei confronti di editori e impresari ed è quindi stato l’antagonista degli interessi dell’industria libraria e dell’impresa teatrale. Per ulteriore conseguenza l’oggetto del diritto di autore non sono state invenzioni utili allo svolgimento di una ulteriore attività di impresa. Al contrario quasi tutti i nuovi beni, dal software al format, sono invenzioni utili proprio per l’ulteriore svolgimento di attività tipicamente imprenditoriali.

Riconosciuta la tutela del copyright anche fuori dalle aree tradizionali e assegnata a tale diritto una funzione diversa, se non opposta, rispetto a quella originaria, non si è però ridotta l’area delle tutela. Anzi questa è stata ampliata in senso di durata cronologica (oggi portata a 70 anni dalla morte dell’autore), anche se ciò è incongruo con la durata della utilità fornita dai nuovi beni. L’ampliamento della tutela sino a forme di iperprotezione della proprietà intellettuale (Ghidini 2001) si registra però soprattutto nell’attenuazione dell’originalità richiesta per poter accedere all’esclusività del diritto sul nuovo bene. Sino a tempi recenti infatti le nuove invenzioni foriere di utilità sfruttabili industrialmente venivano protette mediante l’attribuzione dell’esclusiva brevettuale. La concessione di un brevetto tuttavia postula una qualche forma di controllo, ex ante o ex post, sulla novità del trovato. Scegliendo di proteggere i nuovi beni a titolo di diritto di autore e non di brevetto, tale requisito si attenua assai, perché ci si deve accontentare di una originalità modesta che coincide con il fatto che l’opera non sia copiata da altri.

A ciò si aggiunga che, sempre tradizionalmente, il diritto di autore comprende il diritto all’inedito, ossia a conservare segreta l’opera. Tuttavia tale possibilità ha come contrappasso immediato la rinuncia allo sfruttamento economico dell’opera, e anche la rinuncia alla notorietà che la pubblicazione di un’opera comporta. Se non si vuole rinunciare a questi vantaggi, allora la pubblicazione implica la completa divulgazione dell’opera. Invece per il software, come si è già accennato, si è derogato a questa alternativa secca consentendo di divulgare solo in parte il nuovo bene, coniugando così il vantaggio del segreto con quelli della diffusione. L’interesse sacrificato è quindi quello alla piena divulgazione dell’opera dell’ingegno, la quale quindi viene utilizzata come prodotto e non come opera in senso proprio.

Più problematica ancora è l’individuazione dei confini dell’esclusiva. L’individuazione esatta di un bene materiale non ha mai posto gravi problemi nel mondo del diritto. Anche i beni immobili a partire dal suolo possono essere individuati mediante l’indicazione dei loro confini. A seconda delle epoche e dei Paesi il tracciare i confini di un fondo può essere un’operazione che non sempre genera un risultato geometricamente preciso, ma concettualmente si tratta solo di un problema di geometria applicata e la geometria è stata inventata apposta per risolvere il problema delle delimitazioni spaziali dei fondi.

Nel caso dei nuovi beni le cose vanno diversamente. I confini tra due idee creative sono necessariamente sfumati e incerti. Inoltre è ovvio che una idea stimola altre idee. Già la disciplina tradizionale del diritto di autore prevede la figura delle opere derivate, parimenti è nota la figura delle invenzioni derivate da un trovato protetto con la tutela brevettuale; ma ciò non evita il problema dei confini del diritto di esclusiva, perché è previsto che nel caso di opere derivate sia necessario il consenso dell’autore dell’opera principale, mentre nel caso di invenzioni derivate è previsto un regime di licenza obbligatoria.

Il problema, come si intende facilmente, è tutto concentrato nello stabilire in che misura una creazione intellettuale è frutto dello sforzo creativo di un singolo soggetto giuridico e in che misura è attribuibile all’ambiente culturale creato dall’attività collettiva. Che vi siano nessi assai forti tra l’ambiente e l’autore va da sé, ma poiché si verte in tema di proprietà e quindi di assegnazione in via esclusiva a un singolo soggetto giuridico di una porzione del sapere generale, occorre individuare la misura dell’apporto creativo che è richiesto affinché tale soggetto possa legittimamente dire ‘questa idea è mia’. Al riguardo la regola applicata sembra fare riferimento a concetti ovvi che fanno leva sul carattere creativo, ovvero originale, dell’idea quale espressione della personalità dell’autore. In realtà, però, simili concetti vaghi non risolvono il problema, che dipende piuttosto dalla propensione diffusa a incoraggiare o meno lo sviluppo in certe direzioni. Si è già osservato come l’attribuzione di diritti esclusivi sia in questo settore un premio, e quindi un incentivo, all’investimento di risorse. Si è accennato anche che nella fase iniziale della diffusione delle nuove tecnologie informatiche gli ordinamenti occidentali sono stati piuttosto generosi nell’attribuzione di tale incentivo e l’esito è stato un afflusso di notevoli investimenti nel settore. Dopo qualche anno però si è manifestato il rischio che l’elevato numero di proprietà intellettuali riconosciute possa costituire un ostacolo e non un incentivo allo sviluppo. Non si tratta solo di riproporre la regola lockiana per cui l’appropriazione in esclusiva della terra vacante richiede, per essere legittima, che si verifichi in concreto l’esistenza di altrettanta terra lasciata libera per gli anni venturi. Infatti queste proprietà intellettuali sono spesso segmenti di insiemi più complessi e pertanto si riproduce in materia quella che è stata chiamata la tragedia degli anticommons, ossia un assortimento dei diritti sulle cose che conferisce a ciascun titolare un impedimento rispetto ad attività che possono essere svolte da altri. Non è sufficiente al riguardo prevedere un regime di licenza obbligatoria perché, comunque, il costo connesso alla ricerca del titolare del singolo segmento e quello delle attività conseguenti possono essere proibitivi.

La lunga esperienza accumulata in campo immobiliare consente al diritto civile di raggiungere empiricamente soluzioni soddisfacenti per evitare la tragedia degli anticomuni. I diritti di proprietà su beni immateriali di nuova generazione non hanno ancora accumulato la medesima esperienza. Specie in Europa si ritiene che l’antidoto più appropriato possa consistere in strumenti tratti dal diritto antitrust. Ciò è parzialmente promettente perché tale branca del diritto è composta da regole generali dotate di grande flessibilità applicativa e, soprattutto, è sorvegliata da apposite entità istituzionali come la Commissione europea e le varie autorità amministrative presenti a livello nazionale. Alcuni successi sono stati ottenuti nell’attenuare il regime di segreto che caratterizzava i codici sorgente dei più importanti produttori di software. Tuttavia deve essere ricordato che il regime dei beni è stato disegnato per poter far funzionare il mercato, mentre non avrebbe molto senso predisporre un regime dei beni che poi richiede interventi ad hoc per poter proteggere la concorrenza sul mercato. La legislazione antitrust è proprio una disciplina di quest’ultimo tipo, la quale ha motivo di intervenire quando si crei una market failure e non quando si tratti di effetti indotti dalle fondamenta stesse del mercato. Infatti i casi in cui la disciplina antitrust ha potuto essere applicata con qualche successo concernono quelle speciali forme di ‘fallimenti del mercato’ che discendono dal cosiddetto effetto di rete. Tale effetto si crea quando uno standard viene adottato da un gran numero di utenti. Lo standard può essere un tipo di software per comporre testi, ma può essere anche un insieme di criteri per misurare le tendenze del mercato dei farmaci su un dato territorio, l’impatto della comunicazione pubblicitaria. L’effetto di rete consiste nell’incentivo che hanno tutti gli altri utenti ad adottare il medesimo standard attorno al quale si è coagulata la maggioranza relativa dei consensi, perché chi usa il programma di scrittura dominante ha maggiore facilità nello scambiare file rispetto a chi usa programmi di nicchia. I protagonisti del mercato dei farmaci o della pubblicità commerciale si accorderanno facilmente nel prevedere che i loro contratti incorporino gli indici economici misurati in base allo standard dominante e non faranno assegnamento invece su altri standard di nicchia anche se essi sono accessibili a prezzo inferiore. In sé l’effetto di rete è una variante specifica dell’effetto valanga: più soggetti si aggregano nell’utilizzo di uno standard più cresce l’attrattività dello standard medesimo. Se lo standard è considerato un bene protetto con il diritto di autore, i diritti di monopolio sull’opera dell’ingegno si trasformano in un monopolio di quel settore del mercato. In queste circostanze normalmente stuoli di inquisitori si mobilitano per scovare qualche specifica condotta anticoncorrenziale posta in essere dal monopolista. Naturalmente tutti gli inquisitori trovano l’illecito che cercano. Meglio sarebbe dire che le società attuali non sono disposte a premiare le opere dell’ingegno con l’attribuzione di una posizione di monopolio in senso economico. Come ciò si concili con la tutela costituzionale del diritto d’autore rimane assai misterioso; si preferisce parlare di tensione tra tutela della concorrenza e tutela della proprietà intellettuale.

Il problema fondamentale è che nell’era cosiddetta digitale la tecnologia consente che qualunque messaggio linguistico, musicale, o figurativo possa essere trasformato in file espressi in codice binario e in tali forme possa essere trasmesso in tutto il globo in un tempo praticamente nullo e, soprattutto, attribuendo al recettore del messaggio la possibilità di rielaborarlo (Pascuzzi 2002). Il sampling, ossia il riarrangiamento di brani musicali, è l’esempio più evidente di tale possibilità.

Naturalmente, tale possibilità si riflette su una serie assai ampia di messaggi che sino a qui erano affidati a un supporto, spesso cartaceo. Un esempio al riguardo è dato dalla moneta digitale, elettronica, la quale altro non è che un credito monetario nei confronti dell’emittente che viene registrato solo nella memoria di un computer. Un altro è dato dalla firma digitale, che è l’autografo non più su carta, ma espresso in codice binario. Tali novità ovviamente richiedono una regolamentazione che adatti alle nuove situazioni i precetti già esistenti rispetto alla moneta cartacea o alla firma autografa. Tuttavia simili adattamenti sono agevoli ed è impressionante constatare, per es., quanto poco la costellazione dei principi che reggono il sistema dei titoli di credito sia cambiata da quando è scomparsa la cartula.

I problemi più spinosi riguardano perciò solo la nozione di bene e di diritto sui nuovi beni. Qualunque messaggio veicola un’informazione, ma ovviamente l’attenzione si concentra solo su quelli ai quali i riceventi sono disposti ad attribuire un valore economico. Le informazioni di quest’ultimo tipo sono normalmente il frutto di una attività intellettuale di ricerca e di organizzazione di dati posta in essere da individui o da gruppi appositamente organizzati. Classificare le informazioni utili tra i beni significa predisporre un ordinamento giuridico in cui esse sono appropriabili e quindi oggetto di scambio, nel senso che per poterle ricevere occorre pagare un prezzo; al riguardo, però, occorre aggiungere che tale accesso avviene quasi sempre in un regime di licenza, il termine italiano che traduce alla lettera l’inglese licence. La licence è termine tecnico giuridico che indica la possibilità di accedere a un bene senza commettere un atto illecito, ma non è un diritto reale perché non conferisce alcun diritto, potere o facoltà sul bene, sicché contrattualmente si possono restringere le facoltà di cui dispone colui che acquisisce il diritto, anche in contrasto con quelli tradizionalmente concessi all’acquirente di un bene protetto mediante copyright. Si sostiene che ciò comporta una ridefinizione del concetto di diritto di autore e un ampliamento del concetto di diritti di proprietà. Ciò è indubbiamente vero, ma al fondo vi è che nello spazio telematico si sono riprodotti i meccanismi di appropriazione che le società espansive hanno praticato da secoli, e anche le giustificazioni sono rimaste sostanzialmente le medesime. Ontologicamente però non vi è nessuna affinità tra i messaggi digitali e i fondi agricoli, ed è dubbio che il premio e l’incentivo alla creatività possa essere la base di una qualche analogia di regime giuridico. Il problema appare destinato a rimanere aperto per gran parte del 21° secolo. La posta in gioco è alta.

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