DAL POZZO, Francesco, detto il Puteolano

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 32 (1986)

DAL POZZO, Francesco, detto il Puteolano

Rosario Contarino

Nacque nella prima metà del sec. XV a Contignaco, nel territorio di Parma, da Melchiorre, che aveva ottenuto la cittadinanza di questa città da Francesco Sforza duca di Milano, come risulta da un documento del 1477.

Il D. compì gli studi umanistici a Milano, ma mancano agli sui maestri e sugli indirizzi delle scuole da lui frequentate; è infatti quasi certamente infondata la notizia tramandata dal Sassi e dal Poggiali, secondo la quale sarebbe stato allievo di Gabriello Paveri Fontana, che più tardi gli fu invece rivale. Alla corte degli Sforza dovette acquistare quella rinomanza nel campo degli studi classici, che nel 1467 gli fece ottenere da Giovanni (II) Bentivoglio, marito di Ginevra Sforza, l'incarico di lettore di retorica e poesia presso lo Studio di Bologna. Il soggiorno in questa città, durato fino al 1477, fu reso agevole dall'amicizia di questo signore, che gli offrì ospitalità e gli affidò il delicato compito dell'educazione dei figli.

Il Bentivoglio testimoniò in vario modo gratitudine per l'opera intrapresa dal Dal Pozzo. Nel 1472 (con lett. del 19 sett. a Galeazzo Maria Sforza) chiese per il suo protetto i benefici della chiesa maggiore di Parma e della pieve di S. Ilario (o S. Eulalia) rimasti temporaneamente vacanti, descrivendo le benemerenze di studioso e precettore del D.; ma invano rinnovò poi la sua richiesta in una successiva lettera a Cicco Simonetta, del 14 ott. 1472 (Ady, p. 5). Il D., tuttavia, risulta ammesso nel 1474 agli ordini minori della carriera ecclesiastica e al godimento di un cospicuo beneficio nella diocesi di Parma, che gli consentiva di mantenere convenientemente il padre e gli otto fratelli. La preoccupazione di assicurargli la sicurezza economica è certamente il segno della benevolenza del Bentivoglio per l'azione da lui condotta nella promozione degli studi umanistici a Bologna. Desideroso in questi primi anni di signoria di far primeggiare la sua corte e di riportare la città allo splendore di un tempo, il Bentivoglio lo utilizzò come un vero e proprio funzionario di corte e si avvalse della sua collaborazione per restituire l'università alla sua centralità nella vita culturale cittadina. Tutte le testimonianze dei contemporanei, infatti, concordano nel segnalare il D. come un letterato prestigioso, un commentatore atten to dei testi, un maestro di notevole efficacia, capace di fornire un moderno metodo filolo gico agli scolari. Egli ridonò prestigio con varie iniziative alla ricerca umanistica, tanto che alla sua dottrina si richiamò nelle sue Annotationes Filippo Beroaldo il Vecchio, che gli fu successore nello Studio bolognese e lodò l'autorevolezza del suo insegnamento anche in altre opere (dai Commentarii in Propertium, all'Oratio proverbiorum, ai Commentarii su Apuleio). Il Beroaldo sottolinea il valore soprattutto morale di quella lezione, che gli servì come stimolo per un sempre più impegnativo cimento intellettuale e come esempio da emulare e superare: "Ego quantum ad me attinet connixus sum pro viribus dies noctesque incudem hanc litterariam tundendo ne pracceptore meo Francisco Puteolano homine, ut tunc tempora ferebant, eloquentissimo eruditissimoque deterior neve minor existerem" (Oratioproverbiorum, Bononiae 1499). Il D., del resto, non si chiuse mai, come tanti umanisti contemporanei, in un culto per il passato che volentieri degenerava in rifiuto dell'età presente. Il D. concepisce lo studio dell'antichità indivisibile dalla comprensione della vita del proprio tempo, tanto da rivelare attenzione per gli studi giuridici sempre fulgidi a Bologna (lettera ad A. Tuvato, in A. Imolensis cognamento Tartagni Commentarti in secundi Digesti veteris partem, Bononiae 1473). La fama dello studioso è, inoltre, costantemente accompagnata dall'elogio del letterato squisito. Non è possibile tuttavia ricostruire le tappe della sua carriera poetica, perché le lodi del suo talento di rimatore in volgare e in latino non sono suffragate da un esame della produzione e dei suoi caratteri. Il Gozzadini segnala solo la composizione di "parecchie ottave per le nozze di Guido Pepoli con Bemardina, detta Isotta Rangoni" nel 1475; l'Affò (1791) nel catalogo delle opere non può che deplorare l'oblio che circonda i Carmina e si limita altresì ad attribuire al D. delle Rime volgari in lode di amici.

Documento di questa sommersa attività lirica è forse il Trionfo d'amore della Bibl. naz. Marciana di Venezia (Mss. It., cl. IX, 58) scoperto e pubblicato da V. Cian (Un nuovo trionfo d'amore di Gianfrancesco Puteolano, Pisa 1904), che lo ascrive, per la "grande inesperienza d'arte", al periodo giovanile, pur se non può proporre una plausibile datazione. Il Trionfo è "diviso in due capitoli ternari, o canti, di circa dugento versi ciascuno". Il poeta attinge dalla Commedia dantesca e dai Trionfi del Petrarca l'impianto narrativo, mentre deriva dal Dittamondo le notizie di carattere geografico. La stilizzazione letteraria impedisce l'identificazione della donna cantata; ma non è improbabile che la sua presenza abbia solo un valore simbolico. Il poeta svolge infatti in prima persona il tema dello smarrimento nel regno del piacere, a cui fa seguito la redenzione conquistata attraverso il viaggio nei cieli sotto la guida di Apollo, che lo conduce infine in Siria, al cospetto della sua dea. Il canto è irto di sovrasensi allegorici e richiami mitologici e rivela più la preparazione scolastica che ben definiti orientamenti di scrittura.

La fama del D. è però legata all'azione da lui svolta per la diffusione della stampa a Bologna e in altre città, un'azione che affiancò e integrò costantemente l'insegnamento accademico. Già prima del suo intervento circolavano a Bologna opere a stampa, impresse presumibilmente con caratteri rudimentali. Ma fu merito del D. l'avere utilizzato la nuova invenzione per opere che richiedevano grande impegno ecdotico e che venivano perciò destinate all'esigente pubblico universitario. Il 25 ott. 1470, assieme a Baldassarre Azzoguidi e allo stampatore padovano Annibale Malpigli, fondò (per la durata di due anni) una società tipografica, la prima del genere a Bologna e la prima anche fra le numerose della sua carriera.

Discordi sono i pareri sul ruolo svolto dal D. all'interno della società. A. Sorbelli (1909) attribuisce tutti i meriti dell'impresa a B. Azzoguidi, limitando il contributo del D. alla semplice consulenza sulla scelta delle opere e del testo da stampare. L. Sighinolfi (1914), invece, considera decisivo l'intervento dei D., che fornì tutta la sua competenza di studioso per la revisione e l'edizione dei testi e si incaricò di diffonderli tra gli scolari attraverso la lettura e i commenti da lui tenuti nel pubblico Studio. L'ipotesi del Sighinolfi è convalidata dal fatto che la partecipazione del D. alle realizzazioni editoriali della società risulta determinante nell'unico lavoro a noi noto fra quanti quel sodalizio produsse: l'editio princeps dell'opera di Ovidio, apparsa nel 1471 (Ovidii Opera a Francisco Pùteolano recognita, Bononiae, B. Azzoguidi, 1471). Il lavoro è il risultato di intense fatiche filologiche ed erudite e il D. premise a quest'assai pregevole edizione un profilo della vita e delle opere del poeta (Franciscus Puteolanus Parmensis ad Fr. Gonzagam cardinalem de ortu et vita P. Ovidii Nasonis ac eius operibus), che connota l'importanza del suo apporto scientifico.

Mancano le indicazioni tipografiche in molti dei lavori successivi, allestiti con altri gruppi editoriali. L'Affò (1791, 11, p. 294) segnala che nel 1473 fece stampare dal lionese Stefano Corallo un'edizione dei Catulli Epigrammata, et Statii Sylvae, "in III milibus locis emendatani" rispetto alla precedente edizione veneziana.

Al 1475 si fa risalire l'impegnativa pubblicazione (editio Puteolana) dell'opera di Tacito, ammirata dai successivi studiosi e ritenuta fondamentale dal Brotier ("Tacitum autem nemo melius novit, verius expressit"). L'opera, ripubblicata postuma a Venezia nel 1497,era preceduta da una lettera dedicatoria al munifico protettore Iacopo Antiquari, in cui l'autore confessava di aver ricevuto la collaborazione di B. Lanterio ("Multis vigiliis intensissimoque studio recognitam, adiuvante Bernardino Lanterio, omnium Mediolanensium eruditissimo") e ciò potrebbe farne spostare la datazione al periodo milanese (intorno al 1485). L'edizione (Historiae Augustae lib. XI usque ad XXI Actionum Diurnalium. Iulii Agricolae Vita. Dialogus de Oratoribus antiquis. Libellus de moribus et populis Germaniae) considera come una unica opera la produzione storiografica di Tacito e manca delle aggiunte (Libri quinque noviter editi) introdotte nell'edizione del 1515 da Beroaldo il Giovane, il quale mostra di tenerla in notevole considerazione, tanto da riprodurla quasi fedelmente. Il D. rivela grande ammirazione per l'opera di Tacito, di cui apprezza soprattutto gli aspetti stilisticoformali (eloquentia, mirum acumen, artificiosa varietas, immensa iucunditas) che vengono significativamente esaltati in un'età di dominante ciceromanesimo: "In contionibus Livio quoque anteferendus ita dein verbis aptus et pressus, ut nescias utrum res oratione, an verba sententiis illustrentur".

L'opera del D. fu incisiva in tutti i settori dell'istruzione; nell'aprile del 1473 costitui, insieme con Giovanni Calpurnio da Brescia, una società per l'istituzione di una scuola di ludi litterari, destinata all'insegnamento privato; ma è sempre nel campo editoriale che essa appare più fervida. Dopo lo scioglimento della società con l'Azzoguidi e il Malpigli, il D. rimase al centro delle iniziative legate alla diffusione libraria, impegnato anche nel traffico delle opere a stampa, che dopo il '70 a Bologna si vanno copiosamente pubblicando. Nel 1474 stipulò un contratto con T. Crivelli per la pubblicazione di mappamondi a stampa; nello stesso anno stipendiò lo stampatore bolognese Pietro Torelli, per fondare una tipografia a Parma. Nel 1475 o nell'anno successivo, fu impegnato insieme con Carlo Visconti, Sigismondo e Luigi de' Libri nella costituzione di una nuova società tipografica, che fu operosa per circa un decennio, ben oltre la stessa permanenza del D. a Bologna. Intanto la crescita disordinata di numerose iniziative tipografiche fece scadere la qualità delle edizioni, oltre ad esorbitare le stesse richieste di mercato. Anche il sodalizio del D. risentì i contraccolpi della inevitabile crisi; e forse in questa circostanza egli fu benignamente soccorso da Iacopo Antiquari ("subiectis humeris ab imminenti exitio subduxisti"), che patrocinò il suo ritorno nell'ambiente della signoria milanese, con cui il D. non aveva mai interrotto i rapporti.

Nel 1476 aveva infatti composto un epicedio per la morte di Galeazzo Maria Sforza, trucidato in una congiura, e si era conquistato la simpatia e la protezione del segretario ducale Cicco Simonetta, uomo di fiducia della duchessa Bona. Nel 1477 appare partecipe delle lotte di fazione che sconvolsero Parma dopo l'uccisione del duca; egli mostra di parteggiare per i Rossi contro gli esponenti delle altre famiglie rivali coalizzate e approva, infine, l'intervento di Iacopo Bonarelli di Ancona che, nominato podestà, riportò la pace nella città.

Dopo il 1477 il D. si trasferì a Milano dove, grazie al favore del Simonetta, tenne incarico di insegnamento, affiancando Bartolomeo da Cremona e Gabriello Paveri Fontana, ai quali si aggiunse successivamente Giorgio Merula. La sua fortuna appare condizionata dai burrascosi avvenimenti che turbavano la stabilità politica di Milano. Dopo la morte del Simonetta, giustiziato nel 1480, il D. riuscì ad ingraziarsi il Moro; ma venne in seguito scacciato quando divenne amico di Antonio Tassino, assai influente presso la duchessa. Per intercessione di Vitaliano Borromeo e Iacopo Antiquari venne tuttavia riammesso a Milano.e celebrò la riconquistata stima del suo signore con un'orazione gratulatoria Ad Illustrissimum, ac moderatissimwn Principem Ludovicum Sphortiam, premessa al De rebus gestis Francisci Sphortiae di G. Simonetta.

Tali avvenimenti ebbero anche vasta ripercussione sulla carriera del Dal Pozzo. Egli fu diviso da aspra rivalità con il Fontana, che era stato rimosso dal suo incarico per le sue simpatie verso il Moro, quando questi non era ancora signore di Milano. Il Fontana cercò di vendicarsi con l'arma della diffamazione accusando il rivale di ignoranza e di volubilità. Un documento, che risale al 1481 (In Georgium Merlattum seu Merulon Invectiva), presenta il D. come uno spregiudicato amministratore della sua fortuna politica, che si preoccupa opportunisticamente di rovesciare le. lodi per l'infelice Simonetta ("Cichus erat cacus, Schirron, saevusque Procustes, / Impius, Immanis, nequam, Patriaeque ruina"), allorché questi venne decapitato. Ma è soprattutto sul piano professionale che il Fontana fa un ritratto oltraggioso del suo avversario, rappresentato come disinvolto filologo che, nel suo enfatico commento dei testi ("Romanoruin vitam, resque gestas Imperatorum reboans interpretatur"), supera le difficoltà eliminandole ("agilis saltator"). Ma queste ingiurie sono scarsamente attendibili. Proprio nel periodo milanese, infatti, il D. pubblica i Panegyrici veterum, la cui edizione (che contiene anche l'Agricola di Tacito e alcuni frammenti del Satyricon), il Sassi colloca nel 1482 (Mediolani, A. Zarotto), e, successivamente (Venetiis, C. de Pensis, 1484), i Rhetoricorum libri tres di Fortunaziano (seguiti dal Computus Dionysii Halicarnassei e da varie traduzioni dal greco in latino di Teodoro Gaza), dedicati ancora ad Iacopo Antiquari.

Negli ultimi anni della sua vita il D, godette del favore incondizionato del Moro. Questi lo inviò infatti come ambasciatore presso Innocenzo VIII, latore di un suo messaggio; ed anche il pontefice, del quale era stato ospite il fratello Paolo da poco scomparso, apprezzò la dottrina del D. e gli mostrò più tardi la sua benevolenza, concedendogli il beneficio dell'abbazia di Tolla nel Piacentino.

Insignito della cittadinanza milanese, forse come ricompensa per questa ambasceria, il D. morì a Milano nel 1490.

Lo stato degli studi e l'esiguità delle opere pervenuteci non permettono di formulare un articolato giudizio sull'attività letteraria del Dal Pozzo. Mentre, infatti, è sufficientemente documentato il. suo impegno nella diffusione di opere. a stampa e nell'edizione di classici, quasi ignota è la sua produzione poetica, la cui perdita è motivo di rammarico anche per critici non recenti. Ben scarso contributo alla comprensione di questa attività possono dare i distici latini riportati dall'Affò, che celebrano l'avvento della pace in Parma sotto gli auspici del Bonarello ("Sed tu sed prohibes Bonarelle, urbique cadenti / Succurtis Parmac conditor, atque parens. / Pax redit, atque astraea sibi iam reddita Parma est / Praeside te : nuper spurca cloaca fuit"). Restano invece come indiretta testimonianza dei suo valore il paragone, umanisticamente iperbolico, con Ornero di Antonio Codro Urceo ("Si quisquam magno vates acquandus Homero est i Is nisi Franciscus credite nuilus erit") e l'elogio funebre di Lancino Curti, riportato anch'esso dall'Affò (p. 301), ("Qui sensibus Vatum imbuit iuventutem, / Vero sacerdos Numini resacratus"). Il Tiraboschi riferisce che gli venne anche conferita la laurea poetica; i suoi estimatori infine lo chiamarono con l'appellativo di "poetone" (a cui solo il malevolo Fontana preferì attribuire un significato dispregiativo). Al di là tuttavia di questi riconoscimenti ufficiali, assicurarono al D. un rango negli studi filologici del tempo le edizioni di Ovidio e di Tacito. E forse discendono da questi meriti le attestazioni di stima di grandi umanisti come il Poliziano (che nell'epistola del 1° dicembre 1489 chiede a Girolamo Donato di salutarlo) e Pico della Mirandola, nonché la rilevanza degli influssi che egli esercitò su vari discepoli come Mino Rossi e Beroaldo il Vecchio, che gli fu sempre prodigo di lodi e di devota riconoscenza.

Un elenco delle opere del D. si trova nelle Memorie degli scrittori e letterati parmigiani di I. Affò, II) pp. 303-17.

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