Danno

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Diritto

Qualunque pregiudizio causato alla sfera giuridico-patrimoniale di un soggetto.

Il d. nel diritto civile

Di fondamentale importanza è la distinzione tra d. giuridicamente rilevante, a fronte del quale l’ordinamento predispone una serie di mezzi per tutelare il soggetto che ha subito (o, in alcuni casi, che potrebbe subire) un nocumento, e d. giuridicamente irrilevante, situazione di mero fatto che ricorre ogni qualvolta il pregiudizio subito dal soggetto non è preso in considerazione dall’ordinamento. Il diritto civile si occupa solo del d. giuridicamente rilevante, nozione che tuttavia può modificarsi con il passare del tempo e il variare della sensibilità e dell’attenzione sociale, per cui vi sono d. un tempo giuridicamente rilevanti oggi ritenuti pacificamente irrilevanti (o, in taluni casi, nemmeno più considerati pregiudizi: si pensi alla seduzione con promessa di matrimonio di cui all’art. 526 c.p., oggi abrogato), e viceversa (si pensi alla lesione del credito a opera di terzi).

Il risarcimento del danno

- Il d. giuridicamente rilevante, laddove non ricorrano le circostanze esimenti previste dal legislatore, obbliga il suo autore al risarcimento, ovvero a porre il soggetto leso (o i suoi eredi, qualora il d. consista proprio nell’aver causato la morte) in una situazione uguale o che corrisponda quanto più è possibile a quella in cui si sarebbe trovato se non fosse accaduto l’evento lesivo. Il risarcimento può avvenire: a) in forma specifica (art. 2058 c.c.), quando è possibile (in tutto o in parte) reintegrare direttamente la sfera giuridico-patrimoniale del soggetto leso facendogli conseguire la stessa utilità perduta (per es., il titolare di una servitù di non sopraelevare può chiedere l’abbattimento dell’opera edilizia realizzata sul fondo servente); b) per equivalente, ovvero tramite la prestazione di una somma di denaro che arricchisca il patrimonio del danneggiato in misura corrispondente alla perdita subita (per es., chi distrugge un quadro altrui è obbligato a ripagarne il valore al proprietario). La forma di risarcimento per equivalente è quella normale e più frequente. Poiché l’obbligo al risarcimento del d. è un debito di valore (➔ obbligazione), nella sua quantificazione occorre calcolare anche gli effetti della svalutazione monetaria. Se il d. non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con valutazione equitativa (art. 1226, 2056 c.c.).

Il d. giuridicamente rilevante può derivare dal comportamento di un soggetto debitore che non esegua esattamente la prestazione dovuta al creditore, e si ha allora il d. contrattuale (art. 1218-1229 c.c.): il debitore inadempiente è obbligato a risarcire il pregiudizio causato se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. In caso di d. ingiusto cagionato a terzi da qualunque fatto, doloso o colposo, commesso da un soggetto, in assenza di uno specifico obbligo, si ha invece il d. extracontrattuale (di cui agli art. 2043-2059 c.c.): il danneggiante sarà obbligato a risarcire il d. provocato al danneggiato, salvo eccezioni (per es., legittima difesa o stato di necessità).

Negli ultimi decenni il legislatore ha poi riconosciuto figure specifiche di d. risarcibile, come la lesione a particolari beni o interessi, anche collettivi (per es., il d. ambientale).

Il d. patrimoniale

- D. da lesione, giuridicamente rilevante, di situazioni giuridiche soggettive suscettibili di valutazione economica. Può essere sia contrattuale sia extracontrattuale e si articola in due voci: il d. emergente, termine con il quale si indica la concreta diminuzione patrimoniale conseguente all’evento dannoso (per es., se Tizio danneggia la barca di Caio per un valore di 100, il patrimonio di Caio sarà depauperato di 100) e il lucro cessante, termine con il quale si indica il mancato guadagno che si sarebbe verificato in futuro se l’evento dannoso non avesse avuto luogo (per es., se la barca fa parte dell’azienda di Caio, che la noleggia a terzi, il d. subito comprende anche i profitti che Caio avrebbe realizzato). Il lucro cessante, più difficile da determinare, viene valutato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso (art. 1223, 1226 e 2056 c.c.). In merito alla quantificazione, se l’inadempimento o il ritardo non dipende da dolo del debitore, il risarcimento è limitato al d. che poteva prevedersi al tempo in cui è sorta l’obbligazione (art. 1225 c.c.).

Il d. non patrimoniale. - D. da lesione, giuridicamente rilevante, degli interessi non economici di un soggetto (per es., l’onore, la salute, la riservatezza). L’interesse leso può anche non appartenere a una persona fisica (per es., la reputazione di un’impresa commerciale). Caratteristica peculiare della figura è l’impossibilità di una quantificazione economica specifica del pregiudizio subito, proprio per la particolare natura dell’interesse leso: coerentemente il legislatore afferma (art. 1226, 2056 c.c.) che la liquidazione di tale d. debba essere fatta secondo equità. La dottrina preferibile ritiene pertanto che il d. non patrimoniale non sia suscettibile di risarcimento ma di riparazione, vale a dire di una prestazione che possa, secondo la coscienza sociale, compensare il danneggiato del pregiudizio subito. L’art. 2059 c.c. dispone che il d. non patrimoniale sia risarcito solo nei casi determinati dalla legge. Per lungo tempo questa norma è stata interpretata in maniera restrittiva, nel senso che il d. non patrimoniale potesse essere solo extracontrattuale (➔ responsabilità) e (salvo rare eccezioni) conseguente a reato commesso dal danneggiante (art. 185 c.p.). L’evoluzione del pensiero dottrinale e giurisprudenziale ha portato, tuttavia, ad assicurare una tutela più efficace al danneggiato.

Il d. morale soggettivo è un tipo di d. non patrimoniale causato a una persona fisica. Tradizionalmente coincideva con il d. non patrimoniale tout court, risarcibile solo quando espressamente previsto dalla legge (in particolare, a seguito di reato ex art. 185 c.p.). Secondo l’opinione prevalsa di recente, avallata dalla Corte costituzionale (sent. 233/2003) e dalla Corte di cassazione (sent. 8827/2003 e 8828/2003), va interpretato, in senso più circoscritto, come il transeunte turbamento dello stato d’animo della vittima – cosiddetto patema d’animo – susseguente al compimento di un atto illecito (per es., lo stato di temporaneo shock subito a seguito di un incidente stradale). Il responsabile è pertanto obbligato ex art. 2059 c.c. alla riparazione del d. morale soggettivo causato.

Altra forma di d. non patrimoniale causato a una persona fisica (nata dall’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale) è il d. biologico, che individua, in particolare, il d. da lesione, clinicamente accertata, causata all’integrità psicofisica del soggetto (per es., l’invalidità permanente procurata alla vittima di un incidente stradale) indipendentemente dalla sua attitudine a incidere sulla produzione di redditi futuri. Uno dei problemi principali posti da tale figura attiene alla sua concreta quantificazione, posto che la salute (tutelata in primis dall’art. 32 Cost.) è uno dei beni più importanti della persona, ma forse anche il più refrattario a ricevere efficaci valutazioni. Sono state formulate proposte legislative (non ancora approvate), giurisprudenziali e dottrinali, ancorate, per es., alla media dei precedenti giudiziari in materia, all’ammontare della pensione sociale, a criteri equitativi e così via. Nella liquidazione del d. biologico è in concreto frequente il ricorso a ‘tabelle’ predeterminate, per evitare che le valutazioni possano sfociare nell’arbitrio, e si tiene conto delle caratteristiche della persona (per es., l’età, per cui lo stesso d. viene risarcito in misura tanto maggiore quanto più giovane è la vittima, e così via). Infine, la legge ammette che il d. alle persone avente carattere permanente può essere liquidato dal giudice sotto forma di una rendita vitalizia (art. 2057 c.c.).

Controversa figura di d. non patrimoniale causato a una persona fisica è il d. esistenziale. L’espressione (elaborata da una parte della dottrina e avallata poi da gran parte della giurisprudenza) allude al pregiudizio causato a chi, a seguito di un evento lesivo, non può più soddisfare determinati interessi, indirettamente tutelati dalla Costituzione (art. 2) perché necessari allo svolgimento della propria personalità (per es., un ciclista che, a seguito di un incidente stradale, perda l’uso degli arti inferiori). La liquidazione del d. esistenziale viene effettuata dal giudice secondo equità. I principali dubbi relativi all’ammissibilità della figura nel nostro ordinamento sono stati ormai superati (nonostante qualche voce contraria) dalla dottrina e dalla giurisprudenza dominanti, ma permangono ancora delle perplessità in merito ai suoi confini, alla sua autonomia all’interno del d. non patrimoniale o addirittura del sistema bipolare della responsabilità civile, alla sua difficile determinazione, quantificazione e prova (ancora più sfuggente di quella del d. biologico) con il connesso rischio di costituire una duplicazione risarcitoria o addirittura una pena privata. Nonostante queste difficoltà e rischi, il d. esistenziale può risultare assai utile al danneggiato, per garantire una riparazione integrale del pregiudizio subito.

Il d. nel diritto amministrativo

Il tema del d. e della sua ingiustizia è stato studiato con particolare riferimento alla problematica dell’individuazione delle situazioni giuridiche soggettive la cui lesione da parte dell’amministrazione pubblica giustifichi il ricorso da parte dei privati a rimedi risarcitori e, soprattutto, con riferimento alla questione della risarcibilità degli interessi legittimi, ferma restando la risarcibilità dei diritti soggettivi. Uno dei principali fondamenti della tesi dell’irrisarcibilità degli interessi legittimi veniva rinvenuto nell’identificazione del d. ingiusto con la lesione di un diritto soggettivo. A sostegno di tale ricostruzione si portava innanzitutto – oltre alla formulazione letterale dell’art. 28 Cost., che prevede la responsabilità civile dei dipendenti dello Stato e degli enti pubblici per gli atti «compiuti in violazione di diritti» – una lettura dell’art. 2043 c.c. quale norma secondaria, meramente sanzionatoria della violazione di norme preesistenti, la quale non può porre nuovi doveri di condotta a carico dei consociati. Peraltro, già da molto tempo, si criticava il tentativo di cogliere il significato dell’ingiustizia del d. sulla base del rinvio a un concetto dogmatico, tra l’altro controverso, come quello di diritto soggettivo.

In sede di applicazione della clausola generale di ingiustizia, si è così progressivamente allargato l’ambito della risarcibilità, prima ristretto ai soli diritti soggettivi assoluti, riconoscendo la tutela risarcitoria anche ai diritti di credito, alle aspettative di credito, alle situazioni di fatto pur non rientranti nella tipologia dei diritti assoluti o relativi, e, infine, alle stesse aspettative «legittime», cioè fondate sulla coscienza sociale, sulle norme che regolano i rapporti interindividuali, o sulla prassi comune. La medesima giurisprudenza già considerava, poi, d. ingiusto, nei rapporti interprivati, quello arrecato agli interessi legittimi di cui i singoli sarebbero titolari nei confronti delle cosiddette autorità private.

Un grande passo avanti avveniva poi con il d.lgs. n. 80/1998, il cui art. 35 conferiva al giudice amministrativo il potere, nelle controversie relative a particolari materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto.

Un secondo fattore che ha contribuito a mettere in crisi il tradizionale orientamento di irrisarcibilità degli interessi legittimi è costituito dall’influenza del diritto comunitario, anche in termini di prevalenza di questo sugli ordinamenti degli Stati membri.

Percorrendo questa strada, la Corte di cassazione è così giunta ad affermare, con la sent. 500/1999, la risarcibilità ex se dell’interesse legittimo, quale «posizione di vantaggio riservata a un soggetto in relazione a un bene della vita oggetto di un provvedimento amministrativo e consistente nell’attribuzione a tale soggetto di poteri idonei a influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile la realizzazione dell’interesse al bene».

Tale orientamento ha trovato conferma nell’art. 7 della l. 205/2000, mediante il quale il giudice amministrativo è stato investito in maniera generalizzata della cognizione di tutte le questioni relative al risarcimento del danno. Tuttavia, per le Sezioni unite della Corte di cassazione, «la lesione dell’interesse legittimo è condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., poiché occorre altresì che risulti leso, per effetto dell’attività illegittima e colpevole della pubblica amministrazione, l’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo si correla, e che il detto interesse al bene risulti meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento positivo». In altri termini, gli interessi legittimi non sono risarcibili in maniera indiscriminata, ma soltanto se l’attività illegittima della pubblica amministrazione determini la lesione del «bene della vita» al quale l’interesse legittimo è correlato. In relazione agli interessi legittimi cosiddetti oppositivi, la preesistenza del «bene della vita» all’esercizio del potere amministrativo determinerebbe per la Cassazione, ex se, la produzione di un d. ingiusto. Per gli interessi legittimi cosiddetti pretensivi, ovvero per quegli interessi il cui sottostante «bene della vita» è il conseguimento di un provvedimento favorevole», si rende invece necessario un «giudizio prognostico» per accertare la fondatezza della pretesa sostanziale dell’istante.

Al riguardo, è tuttavia necessario distinguere tra attività della pubblica amministrazione vincolata, tecnico-discrezionale e discrezionale pura. Nel primo caso, il giudizio prognostico può essere effettuato dal giudice amministrativo senza particolari problemi: quest’ultimo, accertata la sussistenza dei presupposti di legge, può stabilire che l’amministrazione avrebbe dovuto adottare quel determinato provvedimento favorevole. Nel caso in cui il provvedimento amministrativo sia espressione di una discrezionalità tecnica (quando cioè l’amministrazione, per decidere, deve applicare regole tecniche di varia natura, che si caratterizzano per la loro opinabilità), il giudizio prognostico sarebbe precluso al giudice ove si ritiene che la discrezionalità tecnica attenga al merito amministrativo, cosicché le scelte tecniche dell’amministrazione non possono essere sindacate in sede giurisdizionale; diversamente, ove si accede alla tesi secondo la quale l’opinabilità delle valutazioni tecniche non coincide con l’opportunità delle scelte amministrative che caratterizza la discrezionalità amministrativa pura, il giudice potrebbe sindacare tali valutazioni, anche attraverso l’ausilio di consulenti tecnici d’ufficio, così come oggi consentito, in via generale, dall’art. 16 l. 205/2000. È viceversa evidente la difficoltà del «giudizio prognostico» quando la pubblica amministrazione goda di poteri discrezionali nell’adottare il provvedimento desiderato, poiché le valutazioni discrezionali con cui l’amministrazione decide ciò che è più opportuno e conveniente per l’interesse pubblico sono per definizione riservate all’amministrazione. In particolare, nel caso di esercizio di un potere discrezionale, il giudice non può sostituirsi all’amministrazione e non può, sempre al fine di quantificare il danno risarcibile, ricostruire l’intero procedimento, valutandone gli aspetti discrezionali. In queste ultime ipotesi, bisogna accontentarsi di una valutazione empirica della ragionevole prevedibilità di successo da parte del titolare dell’interesse legittimo leso. In tale quadro, è immediato il riferimento alla giurisprudenza sul risarcimento per procurata perdita di opportunità, intesa come perdita della possibilità o probabilità di ottenere un certo vantaggio.

Un grande dibattito è sorto in relazione ai rapporti tra l’azione diretta ad ottenere il risarcimento e l’annullamento dell’atto amministrativo illegittimo fonte del danno. Ciò che si chiedeva era se, per il risarcimento di un d. causato da un atto amministrativo invalido, fosse sufficiente l’accertamento di tale illegittimità con riferimento al caso concreto o se fosse, invece, necessario rimuovere l’atto viziato dall’ordinamento positivo con effetti erga omnes, in modo da non poter essere più fonte di ulteriori pregiudizi.

La problematica è stata oggetto di un acuto confronto interpretativo tra le due massime giurisdizioni superiori, orientata la Corte di Cassazione a sostenere l’autonomia delle due forme di tutela, convinto il Consiglio di Stato nel ribadire il necessario rapporto di pregiudizialità tra di esse.

Da un lato, si ritiene che costringere il soggetto leso da un provvedimento illegittimo ad un’impugnazione, alla quale potrebbe non avere alcun interesse, o alla rassegnazione, nel caso in cui sia incorso in decadenza, costituirebbe una lesione del principio dell’effettività della tutela giurisdizionale. Dall’altro, si sostiene che, in un regime in cui il breve termine di decadenza per l’impugnazione degli atti amministrativi è finalizzato alla salvaguardia della stabilità delle situazioni giuridiche di diritto pubblico, il giudice amministrativo non possa, con riferimento al singolo caso concreto, disapplicare l’atto illegittimo nell’ambito del solo giudizio risarcitorio.

Attualmente, la disciplina dell’azione risarcitoria per lesione di interessi legittimi, contenuta nell’art. 30 del Codice del processo amministrativo (d.lgs. 104/2010), rappresenta una forma di compromesso tra i due orientamenti interpretativi sopra citati. La norma stabilisce, per un verso, che la domanda risarcitoria può essere proposta entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo, e, per l’altro, che nel determinare il risarcimento, il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti.

Codice della navigazione (aerea)

La necessità di tutelare i terzi sulla superficie, che non sono in grado di prevedere o evitare un evento causato dall’esercizio della navigazione aerea, ha ispirato un regime di responsabilità che il cod. nav. disciplina rinviando alla Convenzione di Roma del 7 ottobre 1952. Secondo la Convenzione, il danneggiato deve essere risarcito dei d. causati da un aeromobile in volo o da una persona o una cosa caduti dallo stesso, a prescindere dalla colpa o dolo del soggetto che li ha causati. Obbligato è colui il quale materialmente assume il controllo dell’aeromobile (operator). Il soggetto responsabile si giova di un sistema di limitazione del debito che varia in ragione del peso dell’aeromobile. L’art. 971 cod. nav. dispone che gli importi corrispondano ai minimi previsti dall’obbligo assicurativo introdotto dall’art. 7 del reg. CE 785/2004. La responsabilità per i danni causati da oggetti spaziali è regolata dalla Convenzione di Londra, Mosca e Washington del 29 marzo 1972, che stabilisce la responsabilità assoluta dello Stato di lancio.

Geologia

In mineralogia, d. di radiazione, modificazione del reticolo cristallino di un minerale, per effetto di radiazioni nucleari provenienti dall’interno dello stesso cristallo o da fonti esterne.

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