Dante Alighieri, Opere minori: Detto d'amore - Introduzione

I Classici Ricciardi: Introduzioni (1995)

Dante Alighieri, Opere minori: Detto d'amore - Introduzione

Gianfranco Contini

Titolo, estratto dai primi versi a cura del suo scopritore, il filologo triestino Salomone Morpurgo (1860-1942), e rimasto poi obbligatorio (alla convenzione si sottrasse scomodamente solo FRANCESCO NOVATI, Attraverso il Medio Evo, Bari 1905, p. 260, nominandolo Detto del fino amante, a cui, come a don Abbondio, nessuno badò). Anche questa scrittura è anepigrafa e derivata dal Roman de la Rose, sia pure con altro atteggiamento e per solito privilegiando parti diverse. Il Morpurgo era troppo esperto per non accorgersi (e la provò, senza conoscere direttamente il codice del Fiore, giustapponendo al facsimile del Castets un facsimile del Detto) dell'identità di mano col manoscritto di Montpellier, come anche (con le riserve di cui in séguito) dell'identità d'autore nel Fiore e nel nuovo poemetto. Il nuovo manoscritto, mutilo in mezzo e in fine, consta di quattro fogli su due colonne di trenta righi ciascuno, proprio come il Fiore, con lacuna dopo il terzo e altra dopo il quarto. Era appena entrato in Laurenziana col fondo Ashburnham di provenienza Libri, grazie alle trattative sagacemente condotte dallo storico e uomo politico Pasquale Villari (1826-1917), costituendo la seconda parte del composito segnato 1234, quando il Morpurgo ne diede notizia, con un brevissimo saggio del testo(«avanzo» scriveva allora «di un bel manoscritto del primissimo trecento o della fine del dugento»), nel corso d'una recensione uscita sulla «Rivista critica della letteratura italiana» di gennaio 1885 (col. 135). Il testo intero fu da lui pubblicato (Detto d'Amore. Antiche rime imitate dal "Roman de la Rose") sul «Propugnatore» di Bologna, allora diretto dal Carducci (Nuova Serie, 1, pp. 18-61), nel 1888. Nel frattempo egli aveva dato copia dei primi 222 versi (ma la stampa ne omise uno) a Ernesto Monaci, che stava allora pubblicando a dispense (avrebbe finito solo nel 1912) la Crestomazia italiana dei primi secoli, dove uscì come testo 110 sulla seconda dispensa (anch'essa del 1888): il Monaci fece a tempo a segnalare l'edizione del «Propugnatore ll, ma a ogni altro effetto, compresa la data del codice che è quella indicata nella «Rivista critica», la stampa deve considerarsi virtualmente anteriore.

Il paleografo Léopold Delisle (1826-1910), cui torna il merito, fra l'altro in collaborazione col Villari, di aver fatto tornare sul continente i manoscritti Ashburnham asportati a suo tempo dal Libri, attribuisce al Morpurgo (Bibliothèque Nationale. Catalogue des Manuscrits des fonds Libri et Barrois, Paris 1888, p. LVII) di aver constatato l'esistenza, nel codice 1234, di «quelques feuillets arrachés du ms. 438 de l'École de médecine de Montpellier». La cosa è la pura verità, ma il Morpurgo per suo conto non l'asserisce affatto; anzi si rassicura circa «la identità di scrittura» («coincidenza che mi par sempre curiosa e significativa, poi che si tratta degli esemplari unici di due componimenti che hanno comune almeno la fonte») sulla fede del Mazzatinti, rieditore proprio allora del Fiore (nel «Propugnatore» sempre del 1888, p. 419 nota). Di più: nel Supplemento allo Zambrini, pubblicato solo nel 1929 ma redatto e per questa parte già stampato entro il 1898 (cfr. p. VII), il Morpurgo séguita a limitarsi a dire (col. 32): «La scrittura del frammento laurenziano è della stessa mano che vergò il codice di Montpellier» ecc. Tuttavia un qualche sospetto deve averlo avuto se, come rileva un'importantissima nota del valente romanista di Montpellier, Camille Chabaneau (1831-1908), inglobata in un articolo del Castets («Revue des Langues romanes n, 1Ve sér., v, 1891, pp. 310-1 in nota), il Morpurgo si rivolse «il y a deux ans» (cioè nel 1889) allo Chabaneau stesso per una perizia sull'oggetto. La verità era dunque alle stampe fin dal 1891, poiché lo Chabaneau aveva constatato che l'ultimo quaternione del Fiore presentava le tracce dell'ablazione delle due ultime carte, che saranno pertanto le prime due del Detto, mentre con la terza sarà cominciato un nuovo fascicolo (e infatti Emanuele Casamassima vi ha ora trovata la segnatura), e la posizione della quarta, rimasta staccata, è incerta (solo non ultima), fosse il nuovo fascicolo ancora un quaternione o un'unità inferiore. (Il v. 459 ha fatto pensare al Morpurgo che la fine non sia lontana. Comunque un signum notarile quattrocentesco reperito, nonostante l'intervenuta abrasione, dal Casamassima sull'ultima carta attuale del Detto come sull'ultima (bianca) del Fiore e sull'ultima (bianca nel verso) della copia della Rose che precede, prova non solo la consecuzione antica dei tre elementi, ma, per quel che riguarda il Detto, che la mutilazione in fine è molto antica).

La notizia dello Chabaneau non fu raccolta, forse per semplice ignoranza bibliografica, da nessuno studioso, compresi i più valenti. Il migliore di tutti, il Parodi, che diede la seconda edizione del testo di séguito alla citata del Fiore (I 922), credeva che nel codice comune al Fiore e al Detto «probabilmente il Detto formava il principio» (p. 140). Meno comprensibile appare la dissimulazione del Morpurgo, a meno che non la si debba attribuire all'aporia in cui era entrato riconoscendo per un verso che le due scritture appartenevano al medesimo manoscritto e anzi al medesimo autore, ma per un altro stimandole di valore e anche di tempi diversi. Nell'edizione del Detto arriva a chiamare l'autore (p. 28) il «poveretto»,come titolare del «vanto, meschinissimo in verità», di aver superato in lunghezza ogni testo di poesia enigmistica; mentre esalta (p. 419 nota) i «sonetti bellissimi», sul cui autore o età si riprometteva (intenzione purtroppo non realizzata) di tornare; assumendo pertanto una posizione assai vicina a quella futura del Torraca e del Benedetto (del resto anche ad altri, primo il Parodi, il Detto, «troppa grazia!», p. xx, costituì il vero nodo contro l'assegnazione a Dante). Quanto all'epoca, la difficoltà, di cui s'è detto a suo luogo, di attribuire il Fiore al Duecento fa sì che il Morpurgo si ritragga dal proclamare l'unico corollario possibile delle sue indagini, cioè l'identità d'autore; e fa la palinodia della sua prima datazione (p. 30, «ne sbagliai grossamente l'età»), sostituendole (p. 23) un «sul finir del trecento» che non ha certo motivazioni paleografiche.

Il Detto (termine franceseggiante, dit "poemetto") è scritto in settenari a rima baciata, normalmente ricca (fanno eccezione solo i distici comincianti ai versi 49, 159, 311, 345, 363 e 385) e sempre equivoca: l'equivoco è non di rado ottenuto mediante la rima franta (disira : disir à, servire : serv'ire, ecc. ecc.), artificio che sopravvive per qualche occorrenza nella Commedia (Oh me : come, chiome, lnf. XXVIII 123; non ci à : oncia, sconcia, Inf. xxx 87, ecc.) e che Antonio da Tempo definirà «equivocus compositus», goffamente esemplificandolo con canpane in quanto leggibile anche can-pane (ma il suo esempio non offre ritrazione d'accento).

Il metro di base è tipico della letteratura allegorico-didattica, e più immediatamente del Tesoretto (e del Favolello) di Brunetto, la cui presenza nelle scritture di Dante è stata illustrata da Francesco Mazzoni. Ed è quello, giustamente osserva il Morpurgo (p. 28), che Francesco da Barberino, disponendosi ad adoperarlo per l'intera parte settima dei Documenti d'Amore, chiamerà «stil minore» (ed. Egidi, vol. III, p. 36), utile per l'ammaestramento dei giovani. Ma, così come il contenuto allontana dalla saviezza aristotelica del Tesoretto (il Detto celebra il dio d'Amore e confligge con Ragione come poi con Ricchezza, chiudendo, per la porzione conservata almeno, con alcuni comandamenti d'Amore, il tutto sulle orme di Guillaume de Lorris ma anche di Jean de Meung), stilisticamente il Detto punta ben più in alto. Anzitutto rivaleggia col modello della Rose, dove le rime ossitone ("maschili") sono, con pochissime eccezioni, ricche, più ricche, cioè con identità fonica di elementi oltrepassanti a ritroso la consonante che precede la vocale tonica, nella parte di Jean. Ma nel Detto è oltranza rispetto a questo dato, in quanto l'identità descritta spetta a tutte le rime, che in italiano sono prevalentemente parossitone o "femminili"; inoltre, ed è altro stacco capitale, l'equivocità della rima, puramente desultoria nella Rose, si fa qui sistematica. Ora, di settenari rimati riccamente ed equivocamente (non, si capisce, in distici) osservò già il Morpurgo che consta la canzone di Gallo o Galletto pisano (citato nel De vulgari) Credeam' essere, lasso (Poeti del Duecento, 1286) (con coincidenze col Detto non casuali). Più che il metro, interessava allo scopritore il contenuto descrittivo di madonna; altrimenti avrebbe potuto aggiungere (anch'essa munita di coincidenze non casuali col Detto) la risposta per le rime a Gallo (con rovesciamento del fino amore in misoginia) di Lunardo del Guallacca, Sì come 'l pescia al lasso (Poeti del Duecento, 1289); e anzi la matrice di questa rimeria (di cui pure qualche traccia nel Detto), la canzone guittoniana Tuttor, s' eo veglio o dormo (Poeti del Duecento, 1197) (le due di Panuccio del Bagno ugualmente derivate sono invece estranee al Detto). Non sembra ozioso notare, in relazione alla paternità, che i testi citati di Guittone, Gallo e Lunardo (non, a controprova, quelli di Panuccio) figurino tutti nel Vaticano 3793, notoriamente gemello del canzoniere di rime antiche usato da Dante; così come vi figura Aimè lasso, perché a figura d'orno di Monte Andrea, un cui luogo (vv. 134-5, «Folle, l perché ti pur afolle?») ha sicuro riscontro con 87-8 (stranamente svalutato dallo studioso stesso che l'ha operato, il Debenedetti, «Studi danteschi» VIII 145 nota). Il primo congedo di Guittone, riecheggiato proprio all'inizio del Detto, prova l'intenzione sperimentale: «Scuro saccio che par lo l mio detto, ma' che parlo l a chi s'entend' ed ame: l ché lo 'ngegno mio dàme l ch'i' me pur provi d'onne l mainera, e talento ònne».

L'autore del Detto aspira a un culmine di preziosità che lo mette in vittoriosa concorrenza, lasciamo stare Brunetto, ma con Guittone e Gallo: tutti autori la cui provincialità è vituperata nel De vulgari, I xiii I. In particolare la presenza del minuscolo Gallo trova finalmente una giustificazione. È una gara seria, questo caso-limite di ermetismo arcaizzante, o non gli inerisce un eccesso parodistico? L'intima ironia l'assocerebbe meglio al Fiore, e deve essere stato condotto di conserva, o perlomeno pianificato insieme: caricatura in due distinti generi.

Ciò suppone, ovviamente, la dimostrazione morpurghiana dell'identità di mano, per cui si cita «mala» "borsa" 314 a riscontro di «maletta» nel Fiore CLXXI 8, «Veno» 300 e 474 come nel Fiore XXII I e XXIII 4, i versi sull'assessino col Veglio (della Montagna) e sul Pretegianni, 260-2, prossimi a Fiore II 9-11, e inoltre si accostano Detto 6-9 e 23-5 a Fiore III 4-8, Detto 63-5 e 274-6 a Fiore x 1-11, Detto 141-2 a Fiore xxxviii 1-2, Detto 293-4 a Fiore Lxxv 9-10 e anche LXXXIII 10, Detto 448-50 a Fiore CLVI 5-7· Altri avvicinamenti importanti operò poi il Parodi (di Detto 153 con Fiore XXXVIII II, di Detto 123 «ò proposato» con Fiore XXXVII 5 «Tu mi proposi»), tornando a insistere sull'uguaglianza grafico-linguistica. Argomenti, si direbbe, irresistibili; eppure la somma artificiosità dello stile rendeva il nuovo poemetto increscioso, e perciò mal giudicabile storicamente, ai lettori dell'Otto e del primo Novecento: basterà citare il primo attributore italiano del Fiore a Dante, il Casini. La credenza nell'unità di mano non è più stata revocata dopo il Parodi, e al suo séguito il Bertoni e il Debenedetti, indipendentemente dal riconoscimento della paternità dantesca (tentante per il Bertoni, rifiutata dal Debenedetti).

A parere di chi scrive (cfr. ora Un'idea di Dante, pp. 237-43) solo tale unità di mano può far pensare a Dante; ma ora non manca chi ritiene la paternità direttamente sicura: si segnala in particolare la monografia di LUIGI VANOSSI La teologia poetica del "Detto d'Amore" dantesco (1974), che contiene anche una quarta edizione, leggermente variata, del testo (la terza è quella data nel 1941 col Fiore, ugualmente assegnata a Lippo, da Luigi Di Benedetto: tre altre stampe sono descriptae dalla Parodi). Posta la paternità dantesca, è assai suggestivo, col Gorni (ora in Il nodo della lingua e il verbo d'amore, 1981), leggerne l'invio (anziché del Fiore o di un componimento lirico) nel sonetto Messer Brunetto, di cui a proposito del Fiore (Brunetto tornerebbe per lui a essere il Latini, come già per il Castets, benché la tradizione manoscritta parli di un Brunelleschi).

Seguendo l'esempio del Morpurgo, invece che di commento il difficilissimo testo è munito di un tentativo di traduzione letterale, ma con annotazioni fra parentesi quadre.

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