MORCHIO, David

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 76 (2012)

MORCHIO, David

Edoardo Ripari

MORCHIO, David. – Nacque a Genova il 16 gennaio 1798 da Michele Giuseppe Maria, già avvocato e membro del consiglio dei Giuniori durante la Repubblica ligure del 1798, e da Maria Perpinto, prima moglie di Michele. Il fratello Daniele, scrittore e poeta, nacque da seconde nozze nel 1824.

Ardente repubblicano, Morchio militò in gioventù nelle fila dei costituzionalisti di Spagna nel corso della sollevazione militare del 1820; poi, nel 1849, prese parte attiva agli avvenimenti di Genova del marzo- aprile, distinguendosi fra i più accesi democratici. Antonio Gianuè, che a sua volta partecipò al moto insurrezionale e che sarebbe stato condannato a morte, lo definì «uno dei più singolari caratteri del Circolo Italiano», in cui si era distinto per le sue «patriottiche declamazioni» (Crestofilo, 1849, p. 27).

All’inizio del dicembre 1848, in seguito alle dimissioni del ministero Perrone-Pinelli, Morchio era stato chiamato da un’assemblea popolare nella Deputazione – formata dai repubblicani Nicola Cambiaso, Luigi Lomellino, Emanuele Celesia e Didaco Pellegrino – incaricata di recare al re Carlo Alberto un indirizzo sottoscritto da circa 7000 persone.

Al re venivano richiesti: «l’Assemblea Costituente Italiana; la formazione di un Ministero che levasse arditamente il vessillo della democrazia, suprema salute dei popoli; lo sfratto dalla città del conte San Martino che era Intendente generale, e del colonnello Cauvin comandante della piazza, che meditavano di porre Genova in istato d’assedio» (La Marmora, 1875, p. 11).

Il 14 dicembre, però, Carlo Alberto aveva rifiutato di ricevere la Deputazione, che presentò, invano, la petizione alla Camera. Alla fine del marzo 1849 iniziava allora il moto insurrezionale e dopo la battaglia di Novara Morchio insieme al generale Giuseppe Avezzana e al deputato Costantino Reta, divenne triumviro del Governo provvisorio, il quale il 2 aprile inviava un proclama ai militi della Divisione Lombarda, che in seguito alla disfatta novarese aveva avuto ordine di sciogliersi: «Fratelli Lombardi, il Popolo di Genova è insorto. Il Popolo di Genova non riconosce il turpe armistizio che fece per ben due volte mercato della miseria italiana. Fratelli Lombardi, accorrete alle nostre barricate. Noi le difenderemo con voi contro i traditori della Patria. Noi le difenderemo contro il tedesco» (ibid., p. 44).

Il giorno seguente, i triumviri emanarono alcuni decreti restrittivi, nei quali sancivano rigorose pene per chiunque avesse commesso «atti indegni del nome genovese » e decretavano un arruolamento di volontari «per una legione di milizia regolare ». Intanto il generale Alfonso La Marmora interveniva ordinando il blocco della città, lo scioglimento delle milizie civiche e nazionali e la requisizione dei mezzi occorrenti al ristabilimento dell’ordine. L’indomani, in risposta, il Governo provvisorio decretò che: «1° Tutte le autorità ed impiegati del cessato Governo restano sciolti d’ogni loro giuramento. 2° Restano provvisoriamente conservati nelle loro funzioni ed uffizii sempre e quando aderiranno al nuovo Governo. 3° S’intenderanno avervi aderito qualora al termine di 24 ore dalla pubblicazione del presente per quelli residenti nella città e provincia di Genova , e di giorni sei per quelli residenti nelle altre province, non facciano formale dichiarazione al contrario, e non disertino il loro posto. 4° I non aderenti saranno considerati come nemici della patria» (Celesia, 1850, pp. 144 s.).

Dopo pesantissimi bombardamenti il moto si tradusse in una lotta disperata, strada per strada, e il 6 aprile fu concordata una prima tregua. Il 9 fu proclamata l’amnistia per gli insorti a eccezione dei membri del Governo provvisorio. Morchio, condannato, fu costretto a fuggire attraversando il porto con un battello di fortuna, e poi a imbarcarsi sul piroscafo francese Tonnerre, che lo condusse a Marsiglia (Vecchj, 1856, p. 116). Costretto ad esiliare si trovò in grandi difficoltà e per pagarsi il viaggio verso Costantinopoli dovette vendere agli amici la sua biblioteca («dut pour payer son voyage, vendre sa bibliothèque, que ses amis achetèrent», Bert, 1889, pp. 254 s.).

Durante l’esilio riprese la sua attività di giureconsulto presso il Tribunale consolare e, anche in questo periodo, non mancò di guadagnarsi la stima di tutti coloro con cui ebbe rapporti. Escluso, con altri dieci (Avezzana e Reta; gli avvocati Ottavio Lazotti, Didaco Pellegrini, Federico Campanella; il marchese Giovanni Battista Cambiaso; il negoziante Giovanni Battista Albertini; il commesso di commercio Nicolò Accame; il capitano marittimo Carlo Ciro Aureliano Borzino; l’orefice Federico Weber), dall’amnistia concessa dal Re ai compromessi nel moto, Morchio fu condannato dal magistrato d’appello di Genova, con sentenza del 24 luglio 1849, alla pena di morte in contumacia secondo l’art. 185 del Codice civile sardo («Sono parimenti puniti colla pena di morte l’attentato e la cospirazione che hanno per oggetto di cangiare o distruggere la forma di Governo o di eccitare i sudditi o gli abitanti ad armarsi contro l’Autorità»), alla multa di lire mille, e alla privazione dei diritti civili contemplati nell’articolo 44 del codice.

Alcuni storiografi di quegli anni giudicarono l’operato e la figura di Morchio con particolare severità. Tra questi, Candido Augusto Vecchj, nell’opera redatta all’indomani dei moti, lo descrisse come opportunista e disertore: «Fra i difensori [della Repubblica] vi furono taluni che – richiestine da’ piemontesi ch’eran sotto le mura – calarono loro una corda perché su salissero; e non per tradimento, ma per la nessuna persuasione di libertà e della causa che di mercanti gli avean fatti artiglieri. Né i capi, né gli eccitatori del movimento si avevano una fede maggiore. Lo avvocato Morchio e Didaco Pellegrini in quel mentre traversavano il porto sur un battello. I popolani che maneggiavano le artiglierie del Molo, indignati alla vista di que’ disertori, minacciano di sommergere la barca s’ei muovon più oltre. Dovettero scendere sulla batteria, mendicare una scusa e arringare que’ sospettosi colle frasi enfatiche de’ circoli, di morir tutti, di seppellirsi sotto le rovine di Genova e via di seguito. L’indomani però Morchio ed il Reta si rifuggivano nel Tonnerre, piroscafo francese che, accoltili con dileggio e con sprezzo, gli trasportava quindi in Marsiglia» (Vecchj, 1856, pp. 116 s.). Diverso nei toni, ma non nel giudizio, il racconto che dell’episodio offrì Luigi Scalchi. Nella sua opera si ricorda l’arresto di Morchio e Pellegrini, mentre tentavano la fuga, da parte della guardia di punta del molo e si cita una lettera nella quale Morchio spiegava a Reta di non avere avuto intenzione di disertare, quanto di scoprire le operazioni del nemico e che, per questo obiettivo, lo aveva convinto a intercedere per la loro scarcerazione (Scalchi, 1862, p. 427). Infine, Alfonso La Marmora, nell’opuscolo del 1875 definì Morchio «un vecchio rivoluzionario, che s’inspirava in Robespierre e Danton, e feroce al punto da scherzare sulle vittime che sperava immolare, dicendo che avrebbe fatto salire il prezzo della canapa a quello della seta» (La Marmora, 1875, p. 31n). Ancora in tempi recenti, l’operato di Morchio è stato ricordato come un caso esemplare dei «misfatti del Risorgimento » raccontati in una Controstoria dell’Unità (Di Fiore, 2007).

Di tutt’altro tipo fu invece l’opinione di Amédée Bert, curatore delle lettere inedite di Cavour; Bert osservava come tutti quelli che avevano conosciuto Morchio rendessero giustizia alla dirittura del suo carattere, e come, nella sua dittatura di una settimana, egli non avesse recato offesa né provocato la morte di alcuno («tout ce qui ont connu Morchio rendent justice à la droiture de son caractère, et pendant sa dictature d’une semaine, il ne fit ni enfermer, ni mourir personne», p. 255n). Un diverso giudizio sulla sua figura si ricava anche da una lettera, non datata, che Morchio scriveva da Costantinopoli a Emanuele Celesia, storico, poeta e cultore di tradizioni liguri: «Amico Car.mo e fratello di fede, Per le comuni credenze e gli sforzi comuni io sto qui nell’afflizione, colla prospettiva dell’imminente più assoluta miseria per me, e per la mia famiglia, essendo finora vissuto del ricavo della vendita della mia libreria, e delle masserizie, che mi riuscì salvare dal naufragio; ed oramai tutto è quasi consumato. Non trovo ad esercitare la mia professione poiché qui non si vogliono che imbroglioni e intriganti, che si prestino a organizzare baratterie, fallimenti dolosi, falsità. Appena qui giunto varii de’ primari negozianti mi dissero chiaramente, che se devo guadagnar denaro, ed anche arricchire m’era d’uopo far come gli altri, dei quali mi narrano cose da galera; e alla mia risposta che piuttosto morrei di fame replicarono che con tali princìpi ero sicuro non guadagnar da vivere. La predizione si avvera. Chi si è acclimatato benone è Pellegrini. Se volessi narrare tutte le di lui infamie non la finirei così presto. Dico solo cosa che troppo interessa a sapersi, ed è che tra i molti mestieri palesi e occulti che esercita vi è quello della spia, e lo so di certo. Per amor del Cielo non dite ad alcuno di saperlo da me, perché se l’Onnipotente Legazione cui più particolarmente egli serve venisse a scuoprire che scrissi di ciò mi farebbe sfrattare, locché sarebbe la mia ultima rovina». Nella medesima lettera informava Celesia di essere impegnato nella traduzione in italiano del Codice commerciale turco e di essere alla ricerca di soggetti da associare all’impresa. Allo stesso Celesia, il 5 giugno 1851, scriveva di avere abbandonato l’idea di costituirsi e tornare in Italia (Genova, Biblioteca universitaria, Fondo Autografi). Solo l’amnistia generale consentì a Morchio, dopo l’Unità, di rivedere la patria.

Rientrato in Italia si stabilì nel circondario di Chiavari, a Borzonasca, dove visse sino alla morte, avvenuta il 2 gennaio 1875.

Fonti e Bibl.: Genova, Biblioteca Universitaria, Fondo Autografi, Morchio David; E. Crestofilo, Un cenno della rivoluzione di Genova, Genova 1849, passim; [E. Celesia], Della rivoluzione di Genova nell’aprile 1849, esposta nelle sue vere sorgenti. Memorie e documento di un testimonio oculare, Genova 1850, passim; C.A. Vecchj, La Italia. Storia di due anni 1848-1849, Torino 1856, passim; L. Scalchi, Storia della guerra d’Italia dal 18 marzo 1848 al 28 agosto 1849, Bologna 1862; A. La Marmora, Un episodio del Risorgimento italiano, Firenze 1875, passim; Nouvelles lettres inédites de C. Cavour, a cura di A. Bert, Torino 1889, passim; Genova nel 1848- 49, a cura del Comune di Genova, Torino 1950, passim; G. Di Fiore, Controstoria dell’Unità d’Italia: fatti e misfatti del Risorgimento, Milano 2007, p. 41. Infine F. Poggi, s.v., in Diz. del Risorgimento nazionale, III, 2, Milano 1933, pp. 641 s.

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