LAJOLO, Davide

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 63 (2004)

LAJOLO, Davide

Margherita Karen Hassan

Nacque a Vinchio, presso Asti, il 29 luglio 1912, da Giuseppe e Caterina Garberoglio, detta Lina.

La madre apparteneva a una delle poche famiglie benestanti del paese; il padre, invece, era un contadino di umili origini. La famiglia, composta di quattro figli maschi (il L. fu l'ultimo di loro) viveva esclusivamente dei prodotti delle vigne di proprietà: la migliore e la più cara al L. era il bricco di S. Michele. L'economia familiare, dunque, legata com'era all'andamento della raccolta, non fu mai stabile né particolarmente fiorente.

Il L. frequentò la scuola a Vinchio fino alla fine della terza elementare, il grado di istruzione massima previsto nel paese. Nel 1922 lasciò per la prima volta la sua casa per proseguire gli studi nell'unico istituto dove si pagava una retta ridotta, il collegio-seminario dei salesiani a Castelnuovo.

Questo primo distacco dai suoi affetti fu estremamente doloroso, tanto che, appena arrivato, tentò, senza successo, di fuggire dal collegio.

A causa del suo carattere turbolento, il L. fu costretto a cambiare tre istituti, trasferendosi, di volta in volta, da Castelnuovo a Torino, da Torino a Fossano e, infine, a Cuneo; i suoi risultati scolastici furono, comunque, sempre eccellenti. Frequentò poi il liceo Plana di Alessandria, dove ebbe modo di entrare in contatto con alcuni giovani dei Gruppi universitari fascisti (GUF) con cui cominciò a frequentare manifestazioni e sedi fasciste locali.

Gli anni del liceo furono durissimi per la famiglia del L., che a stento riusciva a tirare avanti; preoccupato per questa situazione, il giovane L. si fece illudere dalla retorica fascista, che predicava un radicale cambiamento sociale a favore dei poveri, diventando un fascista convinto.

Dopo la maturità classica, il L., per ragioni economiche, rinunciò all'università per frequentare il primo corso ufficiali di complemento a Moncalieri; fu l'ennesima, dolorosa separazione dalle sue radici e dal suo "nido". Nel 1934 era già sottotenente al 37° fanteria e, alla fine dello stesso anno, nella speranza di intraprendere stabilmente la carriera militare, decise di fare domanda come volontario in Abissinia, ma non venne richiamato. Quella domanda gli valse, comunque, la partenza per la guerra di Spagna.

L'impiego di retrovia in Spagna significò per il L. uno stipendio fisso e anche l'occasione giusta per dimostrare i suoi ideali fascisti, nonostante i dubbi che cominciava a nutrire sulla politica del regime. Durante la permanenza in terra iberica scrisse anche alcuni articoli sulla guerra per il settimanale del GUF e per il Popolo d'Italia; il ricordo di quell'esperienza è nella sua prima pubblicazione: Bocche di donne e di fucili (con prefaz. del gen. A. Bergonzoli, Osimo 1939).

Il L. tornò in Italia nel 1938; era ormai conosciuto in ambiente fascista e gli venne affidata la direzione del settimanale della federazione di Ancona, la Sentinella adriatica; contemporaneamente, ottenne anche una collaborazione con il Corriere adriatico. Nel 1939, prima di venire richiamato alle armi, sposò Rosetta Lajolo, dalla quale, nel 1942, ebbe l'unica figlia, Laurana. Nel corso della guerra combatté in Jugoslavia, in Grecia, quindi a Valona, in Albania, raggiungendo il grado di capitano. Rientrato in patria, l'orrore per l'esperienza bellica appena vissuta, il dolore per i morti innocenti, gli impedirono di tornare a occuparsi della federazione e del giornale.

Negli anni di vita militare il L. aveva scritto poesie di stampo ermetico, incentrate proprio sul rifiuto della guerra e della morte, poi pubblicate in due diverse raccolte, Nel cerchio dell'ultimo sole (Genova 1940) e Ponte alla voce (Asti 1943). Per lui la poesia costituì, e non solo in questo periodo, un momento di leale riflessione su se stesso, una fedele compagna di vita; molte sue liriche, tuttavia, sono ancora inedite.

L'8 sett. 1943 il L. decise di restare a Vinchio e di "voltare gabbana", organizzando, con il nome di battaglia di Ulisse, la lotta partigiana insieme con altri giovani del suo paese. Inizialmente, a causa dei trascorsi fascisti, non gli fu facile essere accettato dai compagni partigiani, ma il L. seppe dimostrare la sua lealtà alla causa e venne presto nominato comandante del raggruppamento comprendente l'8ª e la 9ª divisione Garibaldi del basso Monferrato e, successivamente, vicecomandante di zona del Corpo volontari della libertà del Monferrato.

Durante la lotta partigiana, il L. strinse amicizia, tra gli altri, con F. Scotti, la cui storia di coerente comunista narrò in parallelo, e a contrasto con la sua, ne Il "voltagabbana" (Milano 1963), sorta di autobiografia, resoconto preciso e ricco di particolari della sua vita, dalla nascita sino alla fine della guerra.

Mentre partecipava alla Resistenza, il L. prese la tessera del Partito comunista italiano (PCI); terminata la guerra, fu presentato da Scotti a G. Amendola, che gli propose di occuparsi delle pagine culturali dell'Unità. Circa tre mesi dopo la Liberazione, quando aveva già iniziato la carriera di giornalista, il L. dovette scontare una pena di due mesi nel carcere di Torino per aver difeso, in un articolo, due partigiani che in quegli stessi giorni erano stati condannati.

Nel 1945 venne pubblicato Classe 1912 (Asti), in cui il L. narra la sua storia di partigiano: dalla difficoltà iniziale alla guerriglia, comprese le speranze, le amicizie, le dolorose perdite umane che segnarono la sua esperienza. Il libro fu ripubblicato trent'anni dopo con un nuovo titolo A conquistare la rossa primavera (Milano 1975).

Il L. cominciò la sua esperienza all'Unità il 30 apr 1945, prima a Torino, come caporedattore, poi, dal 1947, a Milano, come vicedirettore e corsivista e quindi, dal 1948 al 1958, come direttore dell'edizione dell'Italia settentrionale.

Durante la sua lunga direzione, il L. cercò di fare dell'Unità un giornale popolare, secondo l'accezione gramsciana, attorno e attraverso il quale costruire un'autentica cultura nazionalpopolare; cercò di aprire il quotidiano ai più diversi argomenti, facendone una scuola per molti aspiranti giornalisti e un punto di riferimento culturale non solo per i politici ma anche per gli intellettuali e i simpatizzanti del partito. Lo sport, la moda e la cronaca conquistarono spazi via via più ampi, ma la sua direzione si caratterizzò soprattutto per la qualità e l'indipendenza della "terza pagina", cui il L. teneva moltissimo e alla quale collaborarono alcune tra le firme più prestigiose dell'epoca, come C. Pavese - al quale venne affidata la rubrica "Dialoghi col compagno" -, I. Calvino, A. Gatto, R. Vallone, Natalia Ginzburg, Paola Masino, S. Micheli, F. Venturi; e proprio la terza pagina fu spesso accusata dal partito di essere troppo "indipendente" e di privilegiare l'aspetto letterario rispetto a quello ideologico.

A partire dagli anni Cinquanta, in quinta pagina furono inseriti i supplementi La Domenica dei piccoli, appuntamento settimanale con i fumetti a cura di Lino Picco (G. Rodari), e l'Unità della donna, sulla quale tennero una rubrica fissa prima Sibilla Aleramo - i "Consigli di Sibilla" - quindi Anna Maria Ortese. Del 1952, poi, è l'avvio del numero del lunedì, nel quale fu ampliato lo spazio dedicato allo sport. Sempre nel 1952, il L. aveva fondato il giornale sportivo Il Campione, che diresse fino al 1956.

Sull'Unità il L. firmava anche corsivi - con il suo vecchio nome di battaglia, Ulisse - e, con nome e cognome, articoli di fondo e i suoi "dialoghi a puntate" su grandi temi, quali l'arte o la pace; riuscì, comunque, a essere giornalista militante, una voce del PCI, e, insieme anche ad aprirsi all'avversario, ospitando articoli e opinioni che contrastavano, in parte o del tutto, con quelle del quotidiano che dirigeva: fu, per esempio, uno dei primi comunisti a intessere un dialogo con i cattolici.

Negli anni della sua direzione, molti avvenimenti politici nazionali e internazionali resero il suo ruolo estremamente difficile: la guerra fredda, la scomunica delle dottrine comuniste e marxiste da parte del S. Uffizio, il rapporto Chruščëv e le rivelazioni sullo stalinismo.

Fu certamente questo un evento doloroso per il L., diviso tra la fedeltà al partito e ai suoi ideali e la ricerca della verità, tra la responsabilità di dover dirigere il giornale e il suo dramma interiore, una seconda delusione prossima a quella giovanile provocatagli dal fascismo.

I fatti del 1956, poi, lo segnarono profondamente, anche se infine decise di rimanere alla direzione del quotidiano per continuare la sua battaglia - da "comunista scomodo" - dall'interno del partito. Il '56 fu anche l'anno del suo viaggio in Cina, in occasione del congresso del Partito comunista cinese, dei suoi incontri con Mao Tse Tung e Ciu En Lai e del serrato confronto con il loro percorso politico. Nella redazione dell'Unità il L. ebbe anche modo di conoscere molti scrittori, artisti, personaggi influenti della vita culturale e politica italiana di quel periodo: oltre a C. Pavese, con il quale instaurò una profonda amicizia, S. Quasimodo, G. Feltrinelli, E. Montale, E. Vittorini, D. Buzzati, V. De Sica, C. Zavattini, P.P. Pasolini (che nel 1971 gli dedicò la poesia Trasumanar e organizar) e, ovviamente, Ingrao, direttore dell'Unità di Roma, P. Togliatti, U. Terracini. Il suo impegno in redazione, non gli impedì di dedicarsi, negli stessi anni, alla politica attiva, di fare comizi - a volte anche più di uno al giorno - per stare a contatto con gli operai e la gente comune.

Fu probabilmente proprio a causa della sua "indipendenza" che il partito, all'inizio del 1958, preferì togliergli la direzione del quotidiano e candidarlo alle elezioni: fu eletto deputato del PCI per tre legislature, dal 1958 al 1972.

Nella seconda legislatura fu deputato-questore alla Camera e, per diverso tempo, membro della commissione di vigilanza sulla RAI-TV. Da parlamentare il L. si batté per un sistema radiotelevisivo imparziale, non lottizzato, a volte con qualche successo: come quando, nel 1960, ottenne dall'allora presidente del Consiglio A. Fanfani, che fosse concesso lo spazio televisivo, aperto alle opposizioni, nelle tribune politiche e sindacali; si occupò anche di censura cinematografica, della difesa dei diritti degli operai delle fabbriche del Nord e dei coltivatori diretti, e dei rapporti tra Stato e Chiesa, contro l'ingerenza clericale nella vita politica e culturale del Paese. Nel 1965, insieme con S. Pertini, riuscì a far approvare alla presidenza della Camera dei deputati l'istituzione di una commissione preposta all'acquisto di opere d'arte contemporanea - altra sua grande passione - per il palazzo di Montecitorio.

Gli anni in cui il L. fu deputato alla Camera, furono anche quelli in cui si dedicò più intensamente alla scrittura. Del 1960 è la fortunata biografia dell'amico Pavese, Il "vizio assurdo" (Milano; rist., Pavese, ibid. 1984), in cui egli - grazie alla possibilità, offertagli dalla sorella dello scrittore, di consultarne per primo le carte private - cercò di tracciare un ritratto dell'uomo, dell'intellettuale e dello scrittore diverso da quello che lo stesso Pavese aveva fornito nel Mestiere di vivere.

Nel suo libro, il L. intese in primo luogo riabilitare politicamente l'amico, soprattutto agli occhi di quanti gli rimproveravano di non aver preso parte alla Resistenza. E lo fece sottolineando il suo impegno politico e culturale a favore della libertà e della democrazia, definendolo un intellettuale organico, seppur slegato da molte delle dinamiche interne al partito stesso; volle poi mettere in primo piano il suo forte attaccamento al paese natale, Santo Stefano Belbo, e alle Langhe in generale. Nel gennaio 1974 la cooperativa teatrale degli Associati portò in scena, per la prima volta, la riduzione teatrale del Vizio assurdo: un'opera nata dalla collaborazione del L. con D. Fabbri. Il regista fu G. Sbragia mentre per interpretare Pavese fu scelto l'attore L. Vannucchi.

Il particolare rapporto di Pavese con la sua terra d'origine e le radici contadine costituirono certamente ulteriori, profondi motivi di legame con il L. che dedicò molti racconti al suo paese, tra le colline del Monferrato, e alla sua gente, come I mè (Firenze 1977) e Il merlo di campagna e il merlo di città (Milano 1983). Lo stesso tipo di legame portò il L. a occuparsi di altri due scrittori delle Langhe, B. Fenoglio e G. Gozzano. Al primo dedicò il volume Fenoglio, un guerriero di Cromwell sulle colline delle Langhe (ibid. 1978); al secondo alcuni saggi pubblicati in diverse raccolte, tra cui Poesia come pane. Incontri e saggi (ibid. 1973).

Il L. amava mettere continuamente a confronto i suoi tre autori langaroli, ben diversi fra loro, quasi la comune origine li rendesse in qualche modo parenti, come dimostra il volume Cultura e politica in Pavese e Fenoglio (Firenze 1970).

Il L. fu anche, e forse soprattutto, autore autobiografico: le vicende pubbliche e private furono, per l'uomo e per il politico, talmente intense e a volte drammatiche, da richiedere, sempre, ulteriori riflessioni che egli affidava, appunto, agli scritti. Nel 1977, nel suo A veder l'erba dalla parte delle radici (Milano), il L. racconta di un grave attacco cardiaco che lo costrinse a letto, in una clinica, per diverso tempo e di come il timore della morte e la speranza di sopravvivere ancora una volta lo avessero portato a concepire un'idea diversa, ribaltata, di libertà, scevra di burocratismo e di potere, finalmente ancorata al suo significato originale piuttosto che alle sue diverse conseguenze pratiche: "credo di avere scoperto le radici di ciò che nasce e di ciò che muore. Prima osservavo l'erba che spunta fuori, ora sono riuscito a vederla dalla parte delle radici nascoste nella terra" (p. 54)

Come sintesi conclusiva nel 1981 apparve Ventiquattro anni. Storia spregiudicata di un uomo fortunato (Milano), narrazione diaristica delle vicende politiche, culturali e professionali che, in quei ventiquattro anni, segnarono le sue esperienze personali e professionali. Il volume comincia esattamente dove si era interrotto il Voltagabbana. Alcuni dei suoi libri più significativi furono dedicati dal L. anche alla politica o, meglio, ai politici che incontrò nella sua lunga militanza, come I rossi (ibid. 1974), Finestre aperte a Botteghe Oscure (ibid. 1975) e Il volto umano di un rivoluzionario. La straordinaria avventura di G. Di Vittorio (con prefazione di L. Lama, Firenze 1979).

Il L., che aveva abbandonato la direzione dell'Unità per disciplina di partito, nonostante preferisse di gran lunga fare il giornalista e lo scrittore piuttosto che il deputato, ebbe la fortuna di tornare al suo lavoro in due significative occasioni: nel 1960, quando, ancora parlamentare, fondò, insieme con G. Vigorelli, L'Europa letteraria, e nel 1971, quando accettò di dirigere il settimanale Giorni - Vie nuove, fondato da L. Longo, rimanendovi per dieci anni.

Con Giorni - Vie nuove il L. tornava al giornalismo militante, riprendendo in parte la politica editoriale che aveva promosso all'Unità, il tentativo, cioè, di costruire un giornale popolare, attento ai grandi temi politici e sociali; e al rapporto con i lettori, egli tenne sempre in modo particolare, cercando di coinvolgerli attivamente nella vita del giornale sia attraverso l'abbonamento e la diffusione, sia attraverso la partecipazione ai dibattiti e alle discussioni che in esso avevano luogo. Nel caso specifico di Giorni, poi, l'intento principale fu quello di farne il settimanale della sinistra unita, finanziariamente indipendente sia dal PCI, sia dal Partito socialista italiano, che il L. sperava di vedere presto insieme con il governo. In particolare, nel 1971 e nel 1975, decise di pubblicare nel settimanale le rivelazioni di A. Dubček e di J. Smrkovský sui retroscena dell'occupazione sovietica della Cecoslovacchia. La sua battaglia per un "socialismo dal volto umano", la strenua difesa della "primavera di Praga" e le pesanti condanne dello stalinismo, gli costarono non solo durissime accuse da parte di molti esponenti del suo partito, ma anche, e soprattutto, la non rielezione, sempre nel 1975, al comitato centrale. Ancora una volta, il "comunista scomodo" aveva toccato una ferita aperta e il suo essere un "oppositore dall'interno", in un'ottica però sempre propositiva, non venne compresa né accettata dai suoi compagni.

Dopo Veder l'erba dalla parte delle radici premio Viareggio per la narrativa in quello stesso anno), il L. dedicò ai suoi amici artisti e pittori l'ultimo libro: Gli uomini dell'arcobaleno (Parma 1984).

Il L. morì a Milano il 21 giugno 1984.

Fonti e Bibl.: Materiale edito e inedito riguardante il L. è conservato a Vinchio presso l'Archivio dell'Associazione Davide Lajolo Onlus. S. Terzi [Nerone], D. L. lui (Dalla casa dei vivi), [Reggio Emilia] 1985; C. Testa, Conversando con Ulisse, Alessandria 1989; D. L. poesia e politica. Atti del Convegno, Santo Stefano Belbo… 1989, a cura del Centro studi Davide Lajolo, Alessandria 1990; M. Venturi, Sdraiati sulla linea. Come si viveva nel PCI di Togliatti, Milano 1991, ad ind.; Voci dal quotidiano. L'Unità da Ingrao a Veltroni, a cura di L. Paolozzi - A. Leiss, Milano 1994, ad ind.; B. Pischedda, Due modernità: le pagine della cultura dell'Unità 1945-1953, Milano 1995, passim; D. L., Vinchio è il mio nido (catal.), a cura di L. Lajolo, Vinchio s.d. [ma 1999]; M. Rendina, Diz. della Resistenza italiana, Roma 1995, sub voce.

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