DAZIO e DOGANA

Enciclopedia Italiana (1931)

DAZIO e DOGANA (dal lat. datio "il dare"; per dogana v. sotto)

Federico FLORA
Aristide CALDERlNl
Gino LUZZATTO
Francesco Antonio REPACI
Anna Maria RATTI
Lidia DE NOVELLIS

Le imposte indirette sulle merci, riscosse durante la loro circolazione dall'intermediario che ne assume il trasporto o l'introduzione nei singoli comuni o nello stato, si dicono generalmente dazî e si dividono in dazî interni ed esterni, a seconda che si percepiscono al momento in cui gli oggetti tassati passano il confine amministrativo del comune o il confine politico dello stato.

I dazî interni o di consumo si riferiscono principalmente alle finanze locali; i dazî esterni o di confine, o diritti doganali, hanno rapporto esclusivamente alle finanze dello stato, colpiscono unicamente le merci che sono oggetto di scambî internazionali e assumono caratteri diversi a seconda degli scopi fiscali, economici, politici che con essi lo stato si propone.

Storia.

Antichità. - Non sempre nei documenti superstiti così della grecità come della romanità appare chiara la distinzione tra dazio e dogana; i dazî percepiti alle porte della città si confondono talora, dinanzi alla scarsità delle nostre informazioni, con tasse di pedaggio e con tasse di vendita sui mercati. Così la tassa del due per cento sulle merci importate ed esportate, percepita ad Atene nel porto del Pireo chiamata πεντηκοστή, è esatta da "pentecostologi" e più propriamente va considerata come un'imposta doganale; di analoghe dogane si parla per la Macedonia e per Rodi. Un dazio vero e proprio invece è quello di cui fa cenno il comico Leucone, secondo ci riferisce l'opera di Zenobio (Prov., I, 74) col nome di διαπύλιον: un contadino, volendo introdurre in città del miele senza pagarne il dazio, più elevato che quello dei cereali, coprì di orzo alcuni otri di miele, posti sul basto di un asino; già l'inganno era riuscito, quando l'asino nel rimettersi in cammino scivola e cade; i doganieri accorrono in aiuto, scoprono l'inganno e confiscano il miele. Qualcuno (Curtius) anche ha creduto che alcuni posti di guardia all'entrata delle città greche fossero posti di dazieri.

Nell'antichità romana il dazio differisce dalla dogana in questo, che le rendite del primo vanno a profitto di una città, invece che dello stato; ne esistevano in età repubblicana nelle provincie romane ad Ambracia (Liv., XXXVIII, 44), a Termessus maior in Pisidia secondo una legge votata nel 71 a. C., di cui possediamo in gran parte il testo, a Rodi (Cic., De invent., I, 30, 47), a Marsiglia (Strab., IV, 1, 8) e certo altrove. In età imperiale, probabilmente a Colonia (Tac., Hist., IV, 65), a Coblenza, a Efeso. A Roma per lunghi secoli non vi fu dazio cittadino, perché non esisteva una cassa speciale della città, ma un unico aerarium per tutto lo stato; poi in età imperiale, quando Roma cominciò a distinguere i suoi interessi particolari da quelli generali dello stato, si creò una cassa speciale affidata al senato (Vopisc., Aurel., 20), e il dazio ne dava il rifornimento. Scarse ne sono le tracce superstiti, le più sicure sono quelle di un'iscrizione (Corp. Inscr. Lat., VI, 1016 A) in tre esemplari, di cui due sulla via Salaria e uno sulla via Flaminia, che paiono i segnali limiti di una specie di cinta daziaria. I dazî come la dogana erano affidati a pubblicani che ne curavano a loro rischio e pericolo l'esazione. Per l'Egitto romano abbiamo da segnalare l'esistenza di un διαπύλιον, testimoniato da numerose fonti e soprattutto da ricevute di pagamento avvenuto alle porte di Soknopaio Neso, di Filadelfia, di Karanis e di un altro luogo ignoto nell'Arsinoite nel sec. II-III d. C. I papiri di Egitto ci attestano anche nel 201 a. C. un διαπύλιον nella Licia a vantaggio forse dell'Egitto.

Bibl.: C. Boeckh, Economia politica degli Ateniesi, trad. it. in Pareto, Bibl. Stor. Econ., I, i, spec. p. 424 segg.; Gilbert, Handb. griech. Staatsalt., I, 2ª ed., Lipsia 1903, p. 393; Cagnat, Études hist. sur les impôts indirects chez les Romains, Parigi 1882; id., Portorium in Daremberg e Saglio, Dictionn. IV, p. 586 segg.; Caillemer, Diapylion, ibid., II, p. 160; Koch, διαπύλιον, in Pauly-Wissowa, Real-Enc., V, col. 344; Wilcken, Griech. Ostraka, Lipsia 1899, I, pp. 354-360.

Medioevo ed epoca moderna. - Se anche nell'attuale terminologia finanziaria, i due termini di dazio e dogana sono spesso usati indifferentemente, e si fa tra essi una distinzione soltanto in quei paesi in cui, accanto ai dazî di confine, sopravvivono i dazî interni, per tutto il Medioevo invece e per gran parte dell'età moderna non solo è mancata ogni differenza di nome, ma i due istituti si sono confusi e per lo più identificati. Mentre il termine dazio ha un significato vastissimo, trovandosi in molti casi usato per designare ogni forma d'imposta, sia diretta sia indiretta, sicché esso assume il suo significato specifico quando è accompagnato dal nome della merce su cui grava, il termine dogana invece, di uso assai più recente, ha dapprima un significato assai più ristretto, che viene a poco a poco allargandosi, nell'età comunale, fino ad assumere la sua comprensione attuale. Di origine araba (da dīwān "libro di conti, ruolo di soldati e stipendiati, luogo dove stanno gl'impiegati che tengono i registri della finanza", v. dīwān), il nome dogana (dohana) si incontra dapprima nei paesi dell'occidente soggetti alla dominazione musulmana; in Spagna, in Portogallo e in Sicilia, e più tardi, intorno al sec. XII, nelle città marittime che hanno avuto più frequenti rapporti col mondo arabo; ed è usato nel senso di fondaco o magazzino, in cui i mercanti forestieri dovevano depositare le merci importate e dove, alla loro uscita, si pagavano i diritti fiscali imposti sulle merci stesse. Ma il nome nuovo viene così a identificarsi con l'istituto dei vectigalia, che gravavano sul commercio fin dall'età romana e che non sono scomparsi colla caduta dell'Impero.

Le molteplici imposte, che nell'alto Medioevo e nell'età comunale colpiscono il commercio, si possono raggruppare in due categorie: imposte sul mercato e imposte di transito. Le prime hanno in prevalenza il carattere d'imposta sugli scambî (curatura, siliquaticum, plateaticum) o di tasse per l'uso delle stationes, dei pesi e delle misure pubbliche; le seconde, designate più spesso col nome di telonei e riscosse alle porte (portaticum), agli approdi sui fiumi, sui laghi o sul mare (ripaticum), a un ponte, a un incrocio di strade, possono avere talvolta il carattere della tassa per un servizio pubblico, ma più spesso quello di una vera e propria imposta sul transito delle merci, delle cavalcature, dei carri, delle navi.

L'origine delle dogane moderne, dei dazî cioè sull'entrata o l'uscita delle merci dai confini dello stato, più che nelle imposte sul mercato, si dovrebbe vedere appunto nei pedaggi, nei portatici e in altre imposte di transito. Ma nella realtà le due categorie d'imposta tendono a confondersi; molti documenti parlano di un teloneo del mercato o della città, o anche, quando il mercato si tenga sulla riva di un fiume, di un ripatico del mercato; e la confusione è agevolata dal fatto che tutte queste imposte, considerate costantemente come una regalia, formano, dall'età carolingia in poi, uno degli oggetti più frequenti delle concessioni reali e imperiali a signori feudali, a vescovi, capitoli e monasteri, e finalmente alle città. Tolte poche eccezioni, riguardanti esclusivamente i pedaggi e il transito sui fiumi, il luogo preferito, anzi la sede naturale per l'esazione di tutti questi diritti, diventa la città, dov'essi si pagano alle porte oppure nel mercato. Federico I, nella famosa Constitutio de regalibus, tenterà ancora di rivendicare all'impero i ripatica et vectigalia quae vulgo dicuntur telonea; Federico II andrà molto più in là e nella sua riforma doganale tenterà di sopprimere i numerosissimi dazî interni e di creare invece un'unica dogana di confine; ma questi tentativi sono destinati a infrangersi contro l'irresistibile tendenza all'autonomia delle città e degli altri poteri locali, ciascuno dei quali ha un proprio sistema doganale.

È anzi soprattutto nelle città, e principalmente nelle maggiori città mercantili, che si va sviluppando dal sec. XII in poi un vero sistema doganale: mentre sopravvivono e si sviluppano, specializzandosi, tutti i vecchi diritti di mercato nelle forme di tasse di posteggio, d'imposte sui pesi e misure, sui contratti di compravendita e così via; mentre accanto ad essi, nelle città marittime e fluviali, prendono una fisionomia ben distinta tutti i diritti portuali, che si pagano in rapporto alla portata delle navi, si distinguono nettamente da tutti questi i dazî di entrata e di uscita delle merci, che si riscuotono non, come oggi, al confine del territorio cittadino, ma in una o più localita della città, dove debbono affluire tutte le merci importate o destinate all'esportazione: località che in alcune maggiori città mercantili variano col variare della provenienza e della destinazione, o del genere delle merci o della nazionalità dei mercanti (a Venezia, p. es., si distingue la tavola dei Lombardi, il fondaco del frumento, il fondaco dei Tedeschi e così via).

Con l'intensificarsi e moltiplicarsi dei rapporti commerciali, come si differenziano le varie imposte sul commercio, così si va raffinando il metodo di esazione dei dazî di entrata e uscita. Accanto alla forma più antica e più rozza, di un generico dazio ad valorem, che anche nella misura, variante per lo più da 1/80 a 1/40, rivela la sua derivazione da dazî antichissimi, cominciano a comparire, per alcuni prodotti, come ad esempio per le stoffe di lana, i dazî specifici in misura diversa, a seconda della qualità e provenienza della merce.

D'altra parte il moltiplicarsi delle dogane cittadine, dei diritti di pedaggio e di ripatico, nonostante la relativa mitezza di ciascuno di essi, avrebbe reso assolutamente impossibile il commercio fra regioni lontane, qualora ad attenuarne la gravità non si fosse provveduto coi trattati e con la franchigia delle fiere. Soltanto lungo il Reno si contavano, alla fine del Trecento, 64 dogane; sul Danubio, nella sola Bassa Austria, 74. Le fiere franche, distribuite a breve distanza di spazio e di tempo l'una dall'altra, permettono ai mercanti che le frequentano successivamente, di sottrarsi almeno per un certo periodo dell'anno al pagamento di molti di quei tributi; ma le maggiori città mercantili riescono soprattutto ad evitare quell'ostacolo col mezzo dei trattati di commercio, che esse stipulano con altre città o con principi di paesi vicini e lontani, ottenendo libero transito per merci e mercanti, diminuzione e talvolta esenzione dai dazî, sulla base, per lo più, della reciprocità, includendo talvolta nel trattato la clausola della nazione più favorita.

Si può parlare perciò, almeno per i grandi comuni, di una politica doganale, che sarebbe però assurdo di voler classificare nelle categorie moderne di libero scambio o di protezionismo. In generale quella politica non è guidata da un criterio economico, ma da un criterio prevalentemente fiscale. Il comune, tormentato continuamente dalle ristrettezze finanziarie, riluttante a ricorrere con troppa frequenza alle imposte dirette, deve fare assegnamento soprattutto sulle imposte indirette, gravanti sul consumo o sul commercio (a Firenze, nel 1338, il dazio d'entrata e di uscita dalla città, secondo Giovanni Villani, rendeva 90.200 fiorini d'oro ed era il maggiore cespite delle finanze comunali); ed è spesso costretto a cederle ad appaltatori o a gruppi di creditori oppure ad accantonarne l'intero importo a garanzia del regolare pagamento degl'interessi del debito pubblico. In questa situazione non solo non si può dare un'interpretazione economica alla maggior parte dei provvedimenti finanziarî, ma anche molti provvedimenti che sembrano commerciali, si devono spiegare con criterî fiscali.

Non mancano però, specialmente nei maggiori comuni mercantili, disposizioni in materia di dazî, che sono indubbiamente determinate da ragioni protezionistiche, ma che mirano a proteggere, più che la produzione, il consumo cittadino, con tutti i provvedimenti che vietano od ostacolano l'esportazione dei prodotti agricoli; oppure vogliono tutelare gl'interessi del ceto commerciale cittadino, concedendo a questo, oltre ad altri favori, il beneficio di pagare, per le stesse merci, dazî d'importazione ed esportazione, sensibilmente inferiori a quelli che sono imposti agli stranieri. La produzione industriale è anch'essa protetta: anzi si può dire che all'infuori di quei pochi comuni in cui l'attività commerciale predomina su tutte le altre, in nessun altro periodo la produzione delle industrie locali abbia trovato una protezione più rigida di quella di cui ha goduto nell'età comunale. Ma i mezzi, di cui comuni e corporazioni si valgono per difendere le loro arti dalla concorrenza esterna, sono quelli della politica annonaria, che assicura o tende ad assicurare il basso costo della mano d'opera; della politica del lavoro, che vuol raggiungere lo stesso scopo, impedendo l'esodo dei lavoratori; dei divieti di esportazione delle materie prime, e tavolta, finalmente, dei divieti d'importazione dei prodotti finiti, di cui si teme la concorrenza. Ma raro è il caso di dazî, che si possono dire introdotti o aumentati per scopo protezionista. Si può, quindi, parlare talvolta di proibizionismo piuttosto che di un vero protezionismo doganale a favore dell'industria cittadina.

Se in tutto il periodo comunale manca una netta distinzione fra dogana di confine e dazio interno, si manifesta però una differenziazione, che a poco a poco finirà per spianare la strada a questo sdoppiamento: la distinzione cioè fra le varie imposte che gravano sulle merci in transito o sulle merci che formano oggetto di compravendita sul mercato e che son per la maggior parte destinate all'esportazione o alla riesportazione, e le vere e proprie imposte di consumo, che gravano di preferenza su alcune derrate alimentari (cereali, vino, carne, sale). La misura, il luogo e la forma di riscossione delle imposte di consumo sono diverse da quelle delle imposte sul commercio; mentre quest'ultime possono esser modificate in forza di trattati internazionali, le prime conservano sempre il carattere di affari interni del comune e su di esse quelle convenzioni non hanno alcuna efficacia.

La formazione delle signorie, dei principati regionali e delle monarchie nazionali a tendenza sempre più accentratrice e unitaria, determina una trasformazione lenta ma profonda in tutto il sistema doganale. I nuovi stati non possono portare d'un tratto l'unità dove esiste il massimo della varietà e del frazionamento: entro ad essi sopravvivono per secoli gli antichi diritti di transito sulle strade e sui fiumi, le antiche dogane interne riscosse per lo più alle porte delle città, gli antichi diritti di mercato. Ma, dove il potere centrale si eleva potente al di sopra dei poteri locali la sua ingerenza anche in materia doganale si fa presto sentire. In Inghilterra, dove feudatarî e città non raggiunsero mai la posizione di piccoli stati entro lo stato nazionale, l'ingerenza della monarchia in questo campo si fa sentire fin dalla seconda metà del sec. XIII, coi divieti d'importazione, prima temporanei e poi definitivi, dei panni stranieri, estesi nei due secoli successivi ad altri prodotti; se si arriva solo lentamente alla totale soppressione delle dogane interne e dei pedaggi, si raggiunge però assai presto, anche in merito dell'insularità, il risultato di poter esigere i dazî all'entrata o uscita delle merci dal regno attraverso i porti.

Sulla stessa strada si muove un secolo più tardi la Francia, dove, fin dal 1484, fu presentata al Parlamento di Tours la proposta di un sistema di dogane ai confini dello stato; ma quella proposta, come altre successive, restò senza risultato; e soltanto nella seconda metà del Seicento, per opera di Colbert, fu compiuto il passo decisivo verso l'unità del sistema e della politica doganale. Nel suo sforzo di creare, con tutte le forme dell'intervento statale, una forte industria francese, Colbert vide l'ostacolo delle troppo numerose dogane interne, che rendevano impossibile un'efficace ed uniforme difesa contro la concorrenza straniera ed impedivano a molte delle industrie nuove la conquista di tutto il mercato nazionale. I suoi sforzi per raggiungere l'unità furono coronati da un successo notevole, ma parziale: egli riuscì a riunire tutta la Francia settentrionale e centrale in un'unica zona doganale, designata col nome di "provinces des cinq grosses fermes", entro la quale erano quasi totalmente soppresse le dogane interne, sostituite da una sola dogana di confine; ma né a lui né ai suoi successori, prima del 1789, fu possibile di riunire tutta la Francia entro una sola linea doganale. Furono bensì soppressi, fra il 1724 ed il 1786, circa 4000 pedaggi; ma alcune provincie non si adattarono a rinunciare alla loro autonomia doganale.

Il prevalere della politica mercantilistica in tutti gli stati europei indusse dovunque principi e governi a intervenire nel sistema doganale, in cui si vedeva ormai uno dei mezzi più efficaci per aiutare lo sviluppo delle industrie, con l'assicurare loro il rifornimento, a buone condizioni, della materia prima e col difenderle dagli assalti della concorrenza. Ma ancora nel sec. XVIII i sovrani d'Austria e di Prussia dovettero limitare il loro intervento a qualche divieto d'importazione e di esportazione.

Per ciò che riguarda, invece, l'unificazione delle dogane parve già un gran passo quello del governo austriaco, che, nel secondo decennio del sec. XVIII, stabilì che ogni provincia costituisse un unico territorio doganale, disponendo che le merci, per cui si fosse pagato il dazio al confine della provincia, non dovessero pagare nient'altro alle vecchie dogane interne. Solo nel 1775 entrò in vigore una tariffa doganale unitaria per tutti i territorî tedeschi e slavi dell'Austria, restandone esclusi soltanto i territorî italiani; mentre, invece, il regno di Prussia, ancora al principio del sec. XIX, aveva 67 tariffe locali e quasi altrettante linee doganali, e in tutta la Germania si contavano, nel 1790, circa 1800 confini doganali.

Ma anche più delle idee e della pratica mercantilistica e degli interessi delle industrie privilegiate, a rendere intollerabile il perdurare delle numerose dogane interne contribuisce il risorgere dell'interessamento per l'agricoltura, che si manifesta fin dai primi del Settecento in Inghilterra e in Francia come in Italia, e che - in un certo senso - può considerarsi come una rivincita della campagna sulla città: per esso infatti si reagisce finalmente contro la politica annonaria, che sacrificava gli agricoltori a vantaggio dei consumatori cittadini e s'invoca da parti assai diverse la libertà del commercio interno dei cereali, la soppressione dei vecchi divieti d'esportazione, e la creazione al loro posto di un dazio d'importazione che protegga la produzione nazionale dei grani. Son queste le idee che trionfano dovunque alla fine del sec. XVIII e che conducono alla definitiva soppressione delle dogane interne, la quale non rappresenta affatto il trionfo del libero scambio internazionale, poiché anzi si accompagnava con l'applicazione di tariffe nazionali, decisamente protezionistiche, sia in favore di alcune colture agrarie, sia in pro di alcune industrie manifatturiere.

L'unità doganale, che alla fine del '700 è completamente attuata in tutti gli stati occidentali e nella parte transalpina dell'Austria, incontra invece maggiori resistenze e difficoltà, per ragioni soprattutto politiche, in Germania e in Italia. Anche in questi paesi le necessità della grande produzione agricola, lo sviluppo, sebbene appena iniziale, della grande industria, e soprattutto le riforme introdotte durante l'occupazione francese, imprimono un forte impulso verso l'allargamento della cerchia doganale. Nel Regno di Prussia colla riforma del 1818 si sopprimono tutte le dogane interne; nel Lombardo-Veneto si abolisce la linea doganale del Mincio; nel Regno di Sardegna, quasi contemporaneamente, si unisce la Liguria al Piemonte. Ma sia in Germania sia in Italia l'ampiezza del mercato che si può raggiungere coll'unità doganale nell'interno dei singoli stati, è ben poca cosa in confronto delle nuove e crescenti necessità del commercio, acuite dal rapido perfezionarsi e trasformarsi dei mezzi di trasporto. In Germania, subito dopo la riforma prussiana del 1818, si cominciano a stipulare convenzioni doganali fra i varî gruppi di stati, finché, nel 1833, si arriva alla costituzione dello Zollverein, che nelle successive rinnovazioni decennali si va sempre più allargando, e dopo il 1871 si estende a tutto il territorio dell'Impero, avendo finalmente anche Amburgo, Brema e Lubecca aderito a entrarvi. In Italia invece non si può, per l'ostacolo creato dall'unione del Lombardo-Veneto all'Austria, arrivare a un risultato simile, auspicato da molti, e soltanto alla vigilia del '48 si potrà arrivare alla costituzione, rimasta poi sulla carta, di un'unione doganale fra gli Stati sardi, la Toscana e lo Stato pontificio; ma si raggiunge almeno l'unità doganale nell'interno dei singoli stati, si tolgono quasi completamente gli ostacoli al commercio dei cereali, e si sopprimono gli antichi divieti all'esportazione di alcune materie prime, in prima linea della seta greggia. È un primo passo, indice sufficiente per dimostrare l'intenso bisogno di un più ampio respiro, e per spiegare le ragioni della rapidità con cui, nel 1861, appena superate le difficoltà politiche, si attuò, in modo completo ed uniforme, l'unità doganale.

Delle vecchie dogane interne si conservano, però, a lungo i residui nei dazî che moltissime città seguitano a esigere su alcune merci che entrano in esse e che sono destinate al consumo cittadino. In Toscana, ad esempio, il nuovo regolamento dei dazî, pubblicato nel 1781, prescriveva che essi si pagassero soltanto alle dogane della frontiera, ma conservava ad alcune città principali, Firenze, Pisa, Siena, Pistoia, il diritto di esigere un proprio dazio alle loro porte. Ma il dazio interno, che sopravvive come dazio municipale e - solo eccezionalmente - provinciale o dipartimentale, e che ha la sua maggior diffusione in Francia, in Italia, in Austria e negli Stati della Germania meridionale ed occidentale (dove è per lo più designato col nome francese di octroi), assume carattere, funzione e destinazione profondamente diverse dai dazî esterni. Mentre questi si estendono a un numero grandissimo di voci, e aggiungono in molti casi alla funzione puramente fiscale una funzione economica, che talvolta prevale anzi su quella, i dazî municipali invece tendono sempre più a limitarsi a un piccolo numero di prodotti di consumo assai diffuso, ma prevalentemente voluttuario (in prima linea vino, birra e tutti gli alcoolici), si propongono uno scopo puramente fiscale, e si riducono sostanzialmente a una imposta sui consumi, che si riscuote nella forma del dazio alle porte che si aprono attraverso la cinta murata delle città, all'ingresso entro i confini del comune, oppure nella forma, profondamente diversa, del cosiddetto dazio dei comuni aperti che è in realtà un'imposta sulla vendita al minuto di determinati prodotti. Numerosi sono però gl'inconvenienti di questa forma d'imposizione (v. appresso) che fu quindi soggetta a vivaci critiche; il movimento abolizionista guadagnò a poco a poco terreno, e condusse in molti stati o alla trasformazione dei comuni chiusi in comuni aperti o all'abolizione completa (i dazî municipali furono soppressi nel Belgio nel 1860). In altri stati invece, sebbene l'opinione dei tecnici e del pubblico fosse unanime nel riconoscere gl'inconvenienti del dazio consumo, la sua abolizione trovò un ostacolo gravissimo e spesso insuperabile nell'altezza del suo reddito, su cui si fondavano principalmente le finanze comunali e che difficilmente avrebbe potuto essere sostituito: così avvenne in Italia, dove all'abolizione non si poté giungere che nel 1930; così avviene tuttora in Francia, dove nella sola Parigi il dazio consumo ha reso, nel 1929-30, più di 500 milioni di franchi, e dove, infatti, sebbene una legge del 1897 autorizzasse i comuni a sopprimere i dazî, pochissimi furono quelli che ne poterono approfittare.

Negli anni stessi in cui scomparivano in Europa, fra il 1833 e il 1860, gli ultimi avanzi delle dogane locali e l'unità doganale trionfava definitivamente in Germania, nell'Impero Austro-Ungarico col compromesso del 1867 e in Italia con la proclamazione del regno, guadagnava rapidamente terreno un movimento che tendeva non a sopprimere completamente le barriere doganali, ma a restituire ad esse un carattere puramente fiscale, per cui non dovessero essere d'ostacolo all'ingresso e all'uscita delle merci, ma incoraggiassero il movimento commerciale coll'estero in modo da ottenere il maggiore incremento di quel capitolo di entrate. Il movimento iniziato, per le necessità nuove della grande industria esportatrice, in Inghilterra, dov'esso trionfa fra il 1846 ed il 1860, si estende, dopo il 1860, a tutti gli stati che mantengono con l'Inghilterra frequenti rapporti commerciali, sia per mezzo di riforme autonome delle singole tariffe doganali, sia per mezzo di trattati di commercio, comprendenti numerose e notevoli riduzioni, che in breve tempo, col diffondersi del sistema della clausola della nazione più favorita, si estendono a tutti gli stati contraenti.

Dato il carattere fiscale che vanno assumendo i dazî, la tendenza che prevale decisamente in Inghilterra e che sembra dover trionfare anche nel continente, è quella di limitare la tariffa doganale a pochissime voci, sopprimendo quasi totalmente i dazî d'esportazione e di transito, e colpendo di preferenza i prodotti di consumo voluttuario, soprattutto alcoolici, tabacco e coloniali, in misura però da non ostacolare l'incremento del consumo. Ma il trionfo di quelle tendenze non è che di breve durata: mentre fa rapidi progressi il processo d'industrializzazione di molti stati del continente europeo, il rapido sviluppo delle ferrovie e della navigazione a vapore, e la grande estensione delle colture granarie nei bacini del Mississippi e della Plata e nell'Ucraina costituiscono una grave minaccia per l'agricoltura come per l'industria dell'Europa occidentale, che non trovano più nell'alto costo dei trasporti una sufficiente protezione contro i manufatti inglesi e contro i grani russi e americani. Di fronte a questa minaccia, aggravata dalla generale discesa dei prezzi, che si manifesta dopo il 1873, si invoca da agrarî come da industriali una maggior difesa doganale. In Francia questa reazione comincia a manifestarsi subito dopo la caduta del Secondo Impero, si afferma vittoriosa nel 1878 e trionfa con la denuncia dei vecchi trattati di commercio e con l'approvazione della nuova tariffa generale del 1881; in Italia le domande di aiuto degl'industriali sono parzialmente accolte nella tariffa del 1878; in Germania la riforma doganale del 1879 mira a proteggere in equa misura interessi agricoli e industriali. Queste prime e modeste concessioni non sembrano però sufficienti, e sono soltanto il primo passo per nuovi e assai più gravi inasprimenti. Non basta l'aggravamento dei dazî e la moltiplicazione delle voci, resa necessaria dal prevalere del sistema dei dazî specifici su quello, finora preponderante, dei dazî ad valorem; ma in alcuni stati, come in Spagna, in Francia, in Russia, in Grecia, si ricorre al sistema della doppia tariffa, massima e minima, da applicarsi, la prima, a quei paesi con cui non si stipuli alcun trattato di commercio; da servire, la seconda, come estremo limite, al disotto del quale non si possa scendere nelle convenzioni con altri stati.

In realtà questa ripresa quasi generale del protezionismo doganale, nonostante l'altezza toccata da alcuni dazî, assai superiore a quella della stessa età mercantilistica, non raggiunse affatto e forse non si proponeva lo scopo d'impedire le importazioni. Anzi il commercio internazionale compì appunto in questo periodo i suoi massimi progressi. Effettivamente lo scopo che si voleva raggiungere era soltanto quello di permettere a determinati gruppi d'industriali e di agricoltori di tener alti i prezzi interni dei loro prodotti, non più protetti dalla distanza. Raggiunto questo scopo, si cercò anzi di agevolare il commercio esterno con numerosi trattati, coll'esentare dai dazî l'importazione di materie prime, col mantenere ed estendere la soppressione dei dazî di esportazione, limitati, per lo più, a pochi prodotti minerarî, e di quelli di transito, che avrebbero gravemente danneggiato gl'interessi dei porti, delle ferrovie e delle imprese di navigazione.

Di fronte alla ripresa e al moltiplicarsi degl'inasprimenti doganali, l'Inghilterra, contro la quale, almeno in un primo tempo, essi erano diretti, si mantiene costantemente fedele ai principî e alla pratica del libero scambio; ed anche quando, dopo il 1900, si accentuano le preoccupazioni per la concorrenza dell'industria germanica e s'invoca da taluni gruppi il ritorno al protezionismo sotto la forma di un più stretto legame economico fra madre patria e colonie, la grande maggioranza del paese si pronuncia in favore della libertà doganale. Questo problema della libertà doganale aveva assunto però, soprattutto per l'Inghilterra, particolari caratteri nei rapporti fra madre patria e colonie. In un primo tempo - ed il fenomeno si ripete in tutti i paesi che iniziano la loro attività coloniale - gl'interessi delle industrie metropolitane s'impongono, e le colonie sono considerate come un'appendice della madre patria. Ma la tendenza all'autonomia doganale si afferma dovunque, quando i coloni cominciano ad avere una coscienza dei loro particolari interessi; ed essa è non ultima fra le cause del distacco dall'Inghilterra delle colonie dell'America Settentrionale. Ammaestrata da quell'esempio, l'Inghilterra deve adattarsi nel sec. XIX a riconoscere la piena autonomia doganale delle più sviluppate fra le sue colonie, estendendola poi dai Dominions allo stesso Impero indiano. Così, mentre nella madre patria trionfa il libero scambio, la maggior parte delle colonie adottano un sistema doganale protezionista, che colpisce le importazioni dalla madre patria nella stessa misura delle importazioni straniere.

Nello stesso tempo si è fatta strada, anche nelle colonie e negli stati indipendenti transoceanici, la tendenza unitaria; ed anche in questo gli Stati Uniti di America hanno dato il primo esempio. In essi infatti, già nella costituzione del 1789, si era riconosciuta come una delle peculiari funzioni del congresso quella di regolare tutta la materia commerciale, e, mentre si riconosceva ancora ai singoli stati la facoltà d'imporre dazî sull'importazione e sulla esportazione, si subordinava questa loro facoltà al consenso del congresso. Pochi decennî dopo, quando s'inizia colla tariffa del 1824 la politica protezionistica nordamericana, si afferma definitivamente l'unità doganale di tutta la federazione di fronte all'estero.

Da allora in poi, meno brevi parentesi di parziale trionfo della tendenza liberista, il protezionismo nordamericano si va sempre più accentuando e assume proporzioni gravissime, specie dopo il 1898. Date le fortissime esportazioni di prodotti agricoli e minerarî, l'industria nordamericana non potrebbe sottrarre all'industria europea il ricchissimo mercato nazionale senza un'altissima tariffa protettiva, di cui ha sempre propugnato la necessità.

La guerra mondiale, dopo il disorientamento creato dal caos monetario, che determinò per più di 5 anni uno stato d'incertezza quasi generale e la necessità di ricorrere a provvedimenti e a convenzioni doganali di brevissima durata e continuamente mutevoli, portò da ultimo ad un inasprimento del protezionismo e ad una gravissima moltiplicazione, specialmente nell'Europa orientale, delle barriere doganali. Non sono mancate le intese, come la Convenzione di Barcellona del 1921 contro i divieti di transito; si portarono effettivamente molte attenuazioni al sistema proibitivo dei primi anni del dopoguerra; nell'Inghilterra, che sembrava in un primo tempo guadagnata anch'essa alla causa della protezione, le tendenze liberoscambiste hanno finalmente ripreso il sopravvento; si va affermando dovunque l'aspirazione a un regime di maggiore libertà e regolarità negli scambî; ma intanto anche i più piccoli stati, sorti dallo sfasciamento dei vecchi imperi, vogliono difendere la loro cosiddetta indipendenza economica, e gli ostacoli alla formazione di un vero mercato mondiale sono maggiori che nel 1913.

Bibl.: Schaube, Storia del commercio dei popoli latini del Mediterraneo sino alla fine delle Crociate (dal tedesco), in Biblioteca dell'economista, s. 5ª, XI; G. Ricca-Salerno, Storia delle dottrine finanziarie in Italia, Palermo 1896; G. Arias, I trattati commerciali della Repubblica di Firenze, Firenze 1901; G. Cognetti de Martiis, I due sistemi della politica commerciale, Torino 1896; G. Volpe, Studi sulle istituzioni comunali a Pisa, Pisa 1902; E. Mayer, Italienische Verfassungsgeschichte von der Gothenzeit bis zur Zunftherrschaft, I, Lipsia 1909; G. Prato, Dogane interne nel sec. XX e il mercantilismo municipale, in Riforma sociale, 1911; A. Arnauné, Le commerce exterieur et les tarifs de douane, Parigi 1911; documenti finanziari della Repubblica di Venezia. Bilanci generali, I, i: Origine delle gravezze e dei dazî principali (E. Besta), Venezia 1912; R. Ciasca, Origine e sviluppo del programma nazionale, Roma-Milano 1914; R. Cessi, L'Officium de Navigantibus ed i sistemi della politica commerciale veneziana nel sec. XIV, Venezia 1916; Sieveking, Studio sulle finanze genovesi nel Medioevo (dal ted.), in Atti della Società ligure di storia patria, XXXV; G. Prato, Fatti e dottrine economiche alla vigilia del 1848, Torino 1921; Colonial Tariff Policies, edite dalla United States Tariff-Commission, Washington 1922; Smith Culberton, International Economic Policies, New York 1925; Kulischer, Allgemeine Wirtschaftsgeschichte, Monaco e Berlino 1928-1929; Di Tucci, Le imposte sul commercio genovese fino alla gestione del Banco S. Giorgio, Bergamo 1930; V. Porri, Corso di politica economica internazionale, Torino 1930; J. Mazzei, Politica doganale differenziale e clausola della nazione più favorita, Firenze 1930; Bigo, L'octroi de Paris en 1789, in Revue d'histoire économ. et sociale, 1931.

Dazî interni.

I dazî interni (octroi in francese; Torsteuer in tedesco), o dazî di consumo in significato ristretto, vengono riscossi al momento della introduzione di determinati generi nei comuni chiusi, cioè muniti di barriere custodite da appositi agenti, nella presunzione che siano in questi smerciati e consumati entro un periodo più o meno breve. Le merci in transito vengono quindi escluse. Nei comuni aperti, invece, il dazio è riscosso al momento dell'introduzione dei prodotti tassati nelle botteghe che ne effettuano la vendita al minuto, di guisa che tutti coloro che hanno mezzi sufficienti per fare acquisto all'ingrosso dei generi tassati o che li producono direttamente sfuggono al dazio, che ricade, così, sui consumatori più umili. Perciò, dal lato dell'equità e della produttività fiscale il sistema dei comuni chiusi è preferibile a quello dei comuni aperti. I dazî interni fornivano originariamente alle finanze centrali un'entrata ragguardevole nonostante la tendenza alla riduzione dei saggi e del numero delle voci tassate ed erano per le finanze locali il provento più rilevante, superando per talune grandi città italiane la metà dell'entrate effettive. Oggi però la politica finanziaria ha abbandonato ovunque quasi per intero i dazî governativi, che assorbivano la parte maggiore dei proventi del dazio complessivo. I dazî interni sono ora tributi quasi esclusivamente comunali. Così pure in Italia, nella quale con il r. decr. 24 settembre 1923, n. 2030, art. 3, lo stato abolì completamente a favore dei comuni i dazî governativi sul consumo locale delle derrate e delle merci. Ma per breve momento. Nel 1925 (r. decr. legge 13 febbraio 1925, n. 117) lo stato ristabiliva il dazio addizionale governativo sulle bevande vinose ed alcooliche affidandone la riscossione e il versamento alla tesoreria, al comune ed agli appaltatori daziarî. Comunque, si trattava sempre, per le finanze erariali, di un prodotto accessorio, che, per la sua entità, nulla aveva di comune con quello primitivo nel quale la quota erariale assorbiva la parte principale del gettito del dazio.

Sennonché la politica finanziaria non si è arrestata all'abolizione dei dazî interni governativi, ma tende ovunque a sopprimere anche i dazî interni comunali, considerati nonostante l'entità del loro gettito (che per l'Italia si poteva valutare nel 1928 pari ad un miliardo e mezzo sopra quattro miliardi di entrate effettive) antiquati, ingiusti e dannosi. Né potrebbe essere altrimenti.

I dazî interni, specie nei centri urbani - pochi essendo nei comuni rurali i prodotti tassati con l'imposta sulla vendita - rappresentano un complesso di tributi speciali che colpiscono il consumo dei beni di prima necessità, di consumo generale ma non necessario, di lusso e perfino le materie prime (ferro, acciaio, legnami, materiali laterizî, marmi, pietre, calce, gesso) con saggi diversi a seconda della natura degli oggetti tassati e delle facoltà concesse dalla legge al comune. Gli effetti loro sono quindi i più disparati. I dazî sulle carni, sulle bevande, sui commestibili, sugli olî vegetali, sul carbone, sulla legna, rappresentano altrettante imposte di capitazione o duplicazioni d'imposte inversamente progressive; quelli sul vino e sui prodotti alimentari non necessarî ne contraggono il consumo; solo quelli di lusso riescono in una misura relativa proporzionali alla capacità contributiva dei consumatori. I dazî sulle materie prime assumono talvolta carattere protettivo; quelli sui materiali da costruzione aumentano il costo delle case nuove e quindi delle pigioni a danno degl'inquilini e a vantaggio dei proprietarî delle case vecchie costruite con materiali esenti da imposta o più lievemente tassati; quelli sui coloniali e sui prodotti esotici si risolvono in una nuova imposta che si aggiunge a quella doganale e riduce le facilitazioni accordate dai trattati di commercio ai paesi stranieri interessati a cercare i loro sbocchi nei centri urbaní dove i loro prodotti sono più domandati; quelli sui prodotti finiti, si risolvono in una ulteriore detrazione dai profitti. Ostacolano poi tutti la circolazione dei beni restringendo la libertà commerciale; offendono la giustizia per il diverso trattamento delle popolazioni urbane e rurali, degli abitanti del comune chiuso e della frazione aperta; eccitano al contrabbando e, per l'aumento dei salarî che provocano, costringono le industrie a stabilirsi fuori della loro sede naturale. Danneggiano tutti coloro che ricevono uno stipendio fisso, e non possono quindi ripercuotere l'imposta, come invece succede per gli operai, gl'industriali e i commercianti; esigono elevate spese di riscossione, spingono alla falsificazione delle materie alimentari con danno della sanità pubblica; causano incomodi personali mediante pratiche moleste e vessatorie e creano centinaia di autonomie daziarie, vere e proprie dogane comunali, più gelose e fastidiose delle antiche barriere protezioniste, contravvenendo così al primo compito d'una politica commerciale interna razionale, di formare cioè di tutto il territorio dello stato un solo territorio commerciale. Perciò era sommamente desiderabile che lo stato, dopo avere rinunciato - approfittando dei crescenti proventi delle privative, delle imposte sulla produzione e dei dazî esterni - a gran parte dei dazî governativi, abolisse altresì - adottando apposite misure per non compromettere l'equilibrio dei bilanci dei comuni - i dazî locali, come si era già fatto in alcuni paesi (Stati Uniti, Inghilterra, Russia, Belgio, Olanda, Sassonia, Svizzera, Danimarca). E questo avvenne finalmente anche in Italia con il r. decr. legge 20 marzo 1930, n. 141, integrato poi dal r. decr. 30 aprile 1930, n. 432, che abolì le cinte daziarie, pur lasciando immutato il fondamento economico e giuridico delle imposte comunali sul consumo. "Si ebbe così - come disse Benito Mussolini - un solo comune chiuso: l'Italia".

È cessata quindi la distinzione fra comuni aperti e chiusi e i dazî interni sono attualmente sostituiti da poche imposte di consumo sulle bevande vinose e alcooliche, la birra, le acque minerali da tavola e quelle gassose, le carni, il gas-luce e l'energia elettrica e i materiali da costruzione; generi tutti prescelti in base al criterio del rendimento finanziario, che doveva essere adeguato per sostituire quello dei dazî soppressi, al criterio della generalità della contribuzione e infine a quello della semplicità e comodità della riscossione. Tali caratteristiche avendo alcuni generi già soggetti a dazio, per essi i sistemi di riscossione, con opportune modificazioni, sono stati conservati e precisamente per le carni, all'atto della macellazione degli animali, per i materiali da costruzione, mediante computo metrico o liquidazione da farsi a fabbrica o lavoro ultimato, per il gas-luce e l'energia elettrica, mediante liquidazione alle officine di produzione. Per queste voci, in sostanza, la riforma consiste nel mutamento di nome del tributo, il quale da dazio consumo si cambiò in quello più appropriato di imposta di consumo.

Radicale è stata invece la trasformazione del metodo di esazione del vino che era prima colpito al momento della sua introduzione nelle cinte dei comuni chiusi, o alla minuta vendita nei comuni aperti. In questi ultimi comuni sfuggiva così al tributo il vino consumato direttamente dai produttori e quello venduto all'ingrosso, oltre la metà circa della produzione totale. A questo inconveniente si è ovviato col metodo di riscossione della nuova imposta di consumo, che è uniforme per tutto il regno. Norme speciali regolano il momento del pagamento dell'imposta, che deve avvenire non quando il vino viene prodotto o scambiato per ragioni di commercio, ma quando si presume che entri nel consumo. Lo stesso metodo di riscossione del vino è applicabile alle altre bevande alcooliche, alla birra, alle acque minerali da tavola e a quelle gassose, ma per la birra e le acque minerali e gassose si è resa, in alcuni casi obbligatoria la riscossione per abbonamento, allo scopo di non turbare l'industria e il commercio di tali bevande.

La misura delle aliquote delle imposte di consumo è stabilita per legge e graduata a seconda della popolazione dei comuni, i quali sono stati divisi in sei classi: nella prima, con aliquote più elevate, sono compresi i comuni con popolazione superiore ai 200.000 ab. e nell'ultima, con tariffe minime, quelli con popolazione inferiore ai 10.000 ab. Per le bevande vinose e alcooliche, alle imposte di consumo a favore dei comuni sono state conservate le addizionali governative a favore dello stato.

Dazî esterni.

I dazî esterni o di confine o doganali colpiscono con duplice scopo, fiscale ed economico, le merci che entrano nello stato, lo attraversano o ne escono: da ciò dazî di importazione, dazî di transito, dazî di esportazione. I primi sono economicamente e finanziariamente i più importanti, non ostante la generale esclusione delle materie prime che rappresentano per taluni paesi (Italia, Stati Uniti, Francia) il terzo delle importazioni complessive. I dazî di transito sulle merci che passano attraverso lo stato, senza essere in questo consumate, furono in Europa quasi ovunque aboliti, inquantoché il transito, per le occasioni d'impiego che offre ai lavoratori e ai commercianti e il traffico che procura ai porti e alle imprese di trasporto terrestre e marittimo, è fonte per l'economia nazionale e lo stato di grandi lucri. I dazî di esportazione non ebbero mai grande importanza per effetto del lungo predominio dei sistemi della bilancia del commercio, del mercantilismo e del protezionismo, concordi, sebbene ispirati a concetti diversi, nel favorire al massimo grado le esportazioni. Ai nostri giorni specialissima è la tendenza, non solo ad abolirli, ma a restituire ai produttori delle merci nazionali inviate all'estero, le imposte di fabbricazione da essi pagate, a meno che non si tratti di monopolî naturali posseduti da un paese in confronto agli altri o di evitare l'esportazione di materie prime indispensabili allo sviluppo delle industrie nazionali.

Gli obiettivi dei dazî esterni sono fiscali ed economici. Dall'aspetto fiscale o finanziario i dazî mirano a colpire il consumo nazionale dei prodotti esteri e quello estero dei prodotti nazionali con l'unico intento di ricavarne il maggior lucro possibile; in questo caso essi non sono che un metodo per riscuotere l'imposta indiretta sul consumo delle merci straniere, scegliendo il confine come il momento più comodo ed economico per la riscossione. Dall'aspetto economico, invece, i dazî esterni, difendendo l'industria nazionale dalla concorrenza delle industrie straniere (che giungono fino a vendere i loro prodotti a un prezzo inferiore a quello di costo: v. dumping), mirano ad agevolarne lo sviluppo, coadiuvati in ciò da premî all'esportazione, che tendono a facilitare lo spaccio dei prodotti nazionali sui mercati stranieri, da divieti all'esportazione di materie gregge necessarie all'industria nazionale, e da restituzioni, all'atto dell'esportazione, dei dazî pagati sulle materie prime importate. Il dazio assume quindi il nome di economico, o protettore o industriale o proibitivo, se impedisce addirittura con la sua altezza l'introduzione della merce considerata, ed ha per effetto, ostacolando l'importazione dei prodotti stranieri e gli scambî, sottraendo, in altre parole, la materia imponibile alle dogane, di scemare le entrate tributarie dello stato senza per questo sgravare i consumatori. Il rialzo dei prezzi provocato dalle imposte sui consumi passa, infatti, dal consumatore allo stato; il rialzo del prezzo provocato da un dazio economico su tutta la quantità nazionale o straniera consumata passa per la sola parte di materia importata allo stato e per la parte residua ai produttori nazionali delle merci tassate. Le imposte indirette interne vanno, quindi, a vantaggio dello stato e dei consumatori sotto forma di servizî pubblici, il dazio economico a vantaggio principalmente di una classe determinata di produttori.

Da questa duplice funzione dei dazî esterni derivano alcune caratteristiche essenziali. Il dazio economico si riferisce sempre a una politica commerciale protezionista o restrittiva; il dazio fiscale implica, al contrario, una politica commerciale liberista, la quale, aumentando al massimo grado il numero degli scambî, assicura allo stato i maggiori proventi, impossibili ad ottenersi con i dazî economici, sia per la quantità minore di merci importate, sia per il rialzo dei prezzi delle merci indigene, che concorre a limitarne il consumo nazionale. Data la progressione delle spese pubbliche e il bisogno di espansione dell'industria nazionale, il dazio fiscale tende oggi a confondersi con quello economico.

La tariffa doganale italiana. - Il raggiungimento dell'unità politica rese possibile l'unificazione doganale dell'Italia, poiché solo allora cessò il timore di cadere sotto l'egemonia del predominante Impero austriaco. E come l'unione doganale tedesca seguì nei primi decennî l'indirizzo della politica doganale prussiana, così la prima fase della politica commerciale italiana rifletté le direttive piemontesi: moderato liberismo e unione alla Francia. Col 1° gennaio 1861 la liberale tariffa sarda fu estesa a tutte le provincie del regno che, vissute per lo più all'ombra di un'alta protezione, si trovarono di colpo non solo a contatto l'una dell'altra ma esposte altresì alla temibile concorrenza estera. Raramente fu più brusco il passaggio dal protezionismo al libero scambio, ma il dottrinarismo liberoscambista, il fiducioso ottimismo nel possibile rapido sviluppo economico del paese, ritardato solo dal servaggio politico, e soprattutto l'esempio del vigoroso impulso dato all'economia del Piemonte dalle progressive riforme doganali (dal 1851 al 1859 successive abolizioni del dazio d'importazione sulle materie prime e sui cereali e diminuzioni di altri numerosi dazî sia all'entrata sia all'uscita) impedivano di valutarne esattamente le conseguenze. Mentre però l'agricoltura era in grado di fronteggiare questo nuovo stato di cose, grave fu il danno subito dall'industria, specie dall'industria del mezzogiorno, sorta in regime protettivo e già incapace di resistere alla penetrazione delle provincie del nord.

Furono le esigenze del bilancio che indussero a modificare in parte il regime doganale esistente, quando ancora non ci si rendeva conto dell'errore compiuto nell'estendere un sistema, che aveva dato buona prova in un piccolo paese, a un grande stato di formazione nuova e di complessa struttura e nello stringere trattati savî politicamente ma forse economicamente prematuri. Il contrarsi del gettito doganale (da 77 milioni nel 1858 a 61 nel 1861) nonostante il rapido aumento delle importazioni, fu infatti ben presto segnalato in un periodo d'incalzanti strettezze finanziarie e fu necessario ricorrere all'aumento dei dazî esistenti e all'adozione di nuovi, sia all'importazione sia all'esportazione. Cominciavano a rilevarsi frattanto anche i difetti economici del regime doganale vigente, ché tanto più sentito era il disagio dei produttori in quanto coincideva con i primi passi della nostra industrializzazione. Non erano trascorsi quindi dieci anni dall'introduzione del regime liberoscambista che si riconobbe la necessità di una riforma e si nominò nel 1870 una commissione d'inchiesta, presieduta di fatto da Luigi Luzzatti, la quale si pronunciò (nel 1874) in favore della corrente ormai dominante. Un indirizzo fondamentalmente protezionista assunse così la nostra politica eommerciale con l'entrata in vigore della nuova tariffa generale (1° luglio 1878).

Notevole può dirsi senz'altro il progresso ottenuto dal punto di vista generale con questa tariffa, sia per la maggiore suddivisione delle voci, sia per l'eliminazione di errori e sperequazioni, sia per la sostituzione dei dazî specifici a quelli ad valorem, ancora per molte voci applicati. Dei due scopi poi, cui sostanzialmente si mirava, quello fiscale fu perfettamente raggiunto, e il gettito doganale aumentò da 105 milioni nel 1878 a 123 nel 1880, 156 nel 1882 e 208 nel 1891, permettendo il ritorno a una politica più corretta nei riguardi dei dazî di esportazione e si ebbero, d'altra parte, notevoli miglioramenti dal punto di vista economico, che non solo diedero impulso al movimento industriale del paese, ma ampliarono anche l'orizzonte dei nostri patti commerciali in confronto dei crescenti bisogni del commercio e del lavoro nazionale. Mentre però il movimento di riforma tedesco fu rapido e decisivo, cosicché il 1878 e '79 segnarono per la politica commerciale germanica la crisi risolutiva, quello che nell'inchiesta del 1870-74 aveva trovato la sua prima e chiara espressione, non fu nella riforma del 1878 che parzialmente eseguito. Ben presto cosi la tariffa fu riconosciuta imperfetta e insufficiente e si sentì il bisogno di ulteriori mutamenti, tanto più che anche la nuova tariffa convenzionale, costituita dagli accordi con la Francia (1879-1882), Austria (1878), Belgio (1882), Svizzera, Germania, Gran Bretagna (1883), nonostante assicurasse condizioni soddisfacenti e maggior collocamento di prodotti nostri all'estero, aveva l'impronta dell'incompiutezza.

Nuovi elementi si erano andati intanto aggiungendo a quelli che avevano originariamente indotto a una revisione del sistema doganale e conservavano ancora la loro forza, e l'azione combinata dei primi e dei secondi determinava ormai ad agire energicamente. Generale era divenuto infatti l'orientamento verso il protezionismo e il ribasso dei prodotti agrarî, per effetto della concorrenza dei paesi d'oltremare, induceva inoltre molti paesi europei a una più attenta difesa anche degl'interessi agricoli; sopraggiunse poi l'abolizione del corso forzoso che, privando la produzione nazionale di un dazio protettore ad valorem, commisurato all'aggio dell'oro, influì profondamente sui nostri scambî commerciali. Si giunse così, attraverso a una seconda inchiesta (Lampertico-Ellena), condotta nel biennio 1884-86, alla tariffa doganale che entrò in vigore il 1° gennaio 1888 e fu per lungo tempo base della politica commerciale italiana. Il protezionismo uscì da questa seconda riforma doganale notevolmente rafforzato, sia per l'effettivo aumento di molti dazî, sia in seguito ad una più perfetta specializzazione dei dazî stessi, e tale rimase nonostante l'opera mitigatrice dei trattati di commercio che seguirono.

Le incertezze, i mutamenti e le radicali trasformazioni degli ordinamenti doganali non potevano non aver un tumultuario influsso sull'andamento della produzione e del commercio del penultimo decennio del secolo, già caratterizzato da una prima fase di fittizia prosperità, in seguito al prestito contratto all'estero per l'abolizione del corso forzoso, e da una seconda di malessere diffuso. Un'accentuata depressione presenta poi l'ultimo decennio a causa, sia del raccoglimento economico e finanziario del paese, succeduto all'inflazione e alla crisi bancaria del 1893, sia del contraccolpo della guerra di tariffe con la Francia, sia della diminuzione generale dei prezzi, sia anche del nuovo regime doganale e dell'obbligo del pagamento dei dazî in oro, che frenavano le importazioni. Col 1898 comincia però la ripresa e si accentua nei primi anni del sec. XX, come provano, oltre a numerosi indici interni, l'incremento delle cifre del commercio internazionale (dovuto sì in parte al rialzo generale dei prezzi seguito alla scoperta delle miniere d'oro nel Transvaal e nell'Alasca, ma anche all'effettivo aumento dell'intensità dei traffici) e i forti sbilanci commerciali, che in un paese povero di capitali e di materie prime coincidono sempre con periodi di prezzi crescenti e di prosperità.

Ben diversa dunque la condizione dell'Italia tra i primi e gli ultimi anni del periodo che intercorre tra l'applicazione dei trattati di commercio conclusi nel 1891-92, sulla base della tariffa del 14 luglio 1887, e la vigilia della loro rinnovazione. Mutato era però anche l'atteggiamento di quasi tutta l'Europa, a seguito dell'effettivo disagio dell'agricoltura che induceva a elevare e perfezionare sempre più le tariffe doganali, non solo a scopo di negoziato ma nell'intento di difendere energicamente la produzione agricola, e la situazione divenne quindi sempre più preoccupante per un paese a prevalente esportazione agraria come il nostro. Per questo la commissione per il regime economico doganale, nominata nel 1899 e presieduta dallo Stringher, propose nel 1903 varie modificazioni alla tariffa "per tener conto, da una parte, dei nuovi bisogni della produzione nazionale e, dall'altra, delle minaccie che agli sbocchi all'estero di questa produzione si stavano apprestando". Non si voleva già mirare a una tariffa di guerra e neppure di estorsione, ma approfittare del momento in cui gli altri contraenti avevano creduto di predisporre quasi una base nuova ai prossimi negoziati, per rettificare le imperfezioni e rafforzare a nostra volta i punti più deboli. Nessun disegno di riforma fu sottoposto in seguito a ciò al parlamento; il lavoro compiuto fu tuttavia utilissimo nelle negoziazioni che seguirono, sia per conoscere la misura e i limiti delle concessioni da accordare e da chiedere in cambio, sia per la sceverazione delle voci complesse che permise di vincolare nei trattati solo parti di voci agevolandone la conclusione.

La situazione ottenuta nei precedenti accordi segnava però un limite rispetto alle agevolazioni conseguibili a favore della nostra agricoltura e, per conservarle almeno in parte, fu necessario concedere ulteriori riduzioni sui dazî industriali. Per forza di cose dunque i nuovi trattati, conclusi tra il 1904 e il 1906, furono meno vantaggiosi dei precedenti. A parte però il vantaggio indiscutibile del mantenimento del regime convenzionale, le riduzioni in essi consentite furono indubbiamente utili ai consumatori, né, d'altra parte, danneggiarono la nostra economia che era ormai in grado di sopportare la concorrenza estera, come provano il rapido sviluppo della nostra industria e l'evoluzione sia quantitativa sia qualitativa del commercio con l'estero. Rallentò questo pulsare di vita intorno al 1910, quando si risentirono anche da noi gli effetti della crisi mondiale del 1907, ma, avvicinandosi nuovamente la scadenza dei trattati, si dovette tener conto delle variazioni avvenute nella nostra economia e fu nominata una commissione reale con l'incarico di esaminare il regime doganale vigente e stabilire i criterî per le nuove stipulazioni.

Iniziata immediatamente l'inchiesta, la commissione continuò a elaborare i dati raccolti aanche dopo lo scoppio della guerra, tenendo conto anzi delle trasformazioni verificatesi nel periodo bellico, per quanto riguardava la nomenclatura. Il lavoro fu però condotto a termine prendendo a base le condizioni di costo e i valori del biennio 1913-15, per quanto concerneva la misura dei dazî, poiché si ritenne che questo avrebbe potuto essere un solido punto di partenza quando, terminate le ostilità, si fossero dovuti fare nuovi calcoli per applicare opportuni coefficienti di variazione. L'interruzione della solidarietà economica mondiale, il desiderio di emanciparsi dalla produzione straniera e la prevalenza in genere degl'interessi politici su quelli economici, dovettero tuttavia influire sulla commissione reale che, incline dapprima a mantenere quasi inalterata la base della nostra politica commerciale, emise poi parere favorevole a un sistema di tariffa autonomo. Non era però il caso di provvedere sul momento ad alterare il tradizionale indirizzo della nostra politica, ché il controllo esercitato dai governi, mediante divieti d'importazione e di esportazione e regolamento dei cambî, poneva i rapporti commerciali internazionali su basi del tutto nuove e precarie, mentre il crescere continuo dei prezzi rendeva remunerativo l'esercizio anche delle industrie sorte in seguito all'anormale situazione bellica, e l'isolamento dei singoli mercati rendeva superflua ogni protezione doganale. La riforma fu quindi aggiornata.

Provvedere al problema doganale divenne però urgente con la fine della guerra, quando si attenuò la regolamentazione vincolistica, perdendo ogni efficacia protettiva, e si andò sviluppando la concorrenza dei paesi a valuta in corso di svalutazione e quella di industrie sorte o rafforzatesi per necessità belliche. Fu ripresa quindi in esame la tariffa elaborata dalla commissione reale e, ritenendo la sua struttura tecnica adeguata alla nuova situazione industriale, non ci si allontanò che eccezionalmente dalla nomenclatura proposta e ci si limitò ad aggiornare l'ammontare dei dazî che, per varie cause (aumento dei prezzi della mano d'opera, delle materie prime e delle cose in genere; pressione tributaria più gravosa e in via d'inasprimento; spese generali superiori di molto a quelle dell'anteguerra; cambî instabili e con tendenza a peggiorare), era ormai insufficiente. Col 1° luglio del 1921 poté entrare in vigore la nuova tariffa generale, approvata con r. decr. legge del 9 giugno, costituita da una serie di dazî base, rispondenti, per lo più, a quelli indicati come minimi dalla commissione reale rispetto all'anteguerra, e da una serie corrispondente di coefficienti di maggiorazione (fattori, cioè, che moltiplicati per i dazî base, danno i supplementi che occorre aggiungere a questi ultimi per avere i dazî generali), varî a seconda dei risultati delle indagini compiute, e destinati "a dare ai dazî della commissione reale quella maggiore efficienza resa indispensabile dall'aumentata differenza tra i costi comparati di produzione". La giustificazione dell'adozione di questo coefficiente di aumento distinto dal dazio può trovarsi senz'altro nel fatto che la tariffa veniva pubblicata in un periodo di transizione e per questo era utile poter rapidamente variare in più o in meno l'entità dei dazî, oltre che per correggere gli eventuali errori in cui si fosse incorsi nell'affrettato ed enorme lavoro compiuto. Il decreto che approvò la nuova tariffa autorizzò quindi il governo a modificare i coefficienti di maggiorazione quando ciò fosse richiesto dalle mutate condizioni della produzione e dei traffici internazionali. Varie furono le ragioni che indussero a non allontanarsi dalla nostra tradizionale linea di condotta nel campo della politica commerciale e ad adottare ancora una volta, nonostante il parere della commissione reale e l'opinione di molti, una tariffa generale, da applicarsi cioè alle merci, negli scambî con tutte le nazioni con le quali non si siano stipulate convenzioni particolari o alle quali non si debbano accordare, per effetto della clausola della nazione più favorita, gli stessi benefici a quelle concessi. Il governo ritenne infatti che il sistema della tariffa generale "valesse meglio ad assicurare l'incremento e lo sviluppo dell'esportazione di alcuni nostri tipici prodotti soprattutto agricoli" e lasciasse ai negoziatori un campo assai più vasto per lo svolgimento delle trattative e per la concessione di riduzioni daziarie sopra prodotti che dal punto di vista dell'interesse collettivo della nazione meno importasse proteggere, in cambio di agevolazioni a favore di certe altre nostre merci. Ciò rispondeva in fondo al carattere dell'economia italiana che non può isolarsi ma deve sviluppare i proprî traffici e interessare a essi parecchi mercati. La sostituzione del regime autonomo al convenzionale avrebbe inoltre implicato una profonda mutazione nella nostra politica commerciale che il governo non poteva sentirsi autorizzato ad attuare con decreto d'urgenza, mentre d'altra parte la situazione interna e la politica protezionista di molti stati, e la denuncia dei trattati di commercio rendevano ormai indilazionabile l'approvazione della nuova tariffa, sia per accordare i dazî all'enorme rialzo dei prezzi, sia per avere uno strumento adeguato nelle imminenti negoziazioni con i paesi esteri.

La tariffa fu quindi generale e negoziabile ma, in armonia con le nuove necessità interne e con la situazione internazionale, ebbe carattere protettivo accentuato. Il che si rileva, oltre che dall'aumento quasi generale della misura dei dazî, anche dall'accurata specializzazione. L'entità della protezione veniva inoltre rafforzata dall'obbligo del pagamento dei dazî in oro, o in moneta cartacea con l'aggiunta del cambio, provvedimento che aveva applicazione anche in precedenza (leggi del 7 aprile 1881 e 22 luglio 1894) ma acquistava sempre maggior importanza di fronte al progressivo svalutarsi della moneta. Contro tale indirizzo protezionista si levò naturalmente la protesta degli agricoltori e dei liberisti italiani mentre i fautori del sistema autonomo, rappresentanti soprattutto del ceto industriale, lamentavano, d'altra parte, l'abbandono del principio da essi sostenuto e l'abolizione dei divieti. Certo è però che la nuova tariffa diede una base sicura ai varî rami della produzione e che per un paese a popolazione densa e in periodo di depressione industriale il mantenimento delle imprese esistenti aveva un grande valore politico-sociale.

È difficile dire quali siano state le conseguenze della tariffa oggettivamente considerata, non potendosi sceverare gli elementi dovuti alla tariffa, in quegli anni così ricchi di eventi economici, in cui gli effetti della guerra e della conseguente crisi abbattutasi in Italia nel 1920-21 confondevano la loro azione con gli effetti della malferma situazione degli altri stati e, cominciava a delinearsi sulle sue nuove basi il riassetto interno della produzione. In ogni modo solo per breve tempo fu applicata integralmente; presto intervenne a modificarla l'attiva politica del governo fascista con una serie di provvedimenti doganali.

A mitigare il regime doganale vigente, nell'intento di combattere il caroviveri, e a mantenere nello stesso tempo costante la protezione mirarono soprattutto i provvedimenti adottati tra l'ottobre 1922 e il luglio 1925, che diminuirono i diritti di confine tutte le volte che la situazione economica permise di farlo senza danno dell'industria o dell'agricoltura. Solo eccezionali furono quindi gli aumenti di dazio introdotti in questo periodo e numerose invece le riduzioni e abolizioni su generi alimentari di largo consumo e anche le agevolazioni concesse all'industria e all'agricoltura per l'acquisto di macchine, materie prime e concimi. La difficile situazione internazionale, aggravata dal rifiorente protezionismo, il nazionalismo economico accentuatosi anche nel nostro paese, la regolazione dei debiti col conseguente drenaggio d'oro verso l'estero, gl'inasprimenti fiscali, la battaglia del grano, la rivalutazione monetaria e altri elementi ancora concorsero poi ad allontanare da questo indirizzo negli anni che seguirono e indussero a un rapido aumento della protezione: numerosi furono gli aumenti di dazî su prodotti agricoli e industriali e solo in via d'eccezione furono concesse riduzioni ed esenzioni per scopi d'interesse pubblico o nell'intento sempre di favorire lo sviluppo della produzione, non già di diminuire i prezzi sul mercato interno. Contemporaneamente all'insieme di queste modificazioni alla tariffa del 1921, che ne hanno nel complesso elevato il livello, bisogna tener conto poi anche del largo impulso dato all'istituto dell'importazione temporanea, delle limitazioni ai divieti esistenti, delle molte facilitazioni accordate all'introduzione in Italia delle merci di provenienza dalle nostre colonie, e soprattutto delle numerose mitigazioni convenzionali stipulate nei trattati di commercio.

La tariffa consta di 52 categorie e 953 voci, ulteriormente suddivise in 2509 numeri di statistica; l'aumento della specializzazione nei confronti della tariffa del 1887, che comprendeva 19 categorie e 172 voci, è carattere comune alle moderne tariffe in conseguenza dello sviluppo industriale e dell'opportunità di ragguagliare il dazio al valore della merce per evitare gravose tassazioni o protezione irrisoria.

Le merci sono colpite dal dazio all'atto del passaggio del confine, sia che escano dal regno sia che vi entrino, purché in questo caso siano destinate al consumo nello stato; non esistono quindi dazî di transito. Per determinati prodotti, soggetti all'interno all'imposta di fabbricazione, dazio e sopratassa s'indicano con la parola comprensiva diritto di confine. I dazi d'importazione si applicano a tutti i prodotti non espressamente dichiarati esenti; i dazî di esportazione invece a sole 9 voci (minerali metallici, ceneri di piriti di ferro, ceneri di zinco, ossa gregge, salino di barbabietola, tartaro greggio, feccia di vino, tartaro di calcio e stracci). I dazî si riscuotono senza aver riguardo allo stato delle merci; il proprietario può però optare per la distruzione della merce avariata.

Quasi tutti i dazî sono specifici e si applicano in base al peso delle merci, a eccezione di pochi che si ragguagliano invece al volume (es.: birra, vini, liquori in fusti e damigiane) al numero (es.: vini e liquori in bottiglie, bestiame) alla misura lineare (pellicole cinematografiche impressionate) alla superficie (tappeti, tessuti stampati) al valore (es.: aeroplani, idroplani, palloni) al volume e al valore insieme (automobili). Il valore si determina generalmente in base al prezzo di fattura o con altri mezzi a disposizione della dogana; per alcuni prodotti (olî essenziali, profumi, alcaloidi) è invece periodicamente stabilito con apposita tabella in linea ufficiale. Il peso delle merci può essere calcolato al lordo, al netto legale e al netto reale. Peso lordo è quello della merce aumentato del peso dei recipienti e degl'involucri. Peso netto legale è il peso lordo diminuito di una percentuale stabilita dalla tabella delle tare. Peso netto reale è quello della merce spogliata di tutti i suoi involucri e recipienti.

I dazî d'importazione, precedentemente fissati in lire oro prebelliche, si pagano in valuta legale (biglietti dell'istituto di emissione, monete di argento, buoni, monete di nichelio e rame del regno d'Italia, biglietti di stato) commisurandosi la somma dovuta a 3,67 volte l'ammontare nominale del dazio. La traduzione in valuta legale dei dazî oro è stata effettuata ufficialmente col r. decr. legge 15 dicembre 1930 n. 1936. La soprattassa di confine e i dazî di esportazione, che erano già prima fissati in lire carta, si pagano in valuta legale al loro valore nominale.

Bibl.: W. Sombart, La politica commerciale dell'Italia, in Biblioteca dell'economista, s. 4ª, Torino 1896; B. Stringher, Gli scambi con l'estero e la politica commerciale italiana dal 1860 al 1910, in Cinquanta anni di vita italiana, a cura dell'Accademia dei Lincei, III, Milano 1911; id., Su la bilancia dei pagamenti tra l'Italia e l'estero, Roma 1913; P. Jannaccone, Relazione tra il commercio internazionale, cambi esteri e circolazione monetaria in Italia nel quarantennio 1871-1913, in Riforma sociale, 1918; Atti della Commissione reale per lo studio del regime economico doganale e dei trattati di commercio, Roma 1918; E. Giretti, I danni e le ingiustizie della nuova tariffa doganale, Torino 1922; C. Gini, Revisione del processo contro il protezionismo, in Economia, giugno 1923; C. J. Gignoux, L'après guerre et la politique commerciale, Parigi 1924; E. Anzillotti, Le attuali direttive della politica doganale estera in rapporto agli interessi italiani, in Nuova antologia, 1926; Ministero delle Finanze, Relazione sull'amministrazione delel dogane e imposte indirette per il periodo dal 1914-1915 al 1926-1927, Roma 1927; Sedici anni di attività della associazione tra le società italiane per azioni, 1911-1927, Roma 1927; Confederazione generale fascista dell'industria italiana, L'industria italiana, Roma 1930.

L'unione doganale.

È un sistema di ravvicinamento economico operato mediante la regolamentazione delle tariffe degli scambî commerciali tra i paesi aderenti all'unione, e tra questi e i terzi estranei all'accordo. Può essere completa e incompleta; nel primo caso, con l'abolizione di tutte le barriere doganali tra i membri, si ha l'attuazione del libero scambio senza eccezioni all'interno dell'unione, e l'istituzione di una barriera unica esterna, di solito più elevata; nel secondo caso le linee doganali interne continuano ad essere regolate autonomamente, invariate o secondo aliquote più basse, e solo una tariffa comune è istituita per il commercio con gli stati estranei all'accordo; ovvero si ha una disciplina del commercio interno dell'unione, mediante l'impegno da parte degli aderenti di concedersi reciprocamente un trattamento differenziale in confronto ai terzi, o almeno quello della nazione più favorita.

La nozione di unione doganale sorse come nozione di unione completa nel sec. XV col costituirsi delle prime grandi nazioni europee. E l'unione non era che uno dei mezzi onde raggiungere l'unificazione politica del territorio. Solo più tardi si è affermata la possibilità e l'opportunità di intese fra stati sovrani e indipendenti: numerosi piani di unione sono stati tracciati: di unioni vaste e limitate, regionali e interregionali, o addirittura continentali e intercontinentali; poche in confronto ai progetti sono state le realizzazioni. Le difficoltà che queste presentano spiegano e giustificano la sproporzione: difficoltà di ordine politico, economico, finanziario, spirituale, che ritardano e limitano in estensione e in intensità accordi che pur presenterebbero vantaggi innegabili: finanziarî anzitutto (riduzione delle spese di riscossione e aumento del rendimento delle imposte) ed economici in genere (maggior facilità di rapporti commerciali con l'estero e più agevole conquista dei mercati di sbocco; conseguente rapido sviluppo industriale; e infine miglioramento degli scambî all'interno, che attuerebbe, pur se limitatamente, quella divisione internazionale del lavoro, la cui importanza il diffondersi delle teorie liberoscambiste ha messo in rilievo).

Non possono considerarsi unioni doganali vere e proprie quelle che si sono avute con la creazione di nuove organizzazioni politiche unitarie e federali: l'unione della Francia, della Svizzera, dell'Italia, degli Stati Uniti, del Canada, dell'Australia, dell'Africa del Sud.

Il primo esperimento di unione doganale fu quello tentato da Napoleone col blocco continentale, creato di contro all'Inghilterra col decreto di Berlino del 21 novembre 1806 dopo la battaglia di Trafalgar, completato dal decreto di Milano del 17 dicembre 1807. L'unione era incompleta: gli stati del continente rimanevano separati l'uno dall'altro dalle barriere interne, e solo ne ponevano una più elevata comune, di protezione contro le merci inglesi. Ma il sistema non poté essere applicato nella sua integrità, e si venne tosto a delle eccezioni, mediante autorizzazioni e licenze, che dimostrarono inattuabile l'unione. Di carattere affatto diverso è lo Zollverein, la realizzazione più importante nella storia. Propugnato dal celebre economista tedesco Federico List, dal ministro del Baden Nebenius, dopo la legge del 26 maggio 1818, che su proposta del conte Bülow dichiarava libera l'esportazione, e stabiliva per le merci d'importazione un diritto unico per tutti i territorî della Germania, si andò realizzando attraverso successive unificazioni delle barriere doganali esistenti fra gli stati germanici. La Prussia alla testa del movimento incorporava al suo territorio doganale fra il 1819 e il 1822 parecchi dei piccoli principati della Germania centrale; l'esempio ne veniva imitato in altre zone: sorgeva così nel gennaio 1828 il Süddeutschen Zollverein, unione doganale del sud tra Württemberg e Baviera; qualche settimana dopo il Preussisch-hessischer Zollverein, unione doganale del nord; e nell'ottobre dello stesso anno il Mitteldeutscher Handelsverein, unione del centro, che comprendeva non meno di diciassette stati, tra cui il Hannover, la Sassonia, il Brünswick, contro-lega difensiva, nell'interno della quale si ebbe una più piccola unione doganale vera e propria nel 1830. La concentrazione completa doveva rapidamente attuarsi: sin dal 1829 si stabilivano relazioni rese sempre più intime tra l'Unione del Nord e quella del Sud che si concludevano nel 1833 con la fusione completa e il dissolvimento e l'annessione di quella del centro. Il 1° gennaio 1834 si costituiva così l'unione doganale germanica, che comprendeva 18 stati con 23 milioni di abitanti. Successive accessioni portarono lo Zollverein a un continuo allargamento di confini. Nel 1851 tutte le unità economiche centrali rimaste fuori dell'unione entrarono a farne parte, a eccezione di Brema e di Amburgo, che vi furono ammesse solo nel 1888, e dell'Austria, esclusane per ragioni politiche. Nel 1869 la Prussia apriva il primo parlamento doganale germanico, sostituito, alla proclamazione dell'Impero germanico nel 1871, dal parlamento dell'Impero. L'unione doganale era completa; solo qualche dazio era stato conservato per ragioni fiscali. Con l'allargamento degli sbocchi progredì l'industria manifatturiera, aumentarono la produzione, il consumo, l'esportazione; il commercio ne fu grandemente stimolato e le importazioni passarono da 250 milioni nel periodo 1837-39 a 427 nel 1849, mentre le esportazioni si elevavano da 250 a 452 milioni negli stessi anni. Con la maggiore facilità di scambio nuove vie di comunicazione furono aperte, fu ampliata la rete ferroviaria. D'altra parte diminuirono notevolmente le spese di riscossione dei diritti di dogana, mentre aumentava il rendimento delle imposte, che da 61 milioni e mezzo nel 1835 arrivò a 103 nel 1845, e dopo un breve declino dovuto alle crisi degli anni 1846-48 a 168 milioni. Politicamente poi lo Zollverein contribuì potentemente alla formazione dell'unità germanica. Allo Zollverein s'ispirarono gli altri progetti di unione. Delle unioni attuate va ricordata l'unione belga-lussemburghese, stabilita col trattato del 25 luglio 1921 per cinquant'anni.

Al regime doganale francese è sottoposto il territorio della Saar, amministrato quanto al resto, secondo il trattato di Versailles, dalla Società delle Nazioni. Avvinto prima al sistema germanico, a facilitarne il trapasso di regime fu stabilito che per cinque anni, dalla messa in vigore del trattato, le esportazioni in Germania dei prodotti del bacino e le importazioni dalla Germania dei prodotti destinati al consumo locale, godessero della franchigia doganale. L'Alsazia e la Lorena, prima membri dello Zollverein, fanno parte dal 1919 del sistema doganale francese.

Breve vita ebbe l'unione doganale fra la Svezia e la Norvegia che, dichiarata nel 1874, fu sciolta nel 1890 per divergenze sorte sulla possibilità di sostituire alla politica protezionista attuale una politica opposta di libero scambio. E infine sin dal 1923 sono state poste le basi di una unione doganale fra l'Estonia e la Lettonia, unione confermata dal trattato di esecuzione del 5 febbraio 1927. Più che unioni doganali debbono dirsi accessioni in quanto aggregazioni di unità economiche minori a unità assai maggiori, con aderenza assoluta ai regimi di queste: quella di S. Marino all'Italia avvenuta nel 1862; quella di Monaco alla Francia, che, stabilita dai trattati del 1861 e del 1865, modificata in seguito da successive convenzioni, è stata completata dal trattato del 19 luglio 1918; e quelle del Liechtenstein all'Austria nel 1852, alla Svizzera nel 1924.

Dopo la guerra mondiale, per effetto dei trattati di pace, l'Europa si è trovata divisa in ventotto dominî doganali, al posto dei venticinque di prima della guerra, con seimila chilometri di barriere doganali di più e un numero più che doppio di sistemi monetarî. La necessità di ovviare alla crisi che ha colpito specialmente gli stati europei, la particolare posizione di questi di fronte all'America, la coscienza che il moltiplicarsi e il complicarsi delle tariffe, ostacolando gli scambî, contribuisce ad aumentare lo stato di disagio economico, ha fatto prospettare l'opportunità di una unione doganale europea. Ne sono stati vagliati i possibili aspetti e messi in rilievo i vantaggi, primo fra tutti quello che ne potrebbe risultare assicurata almeno fino a un certo punto l'autonomia economica europea. Allo scopo di facilitarne l'attuazione è stato creato in Francia un Comitato di studio per l'unione doganale europea, che lavora in collaborazione con gli altri comitati per l'unione europea, creati in molti dei principali centri dell'Europa. Il problema è stato portato alle conferenze internazionali della Società delle Nazioni, ma non ha avuto soluzione: ostacolo sono stati, oltre alle difficoltà comuni a ogni tentativo di unificazione, la grandiosità del piano per il numero imponente di adesioni che avrebbe richiesto, e le particolari condizioni politiche, economiche, sociali, spirituali, degli stati europei nel dopoguerra, oltre alla valutazione del pericolo di una politica d'isolamento economico continentale.

Recentemente un aggruppamento doganale d'importanza considerevole è stato costituito in Europa: quello tra Svezia, Norvegia, Danimarca, Olanda, Belgio, concluso il 22 dicembre 1930 a Oslo, tregua doganale che vincola le tariffe attuali degli stati contraenti per un periodo di tempo breve all'inizio, ma che si riterrà prolungato se non vi sarà denuncia da parte degl'interessati. È stata poi progettata (protocollo 19 marzo 1931) una unione doganale austro-tedesca (Zollunion), nuovo aspetto dello Zollverein germanico, che avrebbe costituito un nucleo medio europeo, aperto, come l'antico, a successive accessioni e allargamenti; ma in seguito alle proteste degli stati interessati che temevano che tale accordo potesse condurre all'Anschluss politico, l'Austria e la Germania stesse, nell'assemblea della Società delle Nazioni del settembre 1931 hanno rinunciato al progetto. La corte permanente di Giustizia internazionale dell'Aia ha, d'altra parte, dichiarato (5 settembre 1931) i principî del progetto stesso incompatibili col protocollo n. 1 sottoscritto a Ginevra il 4 ottobre 1922, sulla ricostruzione dell'Austria.

Bibl.: M. Nebenius, Der deutsche Zollverein, sein System und seine Zukunft, Karlsruhe 1835; F. Bertin, Le blocus continental: ses origines, ses effets, Parigi 1901-02; L. Bosc, Unions douanières et projets d'unions douanières, Aix 1904; R. Michels, Su l'idea dell'unione doganale degli imperi centrali, in Riforma sociale, XXIX (1918), p. 79 segg.; H. Heimann, Europäische Zollunion, Berino 1926; E. Grossmann, Mémorandum sur les systèmes de rapprochement douanier, Ginevra 1926; J. Marchal, Union douanière et organisation européenne, Parigi 1929; Y. Le Trocquer, Union douanière européenne, Parigi 1929; J. Mazzei, I progetti d'unione doganale europea e l'Italia, Firenze 1930; id., A proposito di unione doganale europea, in Economia, luglio-agosto 1930.

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