DE FERRARI, Raffaele Luigi, duca di Galliera

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 33 (1987)

DE FERRARI, Raffaele Luigi, duca di Galliera

Giovanni Assereto

Nato a Genova il 6 luglio 1803, da Andrea e Livia Ignazia Pallavicino, aveva avuto il nome del nonno paterno, il quale nel biennio 1787-89 era stato doge: l'unico a ricoprire la massima carica della Repubblica in una famiglia antica, che aveva costruito le proprie fortune nell'esercizio delle professioni giuridiche e del notariato, entrando a far parte nel XVI secolo del ceto di governo.

Il già solido patrimonio dei De Ferrari trovò nel padre del D. un amministratore di prim'ordine, capace di farlo lievitare con speculazioni commerciali e finanziarie durante l'Impero napoleonico e la Restaurazione, dedicandosi al commercio con il Levante ed operando fruttuosamente sulla piazza di Parigi in attività di prestito internazionale e nel finanziamento del ginevrino Barthélémy Paccard, che nel 1825 aveva fondato nella capitale francese una piccola banca destinata a buoni successi.

Figlio di un multimilionario, attaccato però "al decimo di un centesimo" ed uso a pranzare "con una, minestra un pezzo di carne e un'insalata", come diceva il marchese di Villamarina (B. Montale, Dall'assolutismo settecentesco alle libertà costituzionali, Roma 1973, p. 117), il D. trascorse una giovinezza non brillante e cominciò presto a lavorare nell'azienda paterna, che fu la sua principale scuola. Nel 1828 due eventi in rapida successione modificarono di colpo la sua vita; il 14 gennaio sposò Maria Brignole Sale e pochi giorni dopo, il 28, gli morì il padre. Si trovò così padrone di una cospicua ricchezza nel momento in cui il matrimonio lo imparentava ad una delle famiglie più in vista di Genova e gli assicurava stretti legami con l'aristocrazia e l'alta finanza francesi grazie al suocero, il marchese Antonio, già funzionario napoleonico e poi diplomatico sabaudo.

Il 7 nov. 1828, nel sontuoso palazzo di piazza S. Domenico che i De Ferrari avevano acquistato due anni prima da Livia Orietta Doria Serra, il D. uccise incidentalmente con un colpo di pistola un servitore, e questo fatto sollevò contro di lui un'ondata di maldicenze ed ostilità tra la popolazione genovese. Ne seguì un processo concluso con una mitissima condanna a tre mesi di arresti domiciliari; ma l'episodio offuscò i rapporti tra il D. e la sua città, accelerando la sua decisione di trasferirsi in Francia dove lo chiamavano gli affari e le ambizioni. Partì per Parigi nell'autunno del 1829, pochi mesi dopo la morte della figlia Livia nata il 13 novembre del 1828; e da allora il centro della sua vita e dei suoi interessi fu nella capitale francese, dove fin dagli inizi seppe occupare un posto di rilievo nella buona società e nella tradizionale haute banque, intrecciando altresì, dopo il 1830, rapporti strettissimi con Luigi Filippo e la sua corte.

Nei primi anni del regime orleanista, età dell'oro per i banchieri ed i re della borsa, il D. mise utilmente a frutto i propri capitali in attività che restano da definire nei dettagli. Negli anni Trenta era socio accomandante della banca Girard & de Waru, punto d'incontro di vari capitalisti di buon livello (come i fratelli Bartholony e Adrien Delahante) e partecipe d'un sindacato bancario il quale, dopo aver dato vita nel 1828 all'importante Société des houillères et fonderies de l'Aveyron, intuì precocemente l'importanza delle ferrovie e nel 1838 fondò la Compagnie de Paris à Orléans, destinata ad essere il perno di tutte le combinazioni industriali e finanziarie del gruppo. Questo era l'ambito nel quale il D. ebbe a muoversi; e un risultato dei buoni affari realizzati si vide nel novembre del 1837, quando egli immobilizzò una forte somma nell'acquisto d'un palazzo gentilizio a Bologna, già appartenuto alla famiglia Caprara, e della tenuta di Galliera nel Bolognese, vasto possedimento di circa 1.800 ettari costituito in ducato da Napoleone e da lui assegnato a Giuseppina figlia di Eugenio Beauharnais e moglie di Oscar Bernadotte, futuro re di Svezia. Mediante tale acquisto, economicamente proficuo grazie all'ottima conduzione della tenuta, egli poté richiedere il titolo di duca di Galliera, che gli fu conferito da papa Gregorio XVI il 18 sett. 1838 e riconosciuto da Carlo Alberto il 18 luglio 1843.

In Italia come in Francia, però, più che gli investimenti immobiliari ad attirare il D. erano le speculazioni bancarie e ferroviarie. Genova rappresentava, in questo senso, una piazza interessante, perché fin dal 1826 s'era progettato un collegamento ferroviario tra il suo porto e la pianura padana. Un gruppo genovese facente capo a Cesare Cavagnari premeva da tempo sul governo sardo per avere la concessione di una linea da Genova al Po, ed almeno a partire dal 1837 il D. fu dietro le quinte del gruppo. Il 10 sett. 1840 Cavagnari e soci ottennero un preliminare impegno da parte del governo per il collegamento Genova-Torino, ed alla fine del 1843 una Società della strada ferrata da Genova al Piemonte, presieduta dal D., presentò un progetto definitivo per la ferrovia fino ad Alessandria con diramazione verso Pavia. L'impresa non ebbe seguito perché gli organi di governo nel febbraio 1845 si pronunciarono per la statalizzazione; ma è degna di nota per almeno due ragioni: fu occasione di contrasto tra il D. e Cavour, e si legò ad un evento capitale della storia bancaria italiana, cioè la fondazione della Banca di Genova.

Cavour, che a Parigi aveva frequentato il salotto Galliera e nei primi anni della monarchia di luglio s'era servito del D. per stabilire contatti con la finanza orleanista, nel 1844 era fortemente interessato alla formazione di una società per la costruzione della ferrovia Torino-Alessandria. Tra il finanziere genovese ed il futuro ministro ci furono, ufficialmente, reciproche offerte di partecipazione alle rispettive società; ma di fatto si trovarono in concorrenza e Cavour non risparmiò aspri giudizi sull'avversario. Il 29 giugno 1844 confidava al banchiere ginevrino Naville di avere "une médiocre confiance dans les chefs de la société génoise, à commencer par le duc de Galliera"; opinione ribadita il 2 agosto, quando ormai il governo aveva deciso di sbarazzarsi della Compagnia genovese verso cui esisteva un'avversione dovuta "à des imprudences et des tergiversations dont le duc de Galliera, qui en est le chef, s'est rendu coupable... Il a puissemment contribué à jeter du discrédit sur tous ses eollègues, et comme il n'inspire luiméme qu'une très médiocre estime, il est résulté que la compagnie en masse s'est presentée sous des tristes apparences" (Cavour, Epistolario, III, pp. 116 s., 154).

Contemporanea all'iniziativa ferroviaria e complementare ad essa fu la creazione della Banca di Genova, primo istituto di emissione degli Stati sardi e strumento finanziario nuovo, in un panorama ancora dominato dalle banche familiari. La domanda per costituire nella città ligure una "anonima bancaria di emissione" fu presentata sul finire del 1843 da un gruppo promotore capeggiato dal D., il quale più di ogni altro si adoperò per la realizzazione della banca, approvata con patenti del 16 marzo 1844. Chiamato a presiedere il consiglio di reggenza, in una delle prime riunioni mise a disposizione una grossa somma per far fronte alle spese di avviamento, prestito che gli fu rimborsato un anno dopo senza interessi; e nei primi anni di vita dell'istituto fu lui, in varie occasioni, ad indicarne la strategia. La Banca di Genova, rivelatasi presto un eccellente affare, rappresentò un'ulteriore occasione di contrasto tra il D. ed il conte di Cavour: sia perché nasceva e prosperava dopo il fallimento di un analogo progetto caldeggiato dal conte; sia perché dal gruppo dei fondatori e maggiori beneficiari erano rimasti fuori i De la Rue ed i Ricci, le due case bancarie genovesi con cui il Cavour aveva più stretti rapporti. D'altra parte il successo genovese sollecitò nel 1847, auspice ancora il Cavour, la nascita della Banca di Torino, assai osteggiata dal gruppo ligure ed in particolare dal banchiere Carlo Alberti, uomo di fiducia del De Ferrari.

Gli anni delle due imprese genovesi coincisero con un periodo felice per le speculazioni del D. in Francia ed in Belgio. Tra il 1841 e il 1847 fu tra i maggiori azionisti - con Périer, Laffitte, Fould, de Waru ed altri - della Société des mines et fonderies de zinc de la Vieille-Montagne, compagnia belga creata nel 1837 da Dominique Mosselman ed apertasi sempre più al capitale francese: un colosso europeo dello zinco destinato a molti decenni di eccezionale prosperità e di altissimi dividendi. Intanto in Francia, dopo la crisi del 1839, rinasceva l'entusiasmo per le costruzioni ferroviarie, grazie anche all'approvazione della legge del 1842 che ne tracciava la strategia ed il quadro giuridico. Dal 1845 per gli speculatori ferroviari cominciarono veramente i buoni affari; e proprio il 21 luglio di quell'anno il gruppo formato dal D. e dai banchieri Hottinguer e Baring firmò un accordo con la casa Rothschild per concorrere unitamente ad essa all'aggiudicazione delle ferrovie del Nord della Francia. Nella Compagnie du Nord, il D. fece parte del consiglio di amministrazione con Emile Pèreire, Hottinguer e James de Rothschild che ne era il presidente. L'anno seguente, a marzo, entrò nel consiglio di sorveglianza della neonata Caisse centrale du commerce et des chemins de fer, importante istituto di credito sorto per iniziativa di Bartholony e del gruppo Paris-Orléans che intendeva appoggiarsi ad una propria banca, anche per meglio reggere la concorrenza del consorzio finanziario facente capo ai Talabot e sostenuto dalla casa Rothschild. Nella Caisse, il D. rappresentava in particolare gli interessi della Compagnie d'Orléans, filiazione del Paris-Orléans, che allora intendeva accaparrarsi la costruzione di un collegamento Parigi-Lione attraverso la valle della Loira, ingaggiando una complessa sfida con i gruppi rivali.

La rivoluzione del 1848 e la caduta della monarchia, che interruppe un'ottima stagione per i grandi affaristi parigini, furono dal D. particolarmente malviste e sofferte per l'amicizia personale che lo legava al sovrano: amicizia destinata a durare anche in seguito, come prova il fatto che nel gennaio 1850, dall'esilio londinese, Luigi Filippo e la moglie Maria Amelia vollero essere padrino e madrina, per procura, del terzogenito del D., cui venne imposto il nome dell'ex re. L'Orléans, che aveva protetto ed appoggiato il D., avrebbe anche voluto crearlo pari di Francia; ma il finanziere genovese aveva rifiutato l'onore, perché esso comportava la scelta della cittadinanza francese.

Il rifiuto non è facile da interpretare e forse sarebbe fuor di luogo ascriverlo tout court ad amor di patria, sentimento poco comune tra gli esponenti della finanza internazionale. Sta dì fatto che molti anni dopo, nel 1871, quando il figlio Filippo optò per la nazionalità francese e ne diede notizia al padre ("Malgrado la repulsione che Voi m'avete testimoniato contro la Francia..."), questi rispose: "Non posso nasconderVi che mi è cosa penosa la Vostra risoluzione di prescegliere di essere francese. Quanto a me non volli giammai esserlo benché ne avessi le profferte in tempi e circostanze migliori per la Francia ed in condizioni particolarmente lusinghiere per me" (A. Giuggioli, pp. 132, 135).Forse la condizione di straniero in terra dì Francia - e, tutto sommato, di straniero in Italia - lo attraeva di più ed era un mezzo per conservare un certo distacco dalla vita politica, al di qua e al di là delle Alpi. Anche se a Genova, nel clima grigio del regno sardo, al D. era capitato di passare per rivoluzionario. Nel 1834, durante una festa nel suo palazzo, un dolce imbandierato col tricolore di Francia aveva provocato "un grand sujet de scandale pour quelques frangais carlistes qui se trouvaient là, pour M. de Maistre et pour les officiers sardes de son opinion" (Le relazioni diplomatiche fra la Francia e il Regno di Sardegna, s. 2, II, a cura di A. Saitta, Roma 1976, p. 375); e ne era nato un piccolo incidente politico, a sedare il quale era occorso l'intervento del suocero. Più tardi, nel 1843, il D. fu oggetto delle attenzioni della polizia che lo indicò come presidente e finanziatore di una Società della Maddalena, conventicola liberale e addirittura repubblicana. In verità è difficile credere a simpatie repubblicane del D., mentre un suo patriottismo liberale troverebbe riscontro in alcuni atti compiuti all'epoca della prima guerra di indipendenza: una generosa sottoscrizione a favore delle famiglie dei combattenti bisognosi nel luglio 1848; l'adesione per centomila lire, sempre nel '48, al prestito volontario lanciato dal governo sardo; e l'anno seguente, a marzo, la decisione di rinunciare all'incasso di quelle centomila lire e l'aggiunta di uguale somma per un nuovo prestito volontario. Con il rammarico di non poter fare di più, manifestato all'allora ministro delle Finanze Vincenzo Ricci in una lettera del 21 marzo, nella quale confessava "la viva parte che io prendo ai gravissimi avvenimenti pendenti sulla sorte della patria, ed il non meno vivo mio desiderio di concorrere. per quanto è in mio potere, agl'ingenti attuali bisogni dello Stato"; ma ricordava a sua giustificazione "le fortissime perdite da me sofferte in seguito degli eventi del 1848, la strettezza, in cui mi tiene l'impossibilità di conseguire il pagamento di molti crediti" (Giuggioli, p. 117 s.). Questi atti e queste dichiarazioni, unitamente alla grande ricchezza ed all'alto prestigio, gli valsero la nomina a senatore dei regno sardo, decretata da Vittorio Emanuele il 18 sett. 1849, che peraltro cadde in prescrizione (fu rinnovata, questa volta con esito positivo, il 18 nov. 1859) in quanto i relativi titoli non pervennero alla giunta senatoriale di convalida, a riprova dello scarso interesse del D. per le cariche ufficiali.

La mente e il cuore del D. ormai erano tornati in Francia, dove l'elezione del Bonaparte alla presidenza della Repubblica, il 10 dic. 1848, riaccendeva le speranze degli affaristi. L'interesse degli speculatori si incentrava specialmente sulla ferrovia Parigi-Lione-Avignone, asse fondamentale delle comunicazioni francesi, la cui compagnia concessionaria era stata messa in difficoltà dalla crisi del '48: cosicché agli inizi del '49 lo Stato aveva riassunto l'iniziativa dei lavori e la gestione dei tronchi già costruiti. I gruppi finanziari condussero allora una violenta campagna contro la gestione statale ed il D. fu tra coloro che più si adoperarono per riportare la Parigi-Avignone in mano al capitale privato: cercò l'accordo con Isaac Péreire per la costituzione di una forte compagnia e con lui concertò un progetto che fu poi approvato dal Consiglio dei ministri. A partire dal febbraio 1849 la compagnia in formazione era in grado di fare offerte precise al governo e di attirare nell'impresa alcune grandi case bancarie inglesi ed olandesi. Il progetto andava però a scontrarsi nell'opposizione organizzata dai gruppi rivali (in particolare Talabot e un ex alleato del D., François Bartholony) e questa rivalità bloccò lo sviluppo della linea fino al dicembre 1851. Ma dopo quella data, che coincise con il colpo di Stato del Bonaparte, alle incertezze degli anni precedenti subentrò per contrasto una specie di ebbrezza, la borsa fu galvanizzata, la febbre delle speculazioni e delle costruzioni crebbe vertiginosamente.

I primi movimenti importanti riguardarono le linee dell'asse Parigi-Marsiglia: il tratto Parigi-Lione venne concesso nel gennaio 1852 ad un gruppo assai composito, nel quale il D. si trovava di nuovo associato al Bartholony; contemporaneamente una compagnia, facente capo al Talabot, si aggiudicava la Lione-Avignone. In seguito, col patrocinio del governo, si giunse ad una fusione di queste società e della Avignone-Marsiglia in una compagnia che riuniva, oltre a diversi banchieri inglesi, il fior fiore dell'alta finanza francese: tanto che la lista dei concessionari - comprendente con il D. i Rothschild, i Péreire, Bartholony, Hottinguer, de Waru, Mallet ed altri ancora - parve un manifesto di fiducia nel nuovo regime. Con Isaac Péreire e James de Rothschild, alleati ma ancora per poco, il D. fu poi tra i fondatori della Compagnie du Midi, che nell'agosto 1852 ottenne in concessione la ferrovia Bordeaux-Cette, con la possibilità di aggiudicarsi anche la Bordeaux-Baiona e la Narbona-Perpignano.

Il nuovo boom ferroviario poneva due importanti problemi, alla soluzione dei quali il governo era fortemente interessato: occorreva promuovere la concentrazione delle compagnie per garantire un più rapido sviluppo della rete; ed era necessario innovare il sistema creditizio per favorire la raccolta di capitali da impiegare nei lavori pubblici. A questo secondo scopo rispose la creazione della Société générale de Crédit mobilier, i cui statuti furono approvati con decreto del 18 nov. 1852. Creatura dei Péreire, che segnavano così il loro distacco dai Rothschild, il Crédit mobilier fu per eccellenza la banca del Secondo Impero, lo strumento dell'espansione auspicata dal regime. Su questo cavallo vincente il D. seppe saltare per tempo e bene, lucrando i favolosi dividendi pagati inizialmente agli azionisti, assicurandosi la partecipazione ai migliori affari patrocinati dal Crédit ed entrando in proficuo contatto con alcuni personaggi-chiave dell'epoca: come il duca di Mouchy e soprattutto il duca di Morny, eminenza grigia della politica e della finanza al tempo di Napoleone III. Uomini che non era raro trovare nello splendido hótel Matignon in rue de Varenne. una delle più fastose residenze del Faubourg Saint-Germain, che il D. nel 1852 aveva acquistato dal duca Antoine de Montpensier, ultimo figlio di Luigi Filippo.

Tra le grandi occasioni che il D. seppe sfruttare, ci furono quelle legate alla ristrutturazione urbanistica di Parigi per opera di Haussmann. I Péreire, con la loro Compagnie immobiliere, fecero la parte del leone; ma ebbero largo spazio anche singoli speculatori come il D., il quale finanziò per 20 milioni di franchi uno dei più audaci beneficiari della "haussmannisation", Joseph Thome, prodigiosamente arricchitosi con la sistemazione del quartiere degli Champs-Elysées, dell'avenue Montaigne, dei lungosenna e con gli sventramenti sulla Rive Gauche. Le speculazioni ferroviarie restavano tuttavia l'attività principale del De Ferrari. Nel 1853 - con Bartholony, Blount e il generale Dufour - egli costituì una compagnia franco-ginevrina che ottenne la concessione della linea Lione-Ginevra, proprio nel momento in cui la Compagnia Vittorio Emanuele mirava a collegare Modane a Chambéry con diramazioni verso Lione e Ginevra. La prospettiva di un collegamento Ginevra-Torino-Genova pareva in Francia pericolosa per Marsiglia; e il progetto della Lione-Ginevra senza allacciamento diretto con la rete sabauda, sostenuto dal gruppo del D., mirava proprio a favorire gli interessi del porto francese contro quelli genovesi: a testimonianza di quanto poco i pretesi sentimenti patriottici del D. influissero sulle sue scelte finanziarie. D'altronde la sua fiducia in un'Italia libera ed unificata non doveva essere grande, se nel 1854 Si impegnava a far concorrenza ai Rothschild in un'operazione di prestito al governo pontificio (circa 14 milioni) per consentirgli l'eliminazione della carta moneta.

Maggiore affidamento doveva dargli il dominio austriaco in Italia. visto che nel febbraio 1856 egli partì per Vienna, su incarico del Crédit mobilier, per trattare l'acquisto delle ferrovie lombardo-venete. La missione si risolse in un rovesciamento delle alleanze finanziarie: il D., resosi conto che il Crédit aveva poche possibilità di battere nell'affare i rivali Rothschild, preferì accordarsi con questi ultimi e dar vita con essi ad una società che prese in concessione la grande linea Trieste-Milano-Pavia e la Milano-Como, incaricandosi anche di realizzare o completare i collegamenti Verona-Mantova, Milano-Piacenza, Milano-frontiera piemontese. In precedenza le ferrovie austriache avevano già attirato l'attenzione del D. a partire dal maggio 1854, quando il governo dì Vienna aveva preso contatto con Isaac Péreire per interessare il Crédit mobilier all'acquisto delle linee esistenti ed all'appalto di nuove costruzioni. La trattativa s'era conclusa il 1° genn. 1855, quando Péreire e il D. avevano firmato il contratto di concessione e si era formata una Osterreichische Staats-Eisenbahn-Gesellschaft incaricata della gestione e costruzione di linee in Boemia, Ungheria, Austria e proprietaria di terreni, fabbriche e miniere in varie località dell'Impero asburgico. Nelle miniere di carbone tedesche, in quello stesso anno 1855, il D. investì circa mezzo milione di talleri, di concerto con Blount ed Oppenheim. E tutte queste buone speculazioni dovettero rendergli meno penosa, nel maggio 1856, la bancarotta di Place - uno degli amministratori del Crédit mobilier - nella quale il D. perse 4 milioni di franchi.

In Italia, intanto, si aprivano per il D. nuove prospettive grazie alla sua fresca alleanza con i Rothschild, i quali a partire dal 1855 ripresero in misura massiccia gli investimenti ferroviari. Dopo il Lombardo-Veneto era in ballo la ferrovia dell'Italia centrale da Pistoia a Bologna, Modena e Parma. Per essa premeva il livornese Pietro Bastogi, ma a partire dal maggio 1856 entrò nelle trattative la Compagnia lombardo-veneta rappresentata dal D. e riuscì, tra agosto e settembre, ad aggiudicarsi la linea. Nell'aprile 1858 la società lombarda avrebbe poi ottenuto la Pistoia-Firenze ed avrebbe tentato di estendere la propria egemonia sul resto della penisola con un progetto di riunione in una sola rete di tutte le ferrovie italiane. Progetto mal visto dalle autorità francesi perché, come scriveva l'ambasciatore di Francia a Firenze, "la Compagnie du chemin de fer lombard-vénitien ... est autrichienne, quoiqu'elle ait pour raison sociale, àcoté du nom du baron de Rothschild, ceux de M. Talabot et du duc de Galliera": dall'Austria essa riceveva incondizionato appoggio finanziario e per l'Austria costruiva "tous les chemins de fer qui mènent au coeur de l'Italie" (B. Gille, Les investissements français..., pp. 168 s.). Ma era un ragionare da politico, che aveva poco a che vedere con la logica finanziaria e trascurava il fatto che nel '54 proprio la trattativa Péreire-D. con il governo austriaco aveva favorito un ravvicinamento tra Francia ed Austria durante la crisi di Crimea. In effetti le strategie politiche erano estranee a questi affari austriaci, come ad altri investimenti esteri del D. in quegli anni: nel 1857 la partecipazione, per circa sette milioni di franchi, alle ferrovie spagnole del Norte; nel 1812 l'ingresso nel sindacato austrofrancese chiamato a fondare la Banca Ottomana di Istanbul.

Tornando all'Italia, sul finire del 1858, gli appetiti dei Rothschild e del D. si volgevano alle ferrovie statali del Piemonte, le più sviluppate della penisola. A gennaio del '59 il D. venne inviato da James de Rothschild a Torino per trattame Facquisto, ma trovò un clima poco favorevole: "Nos idées belliqueuses - scriveva malignamente Cavour il 14 febbraio - l'ont rendu furieux. Il est allé faire la cour à l'Archiduc qu'il considère comme son véritable souverain" (Il carteggio Cavour-Nigra dal 1858 al 1861, Bologna 1926, II, p. 16). La guerra non poteva certo piacere al rappresentante di un gruppo che possedeva tutte le linee dell'Italia asburgica: a marzo il D., tornato a Parigi, era tra coloro che più assiduamente spiavano l'ambasciatore austriaco von Hübner per leggere sul suo viso se si doveva vendere o no. E sei mesi dopo, a riprova di come non gradisse l'espansione piemontese, rifiutò seccamente di dare "un sol baiocco" al governo provvisorio delle Legazioni che gli aveva chiesto "un imprestito di 500.000 lire, facendogli conoscere che verrebbe garantito dal re di Piemonte" (Il carteggio AntonelliSacconi, [1858-1860], a cura di M. Gabriele, I, Roma 1962, p. 228).

L'esito della guerra dimostrò tuttavia che i timori erano infondati: la Società delle ferrovie lombarde e dell'Italia centrale, staccatasi dopo il trattato di Zurigo dall'austriaca Súdbahn, ebbe garantite tutte le proprietà e nel '59 pagò i migliori dividendi della sua storia. E gruppo Rothschild-Bartholony-Blount-Galliera pensò anzi di approfittare dell'unificazione italiana per rispolverare i suoi progetti di semimonopolio ferroviario e già nell'agosto 1860 aveva ottenuto dall'agonizzante governo borbonico la concessione delle strade ferrate meridionali, che due anni dopo il Bastogi avrebbe "patriotticamente" sottratto al capitale francese. Perse le Meridionali e le Romane, la compagnia lombarda riuscì nondimeno ad acquistare le ferrovie piemontesi e si trasformò in Società delle strade ferrate dell'Alta Italia, assorbendo nel '66 anche le linee venete. Nell'Alta Italia il D. seguitò a rivestire un ruolo di primaria importanza, effettuandovi massicci investimenti all'inizio degli anni Settanta. Intanto, fino al 1866-67, di concerto con il Crédit mobilier controllava la compagnia concessionaria della ferrovia in costruzione sulle due riviere liguri.

Ormai era in Italia che si concentravano molti interessi dei D., nel gran germogliare di affari provocato dal nuovo regno. Egli si trovò allora in una eccellente posizione di equilibrio tra casa Rothschild e Crédit mobilier - i due gruppi stranieri che si contendevano la supremazia negli investimenti italiani - e ben legato a quel capitalismo genovese che fungeva da tramite col capitale europeo. Proprio da un intreccio fra questi poli, con la determinante partecipazione del D., nacque nel 1863 la Società generale di credito mobiliare italiano, prima moderna banca di affari del nostro paese. Suo nucleo originario fu la Cassa del commercio e dell'industria, vecchia creatura dei Rothschild e di Cavour entrata in crisi, poi rivitalizzata da Domenico Balduino, infine risorta a nuova esistenza per iniziativa dei Péreire e di altri fondatori del Crédit mobilier, nonché d'un gruppo di speculatori genovesi. Del Credito mobiliare italiano il D. divenne presidente e ne condivise le sortì buone e cattive: la relativa stagnazione iniziale, il tentativo di lanciarsi negli affari immobiliari (il D., con il Credito mo.biliare italiano e con quello francese, investì 10 milioni in una società interessata ai demani napoletani, che peraltro si sciolse senza concludere nulla), la crisi del 1866 quando la banca subì un run di depositanti ed il D. contribuì al suo salvataggio anticipando al Balduino ben 12 milioni in contanti. Il progressivo distacco dei Péreire e, nel 1867. il crollo del Crédit mobilier emanciparono in certa misura il Credito mobiliare italiano dal capitale francese e lo posero nelle migliori condizioni per incontrarsi con le tendenze xenofobe, in campo finanziario, della Destra toscana. Così nell'estate 1868, quando L. G. Cambray Digny mandò in porto l'operazione relativa alla concessione della privativa tabacchi, che prometteva utili favolosi, toccò al Credito mobiliare ed ai suoi uomini italiani la partecipazione più ampia nella società per la regia cointeressata: la banca francese ebbe solo le briciole, mentre il D., ormai aureolato di italianità, partecipò all'operazione con 20 milioni ben ripagati dagli eccellenti dividendi che la regia seguitò per vari anni a distribuire.

A partire dal 1871 il D., pur seguitando in varie direzioni le proprie attività finanziarie, iniziò quella metamorfosi da grande speculatore a grande benefattore che l'avrebbe reso famoso ed acclamato nella sua antica patria. Alla trasformazione non furono estranee le vicende familiari: il fervore filantropico della moglie ed il comportamento del figlio Filippo il quale, coltivando idee democratiche e forse socialisteggianti, maturò un distacco dal padre culminato, il 5 ott. 1876, nella rinuncia ai titoli e all'eredità paterni e nell'assunzione del nome La Renaudière-Ferrari. Il gran patrimonio del D. restava così senza eredi (dopo la piccola Livia era morto nel 1840, a neppur nove anni, anche il secondogenito Andrea) e destinato, prima e dopo la morte del D., ad una serie imponente di donazioni e lasciti che ancor oggi segnano la geografia urbana di Genova e testimoniano la volontà di promuovere i più diversi aspetti del progresso civile della città: dallo sviluppo economico all'assistenza sociale, dalla sanità alla cultura. Il 12 genn. 1874 fu rogato l'atto di donazione al comune di Genova dello splendido Palazzo Rosso con i suoi molti tesori d'arte: in parte di antica proprietà familiare, in parte acquistati dai duchi con passione e munificenza nel corso della loro vita. Il 20 luglio 1875 il D. fondò un'Opera pia per la costruzione di case operaie, col capitale di 2 milioni. Il 7 dicembre offrì al Minghetti, allora presidente del Consiglio, l'ingentissimo contributo di 20 milioni per l'ampliamento ed il miglioramento del porto di Genova, ponendo al governo condizioni precise ad ulteriore vantaggio dello scalo ligure: l'adozione di un progetto gradito all'amministrazione comunale ed agli ambienti commerciali; l'intervento dell'erario per coprire eventuali costi aggiuntivi; la celerità nell'esecuzione dei lavori; la cancellazione di un debito del municipio verso lo Stato per il riscatto della zona portuale lasciata libera dalla marina militare.

La donazione De Ferrari - che si tradusse in una convenzione firmata l'11 apr. 1876 col ministero Depretis e nella legge 9 luglio 1876 per l'avvio dei lavori - fu decisiva per sbloccare la situazione di stallo cui erano giunti tutti i tentativi di adeguare il porto alle nuove esigenze della navigazione. Vittorio Emanuele II, che il 26 marzo 1875 aveva insignito il D. del titolo di principe di Lucedio (località del Vercellese dove in precedenza aveva acquistato una grande tenuta), fu pronto a concedergli le insegne di cavaliere dell'Annunziata come (1 benefattore della nazione"; mentre a Genova il Consiglio comunale decideva, tra altri atti di omaggio, di chiamare piazza De Ferrari la piazza S. Domenico sulla quale si affacciava la casa del duca. Ma fu soprattutto la popolazione genovese a farlo oggetto di così insistite dimostrazioni di riconoscenza da indurlo a tornarsene in fretta a Parigi.

Nel 1876, dopo l'avvento della Sinistra al potere, il D. era già in perfetta sintonia col nuovo governo: a maggio, su istanza di Depretis, tentò di convincere Rothschild a contenere le tariffe sulle linee dell'Alta Italia; successivamente offrì al presidente del Consiglio il proprio appoggio finanziario per l'esercizio privato delle ferrovie riscattate dallo Stato col trattato di Basilea del 17 nov. 1875; ed ebbe influenza nel progetto per l'istituzione dei punti franchi discusso al Senato nel mese di luglio.

Ad ottobre il D. si trovava a Genova, dove il Depretis lo incontrò pochi giorni prima del discorso di Stradella, e dove una polmonite lo uccise il 23 nov. 1876 mentre era pronto a lanciarsi in una nuova avventura ferroviaria, a proposito della quale è difficile tracciare i confini tra speculazione e filantropia. Si disse allora che il D. condivideva ormai le tendenze antiaffaristiche dei selliani ed era perciò ben visto dalla Sinistra estrema; e molti anni dopo Agostino Bertani ricordò che il D., fautore dell'esercizio statale delle ferrovie ma adeguatosi alla scelta privatistica del governo, era l'unico in grado di creare una nuova società ferroviaria italiana partecipando all'operazione finanziaria col mite interesse del cinque per cento.

Fonti e Bibl.: Questa biografia è soltanto un primo approccio e una prima traccia per una auspicabile indagine dell'opera economica e politica e della presenza storica del D., la cui mancanza grava negativamente sulla storiografia. Fonti primarie ne dovranno essere quelle francesi (anzitutto i molti archivi aziendali versati alle Archives Nationales di Parigi, di cui si trova ampia indicazione nei lavori di B. Gille sulla casa Rothschild e di J. Bouvier sul Crédit Lyonnais; ed i giornali economici dell'epoca, a cominciare ovviamente dal Journal des chemins de fer), dal momento che si può trarre scarso frutto dalle fonti italiane: come i pochi autografi e documenti dell'Istituto Mazziniano di Genova; gli sparsi riferimenti rintracciabili nel fondo Camera di Commercio dell'Archivio di Stato di Genova; il fondo Ducato di Galliera dell'Archivio di Stato di Bologna (che tuttavia meriterebbe uno studio approfondito per ragioni non strettamente biografiche); le carte De Ferrari conservate presso l'Archivio storico del Comune di Genova, ufficialmente inconsultabili sino a ieri e solo adesso in procinto di esser messe a disposizione degli studiosi.

Le fonti a stampa e gli studi più direttamente utilizzati per questo lavoro, oltre a quanto citato nel testo, sono stati: La questione romana negli anni 1860-1861. Carteggio del conte di Cavour con D. Pantaleoni, C. Passaglia, O. Vimercati, I, Bologna 1929, p. 73; J. A. von Hübner, Nove anni di ricordi di un ambasciatore austriaco a Parigi sotto il Secondo Impero, Milano 1944, pp. 296, 301, 357, 383, 396, 436, 672; Il porto di Genova nella mostra di pal. S. Giorgio, Milano 1953, pp. 314-17; C. Cavour, Epistolario, I,Bologna 1962, p. 500; III, Firenze 1973, pp. 92, 110, 114, 116 s., 137, 154; IX, ibid. 1984, pp. 438 s.; M. Minghetti, Copialettere 1873-1876, a cura di M. P. Cuccoli, Roma 1978, pp. 365 s., 407, 416, 423, 450 s., 504, 697, 700, 717 s., 758 s., 762, 770 s., 784, 803, 883 s., 889; M. Capefigue, Histoire des grandes opérations financières, IV, Paris 1860, pp. 185, 268; L. T. Belgrano, La famiglia De Ferrari di Genova. Notizie stor. e genealogiche, Genova 1876, pp. 19, 56 ss.; R. Colonna de Cesari Rocca, Les De Ferrari, Génes 1901, pp. 91-100; A. Colombo, La tradiz. di Balilla a Genovq nel 1846, in G. Mameli e i suoi tempi, Venezia 1927, pp. 167 s.; M. Pantalconi, Studi stor. di economia, Bologna 1936, pp. 248, 259; G. Reggio, Il duca di Galliera, in Confederazione fascista dei professionisti e degli artisti, Celebraz. liguri, II,Urbino 1939, pp. 125-67; A. Crispo, Le ferrovie italiane. Storia politica ed economica, Milano 1940, pp. 35 s.; R. Bigo, Les banques françaises au cours du XIXe siècle, Paris 1947, p. 188; L. Girard, La politique des travaux publics du Second Empire, Paris 1952, pp. 58, 87, 136; F. Arese, Cavour e le strade ferrate (1839-1850), Milano 1953, pp. 30, 34, 37 s., 41, 103 s.; G. P. Carocci, A. Depretis e la politica interna ital. dal 1876 al 1887, Torino 1956, pp. 51, 106, 155, 168, s., 171 ss.; F. Poggi, L'emigrazione polit. in Genova ed in Liguria dal 1848 al 1857, I, Modena 1957, p. 82; B. Gille, La banque et le crédit en France de 1815 à 1848, Paris 1959, pp. 59, 63, 120; Id., Recherches sur la formation de la grande entreprise capitaliste (1815-1848), Paris 1959, p. 121; J. Bouvier, Le Crédit Lyonnais de 1863 à 1882, Paris 1961, pp. 533 s., 628; Id., Les interventions bancaires françaises dans quelques "grandes affaires" financières de l'unité italienne, in Annali dell'Ist. Feltrinelli, IV (1961), p. 227; G. Palmade, Capitalisme et capitalistes franfais au XIXe siècle, Paris 1961, pp. 138, 187; R. E. Cameron, France and the economic development of Europe 1800-1914, Princeton, N. J., 1961, pp. 145, 193, 216-19, 222-25, 251, 288-91, 356, 393, 438; M. Da Pozzo-G. Felloni, La borsa valori di Genova nel sec. XIX, Torino 1964, pp. 303, 320; B. Gille, Histoire de la maison Rothschild, Genève 1965-1967, 1, p. 362; II, pp. 136, 166, 169, 171, 173 s. e passim; Id., Les investissements franfais en Italie (1815-1914), Torino 1968, pp. 64 s., 109, 153, 164-67, 171, 195, 223-26, 239, 243, 297, 302-05; G. Doria, Investimenti e sviluppo econ. a Genova alla vigilia della prima guerra mondiale, I,Milano 1969, pp. 81, 92, 182 s., 207 s., 264; G. Giacchero, Genova e Liguria nell'età contemporanea, Genova 1970, I, pp. 165, 175, 344-50, 398 s., 417, 427 s.; R. P. Coppini, L. G. de Cambray Digny tra affarismo e politica (1865-1869), in Rass. stor. del Risorgimento, LVII (1970), p. 208; R. Romeo, Cavour e il suo tempo, I,Bari 1971, pp. 533, 732; II, ibid. 1977, pp. 164, 175, 182, 185, 690; A. Giuggioli, Il palazzo del Banco di Roma in Genova e i duchi di Galliera, Genova 1972, pp. 47, 50, 71 ss., 77-136, 153-87; E. Sereni, Capitalismo e mercato nazionale, Roma 1974, pp. 157, 160-63, 177; A. Capone, Destra e Sinistra da Cavour a Crispi, Torino 1981, pp. 155 s., 163, 167, 172; A. Plessis, Le politique de la Banque de France de 1851 à 1870, Genève 1985, pp. 299, 303, 305; Id., Rigents et gouverneurs de la Banque de France sous le Second Empire, Genève 1985, pp. 197 s., 343; Diz. del Risorg. nazionale, ad vocem.

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