Decretali

Enciclopedia Dantesca (1970)

decretali (Dicretale)

Raoul Manselli

Vennero così chiamati i decreti pontifici, successivi alla Concordantia discordantium canonum di Graziano (v.), detta anche Decreto,. Furono riuniti prima per iniziativa privata: ha speciale importanza perché costituì il primo pezzo della codificazione canonica, l'opera nota col nome di Quinque compilationes perché mette insieme cinque diverse raccolte, di cui due, la terza e la quinta, erano addirittura ufficiali, inviate appunto a Bologna da Innocenzo III (1210) e da Onorio III (1226).

Successivamente, per iniziativa di Gregorio IX, il grande canonista Raimondo di Peñafort procedette a una sistemazione delle d. pontificie fino, appunto, a Gregorio; il corpus ebbe il nome di Liber extra e fu, nel 1234, solennemente inviato alle scuole di diritto di Parigi e di Bologna. Furono poi riunite, per volontà di Bonifacio VIII, quelle emanate dai successori di Gregorio fino allo stesso Bonifacio, assumendo il nome di Liber sextus (1298), mentre Clemente V raccolse le proprie d. e le decisioni del concilio di Vienne nel Delfinato (1311) in un apposito volume che ebbe il nome di Clementinae e che fu inviato nel 1314 all'università di Orléans, poi, sopraggiunta la morte del papa, dal suo successore Giovanni XXII anche alle altre due di Parigi e Bologna nel 1314.

Questo complesso di norme, che venne ben presto arricchito di glosse e commenti, venne assumendo insieme con l'opera di Graziano la stessa importanza che, per la vita civile, ebbe il Corpus juris civilis (v.) di Giustiniano. Rappresentò inoltre lo sforzo più grandioso e potente di tradurre in formulazioni giuridiche la Sacra Scrittura e la lunga serie di decisioni conciliari e poi papali per regolare la vita dei fedeli. Di particolare rilievo furono le d. nel senso ristretto del termine, nelle quali si attuò e si affermò l'accentramento progressivo della Chiesa intorno al papa, in una direzione sempre più decisamente ‛ teocratica '. Le d. vennero così affiancandosi, in modo esplicito, alla stessa Sacra Scrittura e al diretto insegnamento dei padri della Chiesa, quasi ponendosi anch'esse come opera provvidenziale di Dio. Sembrarono così realizzarsi le preoccupazioni di quella parte dei fedeli che aveva avvertito, con diverse reazioni, e cioè da una rassegnata accettazione a un rifiuto violento, il rischio di una prevalenza dello spirito ‛ giuridico ' su quello ‛ evangelico '.

Lo rilevava già alla metà del secolo XII s. Bernardo, che nel suo De Consideratione (ma D. non sembra conoscerlo direttamente) ammoniva il papa Eugenio III a reprimere gli abusi di litigi e cavilli legali nella vita della Chiesa e, specialmente, nell'attività giurisdizionale accentrata in Roma (cfr. Bernardi De Consideratione III 1, in Bernardi Opera omnia, a c. di J. Leclercq e H.M. Rochais, Roma 1963, 431-434). Gli si affiancarono in una lunga serie di composizioni satiriche i poeti goliardici, rimproverando ai collaboratori del papa, dai cardinali ai più modesti funzionari, lo spirito litigioso, la cavillosità interpretativa, e, soprattutto, l'avidità di danaro, pel quale si facevano interpretazioni di comodo delle norme giuridiche della Chiesa.

Questo atteggiamento, che ebbe larga diffusione, venne condiviso e per certi aspetti accentuato da s. Francesco e dal movimento francescano, specialmente nei primi tempi: si afferma di certo, con vibrata energia, nelle prediche di s. Antonio di Padova e nei commenti pseudogioachimitici a Geremia e a Isaia, profondamente legati, questi ultimi, alla corrente rigorista e spirituale dei minori. Aderenti all'ammonimento di s. Francesco, che nel suo Testamentum avvertiva che non bisognava chiedere privilegi alla sede apostolica, essi ne deducevano un rifiuto di fatto - anche se mai esplicito e formale - dell'autorità giurisdizionale del papa e dei suoi collaboratori. Così la corte papale viene duramente rimproverata " ob novorum phariseorum superbiam et scribarum ", mentre si osserva che " trascendit... papale praetorium cunctas curias in calumniosis litibus et quaestibus extorquendis "; colpendo poi proprio l'abuso del diritto, si conclude: " Legis periti huius et futuri temporis animales sensum Dei non habentes, terrena quaerunt " (cfr. per questi passi e altri ancora R. Manselli, D. e l'Ecclesia spiritualis, cit. in bibl., pp. 130-131, alle note 24-28).

Non meno interessante è che questo punto di vista polemico sia stato ripreso, in una pensosa e dolente autonomia di formazione ideologica, da Pietro di Giovanni Olivi, che fu al convento di S. Croce in Firenze nel momento in cui era ormai maturato il suo giudizio sulla Chiesa del tempo e sul tragico abuso della mentalità giuridica rappresentata dalle decretali. Questo stato d'animo è, in special modo, presente nell'opera sua ultima, la Lectura super Apocalipsim, scritta prima del 1297 a Narbona, ma ben conosciuta a Firenze, ove S. Croce va considerata addirittura il centro più importante della sua diffusione. In questa Lectura, dovendo egli sottolineare la decadenza profonda in cui è caduta la Chiesa, sottolinea anche la " multiplex enormitas... causidicationum, litigiorum et rapinarum ex ipsis occasionaliter accepta ".

D. condivide pienamente questa condanna dello spirito ‛ giuridico ' e lo identifica anch'egli nell'abuso delle d. e nella tacita loro sostituzione alla Sacra Scrittura, come binario della vita cristiana, pur non rifiutando, in linea di principio, la ‛ ragione canonica ', cioè il diritto canonico, che in Cv IV XII 9 è indicata col diritto civile come destinata a riparare a la cupiditate che, raunando ricchezze, cresce. Eppure proprio la cupidigia umana è riuscita a servirsi, per i suoi fini, anche delle d., distaccandole dalla loro sorgente spirituale, la Sacra Scrittura e le opere dei padri. Perciò le d. diventano fine a sé stesse e perciò pregiudizievoli alla vita cristiana, come il poeta nota ripetutamente. Così D. pensa certo anche alle d. quando in Pd XI 4 ricorda gli iura tra le cose che legano l'uomo ai valori terreni, riprendendo e sintetizzando energicamente quanto aveva già detto in Cv III XI 10, che non si dee chiamare vero filosofo colui che è amico di sapienza per utilitade, sì come sono li legisti, [li] medici e quasi tutti li religiosi, che non per sapere studiano ma per acquistare moneta o dignitade. Nel Paradiso, però, questa condanna delle d. e dello spirito ‛ giuridico ' s'arricchisce e si precisa ulteriormente in una dimensione religiosa in cui le d. vengono perciò ad assumere un particolare rilievo: il grande decretalista Enrico di Susa, l'Ostiense, viene, esemplarmente, nominato in Pd XII 83 come oggetto di un affanno di studi tutto rivolto a conseguire successi e vantaggi mondani. Intanto sono colpevolmente trascurate le fonti e i testi davvero necessari al cristiano, come viene chiarito con energia in una precisa e nitida pagina di Mn III III 9 ss. in cui, dopo aver ricordato che i decretalisti theologiae ac phylosophiae cuiuslibet inscii et expertes si oppongono all'Impero proprio fondandosi sulle d., D. si preoccupa di stabilire una precisa gradualità di valori: vi sono delle Scritture ante ecclesiam che ne costituiscono per così dire i presupposti e la base, come l'Antico e il Nuovo Testamento; poi delle altre cum Ecclesia, formandone l'ossatura essenziale, come le parole di Cristo e, su di un piano inferiore, le opere dei doctores come Agostino e gli altri assistiti dallo Spirito Santo. Sono infine post ecclesiam le traditiones qual Decretales dicunt. Queste hanno imperatività solo in quanto poggiate e rese venerande dalla ‛ auctoritas apostolica ', ma senza dubbio vanno posposte alla Sacra Scrittura, come D. sostiene sulla base di Matt. 15, 3 ove Cristo rimprovera appunto ai Farisei di trasgredire il comandamento di Dio per la loro tradizione. Il ragionamento viene poi concluso con un doppio ordine di conseguenze: vanno esclusi dalla vita della Chiesa coloro che hanno le sole tradizioni, perché la Chiesa dà validità alle d.e non viceversa; e vanno ancor più messi al bando coloro che camuffati da bianche pecorelle s'insinuano nel gregge del Signore per compiervi i loro misfatti, alludendo in questi termini a quanti abusavano delle d. per servire la loro cupidigia.

Un'eco di questa impostazione di idee si trova chiaramente nella lettera ai cardinali italiani (Ep XI 16), ove si ricorda prima l'oblio colpevole nel quale sono abbandonati Gregorio Magno, Ambrogio, Agostino, Dionigi l'Areopagita, Giovanni Damasceno e Beda, mentre gli sposi della cupidigia citano a gran voce lo Speculum di Guglielmo Durand e le Opere di Innocenzo IV , grande decretalista, e di Enrico di Susa, l'Ostiense già ricordato.

Nella Commedia, ed è circostanza rilevante per precisare alcune cadenze di sviluppo del pensiero di D., le d. sono ricordate solo nel Paradiso, nei passi già precedentemente ricordati, ma soprattutto nel grande finale del canto IX, dove si ricorda prima il maledetto fiore, quel fiorino d'oro così cupidamente bramato dai chierici, per cui, appunto, viene poi energicamente osservato che l'Evangelio e i dottor magni / son derelitti, e solo ai Decretali / si studia, sì che pare a' lor vivagni (vv. 133-135), riprendendo con sintetica icasticità, rafforzata dall'allitterazione derelitti - decretali il contrasto precedentemente ricordato (Ep XI 16), ma con mossa oratoria, fra la Sacra Scrittura e i padri della Chiesa da una parte e i canoni dall'altra. È anzi aggravata la condanna, rivolta genericamente nell'epistola, a segnare una vetta di umiliante abiezione della vita cristiana alle vette stesse della realtà istituzionale della Chiesa: A questo [studio delle d.] intende il papa e ' cardinali: / non vanno i lor pensieri a Nazarette, / là dove Gabrïello aperse l'ali. Proprio questo rovesciamento dei veri valori cristiani è il punto più basso ormai raggiunto dalla Chiesa e non potrà durare; scattano perciò la vocazione profetica del poeta e l'immancabile condanna: Ma Vaticano e l'altre parti elette / di Roma che son state cimitero / a la milizia che Pietro seguette, / tosto libere fien de l'avoltero (vv. 136-142). Se, ora, ricordiamo che in questo avoltero si addensa quanto ha allontanato e allontana dal Cristo la gerarchia ecclesiastica, specialmente in Roma, risulterà anche più chiara e ferma la condanna che D. pronuncia del cattivo uso delle d. e dello spirito ‛ giuridico '.

Nella forma ‛ Decretale ' in Fiore XXXVII 2, CCXIX 14.

Bibl. - Oltre ai commenti del Convivio, della Monarchia e della Commedia, v. M. Maccarrone, Teologia e diritto canonico nella Monarchia, in " Rivista di Storia della Chiesa in' Italia " V (1957) 7-42; ID., Il terzo libro della Monarchia, in " Studi d. " XXXIII (1958) 5-142; B. Nardi, Dal Convivio alla Commedia, Roma 1960, 151-313; ove dalla discussione fra i due insigni studiosi emerge con nuova chiarezza l'atteggiamento di D., pur con qualche punto rimasto problematico. Il significato di questo atteggiamento, sul piano religioso e spirituale, è sottolineato da R. Manselli, D. e l'Ecclesia spiritualis, in D. e Roma, Firenze 1965, 115-135, ed è indicato da P. Brezzi, D. e la Chiesa del suo tempo, ibid. 114.

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