Degenerazione

Universo del Corpo (1999)

Degenerazione

Giulio Barsanti
Giorgio Bignami

Il termine degenerazione, letteralmente "modificazione del genere", "deviazione dal genere", può significare alterazione, trasformazione, o passaggio da uno stato originario a una condizione peggiore. In questa accezione negativa ha conosciuto, tra la seconda metà dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento, una notevole fortuna nell'ambito delle discipline biologiche, psichiatriche e della criminologia, dove con degenerazione si intese il fenomeno della degradazione della razza umana, ovvero il processo inverso dell'evoluzione, cioè la regressione a stadi propri dell'uomo primitivo e dei suoi antenati preumani, con valenza di elemento patogenetico delle malattie mentali e della criminalità. Attualmente tale concezione mantiene soltanto un valore storico. Dalla 'storia naturale' alla psichiatria e alla criminologia.

Dalla 'storia naturale' alla psichiatria e alla criminologia

di Giulio Bersanti

l. Campo semantico

Il termine degenerazione è stato applicato a oggetti e fenomeni anche radicalmente diversi; in particolare, di volta in volta, a cellule, tessuti, organi, individui, popolazioni, razze. Anche in conseguenza di queste sue diverse applicazioni, le accezioni di degenerazione sono molteplici e conviene subito puntualizzare che hanno subito una complessa evoluzione. Questa è caratterizzata da slittamenti semantici che si sono verificati sia all'interno di ciascuna delle discipline in cui il termine è stato utilizzato (la storia naturale, la biologia, l'anatomia patologica, l'antropologia, la psichiatria, la criminologia), sia nel corso del passaggio del termine stesso da una disciplina all'altra. Inserito in un nuovo contesto teorico e tematizzato da specialisti con diverse attrezzature mentali e materiali, il termine ha assunto significati originariamente non prevedibili, finendo con il riferirsi, talvolta, a fenomeni di segno opposto.

In prima approssimazione, conviene distinguere l'insieme delle accezioni di degenerazione in due classi. La prima è quella dei significati non valutativi, tendenzialmente neutri, di alterazione, trasformazione, degradazione, snaturamento. Questi sinonimi di degenerazione non rinviano di necessità a fenomeni assunti come involutivi o regressivi: neppure snaturamento e degradazione, che apparentemente hanno connotazioni negative. Il primo vale solo per 'perdita della natura originaria' e il secondo sta semplicemente per 'graduale allontanamento dalla condizione primitiva'. Ebbene, non sempre la natura originaria e la condizione primitiva sono state assunte come migliori o più idonee delle condizioni acquisite successivamente. Ne è testimonianza, per es., la circostanza che il primo significato di degenere era semplicemente quello di dissimile.

Non sorprenderà, dunque, che un tempo siano state proposte teorie della degenerazione che attualmente annoveriamo fra quelle dell'evoluzione. La classe dei significati valutativi (con riferimenti negativi) di degenerazione comprende invece aberrazione, decadimento, involuzione, regressione. Questi sinonimi si impongono, in certi ambiti di ricerca, relativamente tardi, mentre in altri prevalgono fin dalle origini. Sempre in prima approssimazione, è possibile dunque assumere che essi caratterizzano l'intera storia della medicina (e in particolare quella dell'anatomia patologica). Tuttavia, i significati subiscono, anche all'interno delle singole discipline, sensibili ondeggiamenti. La prima comparsa del lemma avviene nella sesta edizione del Lexicon medicum graeco-latinum (Nürnberg 1682), in cui il termine degenerazione viene riferito a "quando una qualsiasi cosa si allontana dalla sua indole e natura originaria e si trasforma in una cosa peggiore". Si trattava, tuttavia, non di un'indicazione originale, ma della consacrazione di un significato che si era imposto da tempo e la cui origine è probabilmente da rintracciare negli esiti di ricerche condotte in agronomia.

Ciò sembra essere confermato, fra l'altro, dalla grande Encyclopédie di Diderot e d'Alembert (Paris 1751-72). Nell'insistere, infatti, sull'accezione patologica di degenerazione, l'estensore della voce, A.-N. Dezailler d'Argenville, vi fa una significativa serie di riferimenti alla silvicultura, abbozzando un concetto che successivamente egli avrebbe così fissato: "degenerare significa cessare di essere altrettanto buono o altrettanto bello. Un albero degenera quando cessa di produrre buoni frutti, una cipolla degenera quando è inferiore in bellezza a quella che l'ha prodotta" (Dictionnaire de jardinage, Paris 1772).

Val la pena di sottolineare il fatto che in un manuale di giardinaggio, finalizzato a fornire indicazioni pratiche, a considerazioni agronomiche vengano accostate valutazioni estetiche. È la chiara testimonianza della grande fortuna che il termine-concetto di degenerazione sta avendo non soltanto nelle scienze fisiche, ma anche in quelle umane e negli studi filosofici. Sfogliando un dizionario di cultura generale pubblicato negli stessi anni, scopriamo che il lemma degenerazione, sempre contemplato nella sola accezione negativa, viene trattato collegando a considerazioni biologiche anche valutazioni di ordine gnoseologico e morale. È il caso del Dictionnaire des notions primitives (Paris 1773), in cui Puget de Saint-Pierre argomenta che il termine denota "il deperimento del corpo, o l'indebolimento dello spirito, o la corruzione del cuore".

Numerosi medici tenteranno di opporsi a questo ampliamento di significati, condannandolo recisamente nel timore che, applicato a un troppo vasto universo di oggetti e di fenomeni, degenerazione perda, con la sua accezione originaria, la sua pregnanza. È il caso di insigni clinici come R.-T. Laënnec, il quale afferma la necessità che il termine vada "riservato a una forma particolare di alterazione dei tessuti", quale "il passaggio di una cartilagine allo stato osseo" (Dictionnaire des sciences médicales, Paris 1812-22). E tutti i più autorevoli dizionari di medicina della seconda metà dell'Ottocento insistono nel precisare che con degenerazione deve intendersi esclusivamente "una deviazione patologica dal tipo primitivo" (Nouveau dictionnaire de médecine, Paris 1869-86). Questi e altri richiami non impedirono, tuttavia, che il termine si diffondesse ulteriormente, coinvolgendo altri settori della ricerca scientifica e acquisendo, talvolta, valenze ancor più negative.

2.

Storia naturale

Nella storia naturale l'accezione di degenerazione aveva dapprima oscillato fra connotazioni valutative e interpretazioni più sfumate del concetto, e intorno alla metà del Settecento si era decisamente orientata verso queste ultime. Artefice della svolta può essere considerato G.-L. Leclerc de Buffon, che dedicò un'intera sezione della sua monumentale Histoire naturelle, générale et particulière (Paris 1749-89) alla Dégénération des animaux (1766). Il naturalista francese escluse che il fenomeno riguardasse quattordici specie "nobili" o "superiori" (fra cui l'umana), che a suo giudizio permangono sostanzialmente inalterate, ma lo estese a tutte le altre: teorizzando, per es., che i Mammiferi siano provenuti da sole venticinque specie originarie, derivando gli uni dagli altri a seguito di modificazioni organiche dovute ai cambiamenti del clima, delle risorse alimentari, degli spazi vitali e dei comportamenti.

Questo processo veniva sì presentato come una degenerazione, ma mai concepito nei termini di un fenomeno di progressivo decadimento. Buffon affermava infatti che è solo dal punto di vista umano che le specie, in luogo di perfezionarsi, sembrano degenerare: per la natura "perfezionarsi o viziarsi è la stessa cosa". Senza attribuire al termine alcuna connotazione negativa, Buffon usò dunque degenerazione per rinviare a quella che oggi chiamiamo filogenesi, e che egli già rappresentò, non per caso, in forma di albero genealogico. Significativamente la prima teoria dell'evoluzione empiricamente controllabile ed estesa a tutte le specie - compresa l'umana - venne elaborata, all'inizio del 19° secolo, dal suo allievo J.-B. de Lamarck (Recherches sur l'organisation des corps vivants, Paris 1802), il quale non fece che precisare i meccanismi fisiologici della "marcia della natura".

Per un lungo periodo di tempo, indagare sulla degenerazione consisté nell'interrogarsi sulle origini della natura vivente e nel postulare che questa fosse caratterizzata da una lunga serie di 'cambiamenti', nel senso neutro, di chiara derivazione buffoniana. Gli studiosi della degenerazione sono, in altri termini, semplicemente quei naturalisti che si oppongono ai teorici della conservazione, della fissità delle specie. Il fenomeno viene definito proprio in questi termini ("può esser considerato principio di degenerazione tutto ciò che non tende alla conservazione", Dictionnaire des notions primitives, Paris 1773), che portano a far coincidere degenerazione con il concetto neutro di variazione (come avviene, per es., nel Nouveau dictionnaire d'histoire naturelle, Paris 1816-19). Ma intorno alla metà dell'Ottocento i naturalisti percepiscono che va prendendo il sopravvento l'accezione medica del termine (quella che oppone degenerazione non a conservazione bensì a perfezionamento) e si orienteranno allora verso evoluzione, precisando che - esattamente come la degenerazione buffoniana - questa può essere, come allora si disse, sia progressiva sia regressiva.

3.

Antropologia e craniometria

Una parabola simile caratterizza anche la storia dell'antropologia. Impostata da Buffon come "scienza generale dell'uomo" (Histoire naturelle de l'homme, Paris 1749) e concepita come prolungamento della "storia naturale degli animali", essa trova una prima sistemazione nel De generis humani varietate nativa (Goettingae 1775) di J.F. Blumenbach. Al contrario del naturalista francese, che aveva teorizzato la 'nobiltà' della specie umana e quindi la sua impermeabilità alla degenerazione, il naturalista tedesco estende anche a essa il fenomeno, e anzi vi fonda l'intera teoria (perfezionata nella terza edizione del libro, comparsa nel 1795). Raccolta una gran quantità di crani e rilevatene, in particolare, forma e dimensioni delle ossa frontale, parietali, nasale e mascellari, Blumenbach li compara secondo l'originale 'norma verticale' e ne conclude l'esistenza di cinque varietà (la mongolica, l'americana, la caucasica, la malese, l'etiopica), che possono essere allineate in modo che l'una 'sfumi' nell'altra.

Da quest'ultima circostanza egli ricava la convinzione che dalla varietà centrale (la caucasica), assunta come quella originaria perché fornita del cranio "più fine e aggraziato", siano col tempo derivate, per i cambiamenti del clima, dell'alimentazione e delle forme di vita, da un lato l'americana e quindi la mongolica, dall'altro la malese e poi l'etiopica. Questo fenomeno di 'deriva' viene chiamato degenerazione, ma, anche se Blumenbach insiste ripetutamente sull'ipotesi che solo la razza bianca sia stata creata all'inizio dei tempi, viene assunto - sulla scia di Buffon - come una semplice variazione (adattativa). Va d'altra parte rilevato che neanche gli esiti delle misurazioni effettuate con il primo strumento antropometrico (l'angolo facciale) avevano condotto le ricerche razziali a confortare ideologie razziste.

L'ideatore di tale strumento, il naturalista P. Camper, aveva sì osservato che la sua ampiezza è massima nell'europeo, media nell'asiatico e minima nell'africano, che per il suo prognatismo ha un angolo facciale di poco superiore a quello dello scimpanzé e dell'orango, ma aveva esplicitamente negato che essa fosse proporzionale, per es., al grado di intelligenza (Dissertation physique sur les différences que présentent les traits du visage, Utrecht 1791). E anche C. White, che quello strumento aveva utilizzato per comporre la scala naturae più complessa e sofisticata dell'epoca, da cui l'africano risultava particolarmente svantaggiato, aveva concluso le proprie ricerche negando esplicitamente e recisamente che perciò si dovesse "attribuire a una qualsiasi specie umana una superiorità su una qualsiasi altra" (An account of the regular gradation in man, and in different animals, London 1799). La constatazione che la natura degrada, all'interno della specie umana, dall'europeo all'africano, già fatta da Linneo quando l'uomo venne, per la prima volta, classificato nello stesso ordine delle scimmie - in modo tale che il più 'basso' degli uomini, l'africano appunto, si trovasse contiguo alla più 'alta' delle scimmie, lo scimpanzé (Systema naturae, Lugduni Batavorum 1735) -, era una considerazione limitata all'ambito morfologico e non comportava, per i naturalisti, l'assunzione che la natura degenerasse nel senso di corrompersi o regredire.

4.

Antropologia e psichiatria

Quando l'antropologia passa dalle mani dei naturalisti a quelle dei medici, degli psichiatri e dei criminologi, la degenerazione viene assunta come l'altra faccia della medaglia su cui è incisa (e viene positivisticamente celebrata) l'evoluzione, a indicarne il fenomeno opposto. Ne è eloquente testimonianza, fra le altre, l'animata controversia innescata dal ritrovamento (1857) dei resti del cosiddetto uomo di Neanderthal. La forma del suo cranio, per vari aspetti dissimile da quella di ogni tipo moderno, e in particolare la prominenza dell'arcata sopracciliare, fecero pensare ad alcuni, in una prospettiva evoluzionistica, che si trattasse di un lontano progenitore della specie umana (il lungamente cercato 'anello mancante', la creatura semiscimmiesca 'di transizione'), ma ad altri - e in particolare, non per caso, agli anatomopatologi - che fosse semplicemente la vittima di un processo degenerativo individuale. Poiché la sua antichità non poteva essere dimostrata, si diffuse - anche su pubblicazioni autorevoli - l'ipotesi che si trattasse, nonostante le apparenze, di un uomo moderno degenerato: "un povero eremita idiota" oppure "un disertore cosacco ammalato".

Ma è soprattutto in campo psichiatrico che il punto di vista anatomopatologico si impone e determina la svolta semantica di degenerazione. Nel Traité des dégénérescences physiques, intellectuelles et morales de l'espèce humaine (Paris 1857), B.-A. Morel interpreta le malattie, l'alcolismo e altre intossicazioni come l'effetto di disordini ereditari che accumulandosi portano all'imbecillità, alla sterilità e per questa via all'estinzione di intere popolazioni nel volgere di poche generazioni. La tesi si diffonde e viene consacrata dall'autorevole Dictionnaire des sciences anthropologiques (Paris 1882) di A. Bertillon, in cui la degenerazione viene definita come "il movimento discendente che subiscono un individuo o una razza quando, dopo essersi evoluti verso il progresso, regrediscono al punto di partenza". La misura in cui quest'impostazione poté, per quanto concerne lo studio delle popolazioni, favorire il diffondersi di ideologie razziste è evidente. Per quanto concerne invece lo studio degli individui, vale la pena sottolineare che quella presunta regressione venne a lungo concepita come un fenomeno ineluttabile e irreversibile: di modo che l'insistenza sulla tara ereditaria, che spostava il discorso (e le responsabilità) dal malato al progenitore, offrì il conforto scientifico all'insuccesso terapeutico, legittimando e propagando l'idea che la malattia mentale fosse incurabile.

5.

Antropologia e criminologia

Muovendo da comparazioni strumentali e da centinaia di autopsie (concernenti, in particolare, l'anatomopatologia cerebrale), giunse a conclusioni analoghe, circa le "manifestazioni degenerative" nell'ambito dell'antropologia criminale, C. Lombroso (L'uomo delinquente…, Milano 1876). Egli pensò di poter individuare la causa delle aberrazioni del senso morale in presunte alterazioni somatiche ("anomalie del corpo e del cranio ispecie") e di esser legittimato a estendere allo studio del delinquente la legge "della ricapitolazione" recentemente formulata da E. Haeckel, "secondo la quale l'ontogenesi, cioè lo sviluppo dell'individuo, riproduce in iscorcio le fasi per cui è passata la filogenesi, ossia lo sviluppo delle specie; onde il feto presenta successivamente le forme di animali che hanno preceduto l'uomo nell'evoluzione generale". Ebbene, sostenne Lombroso, "anche nello sviluppo iniziale della psicologia individuale si ripresentano le tendenze di crudeltà, vendetta, gelosia, oscenità, pigrizia, proprie dell'umanità primitiva".

Quella "varietà infelice d'uomo" che è il delinquente può essere pertanto considerata come il prodotto di un decadimento a stadi ancestrali, ovvero di un arresto dello sviluppo normale: come quello provocato dal cretinismo e dalla pellagra, patologie alle quali Lombroso aveva dedicato le prime ricerche e che ritardano e talvolta inibiscono la crescita mentale, provocando l'insorgere di comportamenti violenti. Il fatto certo, secondo Lombroso, è che il delinquente si distingue dal non delinquente per la presenza di varie anomalie fisiche di origine atavica, la cui consistenza può essere apprezzata misurando l'indice cefalico, i diametri anteroposteriore e trasverso del cranio, le curve auricolari, l'angolo facciale ecc.; oppure risultano anche a un esame superficiale, come la "fossa mediana occipitale" e la polidattilia.

Le dottrine di Lombroso, le quali fra l'altro contemplavano che "la criminalità dei genitori può essere ereditata", si diffusero rapidamente non solo in Italia ma anche all'estero e val la pena di rilevare, anche se tutto questo non appartiene alla storia della scienza propriamente intesa, che variamente interpretate ed estrapolate confluirono, fra Ottocento e Novecento, in una teoria sociobiologica della degenerazione che contrastò l'ottimismo del darwinismo liberale e si contrappose frontalmente alle idee della democrazia di massa e dell'eguaglianza sociale. Dopo aver trattato della degenerazione del cranio, del volto, del labbro, del palato, dell'occhio e dell'orecchio, dei denti e delle mascelle, del corpo e del cervello, della mente e della moralità mostrando cervelli di idioti e volti di criminali, la grande summa ottocentesca delle teorie biomediche sulla degenerazione di E.S. Talbot (Degeneracy. Its causes, signs, and results, London 1898) si concludeva sollecitando una rigida "regolamentazione statale dei matrimoni".

Degenerazione, devianza, razzismo

di Giorgio Bignami

L'elaborazione scientifica del tema della degenerazione, le sue alterne vicende, dopo il successo del Traité des dégénérescences physiques, intellectuelles, et morales de l'espèce humaine di B.-A. Morel (1857), possono meglio comprendersi tenendo conto del loro punto d'arrivo negli anni 1933-45. In questi anni, molti eminenti scienziati sollecitarono e legittimarono le politiche eugeniche e poi di vero e proprio genocidio applicate dal regime nazista, ufficialmente allo scopo di arrestare l'inquinamento e il deterioramento del patrimonio genetico dell'umanità, di proteggere la superiore razza ariana, di sostenerne il ruolo di guida e di comando sulle 'razze inferiori'. In precedenza, i principali centri della discussione sulla degenerazione e sulle misure eugeniche per prevenirla (in primo luogo la sterilizzazione e la limitazione dei flussi migratori) erano stati l'Inghilterra e gli Stati Uniti (Kevles 1995; Paul 1995). I due paesi a regime liberaldemocratico erano ossessionati, il primo, dal rischio di disordine sociale individuato nelle 'classi inferiori', il secondo dai problemi creati dal dilagare delle 'razze inferiori', rappresentate non solo dai neri, ma anche dai milioni di immigrati di varie nazionalità. A ridosso di questo periodo si può situare una cesura importante nel dibattito scientifico e sociopolitico sulla degenerazione, che distingue un prima e un dopo nella diffusione di nozioni scientifiche affidabili sui modi e i meccanismi di trasmissione ereditaria dei caratteri.

Prima di allora, infatti, cioè tra la metà e la fine dell'Ottocento, ogni varietà e sottovarietà del modello ereditarietà-degenerazione poteva proporsi con pari legittimità e con altrettanta legittimità essere confutato, data la rozzezza degli strumenti scientifici disponibili (fisiognomica e antropometria) e quindi l'assoluta impossibilità di verificare le teorie di volta in volta proposte. Senza neppure tentare di riassumere una vicenda lunga e complessa, che ha dato luogo a interpretazioni non di rado contrastanti (The anatomy of madness 1985 e 1988; Passioni della mente e della storia 1989; Babini 1996), ci si può limitare a mettere in evidenza alcuni dei suoi tratti più salienti. In primo luogo, l'impostazione di Morel, pur abbracciando un campo già vasto di patologia somatica e di devianza psichica, si andò estendendo sempre più nei decenni successivi fino ad arrivare a comprendere, oltre alla 'debolezza mentale' e alle patologie psichiatriche e neurologiche, tutte le altre forme di devianza (Bulferetti 1975; Dowbiggin 1985; Roelcke 1997), invadendo dunque non solamente l'area criminologica, ma anche quella sociale e politica.

A spingere in questa direzione furono non solo le forze dichiaratamente conservatrici, ma anche quelle di ispirazione liberale che nei primi decenni dell'Ottocento si erano mosse nella prospettiva di una forma di progresso sociale, da realizzarsi pur sempre nella sostanziale accettazione da parte di ciascuna classe del proprio posto nella gerarchia sociale, e che avevano visto quella prospettiva fortemente scossa dai moti del 1848 e definitivamente travolta dall'eco delle drammatiche vicende della Comune di Parigi. Si guardò alle masse dei diseredati sempre più come a una forza selvaggia e primitiva, degna dell'una o dell'altra variante della stigmatizzazione degenerativa. Più avanti nel secolo, un fenomeno analogo caratterizzò il pensiero e l'opera di quei riformatori sociali che si richiamavano alle teorie scientifiche di C. Lombroso (Bulferetti 1975), sostenitore della pena di morte per i crimini più gravi e della custodia a tempo indeterminato per i delinquenti abituali 'alienati'. A questo allargamento di campo concorsero altre spinte, sia interne sia esterne ai settori scientifico-professionali coinvolti.

Una prima spinta venne, intorno alla metà dell'Ottocento, dall'esigenza sempre più avvertita dagli alienisti di sollevarsi da uno status di inferiorità rispetto a discipline in rapido sviluppo e ammodernamento, come la medicina con la quale la psichiatria tentò (maldestramente) di mettersi al passo, adottando modelli centrati sull'ereditarietà e sulla degenerazione, i quali avrebbero dovuto consentirle di superare la generica inconsistenza della nosografia sino ad allora prevalente, scimmiottando l'approccio sostanzialmente riduzionista e meccanicista della medicina e della fisiopatologia. Questa spinta divenne sempre più forte a causa di un duplice fallimento: da un lato l'impossibilità di fondare su base anatomopatologica i vari disturbi comportamentali che invece, nella gran parte dei casi, non si lasciano caratterizzare all'esame morfologico del cervello; dall'altro, l'evaporazione della tesi di un'effettiva terapeuticità dei manicomi e di altre istituzioni più o meno specializzate, in cui rinchiudere un numero sempre più elevato di soggetti con la finalità dichiarata della cura (Dowbiggin 1985; Saunders 1988).

Il modello ereditarietà-degenerazione consentì di tamponare la prima falla, spostando l'enfasi dalle alterazioni anatomiche alle deviazioni funzionali; nello stesso tempo, esso apriva la possibilità di distinguere tra soggetti irrimediabilmente tarati (i deboli mentali con deficit più marcati, i pazzi più gravi, i delinquenti abituali, classificabili anche come alienati in quanto ritenuti insensibili agli effetti delle pene a termine) e i soggetti in cui piuttosto una predisposizione favoriva l'azione patogena di cause ambientali e che erano pertanto ricuperabili. Per i primi era prevista la custodia in un regime di massima economia, con la possibilità di lavorare (Saunders 1988); ai secondi, invece, si riconosceva il diritto a un trattamento idoneo alla cura e alla riabilitazione, e all'eventuale remissione in libertà.

Il modello della degenerazione, è vero, era tutt'altro che compatto, variando per alcuni aspetti importanti da un autore all'altro. Se da un lato si riscontrò un sostanziale accordo, da Morel in poi, sul fenomeno del cumulo dei danni nelle generazioni successive, con il passaggio dalla normalità ai difetti lievi e infine alle varie forme di 'grande degenerazione' (Saunders 1988; Babini 1996), dall'altro lato si sosteneva ora l'unicità, ora la duplicità (o molteplicità) dei processi degenerativi, nel secondo caso separando nettamente i danni al patrimonio ereditario da quelli subiti in corso di sviluppo (o anche più tardi) per traumi, infezioni e abuso di alcol (Dowbiggin 1985; Tagliavini 1985). Va comunque notato come a tali teorie prive di solide basi non di rado corrispondessero pratiche terapeutiche, assistenziali ed educative di notevole originalità e valore, come quelle sviluppate per i minorati mentali da C. Bonfigli, M. Montessori e S. De Sanctis in base alla convinzione che si potesse promuovere una 'rigenerazione' (Babini 1996).

Un'ulteriore robusta spinta all'elaborazione teorica venne dal successo del modello darwiniano, che, a onta della notevole prudenza dello stesso Darwin (Browne 1985), introduceva un elemento longitudinale (evolutivo) nella caratterizzazione patogenetica della degenerazione, sino alle antropologie di Lombroso e di G. Sergi (Bulferetti 1975; Browne 1985; Tagliavini 1985). Qui per lo più si coniugavano, anzi, si confondevano il livello filogenetico - la nozione di arresto a una fase primitiva dell'evoluzione della specie umana, donde i termini di 'primitivismo' e di 'atavismo' - e quello dello sviluppo del singolo organismo, secondo la concezione haeckeliana di un'ontogenesi che ricapitola la filogenesi (donde la ricerca della fase dello sviluppo alla quale si è arrestato il degenerato). Ma il confronto (fisiognomico, antropometrico) non era istituito solo sul piano diacronico, con l'uomo primitivo e i suoi antenati scimmieschi, ma anche su quello sincronico, con i soggetti appartenenti alle varie razze umane, disposte in bell'ordine sino al culmine rappresentato dalla razza bianca. Con qualche forzatura in più, ciò consentì anche di identificare per la donna, meno frequentemente criminale dell'uomo, un equivalente della degenerazione maschile nella tendenza a prostituirsi, comprensibilmente più elevata tra le donne dei ceti meno abbienti che non tra le appartenenti agli strati più alti della società.

Il modello della degenerazione si prestava così anche ad ammodernare la vecchia e logora teorizzazione medico-psichiatrica dell'inferiorità femminile, che attribuiva l'isteria a una patologia degli organi genitali femminili, anche se si continuò a lungo a curarla con l'isterectomia, non di rado 'risolutiva' data l'elevata mortalità operatoria e postoperatoria sino a tempi relativamente recenti. La scienza consentiva così di legittimare allo stesso modo maschilismo, classismo, razzismo, fornendo le etichette per stigmatizzare i soggetti pericolosi per il corpo sociale, fossero essi alcolisti, sifilitici, epilettici, pazzi, delinquenti (ora deboli mentali ora alienati), con un avvertimento anche ai superdotati men che conformisti, assegnati a un limbo tra normalità e patologia. Sarebbe comunque errato e ingiusto fare delle generalizzazioni, come si può evincere da alcuni esempi significativi che illustrano, tra l'altro, il ruolo del carisma di vari protagonisti e, inoltre, documentano alcune importanti differenze tra vari paesi europei.

In una fase ormai tardiva del periodo in esame, lo psichiatra E. Morselli si batté sia contro l'organicismo più duro e totalizzante ('neurologismo'), recuperando spazio per i processi psicologici e sociologici da conciliare con quelli fisiopatologici, sia contro l'assimilazione nel calderone lombrosiano del degenerato pazzo e del degenerato delinquente (Guarnieri 1988).

In Germania, E. Kraepelin usò il suo grande prestigio per smontare l'antropologia criminale di Lombroso, sostenendo che la delinquenza è primariamente una malattia sociale (Stok 1989). Insomma, c'è organicismo e organicismo e quello di Kraepelin, pur con le sue rigide categorie radicate nella nosografia psichiatrica, non fu sempre così duro come spesso lo si rappresenta. Esso non solo lasciò spazio all'analisi fenomenologica accanto a quella meccanicistica, e quindi al ruolo dei processi psicologici e sociali, negando le assimilazioni totalizzanti (il che spiega il suo scarso successo in Italia, dove prevalevano gli psichiatri neurologisti), ma addirittura operò una radicale conversione proprio in campo psichiatrico. Pochi anni prima della morte, infatti, Kraepelin mostrò la tenuità delle evidenze a favore del modello categoriale delle malattie mentali assimilate a malattie mediche ben distinte l'una dall'altra, pronunciandosi a favore di un modello dimensionale, basato cioè su un continuum, privo di rigide linee di confine tra le psicosi maggiori.

Per contro, a Kraepelin va addebitata (Roelcke 1997) un'azione sistematica nel ridimensionare il ruolo delle cause ambientali a favore di quello della ereditarietà-degenerazione in varie forme di disturbo psichico (celebre la sua demolizione della 'neurastenia' intesa come esaurimento nervoso provocato dai ritmi imposti dalla vita moderna); nel diffondere il messaggio che la degenerazione, a differenza di quanto sostenuto da vari suoi predecessori, non è affatto autolimitante per ridotta fertilità dei soggetti colpiti, ma tende invece a dilagare per il mancato rispetto di ogni regola e, in particolare, a causa della propensione nei degenerati alla promiscuità sessuale; nel controbattere le tesi di avversari meno estremisti, come A. Hoche e O. Bumke, al punto da sfiorare il terrorismo psicologico e ideologico in tema di minacce incombenti sulla nazione e sulla razza, preparando così la strada agli allievi e continuatori coinvolti nell'olocausto, come E. Rüdin.

All'indomani del primo conflitto mondiale, si accentuarono le differenze tra paesi. In quelli di lingua inglese si ampliò ulteriormente lo spazio già in precedenza aperto alla sociologia e ai modelli psicodinamici sviluppati da S. Freud in poi, e si ridusse di conseguenza quello dominato dalle preoccupazioni per la degenerazione e dalle relative tendenze eugenetiche. Per contro in Italia, con l'affermazione del regime fascista, e in particolare con l'accorpamento degli insegnamenti di neurologia e di psichiatria secondo un indirizzo strettamente biomedico (Bignami 1989), i contrappesi forniti dalle discipline psicologiche e sociologiche vennero completamente a mancare e l'azione 'terapeutica' nei manicomi e altrove (psicochirurgia, terapie da shock, altri interventi di carattere più esplicitamente punitivo, come la piretoterapia) si fece particolarmente sistematica e spietata (Valenstein 1986). Pochi anni dopo, con l'avvento di Hitler al potere, ebbe inizio in Germania l'ultimo, breve ma intenso, atto del dramma dell'ereditarietà/degenerazione, così come era stato impostato verso la metà dell'Ottocento e poi rappresentato per oltre tre quarti di secolo, con un ulteriore allargamento di campo, esemplificato emblematicamente dalla proscrizione della cosiddetta arte degenerata. Finalmente il mondo e i suoi scienziati aprirono gli occhi e, in assenza di qualsiasi sostanziale cambiamento nelle evidenze scientifiche disponibili, rapidamente ripudiarono il modello della degenerazione.

Tuttavia non passeranno molti anni - gli anni della guerra fredda, della riconciliazione dell'Occidente con la Germania (dove tornarono in cattedra Rüdin e altri protagonisti dell'eugenetica e del genocidio), poi delle rivolte nei ghetti americani - prima che modelli assai simili siano riproposti in veste ammodernata in ambito psicologico, sociologico e psichiatrico (Psicobiologia e potere 1977; Rose-Lewontin-Kamin 1983). Ma normalmente (non sempre) si eviterà di usare il termine degenerazione: evocatore di orrendi fantasmi, esso è censurato e aggirato con un linguaggio più asettico, sia sulla scena scientifica sia nel discorso rivolto a un pubblico più ampio.

Bibliografia

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