CANTIMORI, Delio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 18 (1975)

CANTIMORI, Delio

Piero Craveri

Nacque a Russi (Ravenna), il 30 ag. 1904 da Carlo e da Silvia Sintini.

Il padre, insegnante e preside di liceo, autore di scritti su problemi scolastici e su Mazzini, fu repubblicano fervente, interventista, poi dannunziano. L'ambiente familiare e ancor più l'atmosfera tinta dai forti contrasti della vita civile romagnola, in mezzo a cui il C. passò la sua adolescenza, gli anni del ginnasio a Forlì e quelli del liceo a Ravenna, lasciarono una traccia profonda sulla sua sensibilità intellettuale, e costituirono l'originario e istintivo campo sperimentale del suo interesse continuo per il tema della "rivoluzione nazionale", che sarebbe filtrato, attraverso una costante e contradittoria evoluzione, dal binomio mazziniano di rivoluzione-repubblica nell'adesione giovanile a talune analisi sul rapporto tra strutture sociali e Stato, proprie della pubblicistica fascista e nazionalsocialista, e infine nel contributo del C. dopo la liberazione alle polemiche ideologiche della cultura di sinistra.

L'origine romagnola fu del resto un motivo di riflessione sentimentale costante nel C; così egli in una tarda pagina autobiografica ricordava come "in questo paese, piccolo, differenziato, stravagantissimo, anarchico, fuori dalle grandi idee statali e napoletane e via dicendo, in questa anarchia romagnola... l'istinto di prendere un bastone o un sasso o quello che si vuole, a un certo momento contro qualcheduno..., sia diventato istinto di vita civile italiana e sia diventato qualcosa di solido anche attraverso i vari contrasti politici, anche se queste differenze, questi contrasti, queste formulazioni possono dare indicazioni diverse" (Il mio liceo a Ravenna [1919-1922], in Ravenna una capitale, Bologna 1965, pp. 251 s.).

Nell'autunno del 1924 il C. vinse il concorso per un posto di convittore interno gratuito presso la Scuola normale superiore, iscrivendosi contemporaneamente alla facoltà di lettere e filosofia dell'università di Pisa, dove rimase fino al 1929, svolgendovi i quattro anni del corso ordinario e un anno di perfezionamento. In questi anni la formazione intellettuale del C. matura in comunione con i suoi interessi per la vita politica. Prima del Gentile fu l'insegnamento di G. Saitta, titolare della cattedra di storia della filosofia, a costituire per lui un punto di riferimento culturale, specie per la sua interpretazione del pensiero umanistico, in chiave nazionale e laica, come netta cesura rispetto alla metafisica teologica e ontologica medioevale; una interpretazione che, da un lato, coincideva con la sintesi delle riflessioni dell'hegelismo italiano sull'argomento, fatta dal Gentile, ma che, dall'altro, si colorava di quelle sfumature polemiche anticlericali, proprie di una corrente politica del fascismo, e che non a caso portarono il C. a collaborare al periodico Vita Nova, fondato da Arpinati e dallo stesso Saitta.

I suoi primi scritti significativi compaiono nel 1927 su Vita Nova, e danno inizio ad una collaborazione che durerà fino al 1932 e che dapprima testimonia la curiosità minuziosa ed attenta del C. verso tutti i fenomeni di avantgarde del movimento nazionale e fascista in Italia e in Europa, specie in Germania - dai Freikorps dell'immediato dopoguerra al tradizionalismo del principe di Rohan -, ma in cui si fa presto strada anche una riflessione più articolata sul tema del corporativismo, che pare al C. "sintesi dialettica", nel sistema sociale, "delle esigenze rappresentate dall'estremo rivoluzionarismo come dall'estremo reazionarismo" (Fascismo,rivoluzione e non reazione europea, in Vita Nova, VII [1931], p. 763). Riflessione, questa, che lo porta a stabilire un nesso costruttivo tra il potere dispositivo dello Stato e le tensioni materiali della società civile, nonché a cogliere queste ultime sempre in un modo mediato, attraverso le matrici ideologico-culturali, e più comunemente le sub-culture che esse esprimono. Per questa via il C. propone dunque una nozione di società civile, tutta circoscritta nella sue espressioni insieme spirituali e naturali, spesso irrazionalistiche, in cui le forze produttive non hanno alcuna rilevanza "dialettica" e l'ideologia corporativa può nascondere la natura dell'operazione politica che la sottende, cioè la totalitarizzazione del pluralismo socio-politico, contro alla prassi del mercato auto-regolato.

Così si spiega l'interesse che il C., già dai primi anni, porta verso l'opera del cattolico-conservatore, poi teorico del nazionalsocialismo, Carl Schmitt, l'adesione al programma culturale del Volpe e del Gentile, nel quale la nuova esperienza statuale del fascismo, con la sua vocazione autoritaria nazionale ed europea, veniva proposta come continuazione e coronamento di tutta la nostra storia nazionale; programma che, ad esempio, metteva l'accento sul carattere etico e missionario del pensiero mazziniano, come sublimazione del rapporto tra individuo e Stato, e ancorava a ciò una polemica anticapitalistica, antiborghese e antidemocratica, il cui approdo "rivoluzionario" pareva consistere nella proposta della "corporazione proprietaria" formulata dallo Spirito e dal Volpicelli, che proprio nell'ambiente della Normale aveva una delle sue casse di risonanza.

In questo ambito di dibattiti politici e culturali il C. mosse i suoi primi passi come studioso del Rinascimento con il lavoro su Il caso Boscoli e la vita del Rinascimento (in Giornale critico della filos. ital., VIII [1927], pp. 241-55), in cui è interessante il tentativo, attraverso la figura del Boscoli, di conciliare l'interpretazione dell'umanesimo data dal Gentile, come "momento estetico" dello spirito, con le aperture del Saitta verso una considerazione più complessa dei rapporti che intercorrono tra cultura, e vita civile. Il C. avrà modo di riproporre questa tesi in forma più distesa in un altro articolo, le Osservazioni sui concetti di cultura e di storia della cultura (in Scritti vari pubblicati dagli alunni della R. Scuola normale superiore di Pisa per le nozze Arnaldi-Cesaris Demel, Pisa 1928, pp. 29-43), ancora condizionato da un approccio scolastico alle discussioni di metodologia, di periodizzazione e concettualizzazione storica, ma già indicativo del suo travaglio intellettuale, per la complessità dei motivi, che il Croce definiva "meri aggruppamenti psicologici ed empirici" (recensione in La critica, XXVI [1928], p. 455), e che tuttavia testimoniano una vocazione intellettuale del C. alla ricerca storica, molto più complessa e mediata, che non quella dell'impegno culturale e politico, e sono il primo sintomo della scissione, tanto sofferta e sempre continuamente riproposta nella sua biografia, tra questi due momenti.

Sono motivi che torneranno a dispiegarsi, dopo la parentesi per lo più erudita dei due lavori su Bernardino Ochino,uomo del Rinascimento e riformatore (Pisa 1929)e su Ulrico von Hutten e i rapporti tra Rinascimento e Riforma (Pisa 1930), nel saggio Sulla storia del concetto di Rinascimento (in Annali della Scuola normale superiore di Pisa, s. 2, I [1932], pp. 229-68), in cui c'è chi ha voluto vedere il segno del suo "distacco dall'attualismo" (Miccoli, pp. 68 s.), ma che segna piuttosto la sintesi di un più ricco bagaglio di esperienze culturali e storiografiche.

In esso il C. partiva in realtà da una citazione testuale del Gentile, ovvero dall'asserzione che la conoscenza storica richiede sempre un "atteggiamento spirituale per cui questa realtà a cui ci rivolgiamo sia un concetto, e quindi un pensiero circolare: qualcosa di pensabile come un sistema già chiuso, norma del nostro pensare" (cfr. G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, II, Firenze 1959, p. 30), per proporre, come sua ulteriore riflessione, che "appunto per la necessità di tale processo, bisogna non moltiplicare i concetti, e rendere confusione la complessità della storiografia", ma "occorre liberare la storiografia dai concetti, miti o categorie di una falsa presenzialità, politica, pedagogica o propagandistica, che sono passati in essi dalla storiografia precedente". È certamente qui riproposta la distinzione obliterata dal Gentile tra "res gestae" e "historia rerum gestarum", ma senza nessun approdo, o anche partenza, da una qualsiasi riflessione gnoseologica, come cioè distinzione veramente empirica, pragmatica affermazione del "mestiere dello storico".

Solo se si tien conto di questa fragilità teoretica con cui il C. operò il suo distacco dall'attualismo, è possibile cogliere la svolta che andò maturando nella sua attività intellettuale tra il 1932 e il 1933. Nell'ottobre del 1931 si era trasferito come insegnante al R. liceo Ugo Foscolo di Pavia, da Cagliari, ove aveva insegnato nei due anni precedenti; ma già il mese successivo vinceva una borsa di studio ministeriale per l'estero e nel dicembre si recava a Basilea, trattenendovisi fino al luglio 1932.Qui si iscriveva alla facoltà di teologia, seguendo i corsi di E. Stahelind e di J. Wendland ed entrando anche in contatto col teologo protestante, antinazista, Karl Barth. Questo approccio diretto al mondo protestante acuì certamente nel C. l'esigenza intellettuale di approfondire le distinzioni concettuali e il significato storico specifico d'ogni esperienza collettiva o individuale di vita religiosa, d'ogni manifestazione di pensiero. La sua curiosità eclettica acquisiva sempre più l'abito concettuale dell'umanista erudito.

Tornato in Italia nel luglio del 1932, il C., per un anno, riprese la sua attività di insegnante al liceo pavese. Risalgono a quest'anno l'amicizia con Carlo Morandi, che lo mise in contatto con lo Chabod, allora impegnato nelle sue ricerche di storia religiosa dello Stato di Milano, e il suo incontro con due studiosi della scuola storica positiva, Baldo Peroni e Renato Sòriga, dalla cui conoscenza egli rileverà di avere "molto appreso". Nell'agosto del 1933 vinse una borsa di studio della Fondazione Volta e poté riprendere la sua esperienza di studi all'estero: lungo un anno egli fu a Coira, Zurigo, Salisburgo, Vienna, Cracovia, Breslavia, Berlino, Londra, Dublino, raccogliendo il materiale per il suo lavoro su gli Eretici italiani del Cinquecento, che sarebbe uscito nel 1939, e ampliando la cerchia dei rapporti personali e accademici. Tornato a Roma, nell'ottobre del 1934 il C. diveniva assistente presso l'Istituto italiano di studi germanici, addetto alla redazione della rivista e alla direzione della biblioteca stessa.

Si andava intanto operando in lui un processo di disincantamento dalla sua attiva partecipazione alla pubblicistica culturale-politica militante. La collaborazione che il C. dal 1933 incominciò a dare alla rivista Leonardo, interrompendo quella a Vita Nova, segna anche il suo passaggio da un intervento partecipe ai temi della "rivoluzione nazionale" a una riflessione più distaccata, una specie di rinuncia ad un approccio diretto all'ideologia, per passare attraverso la via mediata dell'approccio storiografico.

Gli scritti di commento e di analisi della pubblicistica nazionalsocialista che egli tra il 1933 e il 1940pubblicò segnatamente su Leonardo e su Studi germanici, e in numerose voci del Dizionario di politica, mostrano questa attitudine, quasi ossessiva, a storicizzare la vicenda nazionalsocialista in Germania (di cui sopravvalutava spesso la complessità delle motivazioni sociali, il valore della sublimazione nazionalistica, le componenti spirituali e religiose), cogliendo la svolta che si operava nel nazismo col passaggio da movimento a regime, per passare ad analisi e ad approfondimenti comparativi specie nei riguardi dell'esperienza del movimento bolscevico e dello Stato sovietico, senza tuttavia che tanta ricchezza di angolature visuali si traducesse in giudizio storico: giacché voleva evitare che si trasformasse troppo direttamente in giudizio politico.

Mantenendosi sul terreno d'una storia delle ideologie, il C. evitava di essere apologetico (sebbene in alcuni casi l'elemento apologetico fosse implicito nella scelta del tema, come ad es. per la recensione all'edizione italiana di Mein Kampf, in Leonardo, VI [1935], pp. 224-27, e quella a più scritti di Mussolini, ibid., VII [1936], pp. 256ss.) e così poteva, ad esempio, apprezzare la "nitidezza" delle costruzioni istituzionali di un Carl Schmitt, perché "senza indulgere agli equivoci di un cattolicesimo moderno e progressivo" aveva saputo richiamarsi agli ultimi grandi polemisti del cattolicesimo post-tridentino, al De Bonald, al De Maistre... a Donoso Cortes" (Lapolitica di C. Schmitt, in Studi germanici, I [1935], p. 473);come pure poteva osservare che dalla tradizione e del socialismo alla tedesca, secondo lo spirito tedesco, conforme alla tradizione, alla storia, al costume, ai sentimenti, alle esigenze psicologiche, economiche, geografiche, variamente naturali del popolo tedesco", attraverso una serie di mediazioni ideologiche, "trasse indubbiamente molta forza il nazionalsocialismo" (recensione a F. Schinkel, Preussicher Sozialismus,ibid., pp. 520 s.); ma doveva pur concludere che quest'ultimo era "l'unico movimento davvero politico nel mondo della destra rivoluzionaria" (rec. a W. Sombart, Deutscher Soz.,ibid., p. 601), anche se non passa poi al conseguente giudizio, appunto, storico-politico.

Non c'è dunque soltanto in questo mutare di toni e di accenti del C. un "distacco dall'attualismo", ma un più complesso e confuso distacco dalla politica, che tuttavia non voleva essere una rottura, ma una più ampia ricerca intellettuale intorno ai temi della politica: che è poi tratto comune a un largo settore dell'intellettualità fascista, dopo la caduta nel 1932 delle mitologie del corporativismo di sinistra. Per questa strada certamente il C. si poneva in modo diverso da Ugo Spirito. La sua recensione al libro di questo La vita come ricerca (in Giornale critico della filos. it., XVIII[1937], pp. 356-70) palesa la ormai conclusa opzione per un itinerario opposto, che non è quello di "intellettualizzare la vita, cosa brutta quanto la parola qui usata" (ibid., p. 368), ma quello di ricercare "la ricchezza delle determinazioni particolari", attraverso l'abbandono della "storia ideale eterna", in favore della ricerca storiografica, come ricerca del concreto sociale e spirituale. Il C. stesso, in alcuni suoi spunti autobiografici, si definirà a metà degli anni Trenta "hegeliano e semimarxista" (Nelle ombre di domani, introd. a J. Huizinga, La crisi della civiltà, Torino 1966, p. XVII), e altrove dirà che "già dal 1934 aveva studiato Marx e Lenin, cominciando a capire che il fascismo non era la rivoluzione italiana" (Diz. univ.della lett. ital.,ad vocem, scritta da lui stesso). La seconda riflessione autobiografica è forse più penetrante della prima. Il C. operava il suo distacco dalla politica facendosi studioso e storico della "rivoluzione nazionale", dispiegando un'attività intellettuale che si arricchiva di tutta la gamma policroma delle sue curiosità e conoscenze culturali, senza che il fondamento avesse più la pretesa di poggiare su una premessa teoretica, quale era stata precedentemente l'attualismo; cosicché hegelismo, semimarxismo, idealismo, positivismo - fosse quello della storiografia religiosa di Lucien Febvre o quello della sociologia tedesca - divenivano variabili metodologiche d'un unico concreto interesse storico per la "rivoluzione nazionale".

Questa operazione culturale dava frutti positivi quanto più l'interesse politico era mediato dalla ricerca storiografica. Anche gli studi di storia ereticale italiana si muovono infatti su questa falsariga. Introducendo il volume sugli Eretici italiani del Cinquecento. Ricerche storiche, Firenze 1939, egli avvertiva: "noi cerchiamo d'intendere la vita religiosa e morale di questo gruppo di eretici in funzione della storia della vita italiana" (p. 345).

Non che l'analisi del C. si fermasse qui; essa anzi partiva da una vasta esplorazione erudita e da una precisa conoscenza concettuale di quello che era stato il dibattito teologico tra i vari movimenti riformati in Europa, per trovarne i nessi con la cultura e la società italiana del Rinascimento. Poteva così stabilire quali rapporti intercorressero, ad esempio, tra il neoplatonismo di Marsilio Ficino o la filologia di Lorenzo Valla e la problematica teologica degli "eretici" italiani. Per questa via egli individuava nella polemica teologica una componente importante della tradizione umanistica italiana, come essa rappresentasse "lo sforzo compiuto... per non lasciare andare perduta la ricchezza spirituale, tramandata dalla tradizione, pure combattendo contro i cristallizzati rappresentanti della tradizione stessa, loro avversari, contro un sistema di dottrine, di educazione di organizzazione della vita etico-religiosa, che si trovava in piena decadenza di fronte ai propri principî e che impediva l'affermazione delle nuove idee e la soddisfazione delle nuove esigenze" (p. 7). Ma così stabilito un nesso interno tra umanesimo e Riforma, il C. andava oltre per fissare l'ulteriore rapporto tra teologia riformata e strutture politico-sociali. Qui, in polemica con il saggio del Croce su Un calvinista italiano: il marchese di Vico Galeazzo Caracciolo (in La Critica, XXXI [1933], pp. 81-104, 161-78, 251-65, 321-35), negava il carattere meramente "intellettuale" del movimento ereticale in Italia per cercarne la rilevanza sociale, sulla falsariga di quello che la Riforma aveva rappresentato nei paesi europei. Onde l'attenzione particolare portata agli anabattisti italiani, sottolineando la funzione sociale del loro cristocentrismo, fino a fare di questo nesso ideologico-dottrinale il denominatore comune di esperienze religiose diverse, che gli apparivano tutte racchiuse "nella speculazione cristologica che da una parte investe il dogma della Trinità, dall'altra le questioni sulla Chiesa, sulla comunità cristiana" (p. 29).

Per questa via egli poteva anche correggere immagini troppo frettolose del ruolo che gli italiani avevano svolto nel contesto della Riforma, osservando che il "carattere europeo" del loro contributo non derivava "infine solo pel fatto che questi esuli italiani si sparsero per tutta l'Europa, ma perché essi da questo fatto, ... dalla tradizione universalistica dell'umanesimo e della giurisprudenza italiana seppero trarre motivo ad elaborare idee fecondissime per la storia della cultura europea. Nel campo specificamente teologico-religioso, con lo spiritualismo razionale dell'antitrinitarismo, o unitarismo, che doveva svolgersi nel deismo, e nel campo a noi più vicino del diritto politico ed ecclesiastico, col concetto di tolleranza, con quello della aconfessionalità dello stato, e in quello della cultura, con l'abito del razionalismo spregiudicato fondato sulla coscienza etica, concorsero a tutta una corrente di idee dell'Europa moderna" (Recenti studi intorno alla riforma italiana e ai riformatori italiani all'estero [1924-1934], in Riv. st. it., LIII [1936], p. 97).

Gli Eretici italiani del Cinquecento fu preceduto e seguito da una copiosa serie di ricerche sulla vita religiosa italiana ed europea. Un tema che il C. non abbandonò neppure negli anni del secondo dopoguerra, quando altri interessi di ricerca si erano fatti preminenti. Vanno ricordati in proposito, tra gli altri, il volume sulle Prospettive di storia erericale italiana del Cinquecento, Bari 1960, la messe di minuti scritti raccolti in Studi di storia (Torino 1959), gli articoli su NiccolòMachiavelli,il politico e lo storico (in Storia della letteratura italiana, IV, Milano 1966, pp. 7-86), su Francesco Guicciardini (ibid., pp. 87-148) e su Le idee religiose del Cinquecento. La storiografia (ibid., V, Milano 1967, pp. 7-87), nonché larelazione presentata al X congresso internazionale di scienze storiche su La periodizzazione dell'età del Rinascimento nella storia d'Italia e in quella d'Europa (Firenze 1955, pp. 340-365), in cui l'angolo di visuale del C. si allarga alla storia del pensiero politico, e l'oggetto stesso della storia religiosa italiana si amplia. Infatti, per lo stimolo degli studi di H. Jedin, prendeva corpo l'interesse per il tema della Riforma cattolica (ed è strano notare in questo caso come lo studioso della Riforma non cogliesse nella Riforma cattolica nient'altro che una pagina storiografica della Controriforma), mentre, per le suggestioni delle ricerche di don Giuseppe De Luca, il C. era portato a una maggiore attenzione per le manifestazioni quotidiane di vita religiosa, e dava anch'egli un contributo all'"archivio storico della Pietà" - tema, questo, che, egli notava, non aveva interessato "i contemporanei dotti, né gli eredi di quelli" -, apportandovi nel contempo annotazioni critiche e di metodo, simili a quelle che in altra direzione rivolgerà alla scuola delle Annales, preoccupato di vedere così annullati i nessi ideologico-culturali che costituivano l'elemento portante della sua storiografia.

A proposito del programma di ricerca del De Luca egli, ad esempio, notava come "occorre fare attenzione al pericolo che... l'accentuazione, sia pur cauta, delle strutture…, diventi un semplice sottolineare i motivi comuni, tenda cioè a trasferire in quel periodo che fu di lotte e persecuzioni inesorabili, le odierne tendenze ecumeniche, tacite od espresse" (Prospettive..., p. 19).

Venti anni prima, commentando l'enciclica di Pio XII, Summi pontificatus (1940), il C. aveva polemizzato con la "prontezza ecclesiastica a prendere o a riprendere piede dove i dolori, sconfitte, sciagure stancano le idee e indeboliscono le convinzioni e sembra lascino libero il terreno...., verso l'invito alla penitenza e alla soggezione alle direttive della Santa Sede" (in Civiltà fascista, VII [1940], p. 198). Questa polemica con la Chiesa cattolica appare un motivo costante nel Cantimori. Ma il 1940, l'anno in cui egli scrisse queste pagine, e che fu anno di profondo turbamento della coscienza nazionale, per molti di scelte ideali e politiche che dovevano dispiegarsi poi dopo la Liberazione, acquista un significato più preciso. Al 1940 risalgono, infatti, i primi contatti del C., attraverso Antonio Amendola, con il Partito comunista italiano.

Il C., che nel 1936 aveva conseguito la libera docenza in storia della Chiesa e l'anno seguente ottenuto l'incarico dell'insegnamento di storia del cristianesimo, nel novembre 1939, vinto il concorso per la cattedra di storia moderna, era passato a insegnare alla Normale di Pisa. A seguire lo svolgimento della sua attività di polemista e studioso in quegli anni si nota un mutamento di temi e interessi, dapprima incerto - cosicché nel 1940 abbiamo gli ultimi scampoli della sua attenzione alla pubblicistica nazionalsocialista, assieme alle voci del Dizionario di politica su Weimar (Costituzione di) e Laburismo - mentrenel 1941 si volta decisamente pagina ed abbiamo la prima nota su Utopisti e riformatori sociali: Gracco Babeuf (in Popoli, I, [1941] pp. 473-76). Su questo tema nel 1943 a Firenze uscirà il volume Utopisti e riformatori italiani,1794-1847. Ricerche storiche, prima silloge di una serie continua di lavori che si allargherà, attraverso i Giacobini italiani (in Studi di storia, pp. 635 s.), a un minuto censimento "del ricordo scritto e pubblicato di aspirazioni, passioni, programmi... e problemi reali, forse ancora non maturi per una soluzione, ma già percepiti e sentiti e rozzamente espressi"(ibid.), in cui trasferirà il Leitmotiv delle sue ricerche sugli eretici, l'aver costoro "presentato per primi il problema politico sul piano sociale", il loro essere "illuministi che entrano in azione".

In questi anni ha anche rilevanza il rinnovarsi da parte del C. della polemica sull'idealismo, specie attraverso due recensioni a Carlo Antoni (rec. a La lotta contro la ragione, in Arch. st. d. Svizzera it., XVIII[1943], pp. 128-30, e la rec. a Considerazioni su Hegel e Marx, in Rinascita, III [1946], pp. 174 s.), alla polemica con l'Omodeo (rec. a Il senso della storia, in Rinascita, V [1948], pp. 422 s.) e indirettamente con il Croce.

A proposito del primo libro dell'Antoni il C. si domandava "se alla pura storia della storiografia interessano i procedimenti mentali più che le lotte reali, e se più dei soldati di Valmy che combattevano al grido di "vive la Nation" appaiono degni di considerazione i poeti aristocratici e pietisti, esaltatori della nazione elvetica e delle sue Alpi" (p. 129).

Accanto alle nuove ricerche sui riformatori e utopisti, si pongono dunque gli stessi spunti critici della sua polemica all'attualismo, intrisi della stessa indigenza teoretica, che ora però cambiavano disegno e pretendevano di divenire il contributo storiografico e metodologico per un approfondimento culturale della "via nazionale al socialismo", il nuovo approdo ideologico del C., in cui aveva convogliato i suoi originari interessi per la "rivoluzione nazionale".

Ma quello che rimane del C. comunista (fu iscritto al P.C.I. dal 1948 al 1956) è, probabilmente, la sua maggior fatica erudita, cioè l'accurata traduzione, in collaborazione con la moglie Emma Mezzomonti, del primo libro del Capitale (Roma 1951-52), senza che tuttavia questa acquisita consuetudine col testo marxiano gli fosse di alcun stimolo nei suoi scritti sul marxismo, consistenti in una nutrita serie di recensioni e note polemiche, e da un saggio su le Interpretazioni tedesche di Marx (in Studi di storia, pp. 139-227), che stupisce per il modo, perfino ingenuo, di polemizzare con le riduzioni neokantiane e positivistiche dell'opera marxiana, proprie dei dibattiti della II Internazionale, per affermare che "è ormai da ritenere assodato... che la interpretazione storicamente esatta del pensiero di Marx è quella di Lenin in Stato e Rivoluzione" (cfr. Kautsky e la "dittatura del proletariato", in Studi di storia, p. 247), e, al di là di ciò, senza cogliere le differenze che intercorrono tra il Marx "critico" e quello "precritico", fermandosi al generico convincimento, d'origine neoidealistica, che la "metodologia critica rimase quella elaborata negli anni giovanili e senza di essa non si può intendere pienamente neppure l'opera economica" (Interpretazioni..., p. 193).

Ma al di là di qualche dichiarazione di fede marxista-leninista nei suoi scritti la nuova milizia politica del C. fu interamente vissuta col "distacco" dello studioso, perché, come egli stesso osservava, "proprio per poterci pensare su senza irrigidimenti, uno si tiene lontano dalle responsabilità di rappresentante, esponente, dirigente, "autorità"", (Il mestiere dello storico, in Itinerari, IX [1962], pp. 58 s.). Collaborò intensamente a Rinascita e a Società, facendo delle polemiche storiografiche il suo contributo alla politica culturale del P.C.I. e fornendo la sua consulenza ai programmi editoriali della casa editrice Einaudi.

Anche al suo distacco dal P.C.I. il C. volle dare il taglio d'una polemica storiografica. Prese spunto dal X Congresso internazionale di scienze storiche, che si era tenuto a Roma nel settembre 1955, per rivolgersi pubblicamente al Manacorda e al Muscetta sulle colonne di Società (Epiloghi storiografici, in Società, XI [1955], pp. 945-60), stigmatizzando i toni propagandistici degli interventi degli studiosi dei paesi socialisti. Ne nacquero polemiche sul marxismo come metodologia storica, tra cui una lettera di un gruppo di giovani borsisti dell'Istituto di studi storici di Napoli, che si interrogavano sulla necessità di uno "storicismo materialistico", che postulasse una "storia effettiva e totale", a cui il C. rispose con una dura replica (Pro e contra, in Mov. operaio, VII [1956], pp. 312-19 per la lettera dei giovani marxisti, e pp. 320-335 per la risposta del C.), in cui bollava quelle pur ingenue formulazioni ideologico-culturali, che non riflettevano, invero un'istanza di conformismo, e di ortodossia, ma anzi una di chiarimento e di dibattito, con l'accusa di "zdanovismo culturale" che egli avrebbe potuto più utilmente impiegare agli inizi degli anni '50, quando Ždanov, anche nel P.C.I., era un'autorità.

Così, dopo il 1956, tornò a farsi interamente studioso, chiudendosi nella cerchia dei discepoli e degli storici. "Penso di rimettermi davvero al mio caro Cinquecento religioso", scriveva al De Luca nel settembre di quell'anno (Miccoli, p. 301); ed è intorno a questi temi che, come si è riferito, si incentrarono prevalentemente le ricerche che egli condusse negli anni successivi.

Il C. moriva a Firenze il 13 sett. 1966; e proprio in quel giro d'anni si può dire che la storiografia cessava di essere, nei dibattiti della cultura italiana, la sede privilegiata di riflessione politica e sociale, a cui egli aveva dato un contributo non secondario.

Fonti e Bibl.: I lavori pubbl. in vita sono elencati nella Bibl. degli scritti di D. C., a cura di L. Perini e J. A. Tedeschi, in Riv. stor. ital., LXXIX (1967), pp. 1173-1208 (ristampata, con aggiunte, in append. a G. Miccoli, D. C. La ricerca di una nuova critica storiografica, Torino 1970, pp. 375-412). Saggi metodologici e contributi vari del C. sono raccolti in: Studi di storia, Torino 1959; Conversando di storia, Bari 1967; Storici e storia, Torino 1971. Per il dibattito su aspetti particolari dell'attività del C. e per alcuni tentativi di valutazione complessiva: B. Croce, rec. a Osservazioni sui concetti di cultura e storia della cultura, cit., in La critica, XXVI (1928), pp. 454 ss., poi in Osservaz. critiche, IV, Bari 1951, pp. 140-143; W. Kaegi, rec. a Ulrico von Hutten e i rapporti tra Rinascimento e Riforma, pubblicato in Annali della Scuola normale super. di Pisa, XXX (1930), pp. 3-79, in Histor. Zeitschrift, CXLVI (1932), p. 400; B. Croce, rec. a F. C. Church, I riformatori ital. (Firenze 1935), in La critica, XXXIII (1935), pp. 223 s.; G. Ritter, Wegebahner eines aufgeklärten Christentums im 16. Jahrh. Bericht über neuere italien. Forsch., in Archiv für Reformationsgesch., XXXVII(1940), pp. 268-289; W. Maturi, Gli studi di storia moderna e contemporanea, in Cinquant'anni di vita intell. ital., Napoli 1950, I, pp. 272 s.; A. Caracciolo, Gli studi marxisti sull'Italia moderna, in L'Unità, 20 settembre 1956. Recensioni a Studi di storia, cit.: P. Alatri, C. e la storia, in Paese Sera, 10-11 aprile 1959; G. Berti, in Società, XV (1959), pp. 765-774; F. Diaz, in Il Ponte, XV (1959), pp. 1454-1457; A. Lepre, in Belfagor, XIV (1959), pp. 753-757; G. Manacorda, in Studi storici, I (1959), pp. 158-168; N.O., in Bibliothèque d'Humanisme et Renaissance, XXII (1960), pp. 456-460; C. Vasoli, in Annali d. Istituto Giangiacomo Feltrinelli, III (1960), pp. 768-778; G. Busino, C.Historien de l'homme et du prix de la liberté, in Journal de Genève, 10 luglio1961 (ora in Histoire et société en Italie, s.l. 1968, pp. 156-159); F. Diaz, La storiogr. di indirizzo marxista in Italia negli ultimi quindici anni, in Riv. critica di storia della filos., XVI (1961), pp. 331-53 (ora in Per una storia illuministica, Napoli 1973, pp. 35-64); W. Maturi, Interpretazioni del Risorgimento, Torino 1962, pp. 609-612; F. Diaz, La questione del"giacobinimo italiano", in Critica storica, III (1964), pp. 577-602 (ora in Per una storia illuministica, cit., pp. 465-495); A. Saitta, La questione del "giacobinismo italiano", in Critica storica, IV (1965), pp. 204-252; G. Manacorda, Ricordo di D. C., in Studi stor., VII (1966), pp. 639-643; E. Ragionieri, D. C.: un intellettuale appassionatamente partecipe dei problemi del suo tempo, in L'Unità, 14 sett. 1966; G. Spini, Per D. C., in Il Ponte, XXII (1966), pp. 1032-35; P. Spriano, D. C., in Rinascita, XXII (1966), p. 27; Corsi e seminari di D. C. (1935-66), a cudi G. Miccoli e L. Perini, in Belfagor, XXII (1967), pp. 284-306 (ristampato in appendice a G. Miccoli, cit., pp. 339-374); G. Dessì, Il professore di liceo,ibid., pp. 307-310; E. Sestan, Un vecchio amico,ibid., pp. 311-314; E. Garin, D. C.,ibid., pp. 315 ss. (ora in Intellettuali ital. del XX secolo, Roma 1974, pp. 171-213); I. Cervelli, rec. a Conversando di storia cit., ibid., pp. 359-369; W. Kaegi, Ricordo di D. C., in Riv. stor. ital., LXXIX (1967), pp. 883-901; M. Berengo, La ricerca stor. di D. C.,ibid., pp. 902-943; E. Cochrane-J. Tedeschi, D. C.: a historian (1904-1966), in The Journal of Modern History, XXXIX(1967), pp. 438-445; G. Miccoli, D. C., in Nuova riv. storica, LI (1967), pp. 531-620; LII (1968), pp. 521-630 (ora in D. C., cit.); E. Garin, D. C.e gli studi sull'età del Rinasc. in Ann. della Scuola norm. sup. di Pisa, s. 2, XXXVII (1968), pp. 221-232; E. Sestan, C. e i giacobini,ibid., pp. 233-240; L. Perini, G. Volpe e D. C.,ibid., pp. 241-248; L. Szczucki, D. C. e le ricerche ereticali in Polonia, ibid., pp. 249-257; S. Sechi, D. C. e la storiogr. marxista in Italia, in Il Mov. di liberaz. in Italia, XX (1968), pp. 3-39; A. Tenenti, D. C.storico del Cinquecento, in Studi storici, IX (1968), pp. 3-29; D. Caccamo, Il problema degli "eretici" del Cinquecento nella storiogr. ital., in Cultura e scuola, IX (1971), 38, pp. 113-129; I. Cervelli, Storici e storia nel pensiero e nella critica di D. C., in Belfagor, XXVII (1972), pp. 625-652; L. Paggi, Le forze storiche nel modello marxista di sviluppo, in Rinascita, XXX (1973), orain La ricerca stor. marxista in Italia, Roma 1974, p. 53.

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