Delitti contro la personalità dello Stato

Diritto on line (2012)

Andrea Sereni

Abstract

I delitti contro la personalità dello Stato rievocano, nella stessa definizione formale, il clima totalitario fascista in cui vide la luce il codice Rocco. I delitti di attentato, associativi e d’opinione, i delitti contro i segreti di Stato e del tempo di guerra sono contraddistinti tutti da un sensibile anticipo della punibilità. Ancor oggi questi reati appaiono in perenne bilico tra nuove esigenze securitarie e maggior attenzione per le ragioni del garantismo penale.

1. I delitti contro la personalità dello Stato nel codice Rocco

I progressivi innesti legislativi nel corpus dei delitti contro la personalità dello Stato hanno compromesso il già precario e discutibile ordine sistematico di questi reati così come concepito dal legislatore del 1930. Il titolo I del libro II del codice Rocco prevede una divisione interna in cinque capi: delitti contro la personalità internazionale dello Stato (artt. 241-275); delitti contro la personalità interna dello Stato (artt. 276-293); delitti contro i diritti politici del cittadino (art. 294); delitti contro gli Stati esteri, i loro Capi e i loro rappresentanti (artt. 295-300); disposizioni generali e comuni ai capi precedenti (artt. 301-313).

Uno spazio esiguo è accordato alla tutela dei diritti politici del cittadino: un solo articolo, il 294, che con formula ampia punisce l’impedimento anche parziale all’esercizio di un diritto politico mediante l’uso di violenza, minaccia o inganno. Le disposizioni del capo quinto, gruppo di norme all’apparenza eterogeneo e residuale del titolo I, contengono figure criminose d’indubbio rilievo primario, come la cospirazione politica mediante associazione, mediante accordo (artt. 304-305) e la banda armata (art. 306).

Discutibile tuttavia è soprattutto la distinzione tra personalità internazionale e interna dello Stato; appare incoerente, con la stessa ideologia totalitaria del ventennio, scindere l’unità dello Stato persona, quando distinguibili semmai sono i rapporti di diritto intrattenuti, secondo che riguardino le istituzioni interne ovvero le relazioni internazionali.

D’altro canto, il denominatore comune della «personalità» interna e internazionale non va oltre l’immagine di saldezza e ordine che lo Stato fascista voleva dare di sé dentro e fuori il paese; con ben scarsa idoneità di un simile interesse a porsi come bene di categoria utile alla ricostruzione dei limiti di punibilità del sistema. Né sembra all’altezza della modernità la tutela accordata agli Stati esteri. Nella scala gerarchica del codice essi appaiono posposti, in modo anacronistico, rispetto al retorico primato dello Stato italiano. Insomma, ci si trova dinanzi ad un insieme di reati che, in ragione anche dei vari interventi del legislatore e della Corte costituzionale solo parzialmente innovativi, risulta ormai frammentario e scarsamente ordinato. È comunque in piena epoca fascista che vede la luce l’attuale codice penale, in cui le figure criminose intitolate «contro la personalità dello Stato» aprono il catalogo dei delitti del libro II. Anzitutto il privilegio dell’apertura ha il senso di rappresentare al cittadino la chiara gerarchia dei valori dello Stato totalitario, dove la dimensione politica comprende tutto della vita individuale e sociale.

Al primo posto si colloca lo Stato, solo dopo vengono gli interessi della persona umana, con il conseguente superamento della concezione minimale e individualistica della «sicurezza dello Stato» fatta propria dal codice Zanardelli del 1889. Ora – come si evince dalla Relazione ministeriale sul progetto di codice penale – entra in gioco «anche tutto quel complesso di interessi politici fondamentali, di altra indole, rispetto ai quali lo Stato intende affermare la sua personalità. Codesti interessi, attraverso sfere gradatamente più ampie, vanno dalla saldezza e dalla prosperità economica al migliore assetto sociale del Paese, e persino al diritto di conseguire e consolidare quel maggior prestigio politico, che allo Stato possa competere in un determinato momento storico. La denominazione di delitti contro la sicurezza dello Stato avrebbe continuato a rappresentare la vecchia concezione, che invece si intende abbandonare». L’oggetto giuridico si trasforma però, in tal modo, in nulla più che «una metafora volta ad esprimere, in forma mistificata, l’effettivo elemento di raccordo del titolo, costituito dall’idea di una volontà politica superiore contraddetta da comportamenti concepiti come sintomi di disobbedienza». È la perpetuazione del modello della “lesa maestà”: lesa cioè come volontà superiorem non recognoscens.

Soprattutto i delitti che di più marcano l’anticipazione della punibilità, delitti di attentato, associativi e di opinione, rivelano l’ordito illiberale sopra detto. Così i delitti di attentato mancavano, e in parte mancano tuttora, di un riferimento all’idoneità dell’azione. Il paradigma del «fatto diretto a», ad es. artt. 241-285-286 c.p., veniva volutamente sganciato dai criteri dell’idoneità e della non equivocità degli atti previsti per il tentativo dall’art. 56. Se a questo si aggiunge il gigantismo dell’evento-fine delle principali di queste fattispecie criminose (menomare unità o indipendenza nazionale, suscitare una guerra civile ecc.), si capisce come il giudizio di pericolosità dovesse transitare da parametri di valutazione oggettiva a giudizi di valore più di stampo soggettivo. Ciò che contava era spegnere sul nascere, a prescindere dalla reale pericolosità del fatto rispetto all’obiettivo preso di mira, ogni proposito di ostilità, sovvertimento, ribellione o attentato all’assetto unitario dello Stato.

Riguardo ai delitti associativi, punibili secondo la legge «per ciò solo», a prescindere cioè dalla realizzazione dello scopo prefisso, emerge un modello associativo povero di elementi selettivi, che a mala pena si riesce a distinguere dal mero accordo criminoso. E infatti, non è ricavabile dal sistema un’indicazione strutturale di cosa sia l’associazione dal punto di vista dell’offensività (fatto in parte salvo, a seguito della l. 24.2.2006, n. 85 di riforma, l’art. 270 sulle associazioni sovversive e fatta parziale eccezione per la tipizzazione delle attività delle associazioni segrete di cui alla l. 11.8.1982, n. 17).

Manca ogni riferimento chiarificatore della struttura organizzativa, fermandosi le singole previsioni legali a una scansione di ruoli personali, promotore, organizzatore, semplice partecipe, avulsi da un qualsiasi contesto descrittivo della societas sceleris dal punto di vista, appunto, della sua organizzazione minima necessaria. Analogamente, è del tutto indefinita la soglia inferiore della responsabilità, rappresentata dal mero partecipare all’associazione.

Per le associazioni sovversive, per la banda armata e per l’associazione con finalità di terrorismo o di eversione di cui all’art. 270 bis introdotta nel 1979, non è indicato il numero minimo di persone che devono costituire l’associazione. Si ritiene quindi possano bastare due soli partecipi, con ciò svilendo ulteriormente la struttura del fatto. Non solo, in associazioni quali la cospirazione e la banda armata (artt. 305-306) è sufficiente che il sodalizio si ponga come programma un solo specifico delitto non colposo contro la personalità internazionale o interna dello Stato. Ne segue che le norme possano essere applicate anche ad organizzazioni così leggere da dissolversi subito prima della realizzazione del reato-scopo o talmente fluide da confondersi con il mero concorso di persone nel reato. Arduo, in tale prospettiva, risulta distinguere la cospirazione mediante associazione dalla cospirazione mediante accordo (art. 304). In termini mutuati dalla sociologia moderna, può dirsi che i delitti associativi contro la personalità dello Stato si pongono come antesignani di una concezione liquida dell’associazione criminale là dove un modello accettabile, da un punto di vista liberale, dovrebbe basarsi su un concetto di organizzazione criminosa solida.

Nell’impostazione del 1930, d’altra parte, i delitti associativi del titolo I del codice dovevano caratterizzarsi per la finalità illecita dell’associazione piuttosto che per la sua pericolosità oggettiva. Andava da sé che il reato associativo fosse tarato su una reazione repressiva forte contro movimenti politici antagonistici al regime fascista. Tale era la funzione del reato di associazione sovversiva (art. 270), destinato a reprimere gruppi socialisti, comunisti e anarchici. L’illiceità di queste associazioni non derivava dall’essere esse dotate di un apparato strumentale in grado di sovvertire o sopprimere l’ordinamento, ma ciò che rilevava era già il programma ideologico, in quanto contenente il germe teorico della violenza rivoluzionaria. Si attuava così una sorta di doppia anticipazione punitiva: non solo perché si puniva per ciò solo il fatto associativo, ma anche perché la punibilità veniva fondata sul fine del sodalizio (pericolo presunto), anziché su un pericolo concreto per le istituzioni derivante dalla forza materiale dell’associazione.

Lo stesso dicasi per i delitti di opinione: istigazione e vilipendio. Nell’istigazione di militari a disobbedire alle leggi (art. 266), il fatto ancor oggi si può esaurire nell’istigare alla violazione del giuramento o dei propri doveri disciplinari, quando l’istigazione comune concerne la provocazione di reati. In tal caso è tutelata l’intangibilità della sfera di autodeterminazione dei militari in un’ottica di fedeltà assoluta alla disciplina militare e allo Stato. Viene inibita qualunque dialettica critica con l’esterno, che implichi rischi di una qualsiasi disobbedienza.

Più in generale, tra i delitti politici la punibilità in via autonoma è ammessa per l’istigazione non solo pubblica ma anche privata (art. 302 c.p.). Inoltre, l’istigazione in origine veniva concepita a prescindere dalla sua concreta pericolosità ad essere da altri recepita ed attuata (profilo questo della concreta pericolosità valorizzato, in clima di restaurata democrazia, dalla Corte costituzionale solo attorno agli anni ’70); attribuendo ancora una volta una responsabilità per le opinioni «fuori legge» professate. Che dire poi del vilipendio, concepito come criminalizzazione del mancato rispetto dovuto alle Istituzioni. Un reato che rispecchia il senso di devozione formale assoluta che occorreva portare all’Autorità e ai suoi simboli rappresentativi, bandiera, unità nazionale ecc., e che rispecchia il metodo consueto dell’epoca di rinsaldare con la mordacchia della censura il prestigio delle figure istituzionali.

Infine, riguardo ai reati commessi in tempo di guerra, traspare una concezione attenta a tenere comunque saldi unità e spirito combattivo della Nazione. È emblematico come il reato di disfattismo politico (art. 265) comprenda la diffusione non solo di notizie false, ma pure di notizie «esagerate o tendenziose, che possano destare pubblico allarme o deprimere lo spirito pubblico o altrimenti menomare la resistenza della nazione», e includa non meglio definite attività tali «da recare nocumento agli interessi nazionali». La mancanza di parametri definitori del nocumento, e prima ancora il riferimento al mero carattere tendenzioso delle notizie propalate, fa intendere quale libertà abbia il giudice di reprimere anche la sola diffusione di previsioni negative, ancorché fondate, sulle sorti di una battaglia o, peggio, di una guerra. Del pari il concetto di intelligenza, e cioè di accordo illecito con il nemico (ad es. art. 265 c.p.) o con lo straniero (ad es. art. 243 c.p.) è volto a comprendere anche meri atteggiamenti soggettivi contrari all’«interesse nazionale».

In breve, i reati politici risentono della realtà dittatoriale del tempo in cui furono concepiti. L’importanza degli interessi in gioco, sicurezza e prestigio dello Stato, giustificano pesanti deroghe alle garanzie individuali previste nella stessa parte generale del codice Rocco per la criminalità «normale».

2. Costituzione e delitti politici

Dopo la caduta del fascismo, il sistema dei reati politici si confronta con la Costituzione del 1948. I delitti contro la personalità dello Stato sono destinati a mutare. In primo luogo, l’idea della tutela dello Stato in quanto unità inscindibile deve ora fare i conti, pur nella ribadita affermazione dell’unità e indivisibilità dello Stato, col riconoscimento delle autonomie locali (art. 5 Cost.). In secondo luogo, la carta costituzionale ammette limitazioni di sovranità, alla pari con gli altri stati, nella prospettiva dello sviluppo di organismi internazionali in grado di assicurare la pace a livello mondiale. In tal senso, si pone il ripudio della guerra come mezzo di offesa e di aggressione alla libertà degli altri popoli, nonché come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali (art. 11).

E poi, nella considerazione dei limiti di rilevanza dei delitti associativi e di opinione, diventa decisivo il raccordo con i diritti inviolabili della persona relativi alla libertà di associazione (art. 18) e di manifestazione del pensiero (art. 21), e con il limite del metodo democratico imposto ai partiti per concorrere legittimamente a determinare la politica nazionale (art. 49). Più in generale, diviene essenziale il confronto con i principi costituzionali dedicati alla materia penale: i principi di offensività e determinatezza del reato (artt. 13, 25) e di responsabilità personale (art. 27). Infine la Costituzione, stabilendo il divieto di estradizione dello straniero per reati politici (art. 10), evoca qui un concetto ristretto di tale nozione; un concetto, questo, tendenzialmente refrattario al diniego di cooperazione con altri Stati democratici, risultando estradabile lo straniero che non rischi, se estradato, un processo non imparziale.

Una prima ovvia riforma, a livello di legge ordinaria, è stata quella di cancellare i riferimenti alle istituzioni e agli organi politici del passato regime (come, in particolare, il Gran Consiglio del Fascismo con il d.lgs.lgt. 14.9.1944, n. 288), all’interno delle singole incriminazioni sostituendoli con organi e figure istituzionali della Repubblica. Così ad es. l’attentato al Re fu modificato dalla l. 11.11.1947, n. 1317 in attentato contro il Presidente della Repubblica (art. 276 c.p.); così come s’è poi introdotto un riferimento agli organi regionali non previsti sotto il regime fascista, in particolare nell’attentato contro organi costituzionali e contro le assemblee regionali (art. 289).

Se si passa però alla struttura delle figure di reato, e si guarda ai delitti associativi, i rilievi non sono confortanti. Qui infatti l’originario difetto di tipizzazione non solo non è stato eliminato dal legislatore, ma esso non è stato neppure adeguatamente compensato da interpretazioni evolutive conformi al principio di offensività, perché sono prevalse, anche in piena democrazia, le esigenze repressive contro l’invadenza della criminalità organizzata, in specie terroristica.

Per questo la struttura del reato associativo tuttora è deficitaria di materialità, continuando la giurisprudenza a ritenere sufficiente l’esistenza di un’organizzazione rudimentale, senza imporsi di verificare l’adeguatezza dei supporti strumentali alla programmata attività delittuosa, aderendo alla concezione della societas sceleris come fattispecie di pericolo presunto.

Tale orientamento consente inoltre la punibilità della semplice messa a disposizione del soggetto all’interno del sodalizio, senza bisogno di concrete estrinsecazioni del ruolo ricoperto. La condotta di partecipazione può limitarsi a una stabile relazione interpersonale, a carattere ad es. estremistico, con soggetti pericolosi, quali presunti terroristi o reclutatori di persone pronte a immolarsi alla causa terroristica, e derivare quindi la propria illiceità (art. 270 bis) dalla rete di contatti con questi soggetti; anche qui perdendosi di vista l’ancoraggio a indici obiettivi di concreta pericolosità.

Una svolta in termini di principio c’è stata tuttavia: il rifiuto della vecchia criminalizzazione delle associazioni in funzione dell’ideologia perseguita. Questa possibilità è apparsa sempre meno compatibile con i canoni democratici, in un processo di implementazione avvenuto non senza lentezze e resistenze, al temine del quale però non si è potuto non prendere atto che un’associazione politica non può essere punita in ragione del suo credo ideologico.

L’art. 18, co. 1, Cost. riconosce al cittadino piena libertà di associazione, salvo che per il perseguimento di fini che sono vietati ai singoli dalla legge penale, vietando altresì le associazioni segrete e quelle che perseguano, anche indirettamente, «scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare» (co. 2) (sulle associazioni segrete e militari, v., rispettivamente, l’art. 1, l. n. 17/1982 e art. 1, d.lgs. 14.2.1948, n. 43). Tale articolo va coordinato poi con la previsione del «metodo democratico» come fattore di legittimità della lotta politica ai sensi dell’art. 49 Cost.

Sì che il fine politico, pur in sé eversivo, non inficia il diritto di associazione finché il perseguimento del programma non travalichi il metodo democratico, e cioè la normale dialettica delle opinioni. Fatto salvo il limite ideologico imposto dalla Costituzione alla libertà associativa, e cioè l’ideologia del partito fascista (XII disp. tr. fin.), per il resto lo scopo associativo, ancorché astrattamente violento e/o eversivo/sovversivo, è dunque libero. Vietato penalmente, al singolo e all’associazione, è l’impiego di metodi che superino il rischio consentito segnato dalle tipiche offese alla libertà di autodeterminazione: violenza, minaccia, abuso di potere, inganno. Ecco perché, per le associazioni sovversive o terroristico eversive, occorre che il programma destabilizzante sia assistito dalla effettiva predisposizione, sia pure a livello preparatorio e organizzativo generale, di mezzi violenti di realizzazione del fine. Il passaggio dalla teoria alla (organizzazione dell’) azione violenta traccia il confine tra lecito e illecito penale (v. per la valorizzazione del connotato della violenza ex art. 270 c.p. anche per le associazioni neofasciste, Cass. pen., 3.10.1970, in Giust. pen., 1973, II, 628). Ciò presuppone però che l’associazione ponga concretamente in pericolo gli interessi dello Stato attraverso un’adeguata struttura criminale, in grado di realizzare violentemente il programma eversivo, altrimenti ragionando si tornerebbe a reprimere l’ideologia in sé, finendo nuovamente in attrito con l’art. 18 Cost. Ma allora emerge una contraddizione nel momento in cui le fattispecie associative politiche vengono prevalentemente ricostruite come reati di pericolo presunto, con il doppio corollario della sottovalutazione dell’elemento organizzativo e della sopravvalutazione del fine soggettivo dell’azione che, oltre a sbilanciare le fattispecie verso un diritto penale dell’infedeltà, finisce anche col contraddire il principio di tolleranza del dissenso.

Le ragioni della “perenne emergenza” hanno fatalmente ritardato un compiuto sviluppo nel modo di ridefinire anche i delitti di attentato alla luce della Costituzione. Certo, dopo una prima totale chiusura (Cass. pen., 19.6.1957, in Riv. it. dir. proc. pen., 1958, 137), si è compreso che questi delitti andassero armonizzati col principio di offensività e con la stessa concezione oggettiva del tentativo. Tuttavia, già i problemi insorti con gli attentati degli indipendentisti altoatesini fecero sì che l’allineamento ai principi garantisti procedesse lentamente e parzialmente, con un primo arresto giurisprudenziale significativo solo all’inizio degli anni ’70.

Così, ad es., nella ricostruzione dell’attentato all’integrità territoriale dello Stato (art. 241), pur intuendosi che il reato dovesse contenere in sé un qualche limite tacito imposto dal principio di offensività, nella forma dell’idoneità dell’azione a realizzare il macro evento della menomazione dell’unità statuale, ci si fermò tuttavia sulla soglia di un’ambigua distinzione, motivata peraltro da comprensibili ragioni di tutela della collettività e di prevenzione generale. La Corte di cassazione stabilì infatti che l’idoneità nel delitto di attentato dovesse intendersi non come idoneità in positivo ma come non inidoneità, con la conseguenza che la responsabilità poteva scattare anche in presenza della mera possibilità dell’evento-fine, là dove l’idoneità in positivo includeva la probabilità dell’evento, contrapponendo così una minima pericolosità (possibilista) a una maggiore concreta pericolosità (probabilistica) degli atti criminosi (Cass. pen., 18.3.1970, in Riv. pen., 1970, II, 974). Occorreva attendere la legge n. 85 del 2006 per vedere finalmente introdotti, in taluni dei delitti di attentato e in particolare proprio nell’art. 241, correttivi espliciti in senso garantistico della fattispecie, idoneità (in positivo) e violenza degli atti tipici (artt. 241, 283-289), e una revisione della pena nel segno di un più ragionevole compromesso tra mitezza e rigore.

Riguardo ai delitti di opinione, la strenua resistenza a un reale e profondo cambiamento in senso costituzionale ha ugualmente segnato la storia di questi reati. Non si sono avuti infatti radicali mutamenti nella politica criminale, basti ricordare che ancora persiste la punibilità dell’apologia, e che anche in tema di vilipendio la stessa riforma del 2006 citata, pur limitando la sanzione alla pena pecuniaria, ha tuttavia mantenuto in vita tali delitti. D’altra parte i delitti d’istigazione, così come quelli di vilipendio, sono stati sottoposti dalla Corte costituzionale a un’opera di revisione critica dell’offesa. L’evoluzione per le figure di istigazione è stata nel senso di richiedere la pericolosità concreta dell’azione istigatrice o apologetica, in modo da distinguere istigazione e apologia da una lecita manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.). Il giudice deve tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto, per verificare se la condotta fosse in grado di determinare il proposito dei destinatari di commettere il fatto oggetto d’istigazione. Peraltro, è chiaro come questo giudizio di prognosi postuma risulti, soprattutto per l’apologia, un’operazione altamente discrezionale. Il giudizio, poi, rischia di risultare ancor più vago per l’istigazione relativa a fatti non costituenti reato, come nell’istigazione di militari a disobbedire alle leggi. L’ampiezza dell’oggetto, qualunque legge o disciplina militari, si riflette negativamente sui limiti della stessa azione istigatrice. Qui tuttavia la Corte costituzionale si è premurata di distinguere la condotta punibile dalla critica «che invece realizza una forma di controllo democratico da parte dell’opinione pubblica», così salvando dall’illiceità la manifestazione e la propaganda per la pace universale, la non violenza, l’impegno per la riduzione della ferma, il sostegno all’obiezione di coscienza e alla riforma della disciplina militare (Corte cost., 5.6.1978, n. 71, in Giur. cost., 1978, I, 603). Resta però discutibile la scelta di non aver considerato illegittimo l’art. 266 là dove comunque estende l’istigazione a fatti non costituenti reato e non meno discutibile appare la concezione conservatrice della «difesa della Patria», individuata dalla Corte come bene protetto dall’art. 266 c.p.

Ancora a metà strada si è fermata la Corte costituzionale nel ritenere costituzionalmente legittimi i reati di vilipendio, sul presupposto che essi riguardino critiche rozze, immotivate, mosse solo da intento denigratorio, salvando dalla repressione penale viceversa la critica “colta”, ritenendo quest’ultima coperta dalla garanzia dell’art. 21 Cost. Anche qui è prevalsa, nella giurisprudenza costituzionale degli anni ’70, la preoccupazione di mantenere in piedi i capisaldi tradizionali della tutela delle istituzioni dello Stato.

Nel clima degli anni di piombo, delle stragi terroristiche che alludevano alla presenza di uno “Stato invisibile” e di servizi segreti deviati, non poteva mancare una revisione della disciplina del segreto di Stato, in direzione di una maggiore limitazione del potere di porre il segreto. L’art. 12, comma 1, della legge 24.10.1977, n. 801 modificava in profondità la nozione di «segreto di Stato» destinata espressamente a valere per le figure criminose contro i segreti di Stato (artt. 255 ss. c.p.). Dalla vecchia nozione, vaga e tautologica, desumibile dall’art. 256 c.p. per cui risultavano coperte dal segreto quelle notizie che, «nell’interesse della sicurezza dello Stato» o comunque «nell’interesse politico, interno o internazionale, dello Stato», tali dovevano rimanere, si passava a una nozione obiettiva più precisa, in forza della quale «sono coperti dal segreto di Stato gli atti, i documenti, le notizie, le attività e ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recar danno alla integrità dello Stato democratico, anche in relazione ad accordi internazionali, alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, al libero esercizio delle funzioni degli organi costituzionali, alla indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati ed alle relazioni con essi, alla preparazione e alla difesa militare dello Stato» (peraltro la recente riforma organica dei servizi informativi, l. 3.8.2007, n. 124, ha ristretto la nozione di segreto di Stato eliminando ogni riferimento alla tutela del libero esercizio delle funzioni degli organi costituzionali, mantenendo viceversa il richiamo alla tutela delle relazioni con gli altri Stati; rendendo oltre tutto, sotto altro riguardo, sempre più “indiziato” di abrogazione tacita il reato di rivelazione di notizie di cui sia sta vietata la divulgazione: art. 262 c.p.). La discrezionalità sul carattere segreto della notizia peraltro non è eliminata, occorrendo comunque formulare un giudizio sull’idoneità del documento o dell’atto a recar danno all’integrità dello Stato democratico (rectius della Repubblica, secondo la dizione ultima dell’art. 39 della legge n. 124/2007). L’art. 12, co. 2 stabiliva poi che in «nessun caso possono essere oggetto di segreto di Stato fatti eversivi dell’ordine costituzionale», cerchia ulteriormente allargata dal legislatore del 2007 ai fatti di terrorismo, strage e criminalità organizzata di tipo mafioso (art. 39, co. 11, l. n. 124/2007).

3. Terrorismo e sicurezza globale

Il codice penale in origine non prevedeva reati di terrorismo; è solo con lo Stato democratico, alle prese con la strategia del terrore a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 del novecento, che si provvede a reprimere il fenomeno. È inserito così l’art. 270 bis c.p. «associazione con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico» mediante l’art. 3 della l. 6.2.1980, n. 15, poi modificato, per far fronte al nuovo terrorismo globale, dall’art. 1, l. 15.12.2001, n. 438 in «associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico». Lo «scopo di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico», diventa, in base all’art. 1 della citata l. n. 15/1980, un’aggravante comune ad effetto speciale, mentre l’art. 2 della stessa legge introduce nell’art. 280 c.p. l’«attentato per finalità terroristiche o di eversione». Poco tempo prima, l’art. 2 della legge di conversione 18.5.1878, n. 191 aveva introdotto l’art. 289 bis c.p. «sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico».

In parallelo è introdotta una complessa disciplina della dissociazione dall’associazionismo terroristico (cd. pentitismo), riconoscendo forti diminuzioni di pena ovvero la non punibilità per chi recede dall’associazione, prestando attiva collaborazione per impedirne la prosecuzione dell’attività e la perpetrazione di ulteriori reati. Il sistema originario, del resto, già conosceva specifiche ipotesi di non punibilità fondate su eliminazione del pericolo e recesso attivo, per i delitti di cospirazione politica e di banda armata (arrt. 308-309 tuttora in vigore) nonché, per tutti i delitti del titolo I, una diminuente speciale, una sorta di valvola di depressione del sistema, derivante dalla lieve entità del fatto (art. 311) per circostanze, modalità dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo. Ora, le nuove ipotesi di rilevanza del pentitismo privilegiano oltre alla utilità della collaborazione processale, le obiettive manifestazioni di interiore distacco dal gruppo terroristico, a testimoniare «una sorta di pentimento civile» del singolo dissociato. Volendo sintetizzare tali interventi normativi, vanno ricordati: l’art. 4 della l. n. 15/1980, che introduce una circostanza attenuante speciale per il delitti commessi con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico (salvo quanto previsto dall’art. 289 bis c.p.). L’art. 1 della l. 29.5.1982, n. 304, che prevede una causa speciale di non punibilità che premia il distacco dal sodalizio o dall’accordo criminoso finalizzato al terrorismo o all’eversione dell’ordine democratico; gli artt. 2-3 della stessa legge che introducono riduzioni di pena legate al medesimo contesto; l’art. 5, che introduce un’ulteriore causa di non punibilità legata al recesso attivo con riferimento a ipotesi tentate di delitti aventi finalità di terrorismo o di eversione; infine, a chiusura dei conti con la stagione del terrorismo attraverso una politica di riconciliazione, interviene la l. 18.2.1987, n. 34 (Misure a favore di chi si dissocia dal terrorismo), che prevede una fattispecie di ravvedimento dissociativo centrata sul «ripudio della violenza come metodo di lotta politica» (art. 1), corredata da un sistema graduale e articolato di commutazione e diminuzione della pena (art. 2).

Di questo complicato tessuto normativo, insieme repressivo e premiale, alcuni aspetti vanno rimarcati. Anzitutto i modelli tradizionali dell’anticipazione punitiva, in primis reati di attentato e reati associativi, usati e abusati durante il fascismo, ottengono una sorta di legittimazione postuma. Così l’art. 270 bis ripete gli stessi difetti delle altre figure associative che lo precedono storicamente. L’attentato per finalità di terrorismo o di eversione (art. 280) ripete la stessa disarmante povertà descrittiva dei paradigmi normativi precedenti. L’emergenza-terrorismo finisce col giustificare, anche in tempi di democrazia, una decisa caratterizzazione in senso preventivo del sistema penale. Il reato politico della modernità torna alla sua origine storica extra ordinem, derogando al diritto penale ordinario. La disciplina della premialità ricalca all’opposto la medesima logica eccezionale di rottura della consequenzialità/proporzione reato-pena, determinando una vistosa e controversa asimmetria del sistema rispetto al principio di eguaglianza di trattamento.

Il devastante attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001 e poi quello alla stazione ferroviaria di Madrid dell’11 marzo 2004, e ancora alla metropolitana di Londra del 7 luglio 2005, hanno messo in discussione la stessa sicurezza mondiale, ponendo al primo posto dell’agenda internazionale la guerra al terrorismo. La modifica nel 2001 dell’art. 270-bis del nostro codice, con l’espresso richiamo al terrorismo internazionale, recepisce la nuova dimensione globale del terrore, consentendo di applicare le fattispecie ai fatti associativi volti alla perpetrazione, anche fuori dei confini nazionali, di atti terroristici «contro uno Stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale».

Nel frattempo, la logica dello stato di eccezione viene scopertamente teorizzata dal penalista tedesco G. Jakobs, il quale, all’indomani dell’attentato a New York del 2001, propone di distinguere tra un diritto penale del nemico e un diritto penale del cittadino. Il terrorista islamico che combatte la civiltà occidentale per distruggerla, non avrebbe diritto alle garanzie riconosciute al cittadino, nella misura in cui quest’ultimo comunque si riconosce nella nostra civiltà. Di qui, la possibilità di derogare ai principi ordinari di tutela dell’accusato nei confronti del nemico, e di qui ancora un modello penale il quale, anziché favorire l’inclusione della persona nella cd. società multietnica, alimenta in realtà un conflitto permanente tra le diverse culture religiose. La concezione jakobsiana è rimasta tutt’altro che una teoria isolata, in quanto soprattutto negli Stati Uniti d’America la risposta ai fatti dell’11 settembre si è risolta in una dichiarazione di guerra al terrorismo islamico seguita dall’invasione dell’Afghanistan, dell’Iraq, e assecondata da una normativa antiterroristica (Patriot Acts) non poco comprimente i diritti umani, con forte inasprimento delle misure di polizia (più largo impiego d’intercettazioni di comunicazioni senza autorizzazione preventiva del giudice, perquisizioni ecc.). L’irrompere del paradigma della guerra ha d’altra parte assai influito sul diritto penale anche dei paesi europei, comportando un suo adeguamento alla logica del conflitto e la sua coabitazione con un nuovo arsenale preventivo (dall’espulsione dei cittadini stranieri sospettati di terrorismo, alle intercettazioni preventive e ai maggiori poteri accordati al governo e ai servizi di intelligence; si veda l’art. 4, d.l. 27.7.2005, n. 114, cd. “decreto legge Pisanu”, convertito con modificazioni nella l. 31.7.2005, n. 155).

Il terrorismo, inoltre, ha finito con l’inglobare altre finalità criminali affini. Ai sensi dell’art. 270 sexies c.p. (introdotto con il d.l. n. 114/2005, convertito, con modificazioni, nella l. n. 155/2005), la finalità di terrorismo ha invero fagocitato i fini di eversione o sovversione dell’ordine democratico. L’espansione che questa norma consente alla qualificazione di atto con finalità terroristica fa sì che lo spargimento del terrore non è più da intendere come elemento indefettibile di fattispecie rispetto alla finalità di destabilizzazione dello Stato, rendendo superflua ormai l’associazione sovversiva di cui all’art. 270 c.p. Il che peraltro comporta anche indubbi vantaggi laddove l’art. 270 sexies, nel prevedere che la condotta con finalità di terrorismo possa «arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale», impone finalmente che la figura associativa ex art. 270 bis e poi le figure limitrofe previste dagli artt. 270 ter (assistenza agli associati), quater (arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale) e quinquies (addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale) siano tutte interpretate in linea col principio di offensività, come altrettante ipotesi di reato di pericolo concreto e non più presunto.

4. Conclusioni

L’arcipelago dei delitti politici ha bisogno di un riordino all’insegna del principio di extrema ratio. Per questo servirebbe una riforma organica in grado di riportare la materia in piena armonia con i principi costituzionali, in particolare estendendo espressamente i criteri d’idoneità e univocità a tutte le figure di attentato, rivedendo la struttura dei delitti associativi, eliminando figure ormai superflue di associazione, ulteriormente selezionando i reati di opinione, eliminando infine ogni carattere retorico residuo d’impronta fascista.

Fonti normative

Artt. 5, 10, 11, 18, 21, 25, 27, XII disp. tran. fin. Cost.; artt. 241 ss. c.p.

Bibliografia essenziale

Gamberini, A., Delitti contro la personalità dello Stato, in AA.VV., Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, Bologna, 2009; Marconi, G., I delitti contro la personalità dello Stato. Profili storico sistematici, Milano, 1984; Padovani, T., Bene giuridico e delitti politici. Contributo alla critica ed alla riforma del titolo I, libro II c.p., in Bene giuridico e riforma della parte speciale, a cura di A. M. Stile, Napoli, 1985, 225 ss.

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