DELITTO

Enciclopedia Italiana (1931)

DELITTO (lat. delictum, da delinquo "abbandono")

Mario CABASSI
Ugo CONTI
*
Raffaele Corso

Nel suo significato più generico delitto è il fatto di chi "abbandona" con un solo atto la via tracciata da una norma canonizzata. In questo senso è delitto qualsiasi infrazione delle leggi direttive della condotta umana, e solo in questo senso si può parlare di delitto presso i popoli primitivi (v. qui appresso).

Il diritto, naturalmente, considera come delitto la violazione della legge risultante da un atto esterno dell'uomo, positivo o negativo. Il codice penale italiano qualifica genericamente tutte le violazioni della legge penale come reati e distingue questi in "delitti" e "contravvenzioni" (v.); ma il criterio cui il codice fa appello per discriminare queste due specie di reati è unicamente quello della "diversa specie di pene per essi rispettivamente stabilite" (art. 39) non già quello che ha riguardo al carattere del reato; perciò una trattazione speciale del delitto penale trova luogo più opportunamente alla voce reato.

Delitto presso i primitivi.

Il tabu contiene, insieme con le elementari norme giuridiche, la nozione del delitto e della pena. L'impurità nella quale incorre l'individuo, che abbia infranto l'interdizione, caratterizza l'atto criminoso e presuppone una serie di pratiche espiatorie. Le restrizioni che alcuni incivili impongono all'uccisore d' un compagno pare siano dovute, secondo il Frazer, al timore della persecuzione dello spirito della vittima. Tra gli indiani Omaha dell'America Settentrionale, i parenti dell'ucciso hanno il diritto di mettere a morte l'assassino, ma spesso gli risparmiano la vita imponendogli severe limitazioni nella libertà dei proprî atti, per il periodo di due o quattro anni, e cioè, di stare isolato e sempre avvolto nel mantello, a capo scoperto e con le mani ai fianchi, di non pettinarsi, di non prendere cibi caldi, di non alzare mai la voce, di non gesticolare, di non guardarsi all'intorno. Concepito sotto l'impero delle idee magico-religiose, come violazione del "sacro", il delitto a poco a poco si spoglia dell'originaria veste superstiziosa, delineandosi come infrazione sociale. Tuttavia, nelle inferiori forme d' organizzazione, non si distingue fra la lesione di carattere civile e la lesione di carattere penale; in tali forme d'organizzazione una sola è la sfera del diritto, che abbraccia e confonde le azioni delittuose sia che apportino danno alle persone, sia che offendano l'onore, sia che profanino le cose del culto. E può accadere anche che un fatto giudicato criminoso per un gruppo (p. es. il furto) non sia considerato tale per un altro.

La responsabilità e l'imputabilità astraggono dal concetto della colpa, e spesso non distinguono fra la colpa e il caso. Ciò che qualifica l'entità del delitto è il danno, e ciò che emerge nella pena è la riparazione. L'atto caratteristico in tale fase delle istituzioni punitive è la responsabilità solidale, la quale, secondo il Lévy-Bruhl, deriva dal principio mistico o prelogico che determina l'identità spirituale o la comunità d'essenza fra i componenti un gruppo. In forza di tale solidarietà il delitto del singolo è espiabile dall'intero consorzio, o dal capo che lo rappresenta. Questo principio non regola soltanto i reati di sangue, onde il gruppo gentilizio dell'ucciso si arma alla vendetta contro il gruppo dell'uccisore, ma anche i reati contro la proprietà, giacché, nel pensiero dei primitivi, le "cose" o "appartenenze" sono considerate come parte integrante della persona. Asportare o togliere un oggetto dall'altrui patrimonio significa non solo diminuire il compendio economico del proprietario, ma tentare un maleficio contro l'esistenza del derubato. La stregoneria, a scopo malefico, è uno dei più temuti e pericolosi delitti per i popoli primitivi, i quali hanno per essa pene gravi, che vanno dalla proscrizione alla schiavitù dello stregone (Negri della Costa d'Oro, Neoguineani, Daiaki, ecc.) e perfino alla distruzione della sua casa, dei suoi beni, della sua famiglia. La licantropia rientra nell'ordine dei delitti stregonici. L'uomo-iena, l'uomo-tigre e simili concezioni, considerate come l'effetto di operazioni magiche, sono puniti nei supposti autori.

Sebbene siano ancora oscuri i motivi che determinano la condanna dei bruti per atti criminosi, purnondimeno non sembra a qualche etnologo infondata l'idea dell'Amira che considera il processo agli animali come un processo magico contro gli spiriti. Presso talune tribù dell'India l'uomo ucciso da una tigre va vendicato o con l'uccisione dello stesso animale o di altro della specie; come pure, l'uomo che sia morto cadendo da un albero deve essere vendicato abbattendo la pianta.

I delitti di sangue sono dappertutto, nel mondo degl'incivili, fra i più gravi. Non è tuttavia delitto l'uccisione per vendetta di sangue, o l'omicidio d'un proscritto o d'uno straniero, o l'omicidio per la conquista del cranio-trofeo (cacciatori di teste), come non lo è l'uccisione del figlio, della moglie, del servo, in virtù del diritto potestativo. Alcune tribù del Congo Belga non giudicano crimini il parricidio e il fratricidio; anzi ammettono che l'uccisore possa concorrere all'eredità del padre e del fratello e possa anche sposare la moglie di questi. Comunemente si ritiene che il sangue versato esiga riparazione, giacché lo spirito dell'ucciso non si placa o non cessa dal molestare i supentiti finché la testa dell'uccisore o quella d' un individuo del suo gruppo non sia caduta. La vendetta (v.) sorge come fatto espiatorio e si svolge nel corso del tempo in varie forme, tra cui l'ammenda e la composizione pecuniaria.

Nel costume della vendetta è già abbozzato lo ius talionis: la mano che ha commesso l'oltraggio deve essere troncata; la lingua che ha calunniato deve essere strappata, giusta il principio "occhio per occhio, dente per dente", che con il volger del tempo si risolve in una casuistica, nella quale sono stabilite la maggiore o la minore gravità delle lesioni e la compensazione per ciascuna di esse. In taluni luoghi si tien conto, nel determinare l'entità del reato, della condizione sociale del ferito e del feritore, onde se gravissimo delitto sono le ferite inflitte da un individuo di classe inferiore a un altro di classe elevata, lieve sono ritenute quelle inflitte da un personaggio elevato a un essere di classe plebea.

L'adulterio, presso varî popoli, è equiparato al furto. Punito nella donna, esso è ordinariamente impunito nell'uomo, o tutt'al più obbliga questi a un'ammenda. Sotto l'impero del diritto gentilizio questo reato può condurre a una guerra del sangue tra due genti, e qualche volta la dnnna colpevole soggiace al giudizio domestico, che può emettere sentenza di morte, come presso alcune popolazioni oceaniche, presso i Somali e altre genti. Il diritto primitivo non ignora l'incesto specie se il gruppo sia uno di quelli esogamici. Essendo riguardato come un maleficio, che tocca l'intera tribù, apportatore di epidemie, di carestie, di sterilità nelle donne, esso va punito con la soppressione dei delinquenti, come offerta espiatoria alle entità offese, e talvolta, come avviene presso i Daiaki, va purgato con il sacrificio d'un bufalo.

Quando la concezione magico-sacra del delitto tramonta, l'idea della responsabilità si fa chiara, e si vengono a precisare le figure dei varî reati. Il diritto penale entra allora in una nuova fase, sebbene le tracce delle vecchie superstizioni persistano, dove più, dove meno.

Bibl.: J.G. Frazer, The Golden Bough, II: Taboo and the perils of the soul, 3ª ed., Londra 1914; G. R. Steinmetz, Ethnologische studien zur ersten Entwicklung der Strafe, Groninga 1928; B. Malinowski, Crime and custom in savage society, Londra 1926; G. Wundt, L'evoluzione del diritto penale, nel vol. La psicologia dei popoli, trad. it. Anchieri, Torino 1929; A. E. Post, Giurisprudenza etnologica, trad. it. Bonfante e Longo, II, Milano 1908, pp. 155-432; E. Westermarck, Der Ursprung der Strafe, in Zeitschrift. f. Sozialwiss., III, p. 685; M. Mauss, La religion et les origines du droit pénal, Parigi 1897; L. Lévy-Bruhl, La mentalité primitive, Parigi 1922, pp. 203-292.

Delitto civile.

Il termine "delitto civile" non ha significazione univoca presso gli autori, i quali, pur concordando nel darne una definizione negativa, nel senso di qualificare come delitto civile ogni fatto illecito che non comporti conseguenze penali, ma semplici conseguenze civili (fra le quali tipico l'obbligo del risarcimento del danno), sono di opinioni diverse quando, entro la grande categoria dei fatti illeciti, si tratti di distinguere con un nome le varie specie. Generalmente si comprendono fra i delitti civili solo gl'illeciti extracontrattuali cioè quei fatti antigiuridici, che, non costituendo inadempimento di un'obbligazione preesistente, sono illeciti in sé e per sé, a danno di chiunque siano compiuti.

È noto che un danno in senso giuridico si può avere tanto in relazione a un comportamento colposo quanto in relazione a un comportamento animato da intento maligno. Ora una gran parte degli autori, conformandosi alla dottrina francese, chiama delitto l'illecito doloso e riserva il nome di quasi-delitto all'illecito colposo. Altri invece, accostandosi a quella che pare sia stata la dottrina delle fonti romane, respinto il criterio di distinzione dato dalla colpa e dal dolo, chiama delitti i casi di responsabilità per fatto proprio, quasi-delitti i casi in cui determinate persone sono chiamate a rispondere per fatti altrui: così ad es. genitori, tutori chiamati a rispondere per danni arrecati, anche senza colpa, da persone sottoposte alla loro autorità: committenti per fatti dolosi o colposi compiuti dai loro commessi nell'esercizio delle mansioni loro affidate (art. 1153 cod. civ.). Siccome però il nostro codice, non definisce né il delitto né il quasi-delitto, e, in materia extracontrattuale, a differenza di altri codici, non statuisce conseguenze diverse per l'illecito colposo e per quello doloso (l'antitesi posta da taluni codici stranieri si ha veramente fra il dolo e la colpa grave da un lato e la colpa lieve dall'altro) così il contrasto non ha importanza pratica e verte sulla pura terminologia. Del resto modernamente si è propensi ad abbandonare il termine di delitto civile come quello che, alludendo al concetto di pena civile, si richiama a ordinamenti giuridici di gradi di civiltà sorpassati.

Nel diritto romano antico non esisteva una norma generale che, come l'art. 1151 del nostro codice civile, reprimesse qualunque fatto. illecito e dannoso, ma esistevano soltanto norme singole, che in casi ben definiti e concreti reprimevano certi fatti, corrispondenti a singoli delitti tipici. Questi si differenziavano dal fatto illecito dei diritti moderni essenzialmente per i seguenti caratteri: innanzi tutto si prescindeva completamente dall'indagare se la violazione del diritto altrui fosse avvenuta per colpa o per dolo dell'autore dell'illecito; anche la violazione incolpevole era repressa; in secondo luogo, la violazione traeva con sé non già un semplice obbligo al risarcimento del danno, ma l'obbligo al pagamento d'una pena a favore del danneggiato, pena che era stabilita per lo più in un multiplo del danno sofferto, era posta nell'esclusivo interesse dell'offeso, né aveva la finalità superiore di emendare il reo e di ristabilire l'ordine sociale turbato. Data la natura strettamente personale della pena, questa non passava agli eredi.

Ora, attraverso una lunga trasformazione, il concetto di delitto civile è assurto a categoria generale, ha incluso in sé il requisito della colpa (in senso lato, cioè la colpa propriamente detta e il dolo) e definisce una numerosissima serie di atti dannosi e lesivi del diritto altrui per i quali però l'unica sanzione è data dal puro e semplice obbligo al risarcimento del danno, senza alcun carattere penale, obbligo volto unicamente a restaurare il patrimonio del danneggiato. Il diritto al risarcimento ha natura esclusivamente patrimoniale, ed è perciò trasmissibile senz'altro agli eredi. D'altro lato gran parte di quei fatti che una volta erano considerati come delitti privati, con l'estendersi delle funzioni dello stato, oggi nel pubblico interesse sono repressi dal diritto penale.

Bibl.: G. Giorgi, Teoria delle obbligazioni, V, Firenze 1912, n. 137 segg., p. 214 segg. e spec. n. 141, p. 230; R. de Ruggiero, Istituzioni di diritto civile, 5ª ed., II, Messina 1930, par. 102, p. 488 segg.; Zachariae-Crome, Manuale del diritto civile francese, trad. L. Barassi, II, Milano 1907, par. 414 segg., p. 752 segg.; G. Rotondi, Dalla "Lex Aquilia", all'art. 1151 cod. civ. Ricerche storico-dogmatiche, in Riv. dir. comm., 1916, I, p. 942, 1917, I, p. 236; G. Brunetti, Il delitto civile, Firenze 1906; A. von Thur, Der allgemeine Teil des deutschen bürgerlichen Rechts, II, Monaco e Lipsia 1918, libro 3°, par. 88; L. Enneccerus, Lehrbuch des bürgerlichen Rechts, 18ª-22ª ed., Marburgo 1922, parte generale, I, parte 1ª, par. 195; A. Colin-H. Capitant, Cours élémentaire de droit civil français, II, Parigi 1929, p. 362 segg.

Delitto politico.

Chiarissima fu per i Romani la necessità di garantire lo stato dalla distruzione, e dalla distruzione degli organi fondamentali della sua sovranità. Ma essi pensarono anche di colpire preventivamente i conati dell'attività delittuosa tendente alla sua distruzione. Hoc nisi provideris ne eveniat, ubi eveniat frustra iudicium implores. Nei reati di maestà si considera come sufficiente alla pena la tendenza contraria alla costituzione o alla sicurezza dello stato. Cuius opera dolo malo consilium initum erit, quo obsides iniussu principis interciderent; cuius opera consilio dolo malo consilium initum erit quo quis magistratus populi romani quive imperium potestatemve habet occidatur (Ulp., Dig., XXXXIII, 4, ne vis,1). Ogni atto ostile allo stato, compiuto da un cittadino, e che come tale offenda la maiestas populi romani, è assunto, al tempo di Silla, da una lex Cornelia maiestatis, sotto i termini del crimen maiestatis, deferito al giudizio di un'apposita quaestio. La separazione fra l'antica perduellio e il crimen maiestatis nello scorcio della Repubblica, o all'inizio dell'Impero, giuridicamente e di fatto è scomparsa. La lex Iulia de maiestate di Cesare e di Ottaviano assorbe nei termini del crimen maiestatis tutti gli atti già contemplati dalla lex Cornelia, ed il vocabolo perduellio ha perduto ogni valore tecnico e specifico, e si piega a significare alcune specie particolari del crimen maiestatis reputate più gravi. Ma a render più comprensiva ancora la lex Cornelia de maiestate intervenne la lex Plautia, la quale configurò come titolo d'un nuovo crimen, il crimen vis, alcuni atti di coercizione esercitati sulle persone di magistrati o di senatori; il porto d'arma nei luoghi pubblici a fine d'intimidazione; la partecipazione ad aggruppamenti sediziosi e l'occupazione di luoghi destinati a pubbliche adunanze. Fortemente connesso al crimen vis, concepito dalla lex Plautia, è il così detto crimen sodaliciorum, l'attentato alla libertà elettorale contemplato e represso dalla lex Licinia de sodaliciis del 699 d. R.

Il diritto penale dell'Impero è, com'è noto; eretto sulle basi fissate nell'ultimo secolo della Repubblica dalle leggi costitutive delle quaestiones perpetuae. Tra le vecchie figure di atti criminosi, già contemplati dalle quaestiones, soggiacciono ad alterazioni gravi e profonde quelle che consistono in attentati contro lo stato e le libertà pubbliche, le quali si piegano ai nuovi ordini assunti dallo stato medesimo e ad esigenze a questo connaturali. Il crimen maiestatis specialmente si volge a comprendere ogni atto d'avversione o di spregio verso la persona del principe, l'augustus e supremo depositario dell'imperium.

Nel diritto giustinianeo è compresa nel crimen maiestatis la fabbricazione di monete false, riproducenti l'effigie imperiale. Anche l'adesione alla religione cristiana, durante l'impero classico, rientra nel novero del crimen maiestatis, poiché non licet esse christianum. Con Tiberio, al crimen sodaliciorum sottentra il crimen (extra ordinem) di appartenere a qualsivoglia collegium non licitum (quibus coire non licet). Anche il concetto ed il contenuto dell'ambitus si trasforma e così il crimen vis.

Si è indicata solo schematicamente l'evoluzione delle figure dei reati più tipicamente politici, senza darne le architetture procedurali, e il nome e la specie delle pene, per dimostrare soltanto come nel diritto romano - che più di qualsiasi altro si presta ad esegesi e a raffronti - il delitto politico si sia evoluto, trasformato, creato a seconda delle mutevoli condizioni della vita dello stato.

Nella storia del diritto italiano, v'è, per quel che si riferisce alla nozione teorica del delitto politico, materia piuttosto ribelle, tanto è varia e cospicua, a esser contenuta nei limiti d'un breve quadro. Il concetto della fedeltà feudale portò i reati di lesa maestà in primissimo piano. Dopo il sec. XII, agli elementi romani del crimen maiestatis si aggiunsero quelli feuddli della fellonia o violazione del patto di sudditanza. Prodizione e crimenlese non furono solo atti contro l'imperatore e il papa, ma qualunque disegno contro l'autorità, legittima o no. Dal sec. XV al XVIII, la vendetta pubblica dominò quasi completamente le leggi, insieme con la vendetta divina e il pubblico esempio. Al principe, sacro e inviolabile, si attribuì il diritto di giudicare i casi di coscienza e di punirli come altrettanti fatti lesivi dell'ordine pubblico. Inoltre, per le strette relazioni confessionali tra Stato e Chiesa, il diritto italiano di questo tempo fece sue le pene severe contro i concubinarî, i violatori del riposo festivo, ecc.: tutti autori di reati tipicamente politici. Per Bossio e Deciano si commetteva il crimenlese offendendo un principe federato, mandando lettere ai nemici a danno dello stato, disobbedendo al principe, resistendo alla forza, falsificando le monete, uccidendo il legato o il notaio del principe per conoscere il segreto di stato o per privare il principe dell'aiuto di questi. Non è opportuno seguire qui l'arbitraria casistica medievale ed anche moderna, ripetendo le note definizioni date del delitto politico da Farinaccio, da Claro, da Baiardo, e tutto l'assurdo sistema di pene che gravitava intorno a queste teoriche. Montesquieu, nell'Esprit des lois, dice che l'indeterminatezza nella definizione dei delitti di lesa maestà è sufficiente per far degenerare il governo nel dispotismo. È del pari vero che nessun governo dispotico ha lasciato troppo indefinito il delitto politico, pure rendendo delitti politici atti che, senza quella definizione, difficilmente sarebbero stati considerati tali.

Nel diritto germanico si riprodusse, per i delitti più compiutamente politici, l'antichissimo concetto romano della perduellione, e prevalse, nella valutazione di questi reati, il concetto di violazione della fede, del tradimento (Landesverrath). Ma col progredire dell'influenza del diritto romano, divenne predominante il concetto della laesa maiestas. Nel diritto inglese i delitti politici vennero considerati più mitemente; fondamentale, lo statuto di Edoardo III (Statute of treason). In Francia Bonaparte trasfuse parecchie norme tratte dalle antiche leggi romane de maiestate nel codice del 1810. I notevoli progressi realizzati alla fine del sec. XVIII e specialmente nel sec. XIX per cui si arrivò a una valutazione più esatta dei delitti politici, si devono soprattutto all'influenza di Beccaria, Kant, Guizot, Romagnosi, Rossi, Cattaneo.

Esaminati da un punto di vista moderno e di attualità, i delitti politici non finiscono per perdere neppure oggi il loro carattere di reati iure civitatis. Considerati alla stregua delle positive leggi italiane, e nella sfera del diritto interno, non vi può essere per legge una distinzione generale tra reato comune e reato politico. Tutti fatti colpiti da pena sono reati, in egual modo, senza alcun'altra ammissibile distinzione (art.1,39, cod. pen. ital. 19 ottobre 1930 avente esecuzione dal 1° luglio 1931). Né può essere demandata alla facoltà del giudice una tal distinzione, perché la pena per il reato va segnata dalla legge, non dal giudice. Esistono, peraltro, nel nostro vigente diritto pubblico interno, singoli delitti politici. Tali ed espressamente i delitti contro la personalità dello stato (art. 7, 241-313 cod. pen.), cui si applica il principio della extraterritorialità. Tale, inoltre, "ogni delitto, che offende un'interesse politico dello stato, ovvero un diritto politico del cittadino", aggiungendosi che "altresì considerato delitto politico il delitto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi politici" (art. 8) e ciò all'effetto sempre dell'applicazione del principio di extraterritorialità. Tutti questi delitti, a carattere obiettivamente politico, sono innegabilmente gravi: per alcuni di essi era già comminata la pena di morte dalla legge sulla difesa dello Stato, che ne deferiva la cognizione a un tribunale speciale. Da rilevare, infine, quanto alla categoria dei delitti subiettivamente a carattere politico, che, nella considerazione del motivo in concreto (art. 133 cod. pen.), essi possono talora ritenersi attenuati per la circostanza appunto del motivo politico, apprezzabile tra i "motivi di particolare valore morale o sociale" (art. 62).

Nelle moderne legislazioni il delitto politico è stato così oggetto di particolari sistemazioni giuridiche, al fine della definizione del reato e della correlativa pena. Per l'Inghilterra, fondamentale il Treason Felony Act del 1848, emendato nel 1891. Il Treason Act del 1351 non è stato del tutto abrogato: quello del 1848 offre solo, rispetto al più antico, soluzioni di più ampia scelta. Per gli Stati Uniti, si vedano la Costituzione e la legge 17 luglio 1862, emanata durante la guerra civile. Per la Francia, il Code Pénal (libro III, tit.1, c.1, art. 75-78). Per la Germania, Strafgesetzbuch (art. 80-91); per la Spagna, gli articoli 158, 159, 161-164, 243 del codice penale (lesa majestad, rebelión).

Bibl.: F. Mecacci, Dei reati politici, Roma 1879; P. Nocito, Alto tradimento, in Digesto italiano; P. Barsanti, Del reato politico, in Cogliolo, II, i; A. Borciani, Delitti contro lo Stato, in Cogliolo, II, i; C. Lombroso e R. Laschi, Il delitto politico e le rivoluzioni, Torino 1890; C. Ferrini, Diritto penale romano, Milano 1899; E. Pessina, Diritto penale italiano, Napoli 1899; A. Solmi, Storia del diritto italiano, Milano 1908; F. Filomusi Guelfi, Enciclopedia giuridica, Napoli 1910; G. B. Impallomeni, Istituzioni di diritto penale, Torino 1911; E. Florian, Delitti contro la sicurezza dello Stato, Milano 1915; E. Costa, Crimiin e pene da Romolo a Giustiniano, Bologna 1921; G. Napodano, I delitti contro la sicurezza dello stato, in Pessina, vol. VI; G. Salvioli, Storia del diritto italiano, Torino 1921; U. Conti, Sul delitto politico (Brevi note in margine), Città di Castello 1924; U. Spirito, Storia del diritto penale italiano, Roma 1925; G. Salvioli, Storia della procedura civile e criminale, Milano 1925 e 1927; U. Conti, Extradizione e delinquenza politica, Città di Castello 1927; A. C. Jemolo, Elementi di diritto ecclesiastico, Firenze 1927, ecc.

CATEGORIE
TAG

Codice penale italiano

Ordinamenti giuridici

Diritto ecclesiastico

Extraterritorialità

Città di castello