DEMANIO FEUDALE

Federiciana (2005)

Demanio Feudale

Emanuele Conte

È tipica della tarda dottrina giuridica meridionale la distinzione dei beni demaniali nelle tre grandi categorie del demanio regio, del demanio feudale e del demanio comunale o universale. Per la verità tale distinzione non appare attestata dalle fonti, né all'epoca federiciana né per tutto il XIII secolo. Del resto, se è vero che Federico legisla-tore volle circoscrivere il significato del termine demanium ai beni direttamente dipendenti dalla Corona, a esclusione perciò di tutti quelli infeudati, è anche vero che nell'epoca normanna il termine appare assai meno tecnicizzato, potendosi ben applicare anche ai beni detenuti da grandi feudatari e non subconcessi in feudo ad alcuno.

Tuttavia nei decenni dell'età sveva la tendenza dei sovrani fu quella di impedire la concessione in feudo di beni di natura demaniale.

Furono probabilmente le indebite appropriazioni di beni demaniali da parte di concessionari feudali, proliferate durante il ventennio abbondante di anarchia sofferto dal Regno prima dell'incoronazione del 1220, a indurre Federico a insistere sull'inalienabilità e imprescrittibilità dei beni della Corona. Così, all'indomani del suo ingresso da sovrano nel Regnum, egli inserì fra le costituzioni capuane l'Edictumde resignandis privilegiis (v.; Riccardo di San Germano, 1936-1938, pp. 92-93) che annullava le concessioni di beni demaniali effettuate dopo la morte di re Guglielmo, così come i trasferimenti di beni feudali alienati in mancanza di regio assenso durante i quasi trent'anni di assenza di un forte e strutturato potere centrale in Sicilia. Rammentato da una successiva costituzione del Liber Augustalis, il provvedimento capuano mostrava, all'esordio dell'attività di governo di Federico nel Regnum, il programma chiarissimo di salvaguardare i diritti della Corona di fronte agli sconfinamenti dei baroni. All'indomani della Curia generalis capuana, il giovane sovrano chiarì il proprio progetto di recupero dei beni demaniali irregolarmente detenuti in una lettera a Onorio III, in cui rammentava le falsificazioni di documenti regi con le quali si giustificavano le occupazioni da parte dei baroni (Historia diplomatica, I, 2, pp. 139-140).

Federico intendeva dunque recuperare beni e diritti demaniali alla gestione diretta dell'amministrazione regia, né sembra avesse in programma la creazione di un demanio feudale nel senso, invalso più tardi nella dottrina meridionale, di beni di pertinenza regale concessi in feudo e assoggettati a un regime di controllo particolarmente stretto.

Anche il vocabolo demanium venne utilizzato nella legislazione soltanto con riferimento ai beni spettanti alla Corona. Si trova, è vero, qualche sporadica eccezione in documenti della cancelleria, che tornano in rarissimi casi alla vecchia indeterminatezza di significato che la parola aveva avuto in epoca normanna: ma in tali casi non v'è nell'uso del termine alcuna anticipazione della nozione più tarda di demanio feudale, inteso come porzione del demanio regio concessa in feudo, ma vincolata dalla propria natura demaniale che la concessione non poteva cancellare. Al contrario, qualche documento regio, rivolto a enti ecclesiastici, sembra intendere il termine nel senso opposto ‒ già riscontrabile in documenti normanni ‒ di 'possedimenti allodiali' del vassallo, giacché lo contrappone in più di un caso a "feoda" e "tenimenta" (per esempio, ibid., II, 1, pp. 134-137). Il demanium di un grande ente ecclesiastico sarebbe allora il territorio che gli compete in proprietà, non quello che detiene a titolo di feudo né in altra forma di concessione.

Se l'uso legislativo e quello diplomatico federiciano ignorano la nozione di demanio feudale, lo stesso si può dire della letteratura giuridica, che per tutto il Duecento continua a riservare il demanium al solo Regno. Ancora allo scadere del secolo il princeps feudistarum, Andrea d'Isernia (v.; Commentarium, 1776), comprendeva nella sua celebre definizione del demanium nel Regno di Sicilia soltanto città, castelli, territori e diritti di riscossione pertinenti alla Corona ("civitates, castra et bona alia ut dohanae, gabellae, regalia retenta per antiquos reges in potestate et dominio suo, non donata et concessa aliis"; v. Demanio regio). Così definivano il demanium gli antichi giuristi del Regno, dice Andrea. E precisa, poco sopra, che gli stessi "antiqui periti Regni Siciliae" consideravano illegittima l'alienazione di beni demaniali, che avrebbe impoverito il Regno, inducendo il sovrano a inasprire i prelievi sui sudditi per far fronte alle spese pubbliche. Soltanto in caso di necessità il re avrebbe potuto concedere un bene demaniale in feudo, attingendo alla pienezza dei suoi poteri e in mancanza di beni patrimoniali propri di cui avrebbe potuto disporre liberamente.

Le fonti romane citate lasciano anzi dedurre che per Andrea la concessione a terzi di beni demaniali dovrebbe porsi sullo stesso piano dell'espropriazione di beni dei privati da parte del re per motivi di pubblica utilità. La concessione in feudo di terre demaniali deve dunque considerarsi sostanzialmente esclusa, e anzi la natura pubblica del demanio risalta proprio dalla sua inalienabilità: l'idea di un 'demanio feudale' deve considerarsi dunque, per i giuristi federiciani e anche per un feudista di piena età angioina come Andrea, una vera e propria contraddizione in termini.

Ma le cose sembrano già cambiare qualche anno più tardi, nel commentario di Luca da Penne ai Tres libri (cf. l'edizione del 1582, p. 574a). Il giurista del pieno Trecento non può chiudere gli occhi di fronte al dato di fatto della detenzione da parte dei baroni di "nonnulla praecipue demanialia", come sono giurisdizioni, acque, boschi, monti, pascoli. Comincia così a farsi strada l'ammissione della gestione di diritti demaniali da parte della grande feudalità, che deve però sottostare a particolari limitazioni nel godimento di questi beni di cui è riconosciuta la natura demaniale. In particolare, i baroni non possono alienarli né concederli in feudo senza il previo assenso del sovrano.

Con Luca, insomma, si pongono le premesse per la sistemazione della categoria del demanio feudale: per la prima volta compare esplicitamente nella dottrina un parallelo che la diplomatica pontificia aveva prospettato implicitamente fin dall'XI sec. (v. Demanio regio) e che era destinato a una straordinaria longevità. È nel commentario di Luca che si paragonano per la prima volta il regime dei beni feudali soggetti a vincolo demaniale e lo statuto dei beni che compongono la mensa vescovile, sui quali il potere di di-sposizione del vescovo è simile a quello di cui dispone il marito nei confronti dei beni dotali: come il marito, il vescovo può fruire dei beni della mensa per il proprio sostentamento o nell'interesse della diocesi, ma non gli è consentito alienarli in perpetuo né modificarne l'assetto produttivo. Allo stesso modo, dunque, il concessionario feudale di beni demaniali sarebbe vincolato nel proprio godimento dalla natura stessa delle cose che detiene. Il triplice parallelo tra demanio, mensa vescovile e beni dotali avrà poi secolare fortuna: lo si ritrova, ad esempio, nel XVI sec. in Francia, nella Francogallia di François Hotman (cf. l'edizione del 1972, p. 254), che lo mutua esplicitamente da fonti meridionali, e poi di nuovo nel Regno fino al Settecento inoltrato. Il matrimonio mistico del principe con la Corona corre anch'esso in parallelo con quello del vescovo con la sua ecclesia, e apre la strada a quello del feudatario con il suo feudo.

È dunque oltre un secolo dopo la morte di Federico che cominciano a porsi le premesse teoriche per la definizione del regime giuridico di quelle terre che, facenti parte del feudo, sono assoggettate a vincoli assai simili a quelli cui è sottoposto il demanio regio: in particolare, esse sono quasi sempre gravate da diritti d'uso a beneficio delle popolazioni abitanti sul territorio. Nell'Italia meridionale questi diritti delle popolazioni vennero chiamati usi civici, perché si configuravano come un diritto reale d'uso a vantaggio dei villaggi abitati gravante in perpetuo su boschi, pascoli, terre aperte che facevano parte del feudo.

Col tempo, la dottrina e la pratica giunsero a coordinare l'esistenza di diritti d'uso civico con la qualità demaniale delle terre feudali, ricostruendo la genesi del demanio feudale come fondata su un abuso: l'usurpazione, da parte del potere sovrano o di quello feudale, di beni appartenenti in origine alle popolazioni e necessari per la loro sopravvivenza sul territorio. I diritti d'uso su boschi, pascoli, acque, tradizionalmente classificati come servitù reali su cosa altrui, sarebbero stati invece, per certa dottrina giuridica di età moderna, il relitto di una originaria proprietà dei cives del villaggio sulle terre che lo circondavano: sicché la qualifica demaniale delle terre feudali le vincolava soprattutto alla disponibilità a vantaggio delle popolazioni residenti, impedendo al barone non soltanto l'alienazione e la concessione a qualunque titolo, ma anche la chiusura o il mutamento di destinazione che poteva impedire il pacifico godimento collettivo.

Questa interpretazione tarda del concetto di demanio feudale ebbe forte influsso sul processo di eversione della feudalità dapprima nel Regno delle Due Sicilie, poi anche nell'Italia unita. Se ne odono ancora gli echi nei contenziosi riguardanti terre di demanio civico, che richiamano la vecchia massima "ubi feuda ibi demania", applicata ancora oggi in giudizio nono-stante le critiche ricevute dalla dottrina.

Fonti e Bibliografia

Andrea d'Isernia, Lectura in usibus feudorum, Neapoli 1472.

Luca da Penne, Commentaria […] in tres posteriores libros Codicis Iustiniani, Lugduni 1582.

Gaetano Nicola Ageta, Fori feudalis epitome cum suis assertionibus, Neapolis s.d. (ma post 1670).

Marino da Caramanico, Glossa in Constitutionibus Regni Siciliae, in Constitutionum Regni Siciliarum libri III cum commentariis, a cura di A. Cervone, Neapoli 1776 (rist. Soveria Mannelli 1999).

Andrea d'Isernia, Commentarium in Constitutionibus Regni Siciliae, ibid.

Thomas Turbolus, Origines iuris praediatorii domanii regni Neapolitani, ivi 1788.

Historia diplomatica Friderici secundi; Riccardo di San Germano, Chronica, in R.I.S.2, VII, 2, a cura di C.A. Garufi, 1936-1938.

Luca de Barberiis, Liber de secretis, a cura di E. Mazzarese Fardella, Milano 1966.

Catalogus baronum, a cura di E. Jamison, Roma 1972 (cf. anche il relativo Commentario, a cura di E. Cuozzo, ivi 1984).

François Hotman, Francogallia, a cura di R.E. Giesey, Cambridge 1972.

Die Konstitutionen Friedrichs II. für das Königreich Sizilien, in M.G.H., Leges, Legum sectio IV: Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, II, Supplementum, a cura di W. Stürner, 1996.

Oltre alle opere citate nella voce Demanio regio cf.:

R. Trifone, Feudi e demani. Eversione della feudalità nelle provincie napoletane. Dottrine, storia, legislazione e giurisprudenza, Milano 1909.

F. Lauria, Demani e feudi nell'Italia meridionale, Napoli 1923.

M. Caravale, Il regno normanno di Sicilia, Milano 1966.

N. Kamp, Vom Kämmerer zum Sekreten. Wirtschaftsreformen und Finanzverwaltung im staufischen Königreich Sizilien, in Probleme um Friedrich II., a cura di J. Fleckenstein, Sigmaringen 1974.

J.-M. Martin, L'organisation administrative et militaire du territoire, in Potere, società e popolo nell'età sveva (1210-1266), Bari 1985, pp. 71-121.

Id., L'administration du Royaume entre Normands et Souabes, in Die Staufer im Süden. Sizilien und das Reich, a cura di Th. Kölzer, Sigmaringen 1996, pp. 113-140.

E. Cortese, Domìni collettivi, in Enciclopedia del diritto, XIII, Milano 1964, pp. 913-927.

U. Petronio, Usi civici, ibid., XLV, ivi 1992, pp. 930-953.

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