Democrazia Cristiana

Enciclopedia del Novecento (1977)

Democrazia Cristiana

Roger Aubert

di Roger Aubert

SOMMARIO: 1. Nozioni generali. 2. Gli antecedenti: a) primi tentativi nel periodo della Rivoluzione francese; b) dall'Avenir" (1830) all'Ère nouvelle" (1848); c) la controversia sui principî del 1789; d) il lento avvio del cattolicesimo sociale sotto Pio IX. 3. Il difficile cammino: a) l'adesione della Santa Sede alla democrazia politica; b) la svolta della Rerum novarum; c) l'affermazione della Democrazia Cristiana; d) le reticenze romane; e) paralleli protestanti. 4. Tra le due guerre: a) il Partito Popolare Italiano di don Sturzo; b) il Centro tedesco; c) la Democrazia Cristiana in Francia; d) la Democrazia Cristiana in Belgio, nei Paesi Bassi e in Svizzera; e) la Democrazia Cristiana nell'Europa orientale. 5. Lo slancio sotto il pontificato di Pio XII: a) l'Europa democratico-cristiana del secondo dopoguerra; b) la Democrazia Cristiana italiana; c) lo spostamento a destra della CDU in Germania e del MRP in Francia; d) i partiti democratico-cristiani in America Latina. 6. Riesame critico. □ Bibliografia.

1. Nozioni generali

L'espressione ‛democrazia cristiana' che apparve alla fine del XVIII secolo, durante il periodo rivoluzionario, poneva innanzitutto l'accento sull'aspetto religioso: la Rivoluzione avrebbe riportato verso l'Ecclesia paupera dei primi secoli o restaurato le istituzioni della Chiesa primitiva, in cui la partecipazione dei fedeli alla vita ecclesiastica era molto più grande. Ma, poco a poco, il termine prese un significato più politico, che implicava la sostituzione delle istituzioni del vecchio regime con un sistema repubblicano conforme allo spirito del Vangelo e perfino considerato, talvolta, da alcuni socialisti romantici, come il solo veramente conforme a questo spirito. Il titolo dell'opera di de Gerandon, La démocratie chrétienne ou manuel évangélique de la Liberté, de l'Égalité et de la Fraternité (Paris 1848), è caratteristico di questa mentalità.

L'uso dell'espressione rimase tuttavia sporadico fino alla fine del XIX secolo e si diffuse a livello europeo solo dopo il 1891: prima in Belgio, poi nell'ala sinistra del cattolicesimo sociale francese, in seguito in Austria e in Italia (dove l'idea trovò i suoi due principali teorici, Toniolo e soprattutto don Sturzo). Accolta con reticenza negli ambienti cattolici conservatori, che stentavano a dissociare il concetto di democrazia dagli eccessi rivoluzionari del 1793, del 1848 e della Comune del 1871, l'espressione ‛democrazia cristiana' divenne d'uso corrente solo dopo la prima guerra mondiale.

Non è facile definire con precisione ciò che essa comprende. Non c'è mai stato nella tradizione democratico- cristiana l'equivalente di quello che è stato per il marxismo il Manifesto comunista. Nessun documento - enciclica o programma - ha formulato con la stessa precisione un pensiero che è stato elaborato solo progressivamente a contatto coi fatti, per rispondere a problemi immediati, e che ha sempre presentato contorni piuttosto sfumati, dato che risultava dalla convergenza di sforzi molto diversi e spesso, soprattutto all'inizio, scarsamente coordinati. Perciò si parla talvolta di un complesso di orientamenti piuttosto che di un sistema elaborato. Troppi democratici cristiani si sono limitati a lottare, talvolta con apprezzabili successi, sia contro il liberalismo sia contro il marxismo con la tattica e con la propaganda; senza manifestare la preoccupazione di elaborare di fronte agli avversari una dottrina politica o sociale di uguale livello.

Si comprende meglio perciò che ci si contenti talvolta di definizioni estremamente generali. R. Cornilleau, alla fine del XIX secolo, vedeva l'elemento comune ai diversi democratico-cristiani nel ‟desiderio di costituire una società cristiana attuale secondo le possibilità del momento piuttosto che di ricostituire una società come sarebbe potuta esistere nel passato". E più recentemente, in un'opera fondamentale sull'argomento, M. Fogarty definisce la Democrazia Cristiana ‟il movimento che, in seno alla cristianità moderna, si occupa dell'applicazione dei principi cristiani nel campo sociale, politico ed economico in cui il laico cristiano gode di una responsabilità autonoma" (v. Fogarty, 1957, p. 5). In un altro passo tuttavia, lo stesso autore aggiunge una precisazione importante: ‟un insieme di movimenti che, ispirati ai principi cristiani, perseguono obiettivi politici e sociali a vantaggio di tutti i loro membri e, per quanto possibile, con la partecipazione e il consenso di questi".

Si potrebbe dire in modo ancora più preciso che si tratta, sotto forme molto varie e ispirate a motivi anch'essi vari - necessità apostoliche, convinzioni dottrinali o compassione più o meno sentimentale per la situazione delle ‛classi inferiori' - di uno sforzo di adattamento dei cristiani al mondo moderno, da una parte attraverso la revisione degli atteggiamenti per lungo tempo tradizionali dei cattolici nei riguardi della forma del regime politico, dall'altra attraverso la ricerca di rapporti sociali nuovi e un nuovo inserimento della società religiosa nella società civile. Si potrebbe anche parlare di una ricerca, nella linea dei principi morali ispirati dal Vangelo e propagati dalla Chiesa, di un nuovo ordine sociale che metta fine alle ingiustizie del liberalismo senza cadere nel collettivismo marxista, che si sforzi di proteggere i deboli contro l'oppressione del laissez faire senza tuttavia imbrigliare gli uomini di iniziativa, che tenti di conciliare in una sintesi delicata la libertà della persona umana con l'esercizio efficace di una sovranità popolare che non cada negli eccessi totalitari.

Storicamente, la Democrazia Cristiana si è situata alla confluenza di due correnti che si erano sviluppate indipendentemente nella Chiesa cattolica durante il XIX secolo: il liberalismo cattolico - generalmente poco aperto dal punto di vista sociale - e il cattolicesimo sociale, generalmente antiliberale all'inizio perché nato negli ambienti ultramontani ostili alla nuova civiltà borghese uscita dalla Rivoluzione francese. Storicamente, inoltre, quando cominciò a esprimersi durante l'ultimo decennio del XIX secolo, la Democrazia Cristiana mise dapprima l'accento sull'aspetto sociale, ma fu portata abbastanza presto ad allargare la propria azione al piano politico, in seguito alla constatazione che il miglioramento della situazione sociale dei lavoratori non poteva essere efficacemente raggiunto se non attraverso una trasformazione dello Stato in senso più democratico. Possiamo mettere in evidenza alcuni tratti generali, comuni alla grandissima maggioranza dei democratico-cristiani.

1. Sono personalisti ma non individualisti, convinti che il pieno sviluppo della personalità nella libertà reale (e non semplicemente formale) è possibile solo grazie ad una organizzazione efficace della società e ad una socializzazione degli individui in vista del conseguimento del bene comune (quest'ultima nozione, in verità troppo spesso lasciata nel vago, ha un ruolo considerevole nel pensiero democratico- cristiano). Perciò essi si sono fin dall'inizio dichiarati contro il liberalismo e oggi non provano affatto simpatia per l'anarchismo libertario verso il quale vorrebbero trascinarli alcuni dei loro elementi più giovani.

2. Sono pluralisti, in quanto ritengono che la società o lo Stato non possano mai opprimere l'individuo e debbano lasciare alle persone il massimo di iniziativa compatibile con l'ordine pubblico e i diritti degli altri. Perciò essi difendono in modo particolare la libertà di associazione (pluralismo sindacale, per es.) e soprattutto la libertà di insegnamento, alla cui difesa hanno talvolta sacrificato altri punti importanti del loro programma. Questo ideale pluralista ha avuto come conseguenza che, nel complesso, i democratico-cristiani sono stati portati a opporsi ai totalitarismi sia di destra che di sinistra, e a questo riguardo è assai significativo l'atteggiamento di molti di essi nella Resistenza durante la seconda guerra mondiale. Non si può tuttavia trascurare il fatto che alcuni di loro siano stati tentati di realizzare, grazie ad uno Stato autoritario, l'auspicata sintesi tra certi valori di destra e certi valori di sinistra, e che, davanti al problema posto dallo squilibrio talvolta scandaloso della ripartizione delle ricchezze, una parte di essi inclini a dare più importanza alla giustizia sociale che alla libertà di espressione.

3. Sono contro la centralizzazione statale quale è stata spesso raccomandata concretamente nel XIX secolo dai liberali e nel XX dai socialisti. Essi ritengono che - ogni qualvolta sia possibile senza nuocere al bene comune - sia giusto lasciare una larga autonomia ai corpi intermedi tra l'individuo e lo Stato: la famiglia, le piccole imprese agricole o industriali, le cooperative e mutue autogestite, il comune, la regione.

4. Sono - almeno in via di principio, perché sotto questo aspetto le eccezioni sono numerose - contro i nazionalismi e per il ravvicinamento dei popoli, perfino per un superamento delle patrie in grandi unità federative su scala continentale.

5. Sono riformisti, in quanto provano un'istintiva ripugnanza per gli sconvolgimenti rivoluzionari; sono poco tradizionalisti, senza nostalgie nei riguardi delle forme del passato; sono però altrettanto coscienti dell'importanza del fattore tempo e della continuità per la realizzazione di riforme durature e veramente efficaci.

Ci si rende perciò conto delle ragioni dell'imbarazzo dei politologi quando cercano di classificare i democratico- cristiani nell'arco dei partiti. Senza tener conto dei polemisti, per i quali basta fare riferimento ad una ispirazione religiosa per essere schierati a destra, è innegabile che per certi tratti i democratico-cristiani assomigliano ai conservatori, soprattutto se si prende questo termine nel senso che ha nei paesi anglosassoni. Ma in rapporto alla destra classica i democratico-cristiani si sono situati in origine nettamente a sinistra, su posizioni repubblicane e sempre fautori di riforme sociali piuttosto progressiste. Però, come si vedrà nell'esposizione che segue, i partiti democratico-cristiani sono stati portati assai spesso, nella misura stessa in cui conquistavano il consenso di una parte importante dei loro correligionari, a spostarsi verso destra. In realtà si può dire che nella grande maggioranza dei casi si tratta di partiti di centro, sollecitati da destra e da sinistra tanto dai retaggi di correnti storiche quanto dalle pressioni che esercitano, al loro interno, le diverse componenti del loro elettorato.

Questa innegabile ambiguità fornisce una nuova prova dell'inconsistenza dottrinale, che è stata spesso rimproverata alla Democrazia Cristiana appena si tratti di andare oltre i principi generalissimi per formulare un programma politico e sociale preciso. Difetto che ha incoraggiato la frequente convinzione che questo programma sia fornito dalle grandi encicliche di Leone XIII, Pio XI e Pio XII sull'organizzazione cristiana dello Stato, mentre questi testi forniscono solo il quadro di riferimento su cui dovrebbe esercitarsi una riflessione originale in funzione delle realtà concrete del tempo e del luogo, eminentemente mutevoli, riflessione destinata ad alimentare un'azione efficace. Altrimenti, secondo la formula di E. Mounier, ‟si saranno fatte delle prediche alla storia, ma senza incidere su di essa".

Dobbiamo ancora mettere in rilievo un ultimo punto: le relazioni tra la Democrazia Cristiana e le Chiese. I democratico-cristiani intendono risolvere i problemi politici e sociali ispirandosi alla loro fede e ritengono che la Chiesa, in un mondo in cui ha cessato di essere una forza, debba restare una luce; ma nello stesso tempo i loro partiti si sono sempre più presentati come partiti non confessionali ed è appunto questo uno dei maggiori rimproveri che hanno rivolto loro, per lungo tempo, i cattolici di destra che hanno conservato la nostalgia della ‛cristianità'. Effettivamente, bisogna riconoscere che, nella maggior parte dei casi, l'influenza della Chiesa sulle iniziative sociali e politiche di ispirazione democratico-cristiana è stata molto sensibile, e questo fu spesso un fattore supplementare di immobilismo. Ma d'altronde si deve ugualmente constatare che le influenze confessionali possono agire anche in senso costruttivo. Nella misura in cui la gerarchia desidera veder realizzata nelle istituzioni la dottrina sociale della Chiesa, l'appoggio che essa dà ad un partito di tendenza democratico-cristiana può conquistargli numerosi elettori conservatori, che avrebbero rifiutato il loro voto a un programma riformista ma glielo accordano per ragioni religiose, e può dare così a questo partito e al suo programma relativamente progressista un potere parlamentare che esso altrimenti non avrebbe mai ottenuto.

In definitiva, e malgrado i diversi handicaps di cui ha sofferto, la Democrazia Cristiana appare come una delle forze storiche che hanno esercitato un'azione, più o meno importante secondo i paesi ma sempre sensibile, sulla evoluzione delle società occidentali durante l'ultimo mezzo secolo; e a questo titolo, qualunque sia il suo avvenire, che a molti appare piuttosto incerto, il fenomeno merita di attrarre l'attenzione sia degli storici che dei politologi.

2. Gli antecedenti

Si potrebbe dimostrare che, per alcuni dei suoi elementi, l'ideologia democratico-cristiana affonda le sue radici in un passato storico già antico. L'idea di un ordine sociale cristiano, per esempio, risale al Medioevo e fin dal XIII secolo san Tommaso d'Aquino, come discepolo di Aristotele, insegnava che, se il potere viene da Dio, i suoi detentori possono però essere designati democraticamente per mezzo di elezioni. E inoltre, la responsabilità attiva del laico cristiano nella vita sociale era stata già messa in luce dalla Riforma del XVI secolo. Ma, lasciando da parte la preistoria dei diversi elementi della dottrina (si troveranno alcune suggestive annotazioni nella prima parte dell'articolo di J. Hours, Les origines d'une tradition politique, in Libéralisme, traditionalisme, décentralisation, a cura di R. Palloux, Paris 1952, pp. 81-91), ci limiteremo, in questo rapido schizzo degli antecedenti, agli sforzi tentati da parte cattolica dopo la Rivoluzione francese in vista di un adattamento dei cristiani alle condizioni del mondo moderno nell'ambito politico e sociale.

a) Primi tentativi nel periodo della Rivoluzione francese

Ponendosi la questione delle origini della democrazia cristiana nel senso moderno del termine, M. Reinhard, un'autorità in materia, scrive: ‟Per parte mia, mi sembra di trovare un punto di partenza nel periodo rivoluzionario" (‟Revue historique", 1957, CCXVII, p. 414), ed è caratteristico che H. Maier consacri a tale periodo quasi un quarto delle sue Studien zur Frühgeschichte der christlichen Demokratie. Questo punto di vista si giustifica non solo perché gli uomini della Rivoluzione francese sono stati i primi in Europa a sforzarsi di riorganizzare effettivamente la società su basi eque - Buchez, uno dei pionieri della democrazia cristiana a metà del XIX secolo, non nasconderà la sua ammirazione per Robespierre - ma soprattutto perché è a partire da quel periodo che si vedono dei cattolici aderire all'ideale democratico della Rivoluzione in nome della loro fede cristiana. È il caso specialmente di buona parte del clero ‛costituzionale', compresi i più rappresentativi dei suoi vescovi (Grégoire tra i primi): convinti che il cristianesimo sia una religione di libertà e di fraternità, essi non esitano ad affermare che i ‛diritti dell'uomo' traggono origine da un principio cristiano e che la Rivoluzione porterà a un rinnovamento evangelico. Certamente, prigionieri di una problematica post-tridentina, essi rifiutano una netta separazione tra Chiesa e Stato secolarizzato, ma accettano, spesso con entusiasmo, una ‟cristianità repubblicana" (B. Plongeron, Théologie et politique au siècle des lumières, 1770-1820, Genève 1973, capp. III e IV). Un simile atteggiamento non è d'altronde peculiare alla Francia. Se non lo si ritrova nè in Belgio nè in Renania, nelle regioni settentrionali dei Paesi Bassi, invece, la maggioranza del clero appoggiò il partito dei ‛patrioti' che, nel 1795, abbatté il vecchio regime con l'aiuto dei Francesi per sostituirgli una repubblica batava che accordava l'uguaglianza dei diritti e la piena libertà religiosa a tutti i cittadini. Quanto all'Italia, se buona parte del clero si mostrò piuttosto diffidente nei confronti dei ‛principi del 1789', le opposizioni aperte furono abbastanza rare, almeno all'inizio. Pur sforzandosi, in una prospettiva di cristianità, di salvaguardare al massimo i diritti della Chiesa, la maggior parte dei responsabili caldeggiava l'adesione al nuovo regime ricordando l'indifferenza della Chiesa alle forme di governo civile, e alcuni - compreso qualche vescovo, particolarmente il cardinale Chiaramonti, il futuro Pio VII (J. Leflon, Pie VII, Paris 1958, pp. 414-451) - sottolinearono il carattere evangelico dei principî di uguaglianza e di fraternità. Altri, che V. Giuntella propone di chiamare ‟cattolici democratici" (un termine che si incontra già negli scritti del tempo), si spinsero nettamente più lontano e si sforzarono di svincolare, con un ritorno alle fonti scritturali e patristiche, l'essenziale della fede cristiana dagli aspetti contingenti che essa aveva acquisito nel corso dei secoli, allo scopo di provare il completo accordo del cattolicesimo autentico con la democrazia, a condizione di distinguere meglio che in passato gli ambiti rispettivi dello spirituale e del temporale (V. Giuntella, in ‟Nuove questioni di storia del Risorgimento", 1961, I, pp. 320-325, e in ‟Rassegna storica del Risorgimento", 1955, XLII, pp. 289-296).

Ma sia in Francia che in Italia i cattolici repubblicani o democratici erano stati solo una minoranza, e fu loro fatale l'evoluzione politica e religiosa durante gli ultimi anni del Direttorio. Il 18 brumaio completò la loro sconfitta.

b) Dall'Avenir" (1830) all' Ère nouvelle" (1848)

Dopo una eclissi di trent'anni sotto l'Impero e la Restaurazione, l'idea che la democrazia non fosse incompatibile - anzi, al contrario - con lo spirito cristiano fu vivacemente rilanciata da F. de Lamennais e distillata quotidianamente per un anno (ottobre 1830-novembre 1831) dall'‟Avenir", organo del pugno di discepoli entusiasti che si erano raggruppati intorno a lui (G. Verucci, L'Avenir". Antologia degli articoli, Roma 1967 e L. Le Guillou, L'évolution de la pensée religieuse de Félicité Lamennais, Paris 1966). Il giornale intendeva portare la battaglia su due fronti: da una parte dichiarava ai liberali che aderiva senza riserve mentali alle grandi libertà moderne uscite dalla Rivoluzione del 1789, includendovi però la libertà di insegnamento, che molti liberali esitavano ad accordare per timore di favorire le mire clericali; dall'altra, cercava di far capire ai cattolici che bisognava rinunciare definitivamente all'ancien régime per volgersi verso l'avvenire. L'opzione in favore del mondo moderno si manifesta in tutti i campi: l'‟Avenir" si mostra favorevole alla giovane letteratura romantica; invita al disarmo generale e all'unione dell'Europa (M. Prelot, Le libéralisme catholique, Paris 1969, pp. 102-109), ma nello stesso tempo appoggia le insurrezioni nazionali dei Belgi, degli Irlandesi e dei Polacchi in nome del diritto dei popoli a disporre di se stessi; afferma sempre più nettamente le sue simpatie per il suffragio universale e anche per il regime repubblicano (G. Verucci, op. cit., pp. 13-64), e considera provvidenziali le rivoluzioni che scuotevano in quel periodo l'Europa; si apre anche alla democrazia sociale, mostrando la necessità di elaborare una economia politica cristiana e di preoccuparsi della ripartizione dei beni, problema allora eclissato da quello della loro produzione. Ansiosi di non limitarsi ad una campagna di idee, i seguaci di Lamennais creano una Agenzia Generale per la Difesa della Libertà Religiosa, in cui una parte importante è lasciata all'azione dei laici, e, dietro suggerimento del giornalista olandese Le Sage ten Broeck, la campagna dell'Agenzia si estende presto all'estero per organizzare una vera solidarietà internazionale nella conquista delle libertà sia politiche che religiose e per opporre alla Santa Alleanza dei re ‟la Santa Alleanza dei popoli". Questo programma, che distingueva nell'eredità della Rivoluzione il 1789 dal 1793 e che accettava i diritti dell'uomo e del cittadino pur rifiutando lo Stato giacobino oppressore della libertà religiosa e delle autonomie regionali e locali, urtò, salvo che in Belgio, contro violente reazioni in tutto il mondo cattolico e fu ufficialmente sconfessato dall'enciclica Mirari vos (15 agosto 1832).

Questa condanna, seguita poco dopo dalla defezione di Lamennais, sembrava colpire a morte il liberalismo cattolico; ma non fu così. Rinunciando a sviluppare teorie sul regime ideale dei rapporti tra Chiesa e Stato, coloro che erano stati conquistati dalla fecondità delle sue idee si studiarono di metterle in pratica utilizzando a vantaggio del cattolicesimo le istituzioni liberali: fu, questa, particolarmente la tattica raccomandata dai cattolici belgi e, qualche anno dopo, sul loro esempio, da Ch. de Montalembert. Nondimeno, nell'idea lanciata da Lamennais, fin dall'inizio del 1830, di un partito politico cattolico e sociale (cfr. le sue lettere pubblicate nella ‟Revue d'histoire littéraire de la France", 1970, LXX, pp. 401-404), molti cattolici liberali accordarono un'attenzione sempre più limitata alla seconda qualifica. Di contro, altri cattolici, in verità poco numerosi, furono più sensibili agli appelli del Lamennais delle Paroles d'un croyant, del Livre du peuple e dell'Esclavage moderne, che invocavano una maggiore giustizia in favore degli umili e delle vittime della società industriale.

Il rappresentante più caratteristico di questa tendenza, che per quanto riguarda l'eredità del 1789 non insiste soltanto sulla libertà ma altrettanto sui valori evangelici di uguaglianza e di fraternità, è F. Buchez, un discepolo di Saint-Simon, che nel suo Cours d'économie chrétienne ou progressive (pubblicato nell'‟Européen" dal dicembre 1835 al febbraio 1837) non esiterà ad accusare la Chiesa romana di apostasia in rapporto alla sua missione sociale originale (cfr. Cuvillier, Buchez et les origines du socialisme chrétien, Paris 1948 e F. A. Isambert, Buchez et l'âge théologique de la sociologie, Paris 1967). Fin dal 1834 egli favorisce la nascita di un'associazione di operai in maggioranza cattolici, che pubblica dal 1840 al 1850 un giornale, ‟L'Atelier", concepito in uno spirito molto diverso da quello del cattolicesimo sociale dei decenni seguenti, poiché combatte energicamente il capitalismo e il regime del salario e accetta il principio della lotta di classe.

Buchez non era affatto un isolato: se la maggioranza dei cattolici preoccupati di migliorare la condizione operaia o contadina non supera il punto di vista paternalistico, alcuni - particolarmente in Francia: ex seguaci di Fourier, ex lettori dell'‟Avenir" - cercano la soluzione in una modificazione radicale dei rapporti tra capitale e lavoro. La rivoluzione del 1848, che prese un carattere nettamente socialista, stimolò questa corrente, e ci si poté allora domandare se non stesse per operarsi una sintesi tra il movimento socialista e questo cattolicesimo socialdemocratico, che aderiva senza riserve alla Repubblica. È in questo conte- sto che un ex seguace di Lamennais, l'abate Maret, che si rammaricava che il partito cattolico di Montalembert si fosse troppo limitato alla difesa della libertà di insegnamento e delle congregazioni religiose, fondò, con la collaborazione di Ozanam e di Lacordaire, un quotidiano, l'‟Ère nouvelle", che non intendeva difendere soltanto la parte di verità contenuta nei principi del 1789 e i vantaggi del regime repubblicano, ma anche diverse riforme sociali giudicate a quel tempo rivoluzionarie: la partecipazione degli operai agli utili e alla conduzione dell'impresa, l'organizzazione dell'arbitrato e l'assistenza ai disoccupati. Questo programma incontrò adesioni entusiaste, particolarmente tra il clero giovane, ma questo abbozzo di Democrazia Cristiana fu spazzato via dopo qualche mese dall'ondata reazionaria che sommerse tutta l'Europa all'indomani della crisi del 1848. Invano F. Arnaud de l'Ariège, fondatore, con l'incoraggiamento dell'arcivescovo di Parigi, monsignor Sibour, di un Circolo della Democrazia Cattolica, tenterà di prolungarne la vita per qualche tempo.

Avvenne lo stesso, d'altronde, per i tentativi molto più moderati del gruppo di Günther e di Veith in Austria (sul loro programma effimero di Katholischer Demokratismus cfr. W. Simons in ‟Catholic historical review", 1969, LV, pp. 173-194, 377-393 e 610-626) o di alcuni gesuiti italiani, come p. Taparelli d'Azeglio, che avevano creduto di trovare nella tradizione tomista una giustificazione della rivoluzione siciliana (G. De Rosa, I gesuiti in Sicilia e la rivoluzione del '48, Roma 1963).

c) La controversia sui principî del 1789

Le convulsioni che durante il 1848 avevano agitato l'intera Europa, senza risparmiare nemmeno il trono pontificio, avevano riproposto con nuova intensità il grande problema di fronte al quale la Chiesa cattolica si trovava da mezzo secolo: l'atteggiamento da assumere nei confronti del mondo uscito dalla rivoluzione intellettuale e politica della fine del XVIII secolo, e particolarmente nei riguardi del regime delle libertà civili e religiose simboleggiato dalla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. Le violenze cui era approdata in parecchi paesi l'agitazione scatenata dai partiti liberali non potevano che rafforzare nelle loro convinzioni tutti coloro che pensavano che esistesse un nesso diretto tra i principi del 1789 e la distruzione dei valori tradizionali di ordine sociale morale e religioso. Ma di fronte all'ancien régime altri cattolici denunciano invece come dannoso e vano un ritorno alle concezioni della Restaurazione, e pensano che la sola via di salvezza per la Chiesa sia di andare francamente incontro al mondo moderno tenendo a battesimo le istituzioni liberali, come aveva fatto in epoche anteriori per la civiltà greco-romana, per il movimento di autonomia comunale del XII secolo o per le aspirazioni umanistiche del Rinascimento.

Le controversie tra cattolici intorno alle libertà moderne toccarono il parossismo in Francia, inasprite anche, in questo paese in cui i problemi politici assumono facilmente una portata filosofica o religiosa, dalla questione dell'adesione a Napoleone III dopo il colpo di stato del 2 dicembre. Da un lato abbiamo coloro che denunciano il naturalismo dei ‛cattolici liberali'; dall'altro, coloro che credono di poter conciliare con i principi cattolici la concezione liberale della società sia che vi vedano, come Dupanloup, un male minore dal quale bisogna cercare di trarre profitto nel modo migliore per gli interessi della Chiesa, sia che considerino l'ideale democratico come la realizzazione moderna del messaggio evangelico in quanto invita a sostituire alla disuguaglianza delle condizioni l'uguaglianza di natura, e la libertà di tutti al dominio di alcuni. Così per esempio l'abate L. Godard nel suo libro Les principes de '89 et la doctrine catholique (1862), nel quale sottolinea il pericolo che potrebbe esserci nel lasciare lo sfruttamento di questi principi agli avversari del cristianesimo.

In Belgio, la maggioranza dei cattolici impegnati nella politica, sostenuti da vescovi influenti, è ben cosciente dei vantaggi concreti della Costituzione liberale del 1831, che assicura alla Chiesa la sua piena indipendenza nei riguardi del potere civile pur permettendole, grazie all'azione del partito cattolico nel Parlamento, di assicurarsi di fatto un'influenza molto estesa nella società. È questa anche la posizione esposta da mons. Ketteler nel suo libro Freiheit, Autorität und Kirche (1862), che, malgrado alcune resistenze manifestate dai gesuiti austriaci, raccoglie il consenso della maggioranza dei cattolici tedeschi, che sono, proprio come i cattolici olandesi, ben coscienti dei vantaggi delle libertà costituzionali per la Chiesa nei paesi a maggioranza non cattolica.

Ma questa apertura dei più chiaroveggenti non bastava a controbilanciare agli occhi dei liberali nè il ricordo della Mirari vos, né soprattutto la resistenza delle autorità ecclesiastiche nei paesi latini ad accettare l'evoluzione a cui li si invitava, resistenza incoraggiata da organi di stampa influenti come la ‟Civiltà cattolica" dei gesuiti romani. Perciò i liberali presero un atteggiamento sempre più ostile nei riguardi di una Chiesa che appariva loro come il principale ostacolo sul cammino della libertà politica e del progresso in generale. La conseguenza immediata fu che molti esponenti cattolici trovarono confermata la loro idea di una incompatibilità tra la Chiesa e coloro che essi accusavano di voler rovesciare, con l'appoggio dei massoni, l'ordine costituito tanto nel campo religioso quanto sul piano politico.

La recrudescenza della questione romana dopo il 1856 doveva esacerbare ancora la reazione del Vaticano contro gli ideali del 1789, perché proprio in nome delle libertà moderne - diritto dei popoli a disporre di se stessi e concezione liberale dello Stato - era stato ufficialmente messo in discussione il potere temporale del papa. In questa atmosfera Pio IX pubblicò, nel dicembre del 1864, il Sillabo e, sostenuto da una parte notevole della stampa cattolica, non cessò fino alla morte di tuonare con passione crescente contro il pericolo rappresentato per la Chiesa e per la fede non solo da una concezione razionalistica dell'uomo e della società, che ispirava effettivamente un numero crescente di liberali, ma anche dalle istituzioni liberali e specialmente dalle libertà di stampa e di opinione, evidentemente senza tener conto dei successi spettacolari del cattolicesimo nei paesi anglosassoni, in particolare negli Stati Uniti, grazie proprio alle istituzioni liberali. Bisognerà attendere il pontificato di Leone XIII perché si avvii finalmente una evoluzione durevole della posizione della Chiesa in rapporto a questi importanti problemi.

Sul piano pratico tuttavia molti cattolici, anche in Europa, non attesero questa evoluzione dottrinale per impegnarsi, con maggiore o minore esitazione, nelle strade della democrazia parlamentare. Abbiamo già accennato alla politica seguita dai partiti cattolici belga e olandese a dispetto delle obiezioni degli ultramontani, che si sentivano sostenuti a Roma. Lo stesso accadde in Prussia: se i conflitti di Bismarck con la Camera condannarono il partito del Centro ad una eclissi temporanea, i suoi dirigenti poterono, nel ritiro, trarre profitto dalle prime esperienze e preparare l'evoluzione che doveva fare, di un partito rivolto fino ad allora ai problemi religiosi, un partito politico in stretto contatto con le preoccupazioni delle masse popolari.

La resistenza vittoriosa del Centro cattolico al Kulturkampf nel quadro parlamentare doveva provare la fecondità di questo modo moderno di concepire la difesa di un ordine sociale di ispirazione evangelica in un mondo sempre più favorevole, anche negli Imperi centrali, alle istituzioni liberali.

d) Il lento avvio del cattolicesimo sociale sotto Pio IX

Sebbene la maggioranza dei cattolici si rifiutasse fino alla fine del XIX secolo di considerare la necessità di ‛riforme di struttura' per migliorare la condizione del proletariato industriale o agricolo, si incontra tuttavia durante il terzo quarto del secolo un certo numero di laici, di preti e di vescovi i quali si rendono conto che la miseria dei lavoratori pone un problema non solo di carità ma di giustizia. Tuttavia, contrariamente a ciò che si potrebbe credere, non è negli ambienti più aperti alla democrazia politica moderata - cioè tra i cattolici liberali in Francia e in Belgio e i ‛transigenti' in Italia - che si incontra la maggior parte dei cattolici sociali di quest'epoca, ma al contrario tra gli avversari più decisi della società moderna, e questo spiega come essi abbiano cominciato quasi tutti col cercare la soluzione del problema in una prospettiva non democratica.

Questo fenomeno, apparentemente sconcertante, diventa chiaro, tuttavia, quando lo si osservi più da vicino. All'inizio, molti di questi pionieri del cattolicesimo sociale provengono dall'aristocrazia terriera, meno impegnata dei cattolici liberali negli affari e dunque meno sensibile di questi al famoso imperativo della ‛ferrea legge' delle esigenze della concorrenza. E, soprattutto, essi vedono nell'azione sociale un mezzo per guadagnare le masse popolari alla loro causa nella lotta contro l'oligarchia borghese anticlericale, che detestano doppiamente: perché anticlericale e perché pretende di sostituire il potere del denaro alle antiche autorità sociali. Si capisce allora perché le preoccupazioni dei cattolici sociali si ispirino spesso ad un ideale nostalgico di ritorno al passato patriarcale e corporativo piuttosto che ad un adattamento realistico alla situazione nuova e irreversibile creata dalla rivoluzione industriale.

Il legame tra l'antiliberalismo e le preoccupazioni sociali era apparso molto presto nella ‟Civiltà cattolica", e Pio IX dedicò un passaggio dell'enciclica Quanta cura alla denuncia non solo dell'illusione del socialismo, che pretende di sostituire la Provvidenza con lo Stato, ma anche del carattere pagano del liberismo economico, che esclude la morale dalle relazioni tra capitale e lavoro.

Queste idee ispirarono parecchi dei primi animatori del Movimento Cattolico Italiano, che, in un paese ancora poco industrializzato, erano soprattutto preoccupati per la pietosa situazione delle masse contadine. Sotto l'egida dell'Opera dei Congressi, i cui animatori erano francamente ostili allo Stato liberale, a partire dal congresso di Bergamo del 1877, si costituì - almeno nel Nord della penisola, dove gli effetti della propaganda socialista cominciavano a farsi sentire - tutta una rete di opere a carattere economico e sociale che mirava ad andare incontro ai diversi bisogni delle classi popolari. Sempre nell'ambito dell'Opera dei Congressi, si cominciò ad elaborare in Italia una ‛sociologia', come si diceva a quel tempo, in cui l'accento era messo sulle esigenze della morale e della religione in rapporto agli interessi materiali, e il cui principale rappresentante fu il professor G. Toniolo. Questo movimento sociale italiano ebbe tuttavia una portata circoscritta, non solo perché si limitò a imitare più timidamente quello che si faceva nei paesi vicini, ma anche perché, sotto l'influenza dei principali dirigenti dell'Opera dei Congressi, restò a lungo ostile all'idea che una democrazia politica fosse la condizione necessaria per ottenere valide riforme sociali.

Il cattolicesimo sociale francese soffrì a lungo della stessa limitazione; ma se neanche in Francia, prima dell'ultimo decennio del secolo, si vede quasi mai spuntare l'idea che bisognerebbe affidare agli operai stessi la responsabilità delle opere sociali che si creano per loro, il movimento francese dette tuttavia prova di maggiore originalità dottrinale, grazie al lavoro realizzato intorno a René de la Tour du Pin da un gruppo di sociologi e di teologi (molto attivi intorno al 1880) riuniti in seno all'Opera dei Circoli Cattolici Operai per elaborare un piano di restaurazione di una società cristiana su base corporativa. Malgrado l'aspetto anacronistico di alcune sue posizioni, questo gruppo appare in fondo, su parecchi punti essenziali, più moderno in materia sociale della maggior parte dei capi repubblicani dell'anteguerra, specialmente perché, in seguito alla riscoperta delle dottrine scolastiche, prendeva delle posizioni che si avvicinavano in modo singolare al punto di vista socialista sui limiti del diritto di proprietà e sul diritto di intervento dello Stato nella vita economica. Ciò non vuol dire tuttavia che tutti i cattolici che si interessavano al problema operaio aderissero a queste idee audaci, ed esse non superarono il livello delle discussioni teoriche. Il grosso dei cattolici - ed è anche il caso del Belgio - rifiuta allo Stato ogni intervento nel campo degli affari, anche quando denuncia con energia lo sfruttamento degli operai da parte della nuova classe borghese e insegna che le leggi morali devono dominare l'economia: secondo loro, la soluzione della questione sociale non può venire che dalla sola iniziativa privata e dai progressi dello spirito cristiano tra gli imprenditori.

Paradossalmente proprio in Germania, dove l'evoluzione industriale fu più tardiva, si situa l'origine del movimento sociale cattolico più realista, che giudicherà indispensabile una limitazione della libertà economica per mezzo della legislazione sociale. A dire il vero, fino al 1870, al centro delle preoccupazioni della maggior parte dei cattolici tedeschi, ansiosi di ‟riavvicinare la Chiesa al popolo per riavvicinare il popolo alla Chiesa", è piuttosto la ripresa dell'artigianato e l'organizzazione dei contadini. Ma a poco a poco anche la questione operaia propriamente detta fermò la loro attenzione, e si svilupparono, soprattutto nelle regioni industriali della Renania, delle associazioni che, alla preoccupazione da tempo predominante di salvare le anime e soccorrere i poveri, aggiunsero quella di organizzare le professioni, fornendo all'azione operaia una solida base d'azione per arrivare ad una modificazione del regime di lavoro. In questa evoluzione, un ruolo importante spettò al dinamico vescovo di Magonza, monsignor Ketteler, anche se si è spesso frainteso il suo ruolo presentandolo come un pioniere della Democrazia Cristiana. Quando si levava contro l'oppressione di cui i più deboli economicamente erano vittime nel regime sociale del suo tempo, questo aristocratico vestfaliano pensava innanzitutto ad un ritorno alla società corporativamente organizzata, quale l'aveva conosciuta il Sacro Romano Impero del Medioevo. La sua influenza sul cattolicesimo sociale resta tuttavia considerevole, specialmente per la sua opera Die Arbeiterfrage und das Christentum (1864), nella quale non si limitava a suggerire alcune riforme concrete, ma si sforzava soprattutto di mostrare che la soluzione del problema operaio non era concepibile se non in funzione di una concezione generale della società, in diretto contrasto sia con l'individualismo liberale che con il totalitarismo dello Stato centralizzatore moderno. Egli vi appariva come il primo teorico dell'organicismo sociale a base corporativa, che costituirà per più di mezzo secolo il fondamento della dottrina sociale cattolica, la cui opposizione all'ideale individualistico del liberismo economico sarà in più di un caso, fino alla fine del secolo, più netta delle diffidenze pratiche e delle obiezioni teoriche nei riguardi del socialismo.

Le idee di Ketteler ispirarono specialmente la scuola austriaca, animata dal barone K. von Vogelsang, fondatore della ‟Monatsschrift für christliche Sozialreform" in cui criticava il regime capitalista del suo tempo con tale violenza che si fece dare del ‛socialista cristiano'. Uno dei suoi seguaci, il principe K. von Löwenstein, organizzò nella sua proprietà di Heid, dal 1883 al 1886, delle riunioni di cattolici sociali durante le quali furono elaborate una serie di tesi, che ci sembrano oggi piuttosto inadatte all'ampiezza delle trasformazioni della società industriale, ma che, per quel tempo e al di fuori degli ambienti rivoluzionari, costituivano una grossa novità. Esse urtarono contro vive resistenze dell'episcopato, ma furono propagate all'estero grazie ad una rivista internazionale, la ‟Correspondance de Genève", fondata e diretta da un altro membro del gruppo di Vogelsang, il conte von Blome.

3. Il difficile cammino

a) L'adesione della Santa Sede alla democrazia politica

L'elezione di Leone XIII fu considerata dai cattolici liberali come una vittoria per il loro punto di vista, e l'avvenire doveva in sostanza dar loro ragione. Non che Leone XIII possa essere considerato un ‛liberale', perché, lungi dal rassegnarsi ad una laicizzazione crescente delle istituzioni, aveva al contrario come scopo, utilizzando al massimo le risorse offerte dal diritto pubblico moderno, di ricristianizzare le istituzioni e restituire alla Chiesa il posto di guida spirituale dell'umanità che aveva occupato nei secoli precedenti. Resta vero, nondimeno, che Leone XIII, ansioso di vedere la Chiesa riannodare il dialogo col mondo, non si limita a incitare i cattolici perché utilizzino opportunamente le libertà costituzionali al servizio della loro causa (cosa che rappresentava già una svolta notevole), ma compie inoltre un grosso sforzo teorico per integrare le istituzioni liberali in una concezione cattolica dello Stato e della società. Forte delle lunghe riflessioni dei suoi anni di ritiro, e anche, senza dubbio, influenzato in qualche misura dai ricordi dell'esperienza dei cattolici belgi e soprattutto dal suo interesse per la situazione della Chiesa nei paesi anglosassoni, Leone XIII durante tutto il suo pontificato si è sforzato di formulare in modo positivo, adeguato ai dati moderni del problema, una dottrina cattolica dello Stato aperta alle aspirazioni fondamentali della democrazia moderna. All'elaborazione di questa dottrina egli ha consacrato quasi 80 documenti, tra cui quattro grandi encicliche: Immortale Dei (1885), Diuturnum illud (1887), Libertas praestantissimum (1888: ‟la libertà, il più prestigioso dei doni di Dio"), Sapientiae christianae (1890).

Certamente, non tutto era definito e compiuto in ‛questo primo abbozzo di un diritto pubblico cristiano adattato ad una società per cui l'ancien régime era definitivamente tramontato, e specialmente padre C. Murray (in ‟Theological studies", 1953, XIV, pp. 1-30, 145-214, 551-567) ha messo bene in luce i limiti che il contesto storico immediato e il peso dell'eredità di quattro secoli di regimi totalitari imponevano inevitabilmente all'insegnamento di Leone XIII sull'argomento, sia che si trattasse del diritto divino dei re che della concezione giacobina dello Stato, che aveva profondamente influenzato la filosofia politica cattolica (così, per esempio, il problema autorità-libertà viene posto da Leone XIII in funzione di una teoria della potestas incarnata nel ‛principe', piuttosto che in funzione di una teoria della comunità popolare, come faceva san Tommaso). Ma queste limitazioni non gli impediscono di tracciare le grandi linee di una dottrina equilibrata, accettabile sia dalla Chiesa che dai liberali. Se non cerca ancora di superare la distinzione - che sarà ufficialmente abbandonata solo dal Vaticano II - tra la ‛tesi' e l'‛ipotesi', cioè tra la società ideale agli occhi della Chiesa e le contingenze pratiche che bisogna pure tollerare, riconosce almeno che l'‛ipotesi' costituisce in realtà il regime normale per la nostra epoca, e disapprova formalmente le discussioni tra cattolici liberali e intransigenti sulla legittimità effettiva delle Costituzioni basate sull'applicazione dei principî del 1789. Anzi, egli avvia su alcuni punti importanti una evoluzione verso concezioni più moderne, specialmente quando non si limita più a rivendicare i diritti della Chiesa, ma si sforza parallelamente di definire anche i diritti del potere civile e la sua legittima indipendenza nell'ambito che gli è proprio, in rapporto alle autorità ecclesiastiche; o ancora quando distingue dal liberalismo agnostico il riconoscimento di una legittima tolleranza e il mutuo rispetto delle diverse famiglie spirituali in una società in cui l'unanimità religiosa non esiste più. Inoltre, passando dalla teoria alle applicazioni pratiche, consiglia ai cattolici di Spagna e di Francia di aderire ai nuovi regimi, fossero anche repubblicani, rinunciando per conseguenza a quel legittimismo ignaro del moto della storia che era prevalso fino ad allora negli ambienti cattolici.

Senza dubbio, una grande distanza separa a prima vista il liberalismo cattolico dalla Democrazia Cristiana. A differenza di Lamennais, molti cattolici liberali della seconda metà del XIX secolo si presentano in effetti come una destra costituzionale molto attaccata alle libertà individuali, ma conservatrice dal punto di vista sociale in nome del principio del laissez faire, laissez passer, e talvolta anche molto restia nei riguardi del suffragio universale. Resta nondimeno vero che, se la Democrazia Cristiana è altra cosa dal liberalismo cattolico, essa implicava tuttavia l'adesione alle libertà moderne, soprattutto nella misura in cui intendeva perseguire i suoi obiettivi sociali sul piano parlamentare, il solo efficace se si voleva arrivare a risultati concreti. Ora, riprendendo per suo conto e dando valore di dottrina ufficiale a ciò che c'era di ragionevole nelle intuizioni dei cattolici liberali della generazione precedente, e pur equilibrando con saggezza e prudenza le loro affermazioni talvolta troppo recise, Leone XIII ampliò la sfera d'influenza del liberalismo cattolico. Non solo: la chiarificazione dottrinale che egli apporta è all'origine di un raggruppamento delle forze cattoliche secondo nuove linee di divisione: in Francia, in Italia e in Belgio si constata che i democratici cristiani della fine del secolo, il cui programma politico si situava innegabilmente sulla linea dei principî del 1789, vengono in buona parte dagli ambienti ‛intransigenti' che per vent'anni avevano condotto con ardore la guerra contro i cattolici liberali e le loro esortazioni ad aderire alla società moderna.

b) La svolta della Rerum novarum

Mentre con le sue messe a punto Leone XIII sblocca le prevenzioni dei cattolici nei confronti dei regimi politici che si collocavano nella tradizione del 1789, pone i cattolici anche di fronte alle loro responsabilità sociali, non più concepite nella linea della carità individuale, ma in quella di un riassetto delle strutture economiche in nome delle esigenze della giustizia. In questo modo i due aspetti essenziali della Democrazia Cristiana, come si svilupperà progressivamente nella prima parte del XX secolo, sono ormai riconosciuti dall'autorità suprema.

L'intervento decisivo di Leone XIII, che trasse occasione da una ripresa, nel 1890, della controversia tra cattolici a proposito del diritto di intervento dello Stato in materia sociale, fu preparato, come accade generalmente, da diverse iniziative che si erano sviluppate al di fuori di Roma. Si è visto prima che, fin dall'inizio del suo pontificato, esistevano in Germania, in Francia, in Italia e in Austria gruppi preoccupati della condizione imposta ai lavoratori dal capitalismo liberale. Questi gruppi non erano rimasti completamente isolati fra i cattolici, non solo grazie alle loro pubblicazioni, ma anche grazie ad incontri occasionali. Apparve ben presto auspicabile che questi contatti diventassero più sistematici, e a questo scopo fu istituita l'Unione Cattolica di Studi Sociali, che a partire dal 1884 si riunì ogni anno in Svizzera a Friburgo, sotto la presidenza di mons. Mermillod, per elaborare una versione, adatta al nostro tempo, della dottrina corporativista della società. I risultati delle deliberazioni restavano segreti, ma erano regolarmente trasmessi dei rapporti al papa, che vi dedicava un'attenzione sempre maggiore.

Risultato di iniziative molteplici, nelle quali i laici ebbero una parte importante, l'enciclica Rerum novarum (15 maggio 1891) resta nondimeno opera di Leone XIII che, pur non scrivendo niente di suo pugno, impose in ogni parte il suo pensiero e la sua impronta. L'enciclica sviluppò, l'uno dopo l'altro, i seguenti temi: rifiuto della soluzione socialista della questione sociale e dimostrazione della tesi che la proprietà privata si fonda sul diritto naturale; giustificazione dell'intervento della Chiesa negli affari sociali allo scopo di alleviare ‟l'immeritata miseria dei lavoratori"; diritto di intervento dello Stato nella vita economica, particolarmente per la determinazione del giusto salario e per una migliore distribuzione della proprietà tra gli uomini; utilità delle associazioni professionali così come degli organismi creati dai cattolici in favore dei lavoratori.

Grazie alla pubblicazione delle diverse redazioni preliminari ad opera di mons. Antonazzi (L'enciclica Rerum novarum. Testo autentico e relazioni preparatorie dai documenti originali, Roma 1957), possiamo seguire l'elaborazione progressiva del testo. Vi si constata particolarmente che, dal primo progetto redatto da p. Liberatore alla nuova redazione dovuta a p. Zigliara e infine al testo definitivo rivisto minuziosamente dal papa stesso, l'idea di un regime corporativo scompare progressivamente a vantaggio delle associazioni professionali che avrebbero dovuto raggruppare, per quanto possibile, imprenditori e operai; questa formula tuttavia non veniva imposta, il che equivaleva a tollerare ufficialmente l'esistenza dei sindacati puramente operai (l'inciso su questo punto fu inserito all'ultimo minuto). Per contro, se fu conservata l'opzione iniziale in favore dell'intervento dello Stato nella vita economica e sociale, le numerose sfumature e attenuazioni introdotte progressivamente nel testo dimostrano con quale prudenza e quali esitazioni la Santa Sede si impegnasse su questa strada. Bisogna d'altronde, per comprendere questa circostanza, tener conto del fatto che, pur volendo reagire in nome della tradizione scolastica ad una concezione individualistica della società e della proprietà, Leone XIII era molto preoccupato di non offrire coperture alle tendenze totalitarie spesso presenti nel socialismo dottrinario del suo tempo.

Certamente, questa enciclica fu in parte ispirata dal timore di vedere gli operai cattolici passare sempre più numerosi al socialismo, e bisogna pur riconoscere che essa si limita spesso a considerazioni moraleggianti e a generalizzazioni astratte; non mancano però anche aspetti più positivi. Mentre la maggior parte dei cattolici sociali dei decenni precedenti erano dei nostalgici delle antiche società prevalentemente rurali, che reagivano alla società borghese in una prospettiva precapitalistica e caldeggiavano il ritorno a una versione più o meno modernizzata del corporativismo dell'ancien régime (via sbarrata dalla grande industria moderna), Leone XIII ha avuto il merito di staccarsi da queste utopie romantiche per collocarsi con realismo su un terreno analogo a quello del socialismo riformista, cercando il miglioramento delle condizioni della classe operaia nel quadro delle situazioni esistenti, ivi compreso il sindacalismo operaio. D'altra parte, non era cosa senza importanza che i diritti dei lavoratori e l'ingiustizia del liberismo economico integrale fossero solennemente proclamati dalla più alta autorità spirituale, poiché ciò contribuiva a togliere al movimento operaio il carattere rivoluzionario che esso aveva avuto fin allora agli occhi della grande maggioranza del mondo borghese. Ormai, malgrado numerose resistenze che si prolungarono per molti anni ancora, i cattolici dovettero ammettere che c'era qualcosa da cambiare e, se molti si limitarono a cercare la soluzione del problema nel solco del corporativismo, i più avvertiti cominciarono ad impegnarsi sulla via della democrazia cristiana propriamente detta.

c) L'affermazione della Democrazia Cristiana

Negli anni che seguirono la Rerum novarum, l'organizzazione, in parecchi paesi, di gruppi che si appellavano ufficialmente all'ideale democratico cristiano non andò esente da difficoltà, non solo perché molti cattolici sociali pensavano che le modificazioni istituzionali destinate a migliorare la situazione dei lavoratori dovessero essere realizzate in conformità di un antico adagio: ‟Tutto per il popolo, niente dal popolo", ma anche perché la nozione stessa di Democrazia Cristiana non era priva di ambiguità. In effetti, se l'espressione mirava a segnare le distanze in rapporto alla ‛falsa democrazia' radicale e individualistica, i pareri divergevano sulla portata esatta di questo richiamo al cristianesimo: si trattava di costituire un partito politico confessionale, mirante in definitiva a ristabilire uno Stato cristiano su una base popolare, o ci si sarebbe accontentati di una semplice ispirazione cristiana, accettando una parte dell'eredità liberale, cioè lo Stato laico all'interno del quale credenti e non credenti avrebbero collaborato in vista di una maggiore giustizia sociale?

Nell'impossibilità di ripercorrere le vicissitudini del movimento nei diversi paesi, ove seguì itinerari assai diversi secondo le circostanze locali, ci limiteremo qui a ricordare tre paesi le cui controversie interne dovevano riecheggiare molto al di là delle loro frontiere.

Il primo in ordine di tempo è il Belgio. I paternalisti conserveranno fino al 1914 la direzione della maggior parte delle opere a scopo caritativo, ma la fondazione della Ligue Démocratique Belge nel febbraio 1891 - dunque qualche mese prima dell'enciclica- segna una svolta importante, che si accentuò nel 1895 con l'avvento alla presidenza di A. Verhaegen, che seppe liberarsi dalle prospettive corporativiste del suo predecessore Hellesutte. Agendo come un gruppo di pressione, la Lega permise alla Democrazia Cristiana di fare il suo ingresso in Parlamento nelle file del vecchio partito cattolico, che deteneva allora il potere, e di ottenere, malgrado resistenze accanite della Destra conservatrice, l'approvazione di parecchie riforme importanti a favore dei lavoratori. La direzione della Lega, pur restando essenzialmente nelle mani di uomini che non erano operai, si pronunciò però risolutamente, fin dal 1892, per la formula dei sindacati operai senza partecipazione padronale i quali, dopo un avvio piuttosto lento, si andarono progressivamente imponendo a partire dal 1901 grazie ai meriti eccezionali del domenicano C. Rutten. In breve, alla vigilia della prima guerra mondiale la Democrazia Cristiana belga possedeva tutti i tratti costitutivi che la caratterizzeranno durante il mezzo secolo seguente: era divenuta un fattore essenziale del partito cattolico e, nella forma di sindacati, mutue, cooperative ed opere diverse in regolare espansione, era sempre più presente nella vita prolessionale, economica, culturale e religiosa del paese.

In Francia i cattolici sociali di tipo paternalista erano lungi dall'essere scomparsi dopo l'enciclica Rerum novarum; ma, parallelamente, si era affermata dopo il 1891 la corrente che M. Montuclard ha chiamato, rispetto al tentativo fallito del 1848, la ‟seconda democrazia cristiana in Francia" (sottotitolo della sua opera Conscience religieuse et démocratie, 1891-1902, Paris 1905). Questa corrente era sorta, da un lato, dall'incontro di preti e laici che si dedicavano all'apostolato popolare e, dall'altro, dall'incontro di militanti operai eredi dei loro compagni dell'‟Atelier" o formati nei patronati dei Frères, che aspiravano a coordinare i loro sforzi all'interno di un raggruppamento cattolico rispondente alla loro origine sociale e ai loro sentimenti profondi. Li animava un ideale comune: ristabilire il contatto tra la Chiesa e le masse popolari, rese diffidenti dalla solidarietà delle gerarchie cattoliche con i passati regimi politici, economici e sociali. Questo implicava sia l'accettazione dei valori del liberalismo politico, che i pionieri del cattolicesimo sociale avevano respinto, sia la volontà di costruire una democrazia sociale di ispirazione cristiana, alla quale i cattolici liberali restavano allergici. Nato in seno all'Opera dei Circoli, da cui non tardò a separarsi, il movimento si affermò man mano che i più perspicaci si rendevano conto dell'impotenza delle opere di tipo tradizionale e comprendevano la necessità di volgersi verso la formula del sindacalismo operaio; inoltre, stimolato dall'esempio belga, si impegnò abbastanza presto sul terreno politico, in particolare prendendo nettamente posizione in favore dell'adesione alla repubblica. Rimasti sempre fortemente minoritari - ma molto attivi per una decina d'anni, soprattutto in certi centri di provincia come Lilla, Reims o Lione - i democratici francesi erano animati da un piccolo gruppo di operai e impiegati (come M. Gonin) e da alcuni borghesi (come l'industriale L. Harmel, il pubblicista G. Goyau, l'imprenditore H. Lorin), ma soprattutto da alcuni giovani preti entusiasti, gli ‛abati democratici', i più in vista dei quali furono H. Gayraud, autore di un'opera basilare su Les démocrates chrétiens (Paris 1898), P. Naudet, il più eloquente e il più ardito tra tutti, e J. Lemire, membro fin dal 1893 della Camera dei deputati, divenuto presto la principale bandiera del gruppo. Questo poteva contare sull'appoggio di Leone XIII, ma, dopo un breve periodo di favore da parte dell'episcopato, declinò rapidamente a partire dal 1898. Il fallimento di questo tentativo, di cui non rimarrà, dopo il 1900, che qualche piccola isola di resistenza, non si spiega soltanto con l'opposizione dei conservatori nè con l'insuccesso della politica del ralliement, ma anche con il fatto che, come apparve chiaro molto presto, le prese di posizione degli abati democratici implicavano problemi estremamente delicati, come il posto del cristiano in una società secolarizzata o le ripercussioni, sull'organizzazione della Chiesa, della rivendicazione di un nuovo ordine sociale e politico opposto alla concezione gerarchica della società, prevalsa fino ad allora nel mondo cattolico. Le imprudenze dei giovani preti e seminaristi, che sembravano confondere amore degli umili e disprezzo per le classi superiori, e in seguito l'intervento appassionato della stampa integralista, che identificava senza sfumature Democrazia Cristiana e modernismo, finirono per rendere insostenibile la situazione degli abati democratici. La loro scomparsa non ebbe tuttavia come conseguenza la sparizione di ogni sforzo in senso democratico all'interno del cattolicesimo francese. Ci fu, da una parte, il tentativo del Sillon di Marc Sangnier, che galvanizzò le energie di molti giovani e doveva lasciare tracce profonde, la cui influenza si ritroverà nei movimenti democratici cristiani del periodo tra le due guerre. Sul momento, però, si interruppe bruscamente dopo la condanna di Pio X, nel 1910 (su questa dolorosa vicenda, cfr. J. Caron, Le Sillon et la démocratie chrétienne, Paris 1967). Dall'altra parte, in modo meno spettacolare ma più efficace, si sviluppò lentamente e faticosamente, ma regolarmente, una corrente moderata attorno ad alcuni organismi creati durante i primi anni del XX secolo: Les Semaines Sociales de France (1904); l'Action Populaire, dei gesuiti (1903); i segretariati sociali, fondati da M. Gonin e animati dall'ACJF; e i primi sindacati cristiani. In breve, si ebbe un certo numero di iniziative interessanti (in una congiuntura tuttavia molto meno favorevole che sotto Leone XIII), una lenta maturazione che preparava l'avvenire, anche se i democratici francesi rimasero nel complesso, fino allo scoppio della guerra, esigui per numero e quasi privi d'appoggio nell'episcopato.

In Italia, invece, la questione sociale occupava un posto sempre maggiore nelle preoccupazioni della ufficialissima Opera dei Congressi, la cui intransigenza non si identificava affatto col conservatorismo sociale della borghesia e che vedeva al contrario nell'ideologia di questa, il liberalismo, l'origine di tutti i mali sociali, compresa la comparsa del socialismo. La seconda sezione dell'Opera, di gran lunga la più viva, chiamata dopo il 1887 ‛Economia sociale cristiana', poté contare sulla collaborazione di una notevole parte del clero, spesso più vicino al popolo che non in Francia, e sull'appoggio di una parte della stampa cattolica: in prima fila l'‟Osservatore cattolico" di don Albertario, che molto si adoperò per far conoscere il problema sociale al mondo cattolico italiano. È vero che la tendenza della maggior parte dei dirigenti dell'Opera restò a lungo paternalistica, ma nel corso degli anni novanta si profilò una evoluzione.

Nel gennaio del 1894, Toniolo fece accettare, non senza difficoltà, dalla direzione dell'Opera il suo Programma dei cattolici di fronte al socialismo, che fu accolto con entusiasmo dai giovani, particolarmente a Milano. Egli vi caldeggiava la riorganizzazione della società sulla base di ‟unioni professionali": possibilmente corporazioni che riunissero imprenditori e lavoratori, ma eventualmente anche sindacati operai; si aggiungevano poi diverse altre rivendicazioni caratteristiche: decentramento amministrativo e autonomia comunale, determinazione del numero massimo di ore di lavoro e di un salario minimo, protezione della piccola proprietà come della proprietà collettiva, ripartizione più equa delle imposte, libertà di insegnamento. La realizzazione di un simile programma presupponeva un'azione a livello politico, ma Leone XIII non intendeva autorizzare i cattolici italiani a partecipare alla vita parlamentare fintanto che non fosse stata risolta in maniera soddisfacente la questione romana. Tuttavia Albertario propose nel 1896 di sostituire alla vecchia consegna: ‟Né eletti né elettori" una parola d'ordine più positiva: ‟Preparazione nell'astensione". Al suo seguito una parte crescente dell'ala intransigente, che aveva fin allora rifiutato la collaborazione con lo Stato liberale, prese a raccomandare il rientro dei cattolici nella vita pubblica, non più tuttavia - come i ‛transigenti' - sulla base di una transazione con il regime politico in vigore, ma invece in vista di rivendicazioni sociali in opposizione alla politica condotta fino a quel momento dai governi liberali.

Ciononostante sorsero presto delle difficoltà, perché molti tra i più anziani, a corninciare da Toniolo, erano preoccupati di mantenere anche in materia profana, di fronte all'anticlericalismo ufficiale, l'unità di tutti i cattolici sotto la direzione del papa (nella miglior tradizione neoguelfa); e per placare l'opposizione dei conservatori (che si esasperava constatando che il governo tendeva a inglobare in una medesima riprovazione le rivendicazioni dei socialisti e quelle del Movimento Cattolico), essi furono portati a ridurre il loro programma a proposizioni vaghe ed astratte, finendo con lo svuotare della sua sostanza il concetto di Democrazia Cristiana. Ma, stimolati dall'esempio dei democratici cristiani della Francia e del Belgio e dalle realizzazioni sociali dei cattolici tedeschi riuniti in un potente partito politico, i giovani, a partire dal congresso di Milano del 1897, reagirono con vigore crescente a questo modo di considerare le cose, che ostacolava la normale maturazione del movimento verso una forza efficace di liberazione popolare e di progresso. Essi trovarono un portavoce particolarmente trascinante in un giovane prete molto popolare negli ambienti degli studenti e dei seminaristi, R. Murri, che aveva lanciato nel 1898 la rivista ‟Cultura sociale" in vista di una campagna di ‟svecchiamento, non solo dell'azione sociale dei cattolici, ma della cultura del clero e dei cattolici, della loro vita civile, morale, religiosa, pur prevalendo sugli altri l'interesse politico-sociale" (v. Fonzi, 19602).

Leone XIII, che era cosciente della necessità di superare l'angusto punto di vista dei conservatori e insieme assai preoccupato di mantenere l'unità delle forze cattoliche, cercò di canalizzare l'effervescenza dei democratici con la sua enciclica Graves de communi (1901). Pur riconoscendo, contro le critiche di cui era oggetto in alcuni ambienti cattolici - specialmente da parte della ‟Civiltà cattolica" - la legittimità dell'espressione ‛democrazia cristiana', il papa, ispirandosi al punto di vista etico-sociale di Toniolo, ne diede una definizione molto restrittiva: ‟Nelle circostanze attuali, bisogna usarla solo togliendole ogni senso politico e senza assegnarle nessun altro significato che quello di una benefica azione cristiana tra il popolo". Venivano così nettamente segnate le distanze dalla formula raccomandata dagli abati democratici: ‟Tutto per il popolo e dal popolo", ma non si chiudeva tuttavia la porta al proseguimento di un'azione moderatamente riformista.

Se i democratico-cristiani italiani conservavano, dell'ambiente nel quale si erano formati, la nostalgia di un movimento professionale unico per tutti i cattolici e la tendenza ad accettare più facilmente di quanto accadesse all'estero le direttive ecclesiastiche in materia temporale, questo colpo di freno, che sembrò a molti un arretramento, non calmò le impazienze dei più avanzati, neppure dopo che Leone XIII ebbe data, nel 1902, una soddisfazione parziale ai giovani rinnovando in senso meno conservatore lo stato maggiore dell'Opera dei Congressi. Anche all'interno del gruppo favorevole alle riforme sociali si allargò il fossato tra i fautori della linea moderata (rappresentata dal brillante avvocato milanese F. Meda), i quali giudicavano più realistico perseguire per tappe la realizzazione del loro programma all'interno dello Stato borghese, e l'ala radicale raggruppata intorno a Murri. Il cambiamento di pontificato accentuò la tensione, perché Pio X era ancor più ostile del suo predecessore alle pretese di Murri di liberarsi dal controllo della gerarchia in materia sociale e politica, anche se (o meglio soprattutto per questa ragione) l'auspicio di Murri, il cui programma conservava delle proprie origini alcuni aspetti nettamente clericali, era che il clero assumesse la direzione dei cattolici in queste sfere profane. La rottura aperta si produsse nel novembre 1903, quando Murri e i suoi amici, esasperati per il ravvicinamento che si delineava tra il movimento cattolico ufficiale e i liberali moderati di Giolitti, fondarono un partito politico autonomo, la Lega Democratica Nazionale (ogni riferimento confessionale era stato intenzionalmente evitato perché il partito aveva inserito nel suo programma precisamente la separazione tra Chiesa e Stato). Ma la Lega, sconfessata dal Vaticano e al contempo sospetta ai socialisti, non riuscì a sfondare, e quando fu scomunicato nel 1909, per le sue tendenze moderniste, Murri era già stato abbandonato, da molti anni, dalla maggior parte di quelli che erano stati all'origine del movimento. Il grosso dei cattolici sociali si riorganizzò dopo il 1905 nell'Unione Economico-Sociale, che era succeduta alla seconda sezione dell'Opera dei Congressi dopo il suo scioglimento voluto da Pio X.

L'atmosfera romana dell'epoca era poco favorevole alle idee democratiche, e le realizzazioni immediate furono molto modeste. Ma i semi gettati da Murri continuarono a germogliare lentamente; è importante notare, infatti, che il contrasto che si era a poco a poco accentuato tra la sua posizione e quella di Meda e dei suoi amici derivava, più che da un disaccordo sulle idee, da una diversità di temperamento e di metodo politico. L'essenziale del programma di Murri fu in realtà ripreso dai giovani più dinamici, che avevano giudicato preferibile non rompere col movimento cattolico ufficiale; e questo fu particolarmente il caso di uno dei suoi collaboratori della prima ora, il prete siciliano Luigi Sturzo, che fin dal 1905 nel suo discorso di Caltagirone, Per un partito nazionale di cattolici in Italia, aveva aperto la strada ad una delle realizzazioni più tipiche della democrazia cristiana del periodo tra le due guerre, il Partito Popolare Italiano.

Prima di ciò, tuttavia, l'idea democratica cristiana ebbe ancora un'ardua prova da superare.

d) Le reticenze romane

L'appoggio dato da Leone XIII a quanti pensavano che la realizzazione di un ordine sociale di ispirazione cristiana non fosse incompatibile con un certo modo di intendere l'eredità ideologica del 1789, non aveva fatto dimenticare a Roma le condanne contenute nelle encicliche Mirari vos e Quanta cura. Nel 1889, per esempio, monsignor Keane, il primo rettore dell'Università cattolica di Washington, si vide rimproverare dal cardinal Zigliara di fare troppe concessioni alle tendenze democratiche del tempo, e abbiamo appena visto che lo stesso Leone XIII, nell'enciclica Graves de communi, accettava l'espressione ‛democrazia cristiana' solo in un senso restrittivo che la limitava al campo dell'azione sociale, sconfessando, in tal modo, il progetto di Murri e dei suoi amici di intervenire sul terreno politico fondando un partito democratico cristiano.

Le riserve si accentuarono ancora sotto il pontificato successivo. Pio X nella sua condanna rimproverava al Sillon posizioni incompatibili con la dottrina tradizionale della Chiesa: posizioni che ricordavano ‟le dottrine dei presunti filosofi del XVIII secolo, quelle della Rivoluzione e del liberalismo, tante volte condannate", concernenti, in particolare, l'origine e l'esercizio dell'autorità, l'uguaglianza tra gli uomini, la necessità di trasformazioni radicali per risolvere il problema sociale, ‟mentre basta riprendere, adattandoli, gli organismi distrutti dalla Rivoluzione" - cioè le corporazioni - ‟giacché i veri amici del popolo non sono né rivoluzionari né innovatori, ma tradizionalisti". Parallelamente, si sviluppò da parte di coloro che si richiamavano al ‛cattolicesimo integrale' una campagna sempre più aspra contro i democratico-cristiani, accusati di ‛modernismo sociale' perché si allontanavano dal modello della civiltà cristiana quale era stata concepita fino allora e ricadevano, anche se con forme diverse, nell'errore del cattolicesimo liberale stigmatizzato da Pio IX. Ci si potrebbe a prima vista meravigliare constatando che questi attacchi venivano spesso da uomini che erano stati caldi fautori dell'enciclica Rerum novarum come Benigni in Italia, Maignôn in Francia, Decurtins in Svizzera, e molti altri. Ma, per l'appunto, costoro restavano fedeli al programma originario del cattolicesimo sociale dei primi anni di Leone XIII, che opponeva con vigore l'ordine sociale cristiano, derivante dalla sovranità del Cristo sulla società, all'‛ateismo sociale' del mondo borghese uscito dalla rivoluzione del 1789; e ciò che essi rimproveravano ai democratico-cristiani della nuova generazione era di tendere sempre più, in nome delle loro preoccupazioni sociali e della loro presa di coscienza dell'autonomia della vita profana, a liberarsi dalla tutela ecclesiastica organizzando la difesa operaia su una base professionale neutra, permettendo la collaborazione con i non cattolici, o anche, pur conservando per i sindacati una etichetta confessionale, definendoli essenzialmente in base al loro ruolo economico e sociale, cioè senza metterne in primo piano le finalità morali e religiose.

Il conflitto si sviluppò simultaneamente in tutta l'Europa occidentale: in Italia, come abbiamo appena visto; in Francia, dove l'Action Populaire dei gesuiti fu particolarmente presa di mira; in Belgio, dove padre Rutten fu attaccato a varie riprese dagli inquisitori della ‛Sapinnière'; in Olanda, dove l'abate H. Poels, il geniale realizzatore del movimento operaio cristiano nel Limburgo, fu denunciato dagli integralisti della Scuola di Leyda. Ma è in Germania che si situa questa volta l'epicentro, poiché di contro alla tendenza tradizionalista, detta di Berlino e incoraggiata dagli integralisti, la nuova ‛tendenza di Colonia', che aveva come formula l'interconfessionalismo e la declericalizzazione, era appoggiata dalla maggioranza dell'episcopato. Un articolo della ‟Civiltà Cattolica" del febbraio 1914, che denunciava il sindacalismo cristiano in quanto ‟implicante troppe cose assolutamente contrarie al vero spirito del Vangelo", apparve a molti come un ballon d'essai lanciato in vista di un documento pontificio destinato a rinfacciare al sindacalismo cristiano il suo crescente distaccarsi da quella ideologia sociale che, sebbene alcuni storici apologisti abbiano tentato in seguito di negarlo, appariva a Pio X come la sola veramente conforme alla ortodossia cattolica. Tutti coloro che si rendevano conto che il papa su questo punto era prigioniero di un ‛modello' (nel senso sociologico del termine) superato e che si preoccupavano di non ritardare oltre l'adattamento della Chiesa all'evoluzione della società moderna, si sforzarono di parare il colpo che li minacciava, e furono in questo facilitati dall'avvio di un'organizzazione internazionale del sindacalismo cristiano che muoveva da qualche anno i primi passi. I cardinali Maffi e Mercier (il generale dei gesuiti), e Toniolo e Harmel, tra gli altri, intervennero discretamente e Pio X preferì soprassedere. I democratici cristiani, in questa ‟ultima grande battaglia pontificale" (E. Poulat), avevano finalmente segnato un vantaggio sui loro avversari integralisti.

e) Paralleli protestanti

Si è detto talvolta che la tendenza protestante a mettere in primo piano la questione della salvezza individuale aveva frenato la presa di coscienza dei problemi sociali; appare però sempre più chiaro che una simile affermazione deve essere seriamente attenuata, almeno per quanto riguarda i paesi anglosassoni.

Fin dalla metà del XIX secolo, si manifestarono in Gran Bretagna, soprattutto negli ambienti nonconformisti, i primi tentativi di reagire in nome dei principî cristiani allo sfruttamento dei deboli da parte dei forti; ciò veniva fatto senza richiamarsi, come successe per lungo tempo in Francia e in Germania, al ‛buon tempo antico rurale e patriarcale', ma cercando di migliorare il capitalismo industriale (accettato con realismo come un fatto compiuto), e di renderlo più umano - e più cristiano - grazie ad organizzazioni appropriate di tipo nuovo ed eventualmente ad un intervento dei pubblici poteri. Particolarmente notevole fu il gruppo dei ‛socialisti cristiani' del teologo F. D. Maurice, straordinario animatore ed uno dei maestri spirituali dell'Inghilterra vittoriana, come pure i suoi collaboratori J. W. Ludlow, uomo d'azione preoccupato soprattutto di creare una corrente di associazioni cooperative, e Ch. Kingsley, oratore e scrittore di talento. Impressionati dalla rivoluzione del 1848 in Francia, anziché abbandonarsi all'ondata reazionaria che dilagò allora in Europa, essi tentarono di persuadere i loro compatrioti che il compito essenziale del momento era di cristianizzare il movimento socialista e di ‟conquistare al regno del Cristo il nuovo mondo industriale", sia trasformando le strutture sociali e mentali della società liberale, sia attraverso una educazione spirituale delle masse lavoratrici. Sul momento, il movimento promosso da Maurice subì piuttosto un insuccesso, ma conobbe poi momenti di ripresa alla fine del secolo, specialmente con la Guild of St. Matthew di Stewart Headlam e quindi con la Christian Social Union, fondata ad Oxford nel 1889 da alcuni teologi progressisti.

Tendenze analoghe apparvero negli Stati Uniti nel corso dell'ultimo quarto del secolo dando luogo, tra gli altri, al movimento designato col nome di Social Gospel, prodotto dall'incontro dei problemi della società industriale con l'idea puritana del ‟regno di Dio in America" (Niebuhr), idea la quale, trasposta sul terreno della teologia liberale, si è perpetuata, con alti e bassi, fino alla metà del secolo XX. Fin dall'inizio, accanto a un orientamento conservatore che si limitava a perseguire un miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, si affermò un orientamento progressista che raccomandava alcune riforme di struttura, talvolta anche radicali, miranti ad una sintesi di marxismo e cristianesimo.

Se nei paesi anglosassoni le preoccupazioni sociali si risvegliarono abbastanza presto negli uomini di Chiesa, cosa che ebbe come conseguenza di attenuare la tensione tra socialismo e religione, il protestantesimo continentale, invece, restò a lungo fermo alle iniziative individuali di carattere caritativo. Ciò avvenne soprattutto in Germania, dove neppure le iniziative di J. H. Wichern, l'animatore della ‛missione interiore', si spinsero oltre questo piano. Tale ritardo si può spiegare con cause sia sociologiche che teologiche: gli stretti legami tra il trono e l'altare, tra il protestantesimo e la borghesia da una parte; e dall'altra, le resistenze del luteranesimo di fronte all'azione temporale del cristiano in quanto tale, la dottrina dei due regni essendosi irrigidita fino ad affermare ‟l'assoluta Eigengesetzlichkeit" della politica e dell'economia. Solo sul finire del secolo ebbe inizio una lenta evoluzione, ma le difficoltà contro le quali urtarono gli sforzi di comprensione compiuti da F. Naumann nei riguardi del movimento socialista e delle tendenze democratiche sono caratteristiche dell'atmosfera che predominava nel protestantesimo tedesco all'epoca di Guglielmo Il. In Svizzera, attorno a H. Kutter e L. Ragaz si costituì all'inizio del XX secolo, sotto il nome di ‛religiös-sozialen', un gruppo socialista cristiano, il quale, accettando risolutamente il socialismo come espressione della volontà di Dio nel mondo attuale, diede origine nel 1910 all'Internationaler Bund religiöser Sozialisten. Il movimento conobbe un certo successo nella Germania degli anni tra le due guerre, intorno a E. Heimann e P. Tillich. Si noterà che, a differenza di quanto è possibile constatare alla stessa epoca nei paesi cattolici, questi democratico-cristiani protestanti non presentano il loro programma come un'alternativa al socialismo, ma, al contrario, offrono il loro appoggio alle realizzazioni socialiste in nome del loro ideale evangelico di giustizia.

È importante infine notare che un certo numero di leaders protestanti, i quali ritenevano il socialismo inaccettabile per un cristiano a causa della filosofia materialista che lo sottendeva o a causa dei suoi appelli alla rivoluzione, giudicati incompatibili con la sottomissione all'ordine voluto da Dio, adottarono tuttavia un punto di vista vicino ad una delle idee basilari dei democratico-cristiani: l'idea cioè che esiste un punto di vista cristiano sull'organizzazione della società e che, sia di fronte ai conservatori e ai liberali che di fronte ai socialisti, è importante ricordare le esigenze del cristianesimo in materia sociale e politica e specialmente l'obbligo dello Stato di rispettare la legge divina. Questo era stato fin dalla metà del secolo il punto di vista di Groen van Prinsterer in Olanda; questo fu, nella Germania guglielmina, il punto di vista di A. Stöker, uno dei fondatori della Freie kirchlich-soziale Konferenz, che nel 1898 si fece eleggere deputato a Siegen (Vestfalia) su una piattaforma esplicitamente ‛cristiano-sociale', anche se relativamente conservatrice.

4. Tra le due guerre

I rapidi progressi del socialismo a partire dall'inizio del secolo, e poi nel 1917 l'irruzione del comunismo, considerato da molti come il suo logico sbocco, stimolarono doppiamente il pensiero e l'azione dei democratico-cristiani. Da una parte, come era successo con il liberalismo durante il XIX secolo, un numero crescente di cristiani furono obbligati a rendersi conto che un certo stadio tradizionale di organizzazione della società era definitivamente superato e che, nella ricostruzione incombente, si aveva tutto l'interesse a ispirarsi a certi principî e a certi valori messi in luce da Marx e dai suoi seguaci; dall'altra, a causa delle pretese totalitarie ostentate più o meno apertamente da molti marxisti là dove erano riusciti a prendere il potere, quei cristiani che erano tentati di appoggiare puramente e semplicemente il Partito Socialista si sentirono indotti alla prudenza, e furono spinti a prendere più nettamente coscienza dell'originalità del punto di vista cristiano circa l'organizzazione dello Stato e dei valori specifici essenziali che bisognava difendere in tale materia. Di conseguenza i democratico-cristiani, che fino alla guerra costituivano quasi ovunque solo un pugno di uomini dispersi, che non avevano - secondo l'espressione dell'abate Naudet - ‟né denaro, né stampa popolare, né elettori in numero sufficiente", videro gonfiarsi le loro file dopo il 1918 e poterono, nella maggior parte dei paesi dell'Europa occidentale, costituirsi in partiti politici, godendo in generale dell'appoggio più o meno aperto delle autorità ecclesiastiche. Tuttavia questi partiti rimasero minoritari e, dovendo dividere il potere con altri aventi ideali diversi, non ebbero mai l'occasione di applicare veramente il loro programma e di verificarlo a contatto con la realtà.

a) Il Partito Popolare Italiano di don Sturzo

La Democrazia Cristiana trovò più il suo efficace teorico - giudicato anche da M. Vaussard come ‟il solo ‛pensatore' democratico-cristiano che sia apparso in Occidente dopo l'inizio di questo secolo" - nel prete siciliano Luigi Sturzo (1871-1959), che aveva militato nella sua giovinezza a fianco di R. Murri, ma non lo aveva seguito al momento della sua rottura col Vaticano. Organizzatore nato, dopo l'inizio del secolo aveva dispiegato una intensa attività in campo sociale nella sua diocesi, mentre insegnava al Seminario filosofia e sociologia. Pro-sindaco della sua città natale, Caltagirone, dal 1905 al 1920 e membro molto attivo della Associazione dei Comuni Italiani, ne era diventato nel 1915 il vice-presidente, malgrado l'orientamento nettamente laicista di questa. Era, d'altra parte, diventato presidente dell'Unione Economico-Sociale (succeduta all'Opera dei Congressi) e segretario generale dell'Azione Cattolica Italiana. Uomo di pensiero e d'azione, le sue idee si erano elaborate progressivamente in seguito ad una intensa riflessione sulle lezioni della storia; e disponendo d'altra parte, per tentare di metterle in pratica, di un ‟temperamento eccezionale di uomo politico" (Murri), egli sentì che all'indomani della guerra era venuto il momento per i cattolici di partecipare in forze alla ricostruzione nazionale per orientarla secondo il loro ideale. Avendo ottenuto da Benedetto XV l'autorizzazione a fondare un partito politico di ispirazione democratico-cristiana, gettò con alcuni amici le basi del movimento fin dal novembre 1918, e il 18 gennaio 1919 il programma del Partito Popolare Italiano veniva comunicato alla stampa.

I primi due punti enunciavano i principî generali di ogni partito che, senza essere confessionale, si ispiri alla dottrina cattolica: integrità e difesa della famiglia; preoccupazione per la pubblica moralità, protezione dell'infanzia, libertà di insegnamento. Inoltre il punto 8 reclamava ‟libertà e indipendenza della Chiesa nella piena esplicazione del suo magistero spirituale; libertà e rispetto della coscienza cristiana considerata come fondamento e presidio della vita della nazione, delle libertà popolari e delle ascendenti conquiste della civiltà". I rimanenti nove punti erano invece di carattere puramente tecnico, e avrebbero potuto caratterizzare un qualsiasi partito attento al bene pubblico in una prospettiva democratica, quali che fossero le opinioni filosofiche o religiose dei suoi membri: legislazione sociale atta a garantire in ogni campo i diritti dei lavoratori e a favorire la piccola proprietà; riconoscimento di un egual potere consultivo a tutti i sindacati professionali nelle decisioni di governo riguardanti i lavoratori; spartizione, a vantaggio dei contadini poveri, delle grandi proprietà fondiarie sfruttate inadeguatamente, dietro indennizzo ai loro proprietari; lotta contro la disoccupazione e l'emigrazione forzata, valorizzando le risorse naturali della nazione e in particolare quelle del Mezzogiorno; riorganizzazione dell'assistenza pubblica e della previdenza sociale; riforma fiscale fondata sull'imposta progressiva; decentramento amministrativo con larga autonomia per regioni, province e comuni; rappresentanza proporzionale con scrutinio di lista in circoscrizioni ampie (per poter agire efficacemente contro le pressioni governative nelle elezioni e contro il peso delle ‛clientele'); riconoscimento del principio del voto alle donne; progressivo arresto della corsa agli armamenti e organizzazione di una Società delle Nazioni.

Sebbene il gruppo dirigente del nuovo partito fosse costituito in larga misura da ex democratici cristiani del tempo di Murri (lo stesso Sturzo, Valente, Bertini, Micheli ecc.), si era preferito rinunciare all'etichetta ‛democratico-cristiana' non solo perché questa ‟ricorda un passato che ebbe luci ed ombre e che fu troppo discusso", ma anche nella duplice preoccupazione di non presentarsi come un partito confessionale e di riunire tuttavia il maggior numero di cattolici - quali che fossero state le loro opinioni politiche anteriori - attorno ad un programma che si voleva accettabile da tutti coloro che intendevano distanziarsi sia dalle posizioni marxiste che da quelle dei conservatori. In effetti, alle elezioni del 16 novembre del 1919, il Partito Popolare Italiano, che aveva fatto dappertutto la campagna elettorale sotto la propria bandiera, senza allearsi ad alcun partito di destra o di sinistra, riuscì a far eleggere 100 deputati grazie all'appoggio di cattolici di ogni tendenza, che rappresentavano in totale il 20,5% dei suffragi espressi. E se tale successo, come accadrà di nuovo per parecchi partiti democratico-cristiani dopo la seconda guerra mondiale, costituiva anche una debolezza, poiché non tutti gli elettori - e gli eletti - mettevano l'accento allo stesso modo sui vari punti del programma, esso però sul momento faceva del nuovo partito cattolico l'asse di tutte le maggioranze parlamentari. Viste le ripugnanze invincibili che in Italia a quell'epoca impedivano ai cattolici di allearsi con l'estrema sinistra marxista (che aveva ottenuto il 34,5% dei suffragi), i popolari furono costretti, a meno di rendere impossibile il funzionamento del regime parlamentare, a governare con i liberali, i cui orientamenti sociali e le cui concezioni politiche per esempio in materia di decentramento) si scostavano notevolmente dal loro programma. Situazione scomoda per un partito nuovo, composto ‟di uomini onesti ma impreparati, e troppo giovani e troppo semplici e troppo miti e che, comunque si dibattevano ancora in una crisi di valutazione spirituale e concreta", dovendo cercare la loro unità in un orizzonte troppo vasto (Malvestiti). Le difficoltà si accrebbero negli anni seguenti in seguito all'accentuarsi della tensione tra le due ali del PPI: i progressisti - alcuni dei quali (Miglioli, Speranzini, Cocchi, Cavalli), delusi dall'immobilismo al quale era costretto il partito, lo abbandonarono - e i conservatori, le cui resistenze verso le riforme sociali si accrescevano con i disordini suscitati dall'estrema sinistra, disordini che li avrebbero gettati presto nelle braccia del fascismo. Indebolito dalle defezioni di destra e di sinistra, sopportato con acrimonia dal vecchio corpo parlamentare che lo considerava come un intruso, mal visto dal re e dagli ambienti della Corte, dagli industriali e dai grandi proprietari, il PPI si vide progressivamente ritirare la protezione del Vaticano, giacché Pio XI considerava il riavvicinamento a Mussolini come il male minore di fronte al pericolo rivoluzionario e alla persistenza dell'anticlericalismo del mondo liberale. Il declino del PPI, cominciato fin dal 1922, si accentuò dopo il IV Congresso nazionale tenuto a Torino nell'aprile del 1923 e, dopo due anni di agonia, l'ultima pattuglia di irriducibili, che si raggruppava intorno al nuovo segretario del partito A. De Gasperi, e che aveva come organo di stampa il ‟Popolo" di G. Donati, fu spazzata via dall'instaurarsi della dittatura.

Entrati nella clandestinità, i democratico-cristiani italiani per venti anni non potranno far altro che raccogliersi - e non senza molte precauzioni di fronte alle diffidenze delle autorità civili e spesso ecclesiastiche - all'interno dell'Azione Cattolica, mentre i principali leaders prendevano la via dell'esilio. Don Sturzo, che era partito per Londra fin dall'ottobre 1924, si sforzò con alcuni amici, specialmente F. Ferrari, di mantenere i contatti tra i rappresentanti dei partiti democratici di ispirazione cristiana dei diversi paesi dell'Europa occidentale, continuando così del resto un'iniziativa che il gruppo italiano, preoccupato com'era del riavvicinamento dei popoli, aveva preso sin dal 1919 per reazione al nazionalismo esacerbato imperversante all'indomani della prima guerra mondiale. Fu istituito a Parigi un segretariato internazionale, che organizzò per qualche anno degli incontri e che, dopo un'eclisse durante il periodo nazista, doveva continuare all'indomani della seconda guerra mondiale nelle Nouvelles Équipes Internationales.

b) Il Centro tedesco

Malgrado l'esistenza, in Germania, di un movimento operaio cristiano ben organizzato e influente, il partito del Centro aveva subito un'evoluzione, durante il quarto di secolo precedente la prima guerra mondiale, in senso conservatore e nazionalista, e non poteva certo essere considerato un partito democratico cristiano nel senso proprio del termine (a meno di non usare questa definizione per qualsiasi partito di ispirazione cristiana che eserciti la sua azione in un quadro parlamentare e rivendichi per la Chiesa il beneficio delle grandi libertà moderne). Tuttavia, all'indomani del 1918 si produsse un'inversione di tendenza sotto la spinta di uomini come M. Erzberger e soprattutto J. Wirth: il Centro, alleato ormai ai socialisti - il famoso ‛blocco nero-rosso' denunciato da Hitler - e presente nel governo con importanti posizioni di comando (compresa la Cancelleria per metà di quel periodo), conferì alla Repubblica di Weimar una fisionomia abbastanza diversa dalla Germania guglielmina, tale da riavvicinarla, in certa misura, al modello italiano. Le relazioni tra i due partiti cristiani italiano e tedesco confermano del resto questo riavvicinamento: fin dal 1922 don Sturzo, che aveva criticato la durezza del Trattato di Versailles - fonte, secondo lui, di nuovi odi tra i popoli - si era recato in Germania con parecchi parlamentari del suo partito per stabilire dei contatti e, dopo la scomparsa del PPI in Italia, deputati tedeschi continuarono a partecipare regolarmente, fino all'avvento del nazismo, alle riunioni organizzate dal segretariato internazionale di Parigi. Tuttavia, se il Centro si era evoluto verso una concezione più democratica della società e aveva contribuito allo sviluppo di una legislazione sociale favorevole ai lavoratori, la maggioranza dei suoi membri non furono affatto sfiorati dalle preoccupazioni internazionali, che pur costituivano uno degli aspetti dell'ideale democratico cristiano, e le loro simpatie nazionalistiche, che andavano di pari passo con l'attaccamento di molti di loro all'idea di autorità e con l'ossessione del pericolo comunista accresciuta dalla crisi economica, spiegano la poca combattività di cui dettero prova i cattolici tedeschi davanti all'ascesa del nazismo.

Noteremo incidentalmente che Pio XI, il quale disapprovò apertamente il tentativo di alleanza parlamentare tra i popolari e i socialisti in Italia, non manifestò la minima opposizione alla collaborazione del Centro con i socialisti in Germania, come del resto in Austria, dove l'alleanza fu perfino presieduta da un membro del clero, monsignor Seipel.

c) La Democrazia Cristiana in Francia

Il pontificato di Pio X era stato un periodo difficile per chi si richiamava all'ideale democratico cristiano, ma i suoi sostenitori avevano resistito e, all'indomani della prima guerra mondiale, le loro file si erano a poco a poco arricchite: attorno al settimanale ‟L'âme française", uscito nel 1919 e rinforzato presto da ‟La nouvelle journée" di p. Archambault, si ritrovavano gli assidui delle Semaines Sociales de France, uomini formati nelle file dell'Association Catholique de la Jeunesse Française (raggruppati attorno a C. Flory e M. Prélot), i militanti della Confédération Française des Travailleurs Chrétiens (i cui effettivi, se resteranno sempre modesti in rapporto alla CGT socialista, riusciranno però in alcune regioni - come il Nord - a sfondare, favoriti dai progressi della Jeunesse Ouvrière Chrétienne dopo il 1925), e infine un certo numero di vecchi membri del Sillon di Marc Sangnier, sebbene quest'ultimo e parecchi dei suoi fedeli si tenessero spesso in disparte ‟considerandosi un po', senza volerlo ammettere, come i soli rappresentanti qualificati, tra i cristiani, di uno spirito di conquista democratico" (M. Vaussard).

Alcuni giovani di questa ‛famiglia spirituale' democratico-cristiana decisero di tradurre sul terreno politico le grandi opzioni dottrinali del ‛cattolicesimo sociale' fondando il Partito Democratico Popolare (come già in Italia, si evitava l'etichetta cristiana per timore di apparire come un partito confessionale e per sottolineare la libertà dei cristiani in materia di scelta politica). Molto influenzato, attraverso M. Prelot, dalle idee di don Sturzo, il PDP, ufficialmente costituito nel novembre del 1924, si presentava con un programma seriamente meditato ma mantenuto un po' troppo sulle generali: difesa delle libertà (in primo luogo la libertà di insegnamento, minacciata a quel tempo dal cartello delle sinistre); protezione della famiglia (a Grenoble cattolici sociali istituirono per la prima volta, privatamente, gli assegni familiari); necessità di passare, per realizzare la giustizia sociale, dalla democrazia politica alla democrazia economica e sociale.

Malgrado gli inizi promettenti, questo esiguo gruppo parlamentare non approdò praticamente a niente. Gli mancò sempre l'appoggio di una parte notevole dell'opinione pubblica cattolica che, addormentata nel suo immobilismo sociale, continuava a perseguire il vecchio sogno teocratico, nella forma rinnovata (ma quanto illusoria!) dell'Action Française. Vi furono però anche altre cause, questa volta interne, della mancanza di efficacia del PDP: la carenza di una lunga tradizione parlamentare, di cui beneficiavano i cattolici tedeschi, belgi e olandesi; la mancanza di un capo indiscusso come fu don Sturzo per i popolari italiani; lo scarso rilievo della maggior parte del gruppo, per giunta sbilanciato dalla predominanza degli Alsaziani-Lorenesi; infine, la difficoltà psicologica di allearsi coi socialisti a causa del loro persistente anticlericalismo, aggravata, di fronte alle tendenze internazionalistiche di questi ultimi, dallo sciovinismo di cui i dirigenti democratico-popolari, insensibili agli avvertimenti pontificali, non riuscirono mai a liberarsi, e che portò il PDP in più di una occasione ad operare un ripiegamento a destra. Troppo rari furono i democratico-cristiani che si fecero apostoli risoluti della fraternità dei popoli sull'esempio di M. Sangnier, che aveva fondato l'Internationale Démocratique e tentato di favorire con congressi annuali di giovani il riavvicinamento franco-tedesco (J. Cl. Delbreil, Les catholiques français et les tendances de rapprochement franco-allemand, 1920-1933, Metz 1972).

Se nel campo parlamentare l'azione dei democratico-cristiani fu deludente, essi riuscirono invece a far penetrare a poco a poco i loro ideali in una parte del mondo cattolico rimasta per lungo tempo indifferente, grazie ad una dinamica azione di stampa promossa da settimanali come ‟La vie catholique" e soprattutto ‟Sept" e ‟Temps présent", e da quotidiani come ‟Le petit démocrate" animato da R. Cornilleau, e poi ‟L'aube", fondata nel 1932 da F. Gay (cfr. A. Coutrot, Un courant de la pensée catholique: l'hebdomadaire Sept", Paris 1961, e F. Mayeur, ‟L'aube". Étude d'un journal d'opinion, Paris 1966).

d) La Democrazia Cristiana in Belgio, nei Paesi Bassi e in Svizzera

In Belgio le organizzazioni operaie cattoliche riuscirono, all'indomani della prima guerra mondiale, a staccarsi dalla tutela degli organizzatori di origine borghese e a conquistare una vera autonomia. Sindacati, mutue, leghe femminili, organizzazioni giovanili - animati in buona parte da preti democratici molto dinamici (come J. Cardijn), e particolarmente fiorenti nella zona fiamminga del paese - furono riuniti in un organismo coordinatore, il Movimento Operaio Cristiano, il cui peso nel partito cattolico divenne sempre più sensibile. Sarebbe errato considerare il partito cattolico belga nel periodo tra le due guerre come un partito democratico cristiano, perché le influenze conservatrici vi restavano forti, e questo spiega la genericità del suo programma in materia sociale; ma l'influenza dell'ala democratico-cristiana, istituzionalizzata in quella che fu chiamata la Standenorganisatie, andò aumentando, soprattutto dal momento in cui il presidente del MOC divenne, nel 1927, ministro del lavoro. Una decina d'anni più tardi, nel 1936, il cattolico Van Zeeland costituì con la partecipazione dei socialisti un governo, il cui programma riformista fu considerato da molti giovani cattolici come l'attuazione dei principî della enciclica Quadragesimo anno. Si noterà tuttavia che, se i cattolici sociali belgi avevano mostrato, in origine, simpatia per il corporativismo, di ciò non si parlò quasi più quando la direzione del movimento passò dai teorici agli uomini d'azione. Se il termine ricomparve dopo la pubblicazione della Quadragesimo anno, non bisogna ingannarsi: secondo un procedimento abbastanza frequente riguardo ai documenti ecclesiastici, si riprese il termine utilizzato nella enciclica, dandogli però un significato diverso; e, se si parlò per qualche anno di ‟organizzazione corporativa della società", si trattava in realtà dell'organizzazione delle professioni secondo il modello olandese, caratterizzato dallo sviluppo delle commissioni paritetiche.

Nei Paesi Bassi, il risveglio dei cattolici ai problemi sociali era stato più tardivo. Dall'inizio del XX secolo, tuttavia, le realizzazioni si moltiplicarono sotto la direzione del clero, favorite dalla corrente parallela che si sviluppò nel protestantesimo olandese dopo che A. Kuyper aveva riunito, nel 1891, un congresso sociale cristiano che ebbe vasta risonanza. Nel 1931 Pio XI poté dichiarare ad una delegazione dell'Associazione sindacale degli operai cattolici che in nessun altro paese la dottrina della Rerum novarum era stata così ben capita e messa in pratica. Come in Belgio, andò aumentando l'influenza del movimento operaio sul partito cattolico, che raggruppava tutte le classi della popolazione; più che in Belgio, agli sforzi per riformare l'ordine sociale ed economico si aggiunse la preoccupazione concreta di operare in vista di un ordine internazionale fondato su principî di giustizia, che rispettasse e favorisse gli interessi vitali di ciascun popolo.

Anche in Svizzera il Partito Conservatore Popolare si era progressivamente trasformato, sotto l'influenza della sua ala cristiano-sociale. Nel 1929, una commissione, alla quale collaborarono tutte le grandi organizzazioni cattoliche, tra cui l'Associazione Popolare Cattolica svizzera e la Federazione Operaia Cristiano-Sociale, arrivò all'elaborazione di un programma preoccupato sì del rispetto degli interessi legittimi di ciascuno dei gruppi sociali, ma molto netto riguardo alla protezione dell'operaio sul posto di lavoro, al riconoscimento del suo diritto di associazione ed anche di cogestione e alla difesa del suo livello di vita familiare: un programma a metà strada, dunque, tra dirigismo socialista e ordinamento corporativo di tipo autoritario.

e) La Democrazia Cristiana nell'Europa orientale

La situazione sociale e politica nei paesi ricostituiti sulle rovine dell'antico impero degli Asburgo era profondamente diversa da quella dell'Europa occidentale, e presentava spesso degli aspetti ancora semifeudali. Tuttavia in parecchi di essi, negli anni tra le due guerre, si costituirono sotto denominazioni diverse partiti animati da cattolici che presentavano alcune somiglianze col Centro tedesco o col Partito Popolare Italiano, e che avevano come scopo, soprattutto, l'avanzamento della masse contadine dominate da una minoranza di grandi proprietari.

In Romania (che aveva inglobato la Transilvania), M. Maniu riuscì a mettere in piedi un potente partito contadino di ispirazione cristiana. In Iugoslavia, monsignor Korošec approfittò dei fermenti unitari degli Sloveni e dei Croati, che si sentivano minoritari di fronte alla Serbia ortodossa.

Le cose furono più difficili negli altri Stati a causa dei conflitti sociali tra gruppi etnici; ma, malgrado tutto, con monsignor Šrámek in Cecoslovacchia, con Witos, Korfany e Mikolajczyk in Polonia, la Democrazia Cnstiana riuscì in parecchi casi a prendere parte attiva alla vita parlamentare.

5. Lo slancio sotto il pontificato di Pio XII

a) L'Europa democratico-cristiana del secondo dopoguerra

Alla fine della guerra si assistette, nell'Europa occidentale, ad uno sconvolgimento della situazione politica: da una parte, una forte spinta comunista, conseguenza sia del ruolo svolto dai marxisti nella resistenza all'hitlerismo che dell'aspirazione delle masse popolari ad una trasformazione profonda delle strutture sociali; dall'altra, un netto indebolimento e talvolta anche un tramonto della destra tradizionale, compromessa in molti casi dalla collaborazione con i regimi fascisti appena crollati, ed in ogni caso più o meno cosciente dell'impossibilità fisiologica di continuare a predicare una società di tipo tradizionalista, diretta da élites e basata sui valori di gerarchia e di autorità. Questo duplice fenomeno giovò largamente all'idea democratico-cristiana e ai partiti politici che vi si richiamavano. I loro principali animatori avevano pagato un pesante tributo, in Italia e poi in Germania, all'ascesa del fascismo e del nazionalsocialismo, talvolta fino ai campi di concentramento e alla morte; avevano preso in tutta l'Europa occidentale un atteggiamento non equivoco durante la guerra di Spagna, che aveva assunto valore di simbolo; e durante la guerra mondiale, in tutti i paesi occupati si erano molto presto impegnati attivamente nella Resistenza, dando prova di credere realmente nei valori essenziali della democrazia; spesso avevano stretto d'altra parte, nelle organizzazioni partigiane, relazioni personali di amicizia con i marxisti, a fianco dei quali combattevano per ideali che, malgrado notevoli divergenze quanto ai mezzi, avevano nonostante tutto numerosi punti comuni. Quindi, in una Europa in cui gli antichi partiti di destra o erano spariti dalla scena politica o avevano perduto buona parte della loro ‛credibilità', la scelta si riduceva per gli elettori, all'indomani della guerra, ad una sola alternativa: marxismo o democrazia cristiana. Tutti coloro che erano spaventati dal collettivismo totalitario e dall'ateismo ufficiale della dottrina marxista, si volsero verso i democratico-cristiani, che beneficiarono d'altronde, agli occhi di molti sinceri democratici, di un altro atout: i notevoli progressi del cristianesimo sociale nelle giovani élites formate durante la generazione precedente all'interno dell'Azione Cattolica, e le prese di posizione del papato a favore dell'ideale democratico, verso il quale aveva avuto tante reticenze durante il secolo XIX. Se molti storici hanno, da alcuni anni a questa parte, insistito su certi compromessi di Pio XI e certi silenzi di Pio XII nei riguardi del fascismo e del nazismo trionfanti, i contemporanei furono soprattutto colpiti dalle proteste vibranti del primo contro il totalitarismo pagano e il razzismo, dall'atteggiamento molto positivo delle autorità ecclesiastiche nel 1939, in occasione del 150° anniversario della proclamazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, e dalla chiarezza delle dichiarazioni di Pio XII sulle regole fondamentali dell'ordine interno degli Stati e della pace tra i popoli (particolarmente nel suo messaggio del Natale 1944 sulle condizioni di una sana democrazia).

Il sommarsi di questi diversi elementi ebbe come conseguenza il successo generale in tutta Europa dei partiti creati o riorganizzati alla fine della guerra su una base democratico-cristiana: la Democrazia Cristiana in Italia e la Christlich-demokratische Union in Germania, sulle quali torneremo in seguito più dettagliatamente; il Parti Social Chrétien in Belgio, il cui programma del Natale 1945, imperniato sui concetti di personalismo e di bene comune, a mezza strada tra capitalismo liberale e marxismo, dimostrava uno sforzo serio di ringiovanimento in rapporto al vecchio partito cattolico; il Roomsch-Katholieke Volkspartij olandese, alleato ai due partiti confessionali protestanti sulla base di un programma nettamente riformista in materia sociale; la Christlich-soziale Partei austriaca, anch'essa alla ricerca di un nuovo slancio. Tutti conquistarono subito la maggioranza parlamentare o vi si avvicinarono, mentre in Francia il Mouvement Républicain Populaire sfondava inaspettatamente e diventava una forza politica di primo piano, per non parlare dei successi riportati dai partiti analoghi in Svizzera, nel Lussemburgo, in Norvegia e in parecchi paesi dell'Europa orientale.

In questi ultimi, si trattò solo di un breve intermezzo, presto soffocato dal sostituirsi di regimi comunisti alla democrazia di tipo parlamentare e occidentale (di quella esperienza sopravvive oggi un bollettino di collegamento pubblicato in esilio dall'Unione Democratico-Cristiana dell'Europa centrale: ‟Boletín informativo demócrata cristiano"). Ma lungo l'asse che va dal Mare del Nord a sud delle Alpi, le elezioni succedutesi nel decennio seguente confermarono nell'insieme la vittoria iniziale, e il movimento democratico-cristiano divenne veramente in questo periodo uno dei fattori determinanti della politica interna ed estera dei diversi Stati dell'Europa occidentale (se si esclude la Gran Bretagna e, per ragioni differenti, la Spagna e il Portogallo): al punto che da parte socialista si arrivò fino ad agitare lo spettro di un'‛Europa vaticana'. Malgrado quanto di eccessivo vi fosse in un simile timore, appare innegabile che la nascita della Comunità Europea fu notevolmente agevolata dal fatto che la responsabilità del potere in Italia, in Germania, in Francia, in Belgio e in Olanda si trovò nel momento decisivo nelle mani di uomini animati da uno stesso ideale e incoraggiati con discrezione dal papa a superare gli egoismi nazionali in nome del bene comune. C'è poi anche il fatto che tra i diversi partiti europei di ispirazione democratico-cristiana - dai programmi abbastanza diversi (favorevoli, per esempio, gli uni all'economia di mercato e gli altri all'economia pianificata), ma, malgrado tutto, con numerosi tratti simili ispirati da una Weltanschauung comune - i contatti iniziati a suo tempo da don Sturzo si intensificarono dopo il 1945: attraverso un comitato direttivo comprendente due membri di ciascun gruppo nazionale, un comitato esecutivo, delle commissioni di lavoro, dei congressi annuali (il primo ebbe luogo a Lussemburgo nel 1948).

Alla base dei successi democratico-cristiani degli anni cinquanta stava, tuttavia, una notevole ambiguità. Innanzitutto, nella misura in cui una parte dell'elettorato di questi partiti dava loro i suoi suffragi per ragioni religiose, i dirigenti furono obbligati, malgrado la crescente volontà di porsi su un piano non confessionale, a tenere nel massimo conto le frequenti prevenzioni della gerarchia ecclesiastica verso riforme troppo audaci, capaci di mettere in difficoltà il fronte antimarxista. Il pericolo di immobilismo che ne risultava fu notevolmente accresciuto dalla composizione sociale dei nuovi partiti democratico-cristiani, che li obbligò quasi dovunque, secondo le parole di Bidault, a governare al centro cercando bene o male di ‟fare con i mezzi della destra la politica della sinistra". In effetti, in seguito alla lunghe esitazioni dell'establishment cattolico nei riguardi della democrazia sociale e della partecipazione dei lavoratori alla vita economica, gran parte delle masse popolari fin dagli anni tra le due guerre non era più disponibile alle idee di ispirazione cristiana, anche se progressiste; e perfino nei paesi in cui sindacati cristiani relativamente potenti erano riusciti ad imporsi, i partiti democratico-cristiani trovarono la loro principale fonte di reclutamento soprattutto nei settori contadini rimasti fedeli alla Chiesa e nella borghesia: cosa che doveva fatalmente piegare la loro ideologia in senso conservatore. Il pericolo fu ancora accresciuto dal fatto che il loro successo nel dopoguerra era stato accentuato dal tramonto dei vecchi partiti di destra, così che gli animatori della prima ora, malgrado i loro sforzi per restare il più possibile democratici e cristiani, furono spesso sommersi dall'invasione di una destra che rifluiva verso il centro. L'evoluzione dei tre principali partiti democratico-cristiani durante gli anni cinquanta fornisce, in misura variabile, una illustrazione concreta di queste considerazioni generali.

b) La Democrazia Cristiana italiana

Negli anni tra le due guerre, la massa dei cattolici - e del clero - italiani aveva appena smesso di tenere il broncio al regime costituzionale liberale, quando si gettò con entusiasmo nelle braccia del fascismo, da cui sperava una efficace protezione dei valori morali. Ma, a partire dal 1941, i superstiti del PPI (De Gasperi, Gronchi, Spataro, Tupini, Cingolani, ecc.) ripresero contatto tra loro e con cattolici più giovani, formatisi soprattutto nell'Azione Cattolica, e con le altre tendenze politiche dell'opposizione, alle quali si unirono all'interno del Comitato di Liberazione Nazionale. Decisero subito di riorganizzarsi in partito, che prese il nome di ‛Democrazia Cristiana', poiché l'ipoteca di Murri apparteneva ormai al passato e sembrava opportuno non apparire come la semplice rinascita di un partito che si era disperso davanti al fascismo.

Il manifesto di Milano, datato 25 luglio 1943, invitava tutti i cattolici a raccogliersi intorno al nuovo partito, che nel suo programma includeva in particolare: una federazione degli Stati europei nel quadro di una rinnovata Società delle Nazioni; la reciproca indipendenza di Chiesa e Stato e l'ispirazione cristiana della vita nazionale nel rispetto delle opinioni religiose degli individui; le libertà politiche e la libertà d'insegnamento; il rafforzamento della famiglia e una politica demografica ispirata ai principî della morale cristiana; il decentramento e il rafforzamento della autonomia dei Comuni e delle Regioni; il riconoscimento del diritto di proprietà, considerato come una funzione sociale e coordinato coi diritti essenziali del lavoro, e in particolare lo sviluppo della piccola proprietà contadina grazie ad una riforma agraria che avesse cura dei diritti della giustizia e delle esigenze dell'economia; l'estensione delle assicurazioni sociali; il rispetto di una sana iniziativa individuale nel campo della produzione e del lavoro, che andasse di pari passo con un certo controllo dei poteri pubblici in vista del bene sociale, e con una partecipazione progressiva dei lavoratori agli utili e alla gestione delle imprese capitalistiche.

Sotto la guida accorta di A. De Gasperi (1881-1954), la DC, che aveva optato per la Repubblica con una esigua maggioranza, divenne fin dalle elezioni del 1946 il primo partito del paese e grazie all'appoggio sempre più aperto della Chiesa (mobilitazione delle forze dell'Azione Cattolica nei Comitati Civici), ottenne in quelle del 1948 la maggioranza assoluta. Nonostante proteste verbali di ‛aconfessionalismo', lo strettissimo legame con la Chiesa - dalla Santa Sede alle autorità ecclesiastiche locali - mantenuto dalla DC, la quale sia da sola sia alleata ai piccoli partiti del centro ha conservato il potere senza interruzione per più di un quarto di secolo, ha avuto come conseguenza una confessionalizzazione di fatto dello Stato e della vita pubblica (se ne troveranno numerosi esempi nell'ultimo capitolo di A. C. Jemolo, Chiesa e Stato negli ultimi cento anni, Torino 19554); confessionalizzazione che è nella linea di una lunga tradizione di guelfismo ma che colpisce particolarmente in un paese dove, nonostante i risultati positivi ottenuti dall'Azione Cattolica nel periodo tra le due guerre, la sensibilità cristiana resta, salvo al Nord, spesso superficiale in larghi strati della popolazione.

Che fine ha fatto il programma progressista del 1943? Finché alla testa del partito ci fu De Gasperi (fino al 1953), le tendenze di destra restarono relativamente deboli. Per ragioni di calcolo elettorale e di efficienza nel periodo della ricostruzione - ma anche per un' avversione inveterata contro tutto ciò che evocasse il socialismo - De Gasperi badò a limitare l'influenza delle correnti di sinistra (la più attiva delle quali era il gruppo di Iniziativa Democratica animato da Dossetti, La Pira e Fanfani). Cionondimeno egli poté mettere al suo attivo un certo numero di realizzazioni non trascurabili: riassestamento economico spettacolare e miglioramento sensibile del livello di vita delle masse; forte diminuzione dell'analfabetismo; rinuncia ad ogni nazionalismo revanscista e franca collaborazione alla realizzazione dell'idea europea; avvio di una riforma agraria che costituì solo un parziale successo ma rappresentò tuttavia un primo passo nella direzione giusta. Fu però assai presto evidente anche lo iato tra ideale e realtà. Innanzitutto perché tra gli uomini politici che si erano raccolti in massa sotto l'emblema della DC trionfante - lo scudo crociato attraversato dalla parola Libertas - si trovavano molti arrivisti e mediocri caratteri, pronti a transigere con i principî, tanto che il vecchio don Sturzo fin dal 1947 aveva gettato un grido di allarme contro le deviazioni, da lui giudicate gravi, dall'ideale democratico cristiano come egli lo concepiva; e poi perché, se nel Nord molti elettori della DC aderivano all'ideale del partito per le loro convinzioni religiose e politiche, non accadeva lo stesso nel Mezzogiorno, dove esso aveva ereditato clientele molto meno sicure, delle quali si erano serviti prima i liberali e poi i fascisti; infine, perché lo stesso successo della politica iniziale di De Gasperi portò al rafforzamento nel paese della classe media conservatrice, e il peso di essa si fece sentire sempre di più dopo la scomparsa del vecchio capo. Non si tratta più tanto della destra classica, della ‛minoranza sfruttatrice', quanto di una nuova destra più popolare, basata sul ‛settore terziario' in espansione e sulla classe dei piccoli e medi contadini favoriti dalle leggi agrarie. Questi ambienti, anche se poco favorevoli all'influenza del ‛potere del capitale', sono però violentemente anticomunisti e nettamente contrari ad ogni riforma un po' ardita delle strutture socio-economiche; e il clero, che proviene generalmente dagli stessi ambienti, incoraggia spesso il loro immobilismo e contribuisce a trasformare il Partito democratico cristiano, così come l'avevano concepito i suoi fondatori, in un partito cattolico moderato.

Tuttavia, l'aspirazione degli inizi a una più profonda democrazia non è del tutto scomparsa: il successo, a partire dal 1962, dei fautori dell'‛apertura a sinistra' ne è una prova, come lo è il timore, evocato periodicamente dagli ambienti di destra, di una evoluzione verso una ‛Repubblica conciliare', cioè di una collaborazione dell'ala progressista della Democrazia Cristiana con i comunisti. Non bisogna tuttavia sopravvalutare la portata di questi elementi: l'orientamento veramente progressista, sostenuto dai rappresentanti dei sindacati cristiani e da alcuni intellettuali, è minoritario in seno a questo partito, il quale, contrario a rimettere il paese nelle mani dell'antica classe dirigente o ad una nuova avventura fascista, conserva però una collocazione chiaramente centrista (nella misura in cui si può parlare di chiarezza per un partito in cui le divisioni tra le correnti non hanno cessato di accentuarsi da venti anni a questa parte, nonostante il rafforzamento delle sue strutture di base, molto meglio organizzate che nella maggior parte degli altri partiti democratico-cristiani europei).

c) Lo spostamento a destra della CDU in Germania e del MRP in Francia

All'indomani della sconfitta, alcuni cattolici tedeschi avevano sognato un raggruppamento laburista che riunisse cristiani e socialisti. Ma l'idea si era presto rivelata irrealizzabile e incominciò a emergere a poco a poco dal caos il progetto di un partito di ispirazione cristiana, orientato in senso francamente democratico sul piano politico e prudentemente riformista sul piano sociale. Preparata dapprima a livello locale e regionale, la Christlich-demokratische Union (CDU) si organizzò a livello nazionale negli anni 1946-1948. Benché vi si ritrovassero un buon numero dei quadri politici già attivi prima del 1933 (a cominciare da K. Adenauer), non si trattava di una pura e semplice resurrezione dell'antica Zentrumspartei, sparita nel 1933 davanti al nazismo. In effetti, mentre quella non comprendeva che cattolici, i cui interessi confessionali era suo primo compito difendere, la CDU comprende anche una importante ala protestante, con la rilevante conseguenza che, invece di limitarsi praticamente alle regioni cattoliche della Renania e della Germania meridionale, essa figura ormai come partito nazionale, largamente presente dal Nord al Sud del paese. L'esperienza della comune resistenza al neopaganesimo nazista, unita al timore di un dopoguerra dominato da maggioranze marxiste, riuscirono ad unire per la prima volta cattolici e protestanti in uno stesso raggruppamento al servizio di una stessa causa.

Il nuovo partito dovette dedicarsi fin dal principio a smussare tra i cattolici le prevenzioni nei riguardi dell'elemento protestante, prevenzioni non tanto sul piano religioso quanto dettate dalla diffidenza nei riguardi delle tradizioni politiche delle popolazioni protestanti, nel complesso conservatrici e nazionaliste (c'erano delle eccezioni, per esempio nel Württemberg, dove alcuni luterani avevano varato prima del 1933 un partito del Servizio Cristiano Popolare).

Fin dall'inizio, e perfino per la scelta del nome del partito, si trovarono di fronte una tendenza di sinistra e una di destra. Gli uni erano fautori di una politica sociale ardita, che non indietreggiasse davanti alla nazionalizzazione delle industrie-chiave, e proponevano di chiamare il nuovo partito Cristiano Socialista; ma a molti questi suggerimenti sembrarono pericolosi. A dispetto della coraggiosa resistenza di alcuni circoli cattolici di sinistra, come nell'Assia quello raccolto intorno a W. Dirks e alla sua rivista ‟Frankfurter Hefte", la CDU si rivelò presto più a destra di quanto non fosse stato il vecchio Centro, e questo orientamento si accentuò a partire dal 1948. Ciò avvenne non soltanto perché l'apporto protestante era venuto a ingrossare quasi esclusivamente l'ala borghese, socialmente e politicamente conservatrice, ma anche perché il cancelliere Adenauer, desideroso di restare al potere per mantenere una forte influenza cattolica in Germania, e preoccupato a questo scopo di non intaccare sulla destra la sua maggioranza (la CDU era passata dal 31% nel 1949 al 45% nel 1953), non esitò a fare le concessioni necessarie: si rinunciò infatti alla maggior parte delle riforme sociali previste inizialmente, e la CDU si trasformò progressivamente in un grande partito conservatore di centro-destra, ispirato ad una concezione antiquata e reazionaria della democrazia prima di diventare - dopo un periodo di alleanza col partito socialdemocratico, divenuto anch'esso un partito centrista - un partito nettamente orientato a destra, sempre più aperto all'influenza di uomini che si erano compromessi col nazismo, visceralmente anticomunista e ostile ad ogni ravvicinamento all'Europa orientale. Gli elementi progressisti in materia sociale non sono scomparsi del tutto ma sono minoritari, come si è ancora una volta constatato nell'autunno del 1973, quando il modello di cogestione nell'industria proposto dai Renani e dai Vestfaliani fu respinto dall'ufficio federale del partito. E, particolare caratteristico, durante il congresso dell'Unione Europea dei Democratici Cristiani, che si è tenuto a Bonn nel novembre dello stesso anno, la CDU ha insistito perché fossero ammessi nell'Unione i partiti conservatori inglese e scandinavo.

In Francia, l'idea del Mouvement Républicain Populaire (MRP) nacque durante la guerra, nella resistenza al regime di Vichy nella quale si erano ritrovati la maggior parte degli ex democratici popolari e parecchi dirigenti dell'Azione Cattolica della gioventù francese. Voleva essere all'inizio, più che un partito, un movimento, che vagheggiava di raccogliere attorno ad un ideale sociale progressista e cristiano tutti i cattolici francesi, ormai liberi dalle formule antiquate che li avevano così a lungo tenuti rinchiusi in un atteggiamento di inquieta circospezione di fronte al mondo moderno. Ma i fondatori di questo movimento, che prese forma alla fine del 1943, dopo la Liberazione furono naturalmente portati a volgersi alla politica, e le circostanze favorevoli sopra indicate ne fecero per qualche anno il partito più importante di Francia. Tuttavia, a differenza di quanto accadde nei paesi vicini, il MRP non ottenne mai da solo la responsabilità del potere, di modo che all'handicap comune di essere un partito dal programma progressista ma con un elettorato in maggioranza conservatore, si aggiunse nel suo caso la necessità di prestarsi a dei compromessi, veleno dei governi di coalizione. A questa debolezza organica si aggiunse l'insufficienza degli uomini, malgrado qualità morali talvolta notevoli, come per esempio in un R. Schuman. Diretto soprattutto da giuristi e pubblicisti, il MRP non ha saputo produrre lo sforzo teorico richiesto dalla situazione: sfuggendo i reali problemi del dopoguerra, ha inoltre dato prova di un'ignoranza sconcertante riguardo alle questioni economiche. Tutto ciò ha ostacolato sia la sua azione che la sua capacità di diffusione e si deve constatare, con M. Vaussard, che la presenza al potere di questi uomini politici cristiani per una decina d'anni, malgrado alcuni provvedimenti utili in materia di agricoltura e di sicurezza sociale, non ha cambiato gran che nelle tare del regime politico ed economico d'anteguerra. E se il MRP appoggiò con Schuman il riavvicinamento franco-tedesco e l'avvio dell'Europa dei Sei, il suo atteggiamento di fronte ai problemi coloniali (guerra d'Indocina, poi guerra d'Algeria) fu particolarmente deludente dal punto di vista dei principi della Democrazia Cristiana. Bisogna anche notare che dopo il 1951 il MRP si alleò con il gollista Rassemblement du Peuple Français in una lunga campagna a favore dell'insegnamento libero, e ciò lo staccò definitivamente dai partiti di sinistra. Questa politica maldestra portò al disfacimento del partito: alcuni dei suoi aderenti passarono al RPF mentre altri si unirono alla Jeune République di Mendès-France, sperando di trovare in quest'ultima la realizzazione dell'ideale di giustizia sociale e internazionale cui si era appellato il MRP alla sua nascita.

d) I partiti democratico-cristiani in America Latina

Limitata per lungo tempo all'Europa ed anzi essenzialmente all'Europa occidentale, a partire dal 1955 la Democrazia Cristiana ha avuto una breve ma spettacolare affermazione nel continente sudamericano. Fu il risultato di una presa di coscienza delle gravi ingiustizie di cui soffriva la società latino-americana e dell'urgente necessità, se si voleva evitare la rivoluzione comunista, di riforme profonde nel suo ordinamento, a cominciare da una riforma agraria. Sul piano ideologico si sviluppò un progetto di società ‛personalista' e ispirato a Maritain e a Mounier. Sul piano pratico si accelerò considerevolmente la messa in opera di tutta una rete di istituzioni: centri di studi sociali, sindacati cristiani (che fin dall'inizio degli anni sessanta raccoglievano dal 15 al 20% dei lavoratori organizzati dell'America Latina), cooperative, leghe femminili, ecc., allo scopo di fornire masse organizzate e quadri ai partiti politici democratico-cristiani, che, nati generalmente da una dissidenza all'interno del partito conservatore, trovavano il loro principale sostegno nelle organizzazioni giovanili e nelle università cattoliche, considerate da alcuni come ‟la chiave di volta di tutto l'apparato democratico cristiano" (J. Comblin).

I primi partiti democratici cristiani apparvero nel 1956 nel Perù e nel Guatemala, seguiti immediatamente dopo dal Cile, dove fin dagli anni trenta le idee sociali cristiane avevano cominciato a diffondersi tra la gioventù universitaria sotto l'influenza dell'enciclica Quadragesimo anno. Il partito democratico cristiano brasiliano nacque poco dopo, ma scomparve nel 1964 con il colpo di stato militare. Lo stesso anno E. Frei diventava presidente del Cile e l'anno dopo, con il ‛terremoto politico' del 7 marzo 1965, la Democrazia Cristiana cilena ottenne la maggioranza assoluta alla Camera. Fu avviato un certo numero di riforme ma, come in Europa, il peso dell'ala destra del partito impedì il proseguimento dell'attuazione del programma, denunciato dagli uomini d'affari e dalle associazioni degli agricoltori come ‛di ispirazione bolscevica'; l'esperienza di Allende doveva poi accentuare lo spostamento a destra, con i risultati che si conoscono. Una seconda esperienza di Democrazia Cristiana al potere è stata intrapresa nel 1970 da R. Caldera nel Venezuela, il secondo bastione in ordine di importanza nel continente.

La Democrazia Cristiana latino-americana ha conosciuto il suo apice nel 1966, quando la prima conferenza episcopale latino-americana, riunita a Mar de la Plata, consacrò la dottrina e la pratica sociale cristiana. Ma da quel momento cominciò il riflusso. Non solo perché, in un numero crescente di paesi, i democratico-cristiani erano soffocati da dittature di destra o di sinistra, ma anche perché si sono trovati esposti alla contestazione dei più dinamici tra i loro seguaci, che denunciano il carattere troppo prudentemente riformista del partito e chiedono cambiamenti molto più radicali e una opzione risoluta in favore del ‛socialismo'. La maggior parte dei ‛cristiani rivoluzionari', la cui influenza non ha cessato di estendersi dopo la conferenza di Medellín del 1968, sono ex democratico-cristiani delusi o figli di democratico-cristiani.

6. Riesame critico

L'evoluzione verso la sinistra marxista di un certo numero di democratici cristiani latino-americani, soprattutto giovani, costituisce semplicemente un caso particolare di un fenomeno più generale che si è già verificato in diversi paesi d'Europa. Si potrebbe ripetere per parecchi di loro, con qualche sfumatura, la diagnosi fatta da W. Ugeux a proposito del Belgio (dove tuttavia la corrente democratico-cristiana ha ottenuto all'interno del Partito Sociale Cristiano, per ragioni tattiche, un effettivo parlamentare che supera la propria rappresentatività elettorale): ‟I democratico-cristiani sono sempre stati uomini obbligati dalle contingenze a lottare nell'ambiguità. Ostili alle idee di nazionalizzazione, preoccupati più di migliorare le situazioni individuali che di creare strutture sociali meno costrittive, condannati dalla divisione religiosa del corpo elettorale a battersi in seno ad un cartello di forze diretto da grandi borghesi, sono raramente riusciti a convincere la classe operaia di non essere semplicemente degli ostaggi. Essi d'altronde non sono mai stati accettati neppure in seno ai diversi partiti cattolici che si sono succeduti". Di qui i dissensi e gli spostamenti verso la sinistra, che si moltiplicano man mano che i cristiani sinceramente desiderosi di una trasformazione profonda delle strutture economico-sociali si convincono che, di fronte all'egoismo della grande maggioranza della classe proprietaria, solo una problematica espressa in termini di ‛lotta di classe' è suscettibile di far progredire le cose: infatti, in ogni coalizione tra forze di destra e di sinistra, è il punto di vista delle prime che finisce per prevalere. La tendenza a spostarsi verso l'estrema sinistra è particolarmente evidente presso i giovani, per i quali il richiamo ideologico conta più di quello elettorale e di una limitata efficacia a breve termine.

Al di là di queste defezioni, che li indeboliscono ma rimangono a conti fatti marginali, i partiti democratico-cristiani, come anche tutto l'insieme di organizzazioni socio- economiche alle quali sono strettamente legati, sono sempre più oggetto di un riesame critico molto più radicale. Fin dall'inizio degli anni cinquanta, di fronte ai successi spettacolari della Democrazia Cristiana in tutta l'Europa occidentale, alcuni si erano già posto il problema: si trattava veramente di una terza grande ondata (dopo quella del liberalismo e del socialismo), di una nuova formula originale, ispirata in origine ad ideali cristiani ma suscettibile di allargare notevolmente la propria influenza, dal momento che molte delle sue componenti non discendono affatto dai principî della morale cattolica ma risultano piuttosto da uno sforzo per integrare in una sintesi superiore un certo numero di valori positivi del liberalismo e del marxismo? Oppure si trattava semplicemente di una specie di intermezzo tra il regno, ormai declinante, delle forze del XIX secolo e l'avanzata di quelle che domineranno la fine del XX, il cui successo sarebbe dovuto soprattutto all'indebolimento dei loro antichi rivali in seguito a due incidenti storici: il grande scisma tra socialisti e comunisti e i compromessi del sindacalismo liberale con i regimi fascisti screditati dagli eccessi razzisti e dalla disfatta del 1945? In termini diversi il problema si è posto con una insistenza crescente, tanto più che si era costretti a constatare la debolezza generale, sul piano dottrinale, della Democrazia Cristiana, che ha prodotto soprattutto dei militanti e degli uomini politici ma pochissimi uomini di Stato e ancor meno pensatori.

L'interrogativo è divenuto ancora più perentorio in seguito all'evoluzione del pensiero cattolico di cui il concilio Vaticano II ha segnato una tappa essenziale (e non bisogna dimenticare che, malgrado la partecipazione talvolta notevole di protestanti, il fenomeno democratico cristiano è sempre stato essenzialmente un fenomeno cattolico). Si è presa coscienza sempre più chiaramente dell'‛autonomia del temporale', cioè del fatto che, sul piano delle opinioni profane, i laici sono in definitiva i soli responsabili e debbono poter giudicare e agire indipendentemente dalle autorità ecclesiastiche, fatte salve le esigenze fondamentali della fede e della morale cristiane. In particolare ci si è sempre più resi conto della difficoltà di basare un programma politico sulla sola ‛dottrina sociale della Chiesa', dato che essa si limita ad enunciare principî generali e che dalla fede cristiana non può derivare automaticamente una concezione ben definita della società. Un numero crescente di cattolici è portato a condividere l'opinione espressa dal protestante J. Brugmans, ex direttore del Collegio d'Europa a Bruges, in una recente intervista (apparsa su ‟Informations catholiques internationales", 1974, n. 447, p. 13): ‟Non credo affatto che l'Europa sarà democratico-cristiana. Credo al contrario che l'indebolimento dei partiti democratico-cristiaani sia un fenomeno salutare. È normale che all'interno della Chiesa ci siano uomini e donne che, di temperamento diverso, di diversa estrazione sociale, non arrivino alla medesima conclusione politica, pur prendendo la comunione gli uni a fianco degli altri. Partendo dalla fede in Gesù Cristo, non vedo nessuna politica che possa essere destinata a diventare quella di tutti". Constatazioni di questo genere, andando di pari passo presso molti giovani cattolici con una preoccupazione molto viva di interiorizzazione e di ‛autenticità' del sentimento religioso, li hanno portati a riflettere più profondamente sul senso delle istituzioni cristiane e a domandarsi se in certi casi il passivo del bilancio non rischiasse di prevalere sull'attivo, e se i vantaggi apostolici, cui si era pensato un tempo dando vita a questo Ersatz di cristianità in un quadro politico e sociale rinnovato, non possano oggi essere raggiunti meglio in un sistema imperniato sulla collaborazione dei credenti e dei non credenti all'interno di istituzioni di tipo pluralistico. È la soluzione scelta da lungo tempo dai cristiani dei paesi anglosassoni, compresi i cattolici (per lo meno per ciò che concerne la politica e la vita economico-sociale): non si sono creati, in questa sfera, organizzazioni o partiti confessionali e ci si limita ad agire ispirandosi ai principî cristiani all'interno di movimenti che, in quanto tali, non presentano alcun carattere cristiano, né ufficiale né ufficioso.

Alle soglie degli anni settanta, l'attrazione per questa formula appare particolarmente viva in Francia e nei Paesi Bassi, e in altri paesi raccoglie l'attenzione crescente delle organizzazioni operaie. Sarebbe tuttavia eccessivo considerare già moribondo l'antico ideale che da un secolo ha ispirato i movimenti democratico-cristiani. I più perspicaci ritengono che questo ideale debba essere rimeditato nelle sue modalità pratiche, e pensano, come A. Fanfani ha dichiarato nell'agosto 1973, che con la trasformazione del nostro tipo di società alcuni punti fondamentali della Democrazia Cristiana sono venuti meno e che sono necessari dei rinnovamenti per adattarsi alle nuove strutture sociali e ai mutamenti ideologici. Ma essi pensano, tuttavia, che gli argomenti invocati per conservare delle organizzazioni sociali e politiche specificamente cristiane restino sempre validi: perché i conflitti importanti sul piano politico o sociale (problemi di educazione, di morale sessuale, di relazioni tra Chiesa e Stato, ecc.) hanno spesso le loro radici in una differenza di concezioni filosofiche o religiose, soprattutto se si tiene conto del peso delle tradizioni storiche; perché spesso il dialogo tra cristiani e non cristiani non può proseguire efficacemente se gli uni e gli altri non sono raggruppati e organizzati; e, infine, perché un gran numero di cattolici mancano dell'educazione e della capacità sociale necessarie per poter agire con efficacia, individualmente, sulla trasformazione delle strutture in uno spirito cristiano, ed è quindi necessario che essi siano organizzati e agiscano collettivamente se vogliono avere un'influenza reale. Il fatto che sia stato creato nel 1970 in Danimarca un Partito Cristiano Popolare, fondato da un maestro cattolico con l'appoggio dei circoli luterani più attivi, per la difesa dei valori spirituali e familiari, è un indice tra gli altri della forza che considerazioni di questo genere conservano ancora oggi.

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