Demografia

Enciclopedia del Novecento (1977)

Demografia

Frank W. Notestein

di Frank W. Notestein

Demografia

sommario: 1. Introduzione. 2. La demografia formale. a) Mortalità. b) Fecondità. c) Migrazione. d) Previsioni circa la popolazione e popolazioni stabili. 3. Interpretazioni teoriche del movimento della popolazione. 4. Popolazione, inquinamento e risorse. 5. Politiche demografiche. □ Bibliografia.

1. Introduzione

L'improvviso e pressoché universale interesse rivolto ai problemi della popolazione ha fatto sì che il loro studio, denominato ‛demografia', dapprima riservato a pochi specialisti, attirasse l'attenzione di enti educativi e di organismi nazionali e internazionali impegnati ad affrontare, sia su scala nazionale sia su scala mondiale, i problemi connessi con lo sviluppo socio-economico.

Questa ondata di interesse è dovuta a due cause fondamentali.

La prima è l'impressionante flessione, registratasi in quasi tutto il mondo, dei tassi di mortalità. Tale flessione si è verificata in quanto l'uomo ha imparato a dominare le più gravi malattie in modo così efficace da rendere possibile un notevole risparmio di vite umane anche in paesi poveri, dotati di un'assistenza sanitaria rudimentale. I tassi di natalità sono, invece, diminuiti più lentamente. Pertanto, il divario tra la staticità del tasso di natalità da un lato, e il sensibile abbassamento del tasso di mortalità dall'altro, ha determinato la moderna ‛esplosione demografica'. Mai nella storia del genere umano si era avuto un periodo così intenso e prolungato di rapidissima crescita demografica, specialmente in paesi disperatamente poveri. Una delle conseguenze di tale fenomeno è stata che gli sforzi effettuati per far fronte agli inevitabili costi determinati da un incremento di popolazione senza precedenti hanno notevolmente scoraggiato gli sforzi volti ad attuare il processo di modernizzazione socio-economica da cui dipende, nei paesi più poveri, ogni speranza di miglioramento della condizione umana. Questo acuirsi dei problemi dello sviluppo, a causa del rapido aumento della popolazione, è all'origine di gran parte delle preoccupazioni mondiali.

Il secondo motivo d'interesse per gli studi sulla popolazione scaturisce dal costituirsi di enormi agglomerati urbani. Questi hanno dovunque contribuito, in misura cospicua, a mutare le caratteristiche delle nostre società, accentuando la mobilità della famiglia, corrodendo i legami di affetto verso il luogo d'origine e la famiglia di tipo patriarcale e rendendo necessaria la formazione dei sistemi enormemente intricati e complessi di produzione, di alloggio e di comunicazione, che caratterizzano la comunità urbana.

La ragione prima del formarsi di questi agglomerati urbani è da ricercare in un abbassamento senza precedenti della percentuale di forza-lavoro richiesta per la produzione di alimenti e fibre naturali. Nelle società contadine, relativamente autosufficienti, circa l'80% della forza-lavoro viene impiegato in agricoltura, mentre nelle società economicamente più sviluppate, quantità molto maggiori di alimenti e di fibre vengono ora ottenute impiegando meno del 5% della forza-lavoro. Questa enorme riduzione è dovuta a due cause principali: innanzitutto la richiesta dei prodotti alimentari e di fibre non presenta una sensibile elasticità, dal momento che le popolazioni più ricche consumano relativamente poco più alimenti e fibre di quanto ne consumino le popolazioni più povere. In secondo luogo, ciò è dovuto, naturalmente, allo spettacoloso sviluppo tecnologico che, se da una parte ha molto incrementato la produttività agricola, dall'altra ha creato tutta una serie di prodotti sostitutivi di quelli agricoli. Il mutamento verificatosi nel passaggio dall'impiego di forza motrice animale a quello di forza motrice non animale ha spostato le richieste di energia dall'alimentazione ai carburanti, mentre lo sviluppo delle sostanze sintetiche ha sottratto una parte rilevante del mercato ai pellami e alle fibre naturali. Il risultato di una tale trasformazione è che, mentre una volta 4 lavoratori su 5 erano impiegati nel settore agricolo, attualmente, nei paesi a tecnologia più avanzata, meno di 1 lavoratore su 20 è occupato nell'agricoltura. Gli altri si sono urbanizzati.

La demografia si occupa di questi problemi e di gran parte dei loro elementi costitutivi. Propriamente, essa studia l'ammontare, le caratteristiche e la distribuzione delle popolazioni umane; gli indici di variazione cui sono sottoposte per effetto delle nascite, dei decessi e delle migrazioni; le cause fisiche, biologiche e sociali di tali modificazioni e, infine, le loro conseguenze.

Essenzialmente la demografia si occupa, sotto il profilo statistico, dei processi di autoriproduzione e rinnovamento del genere umano, cioè del movimento del capitale umano. In tal senso essa consiste principalmente nello studio dei censimenti e delle statistiche di natalità e mortalità. Ma, poiché lo studio delle cause e delle conseguenze delle tendenze della popolazione procede da questo nucleo centrale verso problemi d'indole biologica, sociale, economica e politica, la demografia supera i limiti della statistica del movimento della popolazione, avvicinandosi a tali campi d'indagine. La demografia si differenzia forse da altre discipline, quali la fisica o l'economia, per essere definita non tanto dalle caratteristiche delimitanti il suo oggetto, quanto dalla relazione del suo nucleo centrale con quasi tutti gli altri aspetti del mondo fisico, biologico e sociale. La coerenza e gran parte del fascino della demografia derivano da questo suo nucleo fondamentale, che è costituito dai summenzionati processi di autorinnovamento, mentre la sua utilità poggia principalmente sulla relazione esistente tra questo centro e tutti i processi di trasformazione che la condizione umana viene subendo.

La seguente esposizione si occuperà inizialmente della demografia propriamente detta e, in primo luogo, dell'ammontare, del tasso di incremento e della composizione per età della popolazione; quindi, delle componenti di incremento, mortalità, fecondità e migrazione; in terzo luogo, delle previsioni sulla popolazione e delle popolazioni stabili. Partendo da queste premesse - dopo aver indicato alcune teorie relative al significato di cambiamento - la nostra esposizione passerà a considerare le interrelazioni esistenti tra popolazione, inquinamento e risorse e, infine, problemi di politica demografica. Poiché non è possibile discutere l'intera gamma dei problemi in un breve saggio, è nostro proposito trattare le questioni principali in modo un po' dogmatico, sebbene con un approfondimento sufficiente a mostrarne l'importanza e l'attrattiva.

2. La demografia formale

All'inizio del 1972 si contavano nel mondo circa 3,7 miliardi di persone. Durante il milione di anni, e forse più, di esistenza dell'uomo precedenti la metà del sec. XVII la popolazione della terra aveva raggiunto solo il mezzo miliardo. Ebbe allora inizio la moderna era di crescita demografica. La popolazione mondiale raddoppiò nel corso dei successivi 200 anni e registrò un ulteriore raddoppio nei 75 anni che seguirono fino a raggiungere circa i 2 miliardi nel 1925 (v. tab. I e grafico). Nel 1975 essa ha toccato all'incirca i 4 miliardi. Attualmente aumenta approssimativamente con un tasso del 2% annuo e se tale incremento continuasse, la popolazione, nei prossimi 35 anni, risulterebbe raddoppiata. Ciò significa che, nell'anno 2007, l'ammontare totale salirebbe a 7,4 miliardi di individui. L'importanza di questo raddoppio nell'arco di 35 anni può essere compresa appieno se si tiene presente che, procedendo con questo ritmo, prima che gli attuali trentenni siano in età pensionabile, l'umanità sarà cresciuta di un numero di individui pari a quello formatosi durante l'intera storia della specie.

Tabella 1

Grafico

Poiché viviamo in un'epoca caratterizzata dall'aumento di popolazione, siamo ormai abituati a pensare a tale aumento come a un fatto normale. Complessivamente però, durante tutto l'arco di esistenza dell'uomo, la popolazione si è mantenuta a un livello pressoché costante, essendo cresciuta con un tasso inferiore più di mille volte rispetto a quello attuale. L'impossibilità di sostenere un prolungato aumento al ritmo attuale risulta chiara se si pensa a quale sarebbe la situazione nell'anno 2452, da cui ci separa appena un periodo identico a quello intercorso dalla scoperta dell'America ad oggi. Per quell'epoca, la popolazione mondiale salirebbe a circa 55 mila miliardi di abitanti, pari a una densità di un abitante per ogni 2,5 m2 di superficie terrestre. L'effettivo problema dunque non è sapere se si avrà un arresto completo della crescita della popolazione. Ciò che realmente conta è come e quando tale arresto avrà luogo.

Si discute molto se la densità della popolazione sia o meno un fattore d'ostacolo alla prosperità; in effetti, tra densità e benessere non sussiste una correlazione semplice: i due continenti più densamente popolati del mondo, l'Europa e l'Asia, sono anche, rispettivamente, l'uno tra i più ricchi e l'altro tra i meno ricchi. Similmente, pur essendo tutti continenti fra i meno densamente popolati, l'Australia e il Nordamerica sono fra i più ricchi, l'Africa e il Sudamerica sono invece fra i più poveri. All'opposto, l'indice di incremento della popolazione è in relazione stretta, e inversa, con la prosperità. Il tasso di incremento annuo per tutto il mondo nel suo complesso corrisponde circa al 2%. In Europa, nell'Unione Sovietica e nel Nordamerica esso si aggira tra lo 0,8 e l'1,2%, mentre in Asia, Africa e America Centromeridionale (compresa l'area caraibica) esso va dal 2,3 al 3,1%. Come vedremo in seguito, in un certo senso queste popolazioni crescono rapidamente a causa della loro estrema povertà, ma è altrettanto vero che esse sono povere perché crescono così rapidamente.

Il peso del mantenimento della giovane generazione è leggero nelle aree prospere, mentre si fa gravoso in quelle povere. L'ammontare della popolazione al di sotto dei 15 anni, nei continenti caratterizzati da paesi a sviluppo avanzato, varia dal 25 al 32%, mentre nei continenti caratterizzati da paesi sottosviluppati esso varia dal 40 al 44%. Le differenze che si riscontrano fra i paesi sottosviluppati e quelli a sviluppo avanzato nella distribuzione per sesso e per età sono illustrate, nella tab. II e nel grafico, confrontando le popolazioni della Turchia e dell'Italia. (Le aree a sviluppo avanzato comprendono, convenzionalmente, l'Unione Sovietica, il Giappone, l'Europa, gli Stati Uniti e il Canada, le zone temperate del Sudamerica, l'Australia e la Nuova Zelanda. Le altre parti del mondo vengono considerate aree sottosviluppate; v. ONU, World population..., 1966, cap. 3 e ONU, 1971, p. 15).

Tabella 2

Grafico

a) Mortalità

Durante l'intero arco dell'esperienza umana, l'indice di mortalità si è mantenuto quasi sempre altissimo e la vita è stata quasi sempre di breve durata a causa delle stragi compiute da malattie, carestie e guerre. Si è calcolato che nell'antica Roma la speranza di vita alla nascita era inferiore ai 25 anni (v. Dublin e altri, 1949, p. 60), cioè 1/3 del massimo livello oggi raggiunto. Forse nessuna importante popolazione vissuta prima del sec. XIX aveva una speranza di vita superiore ai 35 anni, e in India, fino ai recenti anni venti, essa era nettamente inferiore ai 30 anni. In un gran numero di casi, pertanto, più di 1/3 dei nati vivi moriva prima del compimento del primo anno di vita. Ancora nel 1900, le uniche nazioni ad avere una mortalità infantile inferiore a 100 per ogni 1.000 nascite erano la Norvegia e la Svezia.

In Europa, presumibilmente alla fine della guerra dei Trent'anni, con il ristabilimento dell'ordine, gli indici di mortalità cominciarono a diminuire gradatamente. Tale flessione venne indubbiamente accelerata dall'incremento dei rifornimenti alimentari reso possibile da innovazioni introdotte nel settore agricolo e ulteriormente favorito dall'aumento di produttività dovuto alla rivoluzione commerciale e a quella industriale. Infine, la scienza e la tecnologia moderna contribuirono a migliorare le condizioni di vita con l'introduzione delle fognature, con l'approvvigionamento di acqua potabile e di latte e, principalmente in questo secolo, con metodi di immunizzazione, con il controllo degli agenti patogeni per combattere le malattie contagiose e con la cura delle malattie infettive mediante farmaci solfammidici e antibiotici. Come è dato vedere nello schema seguente, la speranza di vita è aumentata raggiungendo livelli un tempo impensabili. Praticamente in tutte le nazioni moderne, e in alcuni paesi orientali, la speranza di vita delle donne alla nascita supera ora il limite, di biblica memoria, dei 70 anni. Soltanto otto tra i paesi più sviluppati registravano, nel 1968, un tasso di mortalità infantile pari a 30 per 1.000 nascite e, al solito, l'Olanda e la Scandinavia capeggiavano le graduatorie mondiali con soli 13-15 casi di morte durante il primo anno di vita per ogni 1.000 nascite. Nessun avvenimento ha così radicalmente e meravigliosamente rinnovato la struttura della vita moderna quanto questa notevole vittoria riportata nel campo della prevenzione delle malattie e sulle morti premature.

Tabella

Tabella 3

Grafico

La tab. III e il grafico mostrano chiaramente in quale misura la vita umana sia stata interessata da questa spettacolare riduzione di mortalità. Essi indicano il numero di sopravvissute, a ogni livello di età, di 1.000 femmine nate vive in India e in Olanda, sia all'inizio sia alla metà del nostro secolo. Naturalmente, una tavola di mortalità relativa alla metà del secolo, o a qualsiasi altra epoca, non segue una singola generazione accompagnandola dalla nascita fino alla sua estinzione. I valori riportati nella tavola sono sintesi puramente di comodo della mortalità registrata negli anni ai quali la tavola si riferisce. Questa ci dice semplicemente che, se un gruppo, o generazione, andando avanti negli anni, diminuisse a ogni età al ritmo caratteristico del periodo base, sia la sua durata media di vita sia il numero dei sopravvissuti a ogni età si ritroverebbero riportati nella tavola. In modo analogo a quanto avviene con il tachimetro di un'automobile, essa non ci dà né una storia del passato né una predizione del futuro, procurandoci solo informazioni ipotetiche su ciò che accadrebbe se le condizioni attuali permanessero identiche. Ma la tavola di mortalità, al pari del tachimetro, ha una funzione molto utile. La tab. III e il grafico ci mostrano, nella tavola di mortalità relativa agli anni 1901-1911, come in India, su ogni 100 femmine nate vive, soltanto 57 circa raggiungessero i 5 anni di età, mentre da quella che si riferisce alla metà del secolo risulta che mezzo secolo più tardi, lo stesso numero di individui di sesso femminile superava i 38 anni. Questo era già un notevole progresso, ma lasciava ancora l'India al di sotto del livello raggiunto dall'Olanda all'inizio del secolo. Secondo le tavole, a metà secolo, il numero delle Olandesi che vivevano fino a 76 anni superava il numero delle Indiane che, all'inizio del secolo, raggiungevano l'età di 5 anni. Rileviamo inoltre dai dati di metà secolo per l'Olanda che le femmine che arrivavano all'età di 65 anni erano più numerose di quelle che, all'inizio del secolo, raggiungevano i 5 anni di età. Spesso e - ahimè - con fin troppa ragione, noi pensiamo al nostro secolo come all'epoca che ha visto i più spaventosi massacri dell'umanità. Siamo portati però a dimenticare che le pacifiche vittorie riportate col dominio sulle malattie hanno salvato, nel frattempo, un numero di vite ben più grande di quello che è andato perduto a causa delle nostre orribili guerre. In fin dei conti, pertanto, il nostro è il secolo della vita.

La tab. III e il grafico mostrano con molta chiarezza perché, per assicurare la sopravvivenza dell'uomo, fossero necessari, nel periodo premoderno, altissimi tassi di fecondità.

L'area al di sotto di ogni curva può essere anche interpretata come esprimente la popolazione che verrebbe mantenuta da un tasso costante di natalità esattamente identico al tasso di mortalità secondo la tavola di mortalità considerata. Per esempio, un numero annuo di 100 nascite femminili rapportato al tasso di mortalità specifico dell'India tra gli anni 1901 e 1911 darebbe una popolazione di sole 2.300 donne, mentre lo stesso flusso di nascite femminili e l'indice di mortalità dell'Olanda negli anni 1956-1960 darebbero una popolazione femminile di 7.500 unità, ossia un numero superiore di ben tre volte. Per la popolazione indiana la durata media di vita, ovvero l'età alla morte, sarebbe di 23 anni, mentre nel caso dell'Olanda tale indice si collocherebbe sui 75 anni. Prendendo in esame il caso dell'India, con 100 nascite l'anno e con una popolazione femminile di 2.300 unità, il tasso di natalità femminile sarebbe di 1/23, cioè di 43,5 nascite ogni 1.000 unità di popolazione. Dato poi che stiamo esaminando una popolazione stazionaria, identico sarebbe anche il tasso di mortalità. Nel caso invece della popolazione stazionaria dell'Olanda per gli anni 1956-1960, il tasso di natalità e quello di mortalità sarebbero di 1/75, cioè di 13,3 ogni 1.000 unità di popolazione. Un altro modo per esprimere lo stesso concetto è quello di affermare che i tassi bilanciantisi di natalità e di mortalità di una popolazione stazionaria sono eguali al numero reciproco della speranza di vita alla nascita. Alla fine degli anni sessanta in Olanda e nei paesi scandinavi la speranza di vita alla nascita per le donne aveva raggiunto quasi i 77 anni. Conseguentemente possiamo affermare che i casi ottimali in epoca moderna comporterebbero, in una popolazione stazionaria, un tasso di mortalità pari a 13,0. Il fatto poi che gli indici di mortalità in moltissimi paesi del mondo siano inferiori a 10 dimostra soltanto che le loro popolazioni sono in aumento e che esse sono più giovani di una popolazione stazionaria. Se l'incremento della popolazione ha un calo e quindi la popolazione ha un'età media più elevata, i tassi di mortalità aumenteranno quasi certamente. L'esame compiuto in precedenza con particolare riguardo ai dati sulla popolazione femminile deriva dal fatto che, nelle statistiche sulla fecondità è più facile aver a che fare con le femmine anziché con i maschi. Avremmo potuto anche occuparci della popolazione globale, ma i risultati finali sarebbero rimasti essenzialmente identici. Sarebbe bastato assumere un rapporto, p. es., di 105 nascite maschili contro 100 nascite femminili, e prendere quindi 1,05 volte la speranza di vita maschile alla nascita per la popolazione maschile. In tal caso, la somma delle due popolazioni, maschile e femminile, fungerebbe da divisore - con il numeratore rappresentato da 2,05 nascite globali - onde ottenere i tassi di natalità e di mortalità valevoli per il totale della popolazione. Questi indici non differiscono più di 0,7 da quelli già citati a proposito della popolazione femminile. Il fatto di maggiore interesse che emergerebbe da tali calcoli è che, almeno in Europa, il rapporto tra maschi e femmine, nell'ambito della popolazione stazionaria, si avvicina sensibilmente all'unità in quanto il leggero soprannumero delle nascite maschili compensa appena lo svantaggio dovuto al fatto che la speranza di vita, per i maschi, è piuttosto sfavorevole. Nel sec. XVIII J. P. Süssmilch richiamò l'attenzione in Die göttliche Ordnung (1741) su questo costante ritorno all'equilibrio, adducendolo quale prova evidente di un disegno provvidenziale presente nell'universo.

Nel modo in cui le flessioni del tasso di mortalità influiscono sulle distribuzioni per età si manifesta un evidente paradosso. Come si spiega che, in un'epoca che ha visto un abbassamento dei tassi di mortalità e in cui la vita si è allungata in misura così spettacolare, la popolazione si è mantenuta mediamente così giovane? Verrebbe spontaneo pensare che, se la gente vive più a lungo, la popolazione dovrebbe mediamente invecchiare. In realtà ciò non accade. Semmai, essa ringiovanisce e ciò per una ragione assai semplice. La vita media si allunga in quanto i tassi di mortalità si abbassano, tanto nell'età infantile e nella prima fanciullezza quanto nelle altre età. È maggiore il numero di donne che sopravvive fino all'età riproduttiva e pertanto tassi più bassi di mortalità comportano un numero maggiore di neonati, di infanti e di bambini, come di persone anziane. Se, infatti, i tassi di mortalità diminuissero in modo che la probabilità di sopravvivenza (cioè: 1 meno la probabilità di morte) aumentasse durante l'arco di vita, poniamo, del 2%, ciò accrescerebbe la popolazione a ogni età di 1,02 senza produrre effetto alcuno sulla distribuzione per età e darebbe luogo a una popolazione più numerosa caratterizzata dalla stessa composizione per età. Negli anni cinquanta un gruppo di demografi, tra i quali i francesi A. Sauvy e J. Bourgeois-Pichat e gli statunitensi A. J. Coale e F. Lorimer hanno richiamato per la prima volta l'attenzione sul fatto che lo spettacolare declino della mortalità aveva un'influenza minima sulla distribuzione per età. Coale (v., How the age... 1957, e 1963) ha sottolineato che nella maggior parte delle aree del mondo la flessione della mortalità ha accresciuto la probabilità di sopravvivenza, secondo rapporti relativamente costanti, dai 5 ai 45 anni di età. Tali incrementi erano rapidissimi al di sotto dei 5 anni e al di sopra dei 45, ma di questi il primo esercitava un effetto molto più sensibile sull'età media. Di conseguenza, in tutte le parti del mondo la flessione della mortalità ha avuto ripercussioni piuttosto lievi sull'età media della popolazione, ma, nella misura in cui ne ha alterato la composizione, ha determinato il ringiovanimento, anziché l'invecchiamento, di essa.

Questo fatto ha un peso importante su un solo aspetto della politica demografica. Viene spesso obiettato che, essendo le bocche anche braccia, i paesi in via di sviluppo potrebbero affrontare i problemi connessi al rapido sviluppo demografico se solo potessero ridurre il gravame costituito dal sostentamento dei giovani riducendo i tassi di mortalità in modo che i bambini possano sopravvivere fino ai loro anni produttivi. Il peso della popolazione inattiva è davvero gravoso se si pensa che la maggior parte dei paesi sottosviluppati hanno più del 40% della loro popolazione totale in età inferiore ai 15 anni. Ciò che non viene compreso è che la riduzione del tasso di mortalità, sebbene per altre ragioni rivesta un'importanza vitale, presa di per sé accrescerebbe, anziché ridurre, il fardello costituito dal sostentamento della gioventù. Tale onere può essere alleviato unicamente riducendo il tasso di natalità.

D'altra parte, nei paesi più sviluppati, i tassi di mortalità nelle età più giovani sono ora così vicini al valore zero, che ulteriori riduzioni di mortalità incideranno di necessità principalmente nelle età più tarde, con conseguente accrescimento dell'età media della popolazione.

b) Fecondità

Tenuto conto della spaventosa mortalità caratteristica dell'era premoderna, è chiaro come quasi tutte le popolazioni più rilevanti abbiano fatto il loro ingresso nell'era moderna provviste sia della capacità fisiologica, sia delle istituzioni sociali necessarie a favorire un alto numero di nascite. Nei periodi favorevoli, quando l'alimentazione era abbondante e non si verificavano epidemie gravi, le popolazioni aumentavano e tale aumento si arrestava solo a causa del periodico prodursi di carestie, malattie e guerre. Salute, prosperità e incremento demografico divennero quasi termini sinonimi. L'incremento della popolazione era ritenuto un fatto positivo e in tutto il mondo è tuttora diffusa una certa tendenza a mantenere siffatta opinione.

Nel sec. XVIII in Europa occidentale la fecondità era contenuta in modo sostanziale con il celibato, con i matrimoni tardivi e forse, in qualche misura, per mezzo di pratiche contraccettive e abortive tradizionali. È probabile che i tassi di natalità si aggirassero per lo più attorno al 30‰ e che fossero relativamente stabili. Nelle Americhe essi erano sensibilmente più elevati. Negli Stati Uniti, secondo alcune stime, essi si aggiravano attorno a 55 ogni 1.000 unità di popolazione (v. Thompson e Whelpton, 1933, p. 263), indice questo fra i più alti del mondo. Risulta che, in media, una donna, vivendo per tutto il suo periodo di fecondità, avesse circa sette figli. Benjamin Franklin (v., 1751), a metà del sec. XVIII, ha sottolineato che quelle stesse considerazioni di prudenza che, in un'Europa densamente popolata, spingevano a contrarre matrimoni tardivi e a contenere il numero delle gravidanze, suggerivano il contrario nelle colonie, data la scarsità di forza-lavoro e la penuria di terra.

In altre parti delle Americhe, in Africa e in Asia, i tassi di natalità erano pure altissimi, tali cioè da compensare le perdite dovute alle malattie. Ciò nonostante, le popolazioni crescevano con lentezza. In India, per esempio, dal 1861 al 1921, ci fu un alternarsi di decadi di stasi e di crescita a seconda che carestie e gravi epidemie infierissero o si placassero. Anche in Europa occidentale nel sec. XIX, periodo in cui prese l'avvio il processo di modernizzazione, l'incremento della popolazione raramente toccò l'1%, e ciò malgrado tassi di natalità moderatamente alti. L'incremento era contenuto sia dai tassi di mortalità ancora piuttosto alti, sia da un notevolissimo flusso migratorio in direzione del Nuovo Mondo.

La lenta e costante flessione del tasso di natalità ha avuto inizio, al principio del sec. XIX, ai due estremi della scala, ossia in Francia, dove l'indice era già basso, e negli Stati Uniti, dove esso era particolarmente elevato. Le statistiche disponibili dell'epoca sono alquanto incomplete, ma risulta che in altre parti del mondo, almeno in Inghilterra e in Svezia, tale contrazione ebbe inizio negli ultimi trent'anni del sec. XIX. Almeno per quello che concerne l'Inghilterra, essa prese l'avvio fra i ceti professionalmente più elevati, stabilendo in tal modo uno stretto rapporto inverso tra fecondità e condizione socio-economica. Tale flessione, d'altra parte, si è diffusa gradualmente in tutti gli strati sociali fino a far risultare molto ridotte, al momento attuale, le differenze di fecondità che si riscontrano fra le classi sociali dei paesi a sviluppo avanzato. Generalmente, la tendenza negativa si è diffusa in Europa dalla Francia verso altri paesi dell'Europa settentrionale e occidentale per poi spostarsi verso il sud e l'est dove, nel periodo fra le due guerre mondiali, la flessione è stata particolarmente rapida. Attualmente solo tre paesi europei - la Romania, l'Irlanda e l'Albania - presentano più di 20 nascite ogni 1.000 unità di popolazione. Il tasso di natalità dell'Unione Sovietica (17,5 nel 1970) è leggermente più alto dei tassi dell'Europa occidentale, fatta eccezione per l'Irlanda, l'Olanda, il Portogallo e la Spagna, e di poco più basso di quello degli Stati Uniti (18,2 nel 1970). Comunque, all'interno dell'Unione Sovietica, i tassi di natalità registrati nelle regioni slave e in quelle baltiche sono molto bassi: la media nazionale viene elevata dai tassi molto più alti che caratterizzano le popolazioni non slave del sud e dell'est.

Allo stesso modo, negli Stati Uniti il declinante tasso di natalità ha compiuto il suo itinerario procedendo dalle aree nord-orientali, altamente urbanizzate e industrializzate, verso le aree del sud e dell'ovest, diffondendosi nell'intera struttura sociale. I tassi di natalità registrati fra la popolazione negra superano quelli della popolazione bianca, ma tale fenomeno ha tutta l'aria di essere transitorio. La natalità fra i negri è alta soprattutto perché è tra i ceti più poveri della società che sussistono ancora i più alti indici di natalità, e la percentuale di poveri è molto più alta tra i negri che non tra i bianchi. L'aspetto interessante del fenomeno è che, nelle città, i negri che hanno superato i livelli minimi di reddito e di istruzione sembrano avere una fecondità inferiore a quella dei bianchi, se il confronto viene stabilito tra ceti simili per reddito e istruzione.

In breve, il modello di famiglia di piccole dimensioni si è diffuso - in Europa, negli Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda e nell'Unione Sovietica - pressoché in tutte le componenti della struttura sociale. Il prolungato declino dei tassi di natalità delle aree maggiormente sviluppate ha seguito la curva dello sviluppo urbano-industriale e della diffusione generalizzata dell'istruzione. Dopo più di un secolo, la natalità in questi paesi maggiormente sviluppati va da circa 13 a poco più di 20 nascite ogni 1.000 unità di popolazione.

Né tale mutamento è limitato a specifiche condizioni climatiche, culturali, a particolari gruppi razziali o religiosi. In Giappone, il tasso di natalità è precipitato, dopo la fine della guerra, fino a raggiungere il valore di 18,9 nel 1970. La Corea del Sud, Formosa, Hong Kong e Singapore hanno tutti tassi di natalità sensibilmente inferiori a 30. Nelle zone temperate del Sudamerica si registrano tassi di natalità relativamente bassi e notevoli flessioni cominciano ora a esser rilevate fra le prolifiche popolazioni dell'America Centrale. Gli indici di natalità sono diminuiti anche a Ceylon e forse in tutta l'India, in Pākistan e nella Cina continentale. Per quanto concerne quest'ultima, anche se non disponiamo di dati sicuri, è evidente che la politica governativa è tesa a elevare l'età minima per il matrimonio e a diffondere sistemi di pianificazione familiare.

In breve, la rapida e quasi esplosiva crescita demografica, caratteristica dell'epoca attuale, sembra sia dovuta a una riduzione della mortalità, prodottasi contemporaneamente agli effetti della modernizzazione e in anticipo rispetto alla flessione degli indici di natalità. A lungo andare, tuttavia, i tassi di natalità propri delle società tradizionali hanno registrato una flessione, tanto che nei paesi a maggiore sviluppo i margini di incremento della popolazione sono divenuti ridottissimi, stabilizzandosi quasi dovunque attorno a un valore inferiore all'1% annuo. L'incremento demografico è ancora rapido là dove tale tendenza o non è in atto o non ha completato il suo corso. In questo senso possiamo dire che la povertà, in quanto riflette la non avvenuta modernizzazione, mantiene alti indici di natalità e provoca incremento demografico.

Sono state avanzate molte spiegazioni di questa importante trasformazione del comportamento riproduttivo a livello mondiale. In passato ebbero notevole diffusione teorie biologiche e ‛parabiologiche', che si appellavano a presunte modificazioni della capacità riproduttiva (v. Pearl, 1925 e 1939; v. Gini, 1930; v. de Castro, 1952). Queste teorie sono state praticamente accantonate dopo che si è potuto provare sempre più ampiamente che ogni popolazione ha una capacità di riproduzione sufficiente a raggiungere i più alti tassi di natalità che il mondo abbia mai conosciuto.

Fino agli anni quaranta la spiegazione forse più diffusa della diminuzione del tasso di natalità ascriveva al propagarsi delle pratiche contraccettive la causa di tale fenomeno. In Inghilterra l'indice di natalità cominciò a decrescere pressappoco all'epoca in cui il famoso processo per pornografia Bradlaw-Besant attirò l'attenzione della nazione su di un opuscolo che trattava dei metodi di controllo delle nascite. Quest'ipotesi si adattava all'andamento della variazione, che iniziò nei ceti abbienti, nei quali la conoscenza dei nuovi ritrovati penetrò molto più facilmente, propagandosi fino ai livelli più bassi della struttura sociale e dalle città alla campagna con un andamento analogo a quello previsto dalle teorie del ritardo sociale per il diffondersi di un nuovo ritrovato. Secondo questo modo di vedere, è stata la scoperta dei moderni contraccettivi a determinare la flessione del tasso di natalità, e le differenze tuttora esistenti fra i vari paesi del mondo scomparirebbero se solo tutti i popoli potessero disporre di metodi più moderni e più efficaci (v. Fairchild, 1939).

Ma anche quest'ultima teoria si è scontrata con un fatto difficile da spiegare. Una serie di studi statistici più accuratamente controllati ha portato alla luce un dato importante (v. Stix e Notestein, 1940; v. Lewis-Faning, 1949). È stato cioè dimostrato che i metodi contraccettivi tradizionali avevano spesso un'efficacia piuttosto notevole. Specialmente il coitus interruptus - pur lontano dall'essere un metodo sicuro - riduceva il rischio di fecondazione molto più dell'uso di alcuni dei meno efficaci prodotti spermicidi in commercio. Divenne subito chiaro che l'uso di tali metodi tradizionali era stato, in Inghilterra, in Scandinavia e negli Stati Uniti, una delle cause principali dell'inizio della flessione dei tassi di natalità. Eppure metodi del genere non erano certamente nuovi. Uno di essi era menzionato nel Vecchio Testamento e conosciuto in tutto il mondo. Se, dunque, metodi universalmente conosciuti vennero usati in alcuni paesi al fine di provocare un abbassamento dei tassi di natalità e in altri no, è evidente che il diverso grado di conoscenza dei metodi contraccettivi non bastava a spiegare il fenomeno. Era ragionevole ritenere che fossero intervenuti anche altri più forti motivi a ridurre la fecondità (v. Stix e Notestein, 1940, p. 150).

Gradualmente, la teoria che venne detta della ‛transizione demografica' si è andata affermando in quasi tutto il mondo. Secondo questa teoria, lo sviluppo della scienza e della moderna tecnologia ha costituito l'elemento di propulsione del processo di mutamento demografico. Per debellare le malattie, scienza e tecnologia hanno fornito una migliore alimentazione, la bonifica dell'ambiente, i vaccini, gli insetticidi, i solfammidici e gli antibiotici. I tassi di mortalità sono diminuiti prontamente poiché molte innovazioni in campo sanitario poterono essere introdotte senza che fosse necessaria la cooperazione dei singoli individui e poiché le innovazioni che favorivano la salute, una volta capite, erano accolte sempre con favore. La riduzione della mortalità avvenne con tutta la rapidità consentita dalle circostanze, poiché scienza e tecnologia favorivano il raggiungimento del sogno antico di salute e di sopravvivenza.

La riduzione della fecondità fu ritardata fino a che non si manifestarono nuove mete e nuovi mezzi atti al loro raggiungimento. Nelle società tradizionali infatti la sopravvivenza, in presenza di una mortalità inevitabilmente elevata, doveva essere garantita da dispositivi socio-economici, da tradizioni familiari, da precetti culturali e religiosi che favorissero un'abbondante riproduzione. Attraverso i secoli questi dispositivi si radicarono nel cuore stesso dei sistemi di valori. Essi potevano, quindi, modificarsi solo lentamente. I tassi di natalità si mantennero perciò alti, finché i valori tradizionali non furono intaccati dall'affermarsi di nuovi modi di vita portatori di esigenze diverse.

Il movimento migratorio dalla campagna alla città fu un fattore determinante della crisi del costume. Nell'anonimato della nascente vita cittadina il giudizio sugli uomini cominciò a prescindere dai loro antenati e fu basato sui loro beni e sui loro successi; gli individui stessi furono da allora meno facilmente intimiditi dal controllo del clero e dalle sanzioni imposte dal pettegolezzo e dalla maldicenza a ogni tipo di comportamento non conformista. La nuova tecnologia creava inoltre interi settori di nuove professioni fornendo occasioni di ascesa nella scala sociale. Si cominciò a proibire, mediante la legislazione del lavoro, il lavoro dei minori, mentre l'istruzione obbligatoria aumentava il costo della loro educazione. Sotto la spinta di queste radicali trasformazioni i valori tradizionali, favorevoli alle famiglie numerose, cominciarono a essere sostituiti dal nuovo ideale: pochi figli cui però poter offrire maggiori possibilità quanto a salute, istruzione e promozione sociale. La popolazione cominciò ad attuare il controllo delle nascite, soprattutto con metodi anticoncezionali affiancati, non si sa in quale misura, dalla pratica illegale dell'aborto. I tassi di natalità cominciarono ad abbassarsi fino a raggiungere i tassi di mortalità, tanto che, attualmente, nei paesi maggiormente sviluppati, la specie umana si mantiene con un incremento demografico piuttosto lento ottenuto mediante un equilibrio quasi perfetto tra bassi tassi di natalità e di mortalità.

La mutata opinione dei genitori circa il numero ideale di figli fu determinante, ma altrettanto importante fu la comparsa di nuovi mezzi antifecondativi più pratici e più efficaci. Una recente indagine ha provato che in Europa, fra il 1880 e il 1940, la fecondità extramatrimoniale è diminuita quasi con la stessa rapidità con cui è scesa la fecondità matrimoniale (v. Shorter e altri, 1971). Sembra improbabile che i motivi per evitare gravidanze illegittime fossero aumentati altrettanto sensibilmente quanto i motivi per evitare nascite legittime, anche se i mezzi a disposizione per evitarle erano stati indubbiamente perfezionati. Per di più ricerche sempre nuove continuano a mostrare che gruppi caratterizzati da alti tassi di natalità usano metodi anticoncezionali relativamente inefficaci (v. Bumpass e Westoff, 1970). I cambiamenti intervenuti sia nelle motivazioni sia nei mezzi preventivi hanno rivestito un'eguale importanza.

Certamente sono intervenuti anche altri fattori. In alcuni paesi l'età matrimoniale si è elevata. Ciò è avvenuto in Irlanda e a Ceylon, ed è quanto sta avvenendo ora a Formosa, nella Corea del Sud e, sembra, in Cina. Tuttavia, la riduzione di fecondità si è verificata, nel maggior numero di casi, nell'ambito del matrimonio. Particolare importanza ha avuto la pratica dell'aborto in Giappone, nei paesi dell'area comunista e nell'America Latina, e ciò per il fatto che i governi di questi paesi sono stati restii a favorire i metodi anticoncezionali.

Occorre notare che la transizione demografica non si è verificata in modo così chiaro e lineare come la precedente esposizione lascerebbe supporre. Sta diventando ora sempre più evidente come i tassi di natalità siano diminuiti quando praticamente nessuno degli elementi di modernizzazione era presente e come, d'altra parte, non siano diminuiti in presenza di molti di tali elementi. In alcuni casi, inoltre, la flessione dei tassi di natalità ha fatto diminuire i tassi di mortalità (v. Knodel, 1972). Ciò non dovrebbe, forse, causare sorpresa. Infatti, non c'è ragione di ritenere che siffatti complessi mutamenti debbano essere avviati da un unico tipo di fattori di accelerazione. Nondimeno è vero che, in generale, i tassi di mortalità sono scesi prima dei tassi di natalità e che questi ultimi sono generalmente diminuiti nel contesto di una società urbano-industriale e di una istruzione generalizzata. È altresì vero che tale riduzione è stata raggiunta, principalmente, mediante pratiche anticoncezionali o abortive e in virtù dell'innalzamento dell'età matrimoniale.

Nel quadro di questa tendenza, registratasi da un secolo a questa parte, verso indici più bassi, si sono avute fluttuazioni. Nel dopoguerra, in Europa, si è verificata una sostanziale ripresa dei tassi di natalità, ma questo fenomeno è scomparso piuttosto rapidamente. In Canada, negli Stati Uniti, in Australia e in Nuova Zelanda tale ripresa ha avuto una durata più lunga, dovuta alla presenza di condizioni di prosperità particolarmente favorevoli. Negli Stati Uniti l'inversione di tendenza fu causata in larga misura dall'abbassamento dell'età matrimoniale, da un'accresciuta percentuale di persone sposate e da una netta riduzione, in proporzione, del numero di famiglie senza figli o con figlio unico. Gli incrementi furono più sensibili nelle zone urbane che non nelle zone rurali del paese e fra le categorie con livello di istruzione e di reddito più elevati, anziché fra quelle di livello inferiore. Ciò non rappresentò un ritorno puro e semplice a un tipo di famiglia non pianificato bensì, in qualche modo, a un tipo di famiglia sempre di piccole dimensioni, ma relativamente più ampia. Il tasso di natalità è ancora una volta disceso rapidamente dopo il 1960, fino a raggiungere, nel 1971, un valore di 17,3, che è il più basso mai registrato nella storia di questa nazione.

La tendenza di quest'ultimo secolo verso bassi indici di fecondità sembra essere una caratteristica, universale e irreversibile, del processo di modernizzazione, ma il modello della famiglia di piccole proporzioni, coi moderni tassi di mortalità, è altresì sufficientemente elastico da permettere sia un incremento sia un decremento piuttosto rapido della popolazione.

c) Migrazione

In tutto il mondo si è verificato un flusso migratorio dalla campagna verso la città. Si è così assistito a uno spostamento di popolazione da zone caratterizzate da un'alta e pressoché stabile fecondità - dove la popolazione era in sensibile incremento e le possibilità economiche erano limitate - verso le aree urbane, dove i settori moderni dell'economia erano in fase di espansione e dove i tassi di natalità tendevano a mantenersi bassi. Si potrebbe quasi affermare che in questa fase di transizione le zone rurali si siano specializzate nella riproduzione e le aree urbane nella produzione e che i rilevanti afflussi di popolazione verso le città abbiano ristabilito l'equilibrio tra popolazione e posti di lavoro. Questo fenomeno di urbanizzazione ebbe, in parte carattere internazionale. Complessivamente, l'emigrazione europea verso l'America smussò le punte del fenomeno di incremento demografico nella fase di transizione, in un primo tempo nelle regioni dell'Europa occidentale e settentrionale; poi, quando in queste regioni si ebbe un'espansione delle possibilità economiche e una diminuzione del tasso di natalità, la sorgente del flusso migratorio si spostò nell'Europa orientale e meridionale. A sua volta, l'Europa occidentale è divenuta zona d'assorbimento di correnti migratorie provenienti dai paesi del sud e dall'est e, attualmente, anche dal Nordafrica e dalla Turchia. Sebbene l'abbandono del paese d'origine abbia spesso comportato notevoli e penosi sacrifici, le cospicue migrazioni spontanee hanno contribuito molto ad aiutare sia le aree di emigrazione sia le aree di immigrazione ad affrontare con successo gli squilibri provocati dalla trasformazione tecnologica. Inoltre, i contatti mantenuti dagli emigranti con la loro madrepatria hanno senza dubbio contribuito ad accelerare i processi di modernizzazione nei paesi con forte movimento migratorio.

Molto è stato detto sulle migrazioni negli orribili ‛ghetti' (slums) urbani e sulle grandi sofferenze che comportano. Non è il caso di esaminare qui tale tema, ma tutto considerato si è constatato che, per quanto disastrose siano le condizioni in cui i nuovi arrivati vengono a trovarsi nei ghetti urbani, pure esse sono avvertite dagli interessati come un miglioramento della loro sorte. Se le difficoltà incontrate dagli emigrati nei paesi che li ospitano sono gravi, quelle che esistono nei paesi di provenienza risultano spesso insostenibili. Troppo di frequente il quadro di squallore urbano e di virtù rurali viene dipinto da coloro che, interessati nell'agricoltura, temono la perdita di una disponibilità di manodopera a basso prezzo, è questa opinione trova alleata la memoria interessata e fallace dei nostalgici del ‟buon tempo antico". Questa tendenza sembra interessare sia i paesi a economia programmata sia i paesi a economia di mercato. Vedremo in seguito come vi sia il pericolo che difficoltà del genere assurgano a nuove dimensioni in Asia, con le sue centinaia di milioni di persone. Sotto questo profilo, la ricerca accademica e l'interesse del pubblico non prestano a questa gamma di complessi problemi l'attenzione che essa merita.

d) Previsioni circa la popolazione e popolazioni stabili

I vantaggi che possono derivare da accurati studi di previsione sulla popolazione futura sono stati assodati da parecchi decenni. Tuttavia è altrettanto chiaro che i tentativi fatti per giungere a risultati precisi in questo campo non sono stati coronati da successo. Le ragioni del fallimento di questi sforzi sono individuabili abbastanza facilmente. Il movimento demografico non è una variabile indipendente. L'andamento futuro della fecondità, della mortalità e della migrazione dipende in gran parte dai futuri sviluppi politici, sociali ed economici. Ciononostante, i tentativi di previsione continuano in quanto esistono già alcune delle componenti collegate al movimento interno della popolazione. Coloro che costituiranno nell'anno 2000 la forza-lavoro più attempata sono già nati. Dobbiamo prevedere solamente la loro riduzione numerica dovuta ai decessi e le variazioni dovute a migrazioni. Inoltre, quasi tutte le donne che procreeranno intorno al 1990 sono anch'esse già nate. Dove i tassi di mortalità sono bassi e il fenomeno della migrazione poco rilevante, è possibile ottenere con 20 anni d'anticipo dei dati abbastanza attendibili sul numero dei futuri genitori. Vi è in qualche misura, quindi, un quadro del movimento interno della popolazione, ma esiste altresì un margine abbastanza ampio di variazione, cosicché dovremo attenderci poca esattezza da previsioni che si riferiscono alla popolazione globale da qui a una generazione. Forse la cosa più utile che si possa fare è illustrare i margini d'incertezza.

In effetti, i tentativi più utili non sono delle vere e proprie previsioni. Essi costituiscono semplicemente dei modelli elaborati per illustrare le conseguenze di ipotesi diverse e vengono chiamati ‛estrapolazioni'. Prendiamo, per esempio, il caso delle riserve alimentari e domandiamoci quanti individui, nel mondo intero o nelle sue diverse parti, avranno bisogno di cibo alla fine del secolo. Una risposta possibile a questa domanda è che nessuno avrà bisogno di cibo: una catastrofe atomica potrebbe spopolare la terra; sarebbe, tuttavia, assurdo fondare una pianificazione economica su una simile ipotesi. Anche una carestia di vaste proporzioni potrebbe decimare la popolazione. Ma nel programmare la reale portata degli sforzi da compiere in agricoltura sarebbe quanto meno assurdo presupporre il fallimento dell'impresa. Nei casi suindicati, infatti, i programmatori dovrebbero affrontare le conseguenze del loro stesso successo. Per gli scopi proposti dovremmo invece chiederci quali saranno le dimensioni che avrà la popolazione nell'area considerata, ove non intervengano catastrofi di grandi proporzioni e ove si realizzino ipotesi abbastanza ottimistiche sul miglioramento delle condizioni di salute. Quale sarà la sua composizione per sesso e per età? Di quanto varierebbe la risposta assumendo ipotesi differenti circa l'andamento del tasso di natalità? Un lavoro siffatto non è tanto uno studio di previsione quanto uno sviluppo di ipotesi di partenza (v. Hardin, 1969). Esso è nondimeno utile, permettendo uno studio delle conseguenze - in termini di composizione per età e per sesso e di dimensioni della popolazione - di variazioni più o meno radicali nell'andamento della mortalità e della fecondità.

Queste operazioni sono abbastanza semplici da effettuare nell'era dei calcolatori. Si inizia prendendo in esame, classificata per età e per sesso, la popolazione di un determinato paese, a una certa data, e la si riduce numericamente in base a un'appropriata funzione di sopravvivenza facendola avanzare nell'età e nel tempo e usando, generalmente, gruppi di età e intervalli di tempo di cinque anni. Le donne che sopravvivono generano allora figli secondo la curva scelta per calcolare la fecondità in funzione dell'età, quindi i bambini sopravvissuti vengono a loro volta fatti avanzare lungo la scala dell'età e del tempo (qualora lo si ritenga opportuno, potrà essere introdotta anche la variabile dell'emigrazione). Tali modelli sono attendibili nella misura in cui lo sono le ipotesi assunte riguardo la popolazione di partenza e le curve adottate per indicare la fecondità in funzione dell'età e la mortalità. Molti governi fanno elaborare delle serie di estrapolazioni per i loro propri paesi, mentre le Nazioni Unite fanno altrettanto sia su scala mondiale sia per le singole zone dellà terra (v. ONU, World population..., 1966, e 1971).

Per molti aspetti, la previsione demografica non è il mezzo più semplice per ricercare il significato a lungo termine delle varie combinazioni di fecondità e mortalità. Abbiamo già visto che la tavola di mortalità ci fornisce la distribuzione per età che in ultima analisi verrebbe a stabilirsi in una popolazione stazionaria caratterizzata dai rischi di morte specificati. A. J. Lotka (v., 1939) ha sviluppato il caso più generale mostrando che una popolazione femminile, chiusa a fenomeni di migrazione e con andamenti rigidi della fecondità e della mortalità in funzione dell'età, si avvicinerebbe - al limite - a una caratteristica distribuzione per età. Inoltre, una volta supposta la distribuzione per età e gli andamenti della fecondità e della mortalità in funzione dell'età, si potrebbero calcolare le percentuali di nascite e di decessi della popolazione totale. Questi dati vengono chiamati distribuzioni stabili per età e tassi intrinseci di natalità, di mortalità e di incremento naturale, o di sviluppo. I tassi in questione vengono definiti ‛intrinseci' nel senso che essi sono quelli che in ultima analisi risulterebbero dalla composizione per età che gli specifici andamenti della fecondità e della mortalità in funzione dell'età finirebbero per produrre da se stessi. Questi tassi rappresentano lo stato di equilibrio. Coale (v., A new method..., 1957) ha elaborato un metodo semplice per ottenere, con notevole approssimazione, i tassi intrinseci e la distribuzione stabile per età. Prendiamo l'equazione fondamentale di Lotka:

Formula

dove a corrisponde a età, r corrisponde al tasso intrinseco d'incremento, p(a) alla probabilità di sopravvivenza dalla nascita all'età a e m(a) alla probabilità di partorire una femmina all'età a. Se viene assunto un r provvisorio, designato come r1, si avrà allora:

Formula

e

Formula

Coale e Demeny (v., 1966) hanno elaborato una serie di tabelle demografiche tipo riguardanti le speranze di vita alla nascita nell'arco dai 20 ai 77,5 anni, a intervalli di 2,5 anni. Per ognuna di queste tabelle sono indicati la distribuzione stabile per età, i tassi intrinseci di natalità e di mortalità e molti altri dati caratteristici della popolazione calcolati ai tassi di fecondità compresi fra il più basso e il più alto del mondo. In tal modo è possibile approssimarsi, per interpolazione, ai risultati ultimi derivati da quasi tutte le situazioni possibili.

Nel grafico accanto, per es., con la curva A è indicata una distribuzione per età in qualche modo simile a quella che attualmente esiste in India. Si tratta di una popolazione che ha una speranza di vita alla nascita di 45 anni e in cui la donna, in media, genera in tutto il periodo fecondo 2,8 figlie femmine, 5,7 bambini o circa. Le 2,8 figlie femmine rappresentano il rapporto tra figlie e madri che sarebbe prodotto dal tasso di gravidanza riscontrato ove non si verificassero decessi, chiamato tasso di riproduzione lordo (TRL). Il tasso di riproduzione netto (TRN o R0) corrisponde al rapporto tra figlie e madri alla nascita che risulterebbe tenendo conto degli andamenti rilevati delle gravidanze e della mortalità. Nel caso considerato il tasso in questione è circa 1,9 e ciò, considerando la distribuzione stabile per età, comporterebbe un incremento del 90% per ogni generazione femminile (in formule, secondo il simbolismo già usato, si ha:

Formula

e

Formula

dove T rappresenta la lunghezza della generazione femminile, valore questo che non differisce sensibilmente dall'età media delle madri alla nascita dei loro figli). A lungo andare, per mantenere stabile una popolazione stazionaria, soggetta ai rischi di mortalità riscontrati, è necessaria una fecondità abbastanza alta da produrre un tasso di riproduzione netto pari a 1,0. Il tasso di natalità della popolazione considerata è circa 42‰ e il tasso di mortalità è circa 19‰, cosicché il tasso d'incremento è circa 23‰, cioè 2,3%. Se tale situazione si protraesse, in 30 anni la popolazione risulterebbe raddoppiata.

Tabella 4

Grafico

Cosa accadrebbe se la popolazione presa in esame raggiungesse una speranza di vita di poco inferiore a quella che contraddistingue attualmente la Svezia e ciò avvenisse senza ridurre la sua fecondità, cioè il suo tasso di riproduzione lordo (TRL)? Dai calcoli effettuati risulta chiaramente che si tratta di un'eventualità improbabile. Nel tracciato B della figura viene indicata la distribuzione per età che si riferisce a un tipo di popolazione leggermente più giovane di quella ora considerata. Come è stato osservato in precedenza, un aumento della speranza di vita determina una leggera diminuzione dell'età media. La fecondità (cioè il TRL), come si è premesso, rimane identica, ma il tasso di natalità (il numero delle nascite rapportato a 1.000 unità di popolazione) si fiette lievemente a causa della percentuale minore di femmine in età procreativa. Naturalmente, siffatta combinazione di rischi ridotti e di popolazione giovanissima ha determinato una spettacolare diminuzione del tasso di mortalità. Infatti, a meno di 4 per 1.000, il tasso di mortalità è inferiore di 1/3 a quello che gli stessi rischi produrrebbero in una popolazione stazionaria (1/75, ovvero 13,3 ogni 1.000 unità di popolazione). Di conseguenza il tasso d'incremento raggiunge quasi il 3,6% e, se questa situazione si protraesse, provocherebbe un raddoppio di popolazione in meno di 20 anni. Le difficoltà pratiche che insorgerebbero se in India si raggiungesse e mantenesse questo livello di mortalità e di fecondità sono suggerite dal fatto che, a questo tasso d'incremento, la popolazione dell'India raggiungerebbe, in circa 52 anni, la dimensione della attuale popolazione mondiale. Ovviamente, poiché occorrerebbe un certo periodo di tempo per raggiungere, dagli attuali 45, i 75 anni di speranza di vita, l'incremento necessario a tale risultato risulterebbe più basso. Resta comunque vero che il tasso d'incremento in situazione di equilibrio raddoppierebbe le cifre nel giro di 20 anni e che uno sviluppo del genere non può continuare per lungo tempo in uno spazio finito. Per fortuna, è altamente improbabile che una società in cui la gente è in genere sana, prospera e sufficientemente istruita, tanto da raggiungere una speranza di vita alla nascita di 75 anni, mantenga la sua fecondità ai livelli che oggi contraddistinguono l'India.

Nello stesso grafico viene rappresentata la distribuzione stabile per età di una popolazione (C) che abbia la stessa speranza di vita (75 anni), ma un tasso d'incremento naturale del 2,5 ogni 1.000 unità. Ciò corrisponde a una speranza di vita leggermente più bassa e a un tasso d'incremento un po' più lento rispetto a quelli attuali della Svezia. Questa popolazione ha un'età media molto più elevata, presenta tassi di mortalità più alti e tassi di natalità più bassi, rispetto a quella esaminata nell'altra ipotesi. È questo il modello di situazione demografica a cui il mondo dovrebbe presumibilmente guardare se considerasse importante, oltre a una vita lunga, anche un arresto ordinato - anziché catastrofico - della crescita demografica. E oltremodo evidente che la maggior parte delle società hanno di fronte cambiamenti sostanziali nel processo di adattamento a una situazione siffatta.

Questo tipo di modello stabile rappresenta un caso limite e teorico, ma ciò nonostante esso può assumere anche valore pratico. In quasi tutte le regioni sottosviluppate la mortalità ha registrato una flessione piuttosto rapida mentre la fecondità, nella maggior parte dei casi, ha subito variazioni piuttosto lievi. Poiché le variazioni della mortalità hanno effetti limitati sulla distribuzione per età, ne consegue che questa in molti paesi rimane praticamente stabile. È perciò possibile stabilire, secondo una teoria stabile o quasi, correlazioni fra fecondità, mortalità, distribuzione per età, nonché tassi d'incremento della popolazione. Nelle molteplici situazioni in cui i dati fondamentali sono frammentari e imprecisi, spesso è possibile ricostruire, mediante queste correlazioni, i fatti essenziali della vicenda demografica (v. ONU, 1967).

3. Interpretazioni teoriche del movimento della popolazione

L'insostenibilità di un incremento demografico indefinito entro uno spazio finito è alla base della teoria più autorevole che sia stata fino ad ora formulata in campo demografico. Alla fine del sec. XVIII e all'inizio del XIX, Th. R. Malthus (v., 1833) argomentò che, poiché la maggiore capacità di incremento demografico porta la popolazione a contendersi i mezzi di sussistenza, la povertà non può essere eliminata mentre l'incremento demografico verrebbe contenuto solo dalla guerra, dalle carestie e dalla miseria. A ciò, onde spiegare la diversità di condizioni di vita nei differenti paesi, egli aggiunse più tardi un controllo preventivo tramite il celibato e i matrimoni tardivi. Era sua opinione, comunque, che la povertà avesse origine dalla stessa natura umana.

Marx respinse questo modo di considerare il problema. Causa della povertà non è la natura umana, bensì la natura delle istituzioni economiche che sfruttano l'uomo. La disputa è tuttora aperta, ma è evidente che, almeno per quanto concerneva l'Europa, Marx aveva ragione e Malthus decisamente torto. Infatti, la produzione economica si è accresciuta a un tasso molto più rapido di quanto si sia verificato per la popolazione.

In Occidente, la teoria malthusiana costituì sempre un ostacolo a ogni riforma sociale fino a quando non divenne evidente che i tassi di natalità non erano immutabili. Divenuto il controllo volontario delle nascite una possibilità, nella discussione teorica sorse un nuovo problema (v. Myrdal, 1940, in particolare cap. 1, pp. 3-31). Quali sono, si disse, da un punto di vista economico, le dimensioni ideali della popolazione? E inoltre, qual'è il volume di popolazione che condurrà al massimo incremento del reddito pro capite, tenendo conto, da un lato, dei costi prodotti da una diminuzione dei profitti e, dall'altro, dei vantaggi di economie di scala della produzione? In un'economia semplice di tipo agricolo, caratterizzata da uno stato piuttosto stazionario delle tecniche produttive, un siffatto interrogativo poteva anche essere valido. Oggi, invece, il capitale rappresenta una notevole alternativa alla terra e la tecnologia si sviluppa rapidamente. Le dimensioni ottimali della popolazione in rapporto all'odierna tecnologia, risulterebbero chiaramente sorpassate al tempo in cui venisse dato raggiungerle. Se, d'altra parte, ci sforzassimo di pensare quale sarà la situazione di qui a 50 anni, i termini della questione diverrebbero un po' vaghi. Oltre a ciò la teoria dell'optimum di popolazione, concentrando esclusivamente l'attenzione sul problema delle dimensioni, è portata a trascurare i mezzi impiegati per ottenerle. È probabile che molti Indiani e Cinesi, se interrogati, converrebbero che i loro rispettivi paesi godrebbero di condizioni di vita molto migliori qualora avessero metà della popolazione attuale, ma è dubbio che ognuno di loro accetterebbe spontaneamente i sistemi pratici necessari a raggiungere, entro un secolo, tale risultato.

La difficoltà insita nella teoria dell'optimum è dovuta al fatto che essa affronta staticamente un problema dinamico. Il problema pratico consiste nello scegliere, tra le possibili opzioni, la curva ottimale di movimento della popolazione, alla luce sia delle mete finali sia dei mezzi per conseguirle. In questo senso, il movimento della popolazione e lo sviluppo socio-economico possono essere considerati un problema unico. In termini in qualche modo esortativi, il problema è quello di accelerare i processi di trasformazione socio-economica e demografica o, in una parola, il problema della modernizzazione. Formulata in questi termini, la questione si adatta senza alcuna difficoltà alla teoria della transizione demografica e, almeno secondo noi, non presenta rilevanti difficoltà per gli studiosi di ogni tendenza ideologica.

4. Popolazione, inquinamento e risorse

Secondo un cospicuo gruppo di riformatori stretti attorno al vessillo ecologico della protezione dell'ambiente, i problemi da affrontare per dare un giusto indirizzo al futuro incremento demografico sono semplici. Essi dicono: ‟Arrestatelo subito!", perché ciò contribuirebbe, sostengono, a risolvere i problemi dell'inquinamento e della conservazione delle risorse di combustibile, di minerali e di territorio del nostro pianeta. Negli Stati Uniti essi hanno fondato un'associazione denominata Popolazione a Incremento Zero (v. Zero Population Growth, Inc., 1970). Secondo loro, l'accrescimento della popolazione da una parte e i livelli di vita sempre più alti dall'altra stanno esaurendo a tal punto le risorse della terra da minacciare un deterioramento di proporzioni catastrofiche delle condizioni di vita, ammesso che l'inquinamento dell'aria, dell'acqua e del territorio, prodotto da tutto ciò, non renda, nel frattempo, la vita del tutto impossibile.

Qual è allora la sostanza del problema? L'inquinamento è indubbiamente grave, ma è legato solo marginalmente alle dimensioni della popolazione, derivando in larga misura dalla natura dei nostri ordinamenti economici. Sia nei paesi a economia di mercato sia in quelli a economia pianificata, ai contaminatori dell'aria, del suolo e dell'acqua è consentito di raccogliere i guadagni derivanti dall'inquinamento da essi causato mentre, d'altra parte, essi evitano i costi che tale inquinamento provoca alla società. Naturalmente, il problema potrebbe - e dovrebbe - essere in gran parte risolto costringendo coloro che causano l'inquinamento ad accollarsi gli oneri sociali derivanti dalle loro attività. I costi di bonifica, sotto forma di prezzi più alti, possono essere anche molto onerosi, ma, in paesi fiorenti, essi non costituiscono ostacoli insormontabili, per grande che sia l'incremento demografico.

Esiste, ovviamente, anche il rischio di carestie. In molte regioni sottosviluppate i livelli di nutrizione sono talmente bassi che esistono margini minimi per operare riduzioni in tempi di crisi. Quando sopravvengono gravi crisi, siano esse dovute a cause naturali o politiche, si possono verificare condizioni spaventose di fame, come hanno tragicamente dimostrato i recenti avvenimenti in Nigeria e nel Bangla Desh. Il problema sarebbe certo meno complesso se le popolazioni fossero di dimensioni più piccole, oppure se l'incremento demografico potesse essere frenato abbastanza in fretta con mezzi adeguati sia a livello politico che amministrativo.

Tuttavia, la situazione è lungi dall'essere disperata. Solo pochi anni dopo che W. e P. Paddock (v., 1967) avevano giudicato impossibile evitare carestie in India e che P. R. Ehrlich (v., 1968) andava facendo previsioni di grandi e numerose carestie per gli anni settanta, la ‛rivoluzione verde' ha prodotto una notevole eccedenza di frumento nel subcontinente indiano. La gente è tuttora malnutrita, ma il tasso d'incremento delle scorte alimentari ha superato quello demografico. Siamo solo agli inizi della rivoluzione tecnologica in agricoltura. Se i governi faranno tutto il necessario per sostenere il delicato, complesso sistema della moderna agricoltura, dovrebbe essere possibile, anche in India, far sì che le riserve alimentari aumentino con rapidità maggiore della popolazione in questo scorcio di secolo (v. Hardin, 1969). La ‛rivoluzione verde' ci fornisce il tempo necessario per ridurre il tasso d'incremento demografico. Senonché, per poter migliorare sensibilmente le condizioni di vita, occorre porre termine del tutto a tale incremento.

Si pone con urgenza l'importante obiettivo che il mondo si orienti rapidamente verso l'utilizzazione dell'energia atomica, in quanto esistono scorte limitate di idrocarburi che dovrebbero essere riservate ad uso del settore petrolchimico, indipendentemente dall'ammontare o dalla prosperità della popolazione mondiale. L'energia atomica potrebbe essere presto utilizzabile, e con relativi margini di sicurezza, per mezzo dei reattori autofertilizzanti e forse da ultimo mediante i processi di fusione. In ambedue i casi, la riserva di energia prodotta a costi relativamente bassi diverrebbe praticamente illimitata per migliaia di anni. Inoltre, potendo disporre di energia in abbondanza, i giacimenti di minerale povero, in molti casi i giacimenti oceanici, diverrebbero fonti sfruttabili di grandi scorte.

A. M. Weinbert e R. P. Hammond (v., 1970) hanno osservato che il limite estremo, per quanto concerne l'utilizzazione di energia, è costituito dalla quantità di calore che il pianeta può sopportare. Hammond (v., 1970) calcola che ‟anche miliardi di persone, ciascuna della quali producesse 20 kW di calore (ossia il doppio della media registrata negli Stati Uniti), aggiungerebbero soltanto 1/300 dell'attuale quantità di calore atmosferico. Ciò produrrebbe un innalzamento della temperatura media terrestre di circa 0,25° [...]. A un regime di energia pari a 20 kW per persona, potremmo mantenere un tenore mondiale di vita avvicinabile al livello che attualmente si riscontra negli Stati Uniti anche dopo avere esaurito le nostre risorse di minerale ricco. Potremmo ottenere un tale risultato per una popolazione anche vastissima senza sottoporre la terra a una quantità di calore impossibile, ma non per una popolazione ‛illimitata'".

È evidente, da un lato, come nell'ambito del nostro mondo finito non sia possibile un incremento demografico illimitato; è altrettanto vero, dall'altro, che non ci si avvicina ai limiti ultimi dell'incremento, purché si sia capaci di raggiungere al più presto in tutto il mondo un alto grado di perfezionamento tecnologico e scientifico. Purtroppo, non è affatto certo che il processo di modernizzazione in campo tecnologico e scientifico avrà luogo con sufficiente rapidità. I veri ostacoli che si frappongono al conseguimento in campo mondiale di migliori condizioni di salute, d'istruzione e di una ragionevole prosperità sono ostacoli ‛immediati' e non ‛ultimi'.

I pericoli e i dilemmi insiti nel fenomeno di modernizzazione sono reali. La ‛rivoluzione verde', per esempio, promette consistenti aumenti delle riserve alimentari, ma i miracoli che ad essa si ascrivono vengono compiuti su terreni bene irrigati e danno l'impressione di portare all'eliminazione totale dell'agricoltura intensiva delle regioni montagnose, che fornisce ora i mezzi di sussistenza a molti milioni di individui (v. Wharton, 1969). Da ora alla fine del secolo, la maggior parte dei paesi sottosviluppati dovrà trovare forme di lavoro non agricolo che siano di sostentamento ad un numero di persone pari alla loro attuale popolazione totale. Il fabbisogno di capitali è enorme ed è quasi impossibile disporre dei fondi necessari traendoli da popolazioni così prossime al livello di sussistenza (per un'utile bibliografia su questo argomento v. Robinson, 1971). In mancanza di una massiccia assistenza da parte dei paesi più sviluppati, vi è serio pericolo che il processo di modernizzazione non proceda con la necessaria celerità e che ingenti spostamenti di disoccupati dalla campagna verso i centri urbani siano causa di sommovimenti di tale portata da ostacolare in modo grave tutto il processo di modernizzazione. È chiaro che l'intero processo risulterebbe agevolato anche da un eventuale rapido calo del tasso di natalità che avesse luogo entro la fine del secolo. Una tale riduzione faciliterebbe notevolmente sia i problemi relativi all'educazione, al mantenimento della salute, all'accumulazione di capitali, sia la crescita di quel processo di razionalizzazione indispensabile al pieno realizzarsi dello sviluppo.

Le probabilità di porre fine immediata all'incremento demografico sono, tuttavia, estremamente scarse. Anche se in virtù di qualche miracolo la fecondità scendesse nel giro di dieci anni al livello necessario alla sola reintegrazione di una popolazione stazionaria (ossia, a un tasso di riproduzione netto pari a 1,0), di qui all'anno 2000 la popolazione dei paesi sottosviluppati verrebbe ad accrescersi di oltre il 40%, superando in totale quella attuale di tutto il pianeta (v. Frejka, 1973). Soltanto una perdita catastrofica di vite umane potrebbe arrestare rapidamente l'incremento demografico nelle regioni sottosviluppate; tuttavia, una rapida diminuzione della fecondità potrebbe far scendere, alla fine di questo secolo, la crescita demografica a livelli piuttosto modesti.

Nelle regioni a sviluppo avanzato l'incremento è più basso sia perché si è avuta una fecondità di molto inferiore sia perché la popolazione è più anziana rispetto a quella delle aree depresse. Nondimeno, anche nelle aree prospere si avrebbe grosso modo, per l'anno 2000, un incremento corrispondente a 1/4 e ciò anche se la fecondità cadesse in 10 anni al livello di reintegrazione (TRN = 1,0). È molto improbabile che l'incremento abbia termine; rientra comunque nella sfera del possibile che la fecondità cada entro un decennio al livello di reintegrazione. Il tasso di fecondità era leggermente al di sotto di tale livello nel 1967 o 1968 in alcuni paesi, quali la Cecoslovacchia, la Finlandia, l'Ungheria e il Lussemburgo (v. Office of Population Research, 1971). Inoltre, come già abbiamo avuto occasione di vedere, l'Unione Sovietica, la maggior parte dei paesi d'Europa, gli Stati Uniti e il Canada, attualmente, non sono molto lontani da tale livello. Quale potrà essere il futuro andamento dipenderà in larga misura dalla politica che verrà adottata dai governi interessati.

A causa della composizione per età delle popolazioni, non è né probabile né desiderabile che si verifichi un immediato arresto dell'incremento demografico. Per equiparare strettamente il tasso di natalità al tasso di mortalità si dovrebbe ridurre la fecondità troppo al di sotto del livello necessario al mantenimento nel tempo di una popolazione stazionaria. In effetti, per arrestare sin da ora l'incremento, molti paesi dovrebbero tendere più al modello di famiglia con figlio unico che al modello di famiglia con due figli. Naturalmente, una fecondità così bassa, se perdurasse, produrrebbe ben presto una notevole distorsione nella distribuzione per età e un decremento estremamente rapido della popolazione. Un arresto immediato e completo dell'incremento demografico non è un obiettivo accettabile; al contrario un suo arresto graduale, realizzato attraverso una rapida riduzione della fecondità al livello di reintegrazione, sembra essere un obiettivo non solo realizzabile ma anche legittimo. Un incremento lento ma continuo e, cosa molto più importante, miglioramenti costanti nel tenore di vita determineranno carenze anche gravi di certe risorse naturali; ma, fino alla fine del secolo, non si prevedono carenze di natura tale che non possano essere superate dalle variazioni nei prezzi, dall'uso di surrogati e dalle innovazioni tecnologiche (v. United States Academy of Sciences, 1971, soprattutto i capp. 3 e 6).

5. Politiche demografiche

Più del 75% della popolazione delle regioni in via di sviluppo è amministrato da governi che attuano politiche nazionali esplicitamente volte a ridurre i tassi di natalità, incoraggiando la diffusione di pratiche contraccettive, della sterilizzazione e, in misura minore, dei matrimoni tardivi (v. Nortman, 1972). Si muovono in tale prospettiva quasi tutta l'Asia, a eccezione della zona francofona, la maggior parte dell'Africa a nord del Sahara e alcuni paesi situati a sud, e numerosi paesi dell'America Latina.

Esiste, naturalmente, un considerevole divario fra la politica governativa da una parte e ciò che fa la gente dall'altra, ma in vari paesi è già stato fatto un primo passo verso una decisa pianificazione familiare. I tassi di natalità, come abbiamo già potuto constatare, sono ormai bruscamente caduti in alcuni piccoli paesi e probabilmente hanno registrato una certa flessione in Pākistan, India e Cina e anche in molti territori dell'America Latina. Ha avuto inizio una tendenza che sembra destinata ad accelerarsi.

I fautori di provvedimenti drastici controbattono che i risultati non sono sufficientemente rapidi e che occorrono programmi più incisivi che non abbiano il solo obiettivo di facilitare la limitazione delle gravidanze a coloro che sono già motivati in tal senso (v. Davis, 1967). I governi dovrebbero cercare di aumentare le motivazioni alla riduzione del tasso di natalità con incentivi che favoriscano le famiglie piccole e svantaggi che scoraggino le famiglie numerose. Il problema è naturalmente che, dove la motivazione alla contrazione della natalità è debole, mancano sia il sostegno politico a programmi radicali sia la capacità dell'amministrazione statale ad attuarli. È probabile che il primo e più efficace passo da compiere per accrescere le motivazioni alla riduzione della natalità sia quello di renderla più semplice possibile per coloro che sono già motivati e fornire così l'esempio necessario.

Altri, particolarmente alcuni di parte comunista e di parte cattolica, sostengono che, dal momento che lo sviluppo economico costituisce l'incentivo più importante alla riduzione delle gravidanze, tutte le riserve disponibili dovrebbero essere concentrate sullo sviluppo socio-economico piuttosto che andar disperse in programmi di pianificazione familiare alla cui attuazione la popolazione non è ancora preparata. Quasi tutti converranno che, in mancanza di uno sforzo notevole volto a realizzare lo sviluppo socio-economico, non vi è speranza di evitare una catastrofe e che la parte più considerevole degli sforzi dovrebbe indirizzarsi verso questa direzione. Va comunque tenuto conto che anche i più elaborati programmi di pianificazione familiare non impegnerebbero mai più del 5% degli stanziamenti per lo sviluppo. In effetti, distrarre i fondi di un anno da uno dei programmi di pianificazione familiare tra i più dispendiosi del mondo, quello di Formosa, non servirebbe a finanziare neanche una settimana di scuola in più (v. Berelson, 1969). Sembra del resto strano affermare che solo in questo campo non sia possibile promuovere un comportamento nuovo né con l'educazione né col mettere a disposizione conoscenze e mezzi tecnici.

I fatti concreti sono i seguenti: un sollecito sviluppo socio-economico è essenziale per evitare una tragica perdita di vite umane; rapide riduzioni dei tassi di natalità determinerebbero tali processi di modernizzazione e insieme ne sarebbero determinate; infine, i paesi meno sviluppati se debbono essere in grado di risolvere, entro la fine del nostro secolo, sia i problemi dell'incremento demografico che quelli inerenti al processo di modernizzazione, necessitano da parte di quelli più avanzati di un aiuto molto maggiore di quello che attualmente ricevono.

L'ironia della situazione demografica in tutto il mondo consiste nel fatto che là dove le politiche che comportano provvedimenti drastici potrebbero essere giustificate, esse non sono politicamente e amministrativamente realizzabili e, dove sarebbero realizzabili, esse non sono giustificate dalla situazione. I paesi a sviluppo avanzato non si trovano ad affrontare problemi connessi con un incremento demografico eccessivo. I loro problemi di crescita consistono nel cercare di avvicinarsi, in modo ordinato e civile, a cifre stazionarie. Purché non si verifichino vere e proprie situazioni di emergenza, i paesi più avanzati dispongono del tempo sufficiente per realizzare le loro particolari politiche demografiche in base a riforme, la cui giustificazione è evidente (v. Commission on Population Growth and the American Future, 1972).

Nei paesi maggiormente sviluppati, tutti, salvo un'esigua minoranza, adottano in età procreativa pratiche contraccettive. A queste pratiche si affianca l'aborto, sia legale sia illegale, particolarmente frequente là dove le informazioni e i mezzi contraccettivi non sono facilmente reperibili. Sfortunatamente, è troppo spesso la gente povera e meno istruita a essere soggetta a questa disparità di condizione (v. Bumpass e Westoff, 1970). Sarebbe sensato diffondere le informazioni e i mezzi sanitari più avanzati in tutti gli strati della popolazione che del resto, col suo comportamento, ha già dimostrato di essere favorevole.

Se fossero accessibili senza difficoltà adeguati mezzi contraccettivi e insieme la necessaria informazione, la fecondità potrebbe facilmente abbassarsi fin quasi al livello di reintegrazione della popolazione. Se, inoltre, venissero potenziate le alternative alla maternità, aumentando le possibilità di istruzione e di occupazione per le donne, la fecondità potrebbe scendere a livelli ancora più bassi senza esercitare la benché minima coercizione sull'individuo o una limitazione della libertà di scelta. La fecondità potrebbe anzi scendere al disotto del livello di reintegrazione e porre i governi di fronte al problema più agevole di incoraggiare la riproduzione facilitando i problemi connessi all'allevare figli.

Non dovendo affrontare situazioni di emergenza determinate da uno sviluppo demografico massiccio, i paesi a sviluppo avanzato potrebbero altresì sforzarsi di ampliare la sfera della libertà di scelta, cercare nuove vie per mantenere un'adeguata dinamica socio-economica senza aumento di popolazione, e tentare di risolvere i gravi problemi della distribuzione della popolazione, dei ‛ghetti' urbani, di una carente assistenza sanitaria, di un'istruzione inadeguata, della disoccupazione e del disadattamento dei giovani. Abbiamo appreso come perpetuare la vita equilibrando bassi tassi di natalità e di mortalità. I problemi che ora bisogna affrontare sono di arricchire il suo contenuto proteggendo l'ambiente, allargando la sfera delle scelte e delle possibilità di realizzazione dell'individuo e aiutando i paesi in via di sviluppo nei loro complessi problemi di modernizzazione e di controllo dell'incremento demografico. I primi passi in tal senso sono stati fatti da organismi privati, da singoli governi e da organizzazioni internazionali. Ma non ci si è ancora resi conto della reale portata di questi problemi e non si è pienamente riconosciuta la necessità di mobilitare tutte le potenziali capacità esistenti nel mondo. (V. popolazione).

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