DAUFERIO, detto il Muto

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 33 (1987)

DAUFERIO, detto il Muto

Paolo Bertolini

Uomo politico beneventano, nacque intorno al 775, probabilmente nella capitale del principato, da nobilissima e potente famiglia di stirpe longobarda senza dubbio strettamente imparentata con la dinastia ivi regnante.

Soprannominato "il Muto", come riferisce il Chronicon Salernitanum, "propter impedicionern lingue", è senza dubbio la stessa persona che il suo omonimo contemporaneo soprannominato "il Balbo", di cui parla Erchemperto nei capitoli 14e 15della sua Historia Langobardorum Beneventanorum. Non deve invece essere confuso - al contrario di quanto ha fatto la letteratura storica anche moderna, dal Di Meo allo Hartmann e alla Westerbergh - con un suo omonimo contemporaneo, di poco più anziano di lui: quel Dauferio, poi detto "il Profeta", che fu suo consuocero e che ebbe una parte di rilievo nel colpo di Stato da cui fu travolto nella primavera dell'817 Grimoaldo II. Non deve nemmeno essere confuso con quel "Dauferius quidam vir spectabilis", di cui parla Erchemperto nei capitoli 7 ed 8 della sua Historia, narrando uno degli ultimi attacchi portati da Grimoaldo II contro Napoli; né con l'altro Dauferio figlio di Maione, che fu suo nipote e che fu per breve tempo principe di Salerno nella primavera-estate dell'861.

A causa del silenzio delle fonti, assai poco nota ci è la vita di D. anteriormente all'839. Un preceptum concessionis di Grimoaldo II dell'agosto dell'810 in favore del monastero femminile di S. Maria in Cingla presso Alife (Caserta) ricorda un "Dauferi gastaldius", alla cui suggestio sidoveva l'atto grazioso compiuto da quel principe (Bertolini, tav. D, n. 7, pp. 98 s.); ed un "Dauferius marepahis filius Maioni" placitava in Fasano (Brindisi) nel novembre dell'815 (ibid., tav. D, n. 17, pp. 100 s.); ma è difficile poter stabilire con certezza se essi sono una sola persona con D. o non debbano invece identificarsi con uno degli omonimi suoi contemporanei, che sappiamo attivi nella vita politica dell'Italia meridionale longobarda in quel periodo. D. deteneva beni e terreni nell'agro nucerino, non possiamo dire se come signore fondiario o come ufficiale del principe di Benevento. Il Di Meo (III, p. 285, nota 1), che pure confonde tra loro Datiferio il Profeta e D., ritiene di poter avanzare l'ipotesi che quest'ultimo fosse conte di Nocera, ipotesi poi accolta in genere nella letteratura storica come un dato di fatto (si veda, ad esempio, Pugliese, p. 81).

D. sposò intorno al 795 una nobildonna di rango pari al suo, della quale le fonti note -non ricordano il nome né indicano la famiglia di appartenenza. Da lei ebbe almeno sette figli, tutti adulti nell'anno 839: Dauferada, Romualdo, Arechi, Grimoaldo, Guaiferio, Maione e Adelchisa. Erchemperto fa il nome di quattro dei figli di D.: Romualdo, Arechi, Grimoaldo e Guaiferio; ma tace e di quelli delle figlie e di quello di Maione. L'anonimo autore del Chronicon Salernitanum riferisce solo i nomi di Guaiferio e di Maione, per i maschi, e quello di Adelchisa, per le figlie. Il nome Dauferada, la primogenita di D., ci è stato tramandato insieme con alcune notizie sulla di lei vita dal suo epitafio, che appare trascritto nel codice Vat. lat. 5001, al f. 105r, in calce al Chronicon Salernitanum.

Scomparso tragicamente tra la fine di giugno ed i primi di luglio dell'839 Sicardo, assassinato nel distretto di Avella (Avellino), dove si trovava accampato con il suo esercito per una ripresa delle operazioni militari contro Napoli, gli succedette sul trono il responsabile del dicastero del Tesoro ("thesaurarius", lo dice Erchemperto; "zetarius Palatii", l'anonimo autore dei cosiddetti Chronica Sancti Benedicti Casinensis) che fu riconosciuto principe dei Longobardi beneventani prima del 25 agosto. Il nuovo sovrano, "in cuius electionem", afferma Erchemperto, "omnis... Beneventi provincia consensit", non apparteneva - a quanto ci è dato sapere alla famiglia regnante. Contro di lui si formò ben presto un forte movimento di opposizione, che si coagulò intorno ai capi di due tra le maggiori famiglie del principato, legati da vincoli di parentela a quella del defunto Sicardo: Adelchi, il figlio di Rothfrit, l'antico marepahis dei principe appena scomparso, e Dauferio il Muto. Alle spalle del primo era il potente gastaldo di Capua, Landolfo I il Vecchio (814-843), suo cognato. Rappresentava, il secondo, le aspirazioni e gli interessi della famiglia di Sicardo ed aveva il sostegno di quanti si riconoscevano in essa.

Quale parte avessero avuto D., Radelchi, Rothfrit e Landolfa nelle vicende che precedettero e seguirono immediatamente l'assassinio di Sicardo e portarono all'avvento dello "zetarius Palatii", non è, allo stato attuale delle ricerche, possibile indicare con certezza; così come non sembra possibile precisare se in quel susseguirsi di avvenimenti concorsero - il che appare probabile - anche forze esterne al principato. Il racconto del Chronicon Salernitanum, ricco di particolari romanzeschi certo frutto della fantasia dell'autore o dei suoi informatori, così come quello più asciutto ed essenziale di Erchemperto, sembra infatti inteso a voler far apparire l'assassinio di Sicardo piuttosto come un fatto privato, che come un evento politico: vendetta di un marito - certo Nanningo - da quel principe colpito nei suoi affetti più cari e nell'onore, secondo l'anomimo del Chronicon Salernitanum; di un Adelferio, che intendeva in tal modo punire nel figlio il padre responsabile dell'uccisione ingiustificata del principe Grimoaldo II, per Erchemperto. Tuttavia, al di là delle concessioni al favolistico e al leggendario proprie del Chronicon Salernitanum, ed attraverso i voluti silenzi e le esplicite allusioni contenute nella Historia di Erchemperto e nei Chronica S. Benedicti Casinensis, si percepisce nelle versioni fornite da queste fonti una realtà storica ricca di contrasti ed in rapida evoluzione.

Già prima dell'assassinio di Sicardo era in atto un'aspra lotta tra la fazione capeggiata dal gastaldo di Capua Landolfo il Vecchio e gruppi di potere - forse sospettosi della crescente potenza del capuano, forse più legati alle tradizioni beneventane di unità e di autonomia nazionale - presenti soprattutto nella capitale e nelle regioni centro orientali del principato. Di esse si fece in seguito espressione Radelchi. Sia l'una, sia le altre avevano avversato, o accettato con riserva, il governo di Sicone prima, e poi quello di Sicardo. Quest'ultimo aveva cercato di contrastare l'influenza di Landolfo di Capua, i suoi propositi autonomistici e le sue ambigue connessioni col duca di Napoli Andrea, da un lato favorendo forze politiche ed economiche che potessero, nella parte occidentale dello Stato, controbilanciare quelle, su cui si basava il gastaldo di Capua; compiendo, dall'altro, un coerente sforzo militare per ricondurre sotto il dominio longobardo la città partenopea. Aveva inoltre costretto all'obbedienza gli altri avversari politici e i dissidenti accentuando la politica repressiva già avviata da suo padre nei confronti delle opposizioni, appartenessero al mondo laico o a quello religioso. Vittime illustri del regime furono l'abbate di Montecassino Deusdedit, che fu deposto e imprigionato; un Alfano, "vir illustris et fortissimus robore", che, messosi alla testa di un movimento di resistenza armata con l'appoggio del duca di Napoli, venne impiccato; un cognato del principe, Maione, che venne costretto a farsi monaco; e lo stesso fratello minore di Sicardo, Siconolfo, il quale, accusato di alto tradimento, dovette farsi chierico e fu inviato a Taranto, a domicilio obbligato.

È certo che in questo sforzo per ristabilire l'ordine e la coesione interna promosso da Sicardo, D. aveva dato tutto il proprio appoggio al suo sovrano; e che Rothfrit aveva fatto lo stesso. L'accordo fra i tre e tra i gruppi di potere, che essi rappresentavano, è provato, tra l'altro, dai matrimoni stretti da Rothfrit e dallo stesso Sicardo con due figlie di D., rispettivamente la maggiore, Dauferada, e la minore, Adelchisa. Non sembra che a D. od ai suoi figli sia spettata parte alcuna nella congiura, che pose fine alla vita e al regno di Sicardo; come non sembra che ne sia stato in qualche modo partecipe il "thesaurarius" Radelchi. Resta il fatto che la tragica scomparsa del sovrano beneventano scatenò le rivalità tra i personaggi più in vista del principato e fece esplodere i contrasti fra le diverse fazioni; che la lotta per il potere dovette essere assai aspra; e che nell'elezione a principe dello "zetarius Palatii" molti dovettero essere - ad onta della testimonianza in contrario di Erchemperto - i dissenzienti. Ce ne accertano, da un lato, episodi di carattere rivoluzionario (come la secessione degli Amalfitani) che seguirono immediatamente la morte di Sicardo ed accompagnarono l'avvento di Radelchi; dall'altro, gli atti terroristici e le misure di polizia con cui il nuovo sovrano o eliminò, o perseguitò, o ridusse al silenzio i suoi oppositori, molti dei quali scelsero di andare in esilio.

Non sappiamo quale parte abbia avuto D. nella lotta per la successione. Suocero e fedele del principe assassinato, esponente di spicco del passato regime, preferì abbandonare la capitale subito dopo la solenne intronizzazione di Radelchi, probabilmente sul finire di agosto (secondo il Chronicon Salernitanum, invece, vi sarebbe stato costretto, perché inviato a soggiorno obbligato in seguito a precise disposizioni di pubblica sicurezza, che colpirono allora, scrive l'Anonimo, "non paucis [sic] ex Beneventanis". Si ritirò con la famiglia (le fonti ricordano solo i nomi dei figli maschi), "in finibus... Nucerinis, in loco ubi Forma dicitur". Non risulta dalle fonti note, che egli sia stato in qualche modo coinvolto nella secessione degli Amalfitani, i quali nel corso del mese di agosto, dopo aver saputo del colpo di Stato, saccheggiarono e dettero alle fiamme Salerno, dove erano stati a suo tempo insediati da Sicardo, e fecero quindi ritorno "ad propria". Rimase altresì estraneo - per quanto ci è dato sapere - ai tentativi compiuti dal giovane Adelchi, il figlio di Rothfrit, l'antico maripahis di Sicardo, per rovesciare Radelchi con l'aiuto del proprio potente cognato Landolfò, gastaldo di Capua, e sostituirlo sul trono beneventano (settembre-novembre dell'839). Non era tuttavia rimasto inattivo. Fedele alla casa del defunto sovrano, manovrava per portare al potere Siconolfo, il fratello di Sicardo, che, approfittando senza dubbio dei momenti di incertezza seguiti immediatamente alla notizia del colpo di Stato, aveva abbandonato il confino di Taranto e si era portato al sicuro nella contea di Conza, allora governata da un suo cognato, Orso. D. riuscì infatti a mettersi in contatto con lui. E quando Adelchi fu eliminato brutalmente dalla scena politica per opera del sovrano, che lo fece precipitare da una finestra dei palazzo dei principi in Benevento; quando Landolfo, rientrato precipitosamente a Capua dopo questo assassinio, ebbe cancellato da quella città ogni opposizione al proprio governo, facendo sopprimere tutti i principali fautori del nuovo regime (1 pochi che riuscirono a scampare all'eccidio fuggirono a Benevento), D. con i suoi figli si fece ima di un'insurrezione generale contro Radelchi. Fatta ribellare Salerno, se ne rese padrone. Da lì dichiarò Radelchi usurpatore, indicò come unico erede e successore legittimo del defunto Sicardo il fratello minore di questi, Siconolfò, e lo proclamò principe dei Longobardi beneventani (dicembre dell'839). Allora, commenta amaramente Erchemperto, "facta... [est] talis dissensio, qualis numquam fuit in Beneventum ex quo Langobardi in ea ingressi sunt".

Il moto si estese infatti molto rapidamente nelle regioni del principato: Amalfi, la contea di Conza, il gastaldato di Acerenza - che era retto, quest'ultimo, da un altro cognato di Siconolfo, Redelmundo - si schierarono con gli insorgenti. Taranto seguì poco dopo il loro esempio. In un primo momento Radelchi cercò di placare la sedizione avviando trattative con D. per giungere ad un accordo che ponesse in qualche modo fine al contrasto; ma in seguito, quando apparve evidente che, anche a causa del doppio gioco fatto dallo stesso emissario beneventano Adelmario, la via del negoziato era impraticabile, risolse di soffocare la ribellione con le armi. Riunite le sue forze, marciò su Salerno attraversando le terre in rivolta senza incontrare serie opposizioni e si presentò con un poderoso corpo d'esercito davanti alla città. E lì, mentre era impegnato nel porre gli accampamenti e nell'organizzazione delle opere d'assedio, venne violentemente attaccato dalle milizie degli insorgenti condotte dai figli di D., che gli inflissero una disastrosa sconfitta: le sue forze furono annientate; egli stesso riuscì a stento a salvare la vita "vix cum paucis inglorius fugiens" (840).

La battaglia di Salerno fu evento che ebbe enormi conseguenze. Se, da un lato, Radelchi aveva subito una disfatta tale che - afferma Erchemperto - "nec ultra ausus est Salerni metas attingere gressibus", il successo di D. e dei suoi aderenti non era stato, d'altro canto, così pieno, da dar loro un vantaggio che permettesse loro di rovesciare per sempre l'avversario e di impadronirsi in modo definitivo del potere. Esso non valse a chiudere la lotta per la successione al trono di Benevento, ma la complicò ulteriormente, acuendo i contrasti, ampliando il teatro delle operazioni militari, fornendo occasioni di intervento a forze estranee all'Italia meridionale longobarda. Solo dopo la vittoria colta dai figli di D. sotto le mura di Salerno, infatti, Siconolfo si decise ad abbandonare la ben munita Conza per recarsi a prendere solennemente possesso della seconda capitale del principato. E solo dopo la battaglia di Salerno, il conte di Capua Landolfo si indusse a rompere apertamente con il principe Radelchi, ribellandosi anch'egli alla sua autorità: abbandonata Capua, si trincerò nella piazzaforte di Sicopoli sul Triflisco e di lì si dichiarò sciolto dal giuramento di fedeltà, che lo legava al sovrano dei Longobardi beneventani e, dimostrando di voler assumere una sua piena libertà di azione, si alleò a Siconolfo e stipulò subito dopo una tregua col duca imperiale di Napoli: "Landulfus autem", scrive Erchemperto, "Sicopolim ingressus, a Radelchisi si dominatione se subducens Siconolfo sociatus est, ac primum cum Neapolitis pacis coniunxit federa" (841, secondo il Chronicon Vulturnense; ma 840, secondo il Cilento, p. 87). Fu solo dopo la battaglia di Salemo che per riuscire a tener testa all'offensiva scatenata dal suo emulo, il quale, riconosciuto legittimo sovrano da tutta la Calabria e da parte dell'Apulia, gli veniva ora strappando - grazie sì all'appoggio di Landolfo il Vecchio, ma certo anche alla propria indubbia abilità di guerriero e di stratega - "plurimas urbes et nonnulla oppida ab eius dominio" nella istessa regione di Benevento, il principe Radelchi si volse ad assoldare bande di arabi musulmani, che da allora corsero da padroni le terre meridionali della penisola, saccheggiando e devastando.

Secondo Erchemperto, quando D. levò la bandiera della rivolta contrapponendo a Radelchi, come principe dei Longobardi beneventani, Siconolfo, quest'ultimo aveva già abbandonato il domicilio obbligato di Taranto, cui lo aveva a suo tempo condannato il fratello Sicardo, e si trovava nascosto in luogo sicuro, "latebram fovebat". Sempre secondo Erchemperto, Radelchi subì la sanguinosa disfatta di Salerno ad opera dei figli di D. e per il tradimento del proprio inviato Adelmario prima che "Siconolfus Salernum optineret". Per l'anonimo autore del Chronicon Salernitanum, che intesse sull'episodio uno dei più vivaci e romanzeschi capitoli della sua storia, Siconolfa era invece ancora agli arresti domiciliari, quando D. aveva fatto insorgere i Salernitani e gli Amalfitani: il fratello di Sicardo sarebbe infatti stato liberato proprio da emissari salernitani ed amalfitani inviati appositamente da D.; condotto a Salerno, vi sarebbe stato quindi gridato principe dei Longobardi beneventani. Da lì, ricevuta notizia della tragica morte di Adelchi, Siconolfo si sarebbe affrettato a stipulare una tregua - "pax" - col "conte" di Capua Landolfo, ed avrebbe convocato presso di sé i cognati Orso, conte di Conza, e Radelmundo, gastaldo di Acerenza. Col sostegno dei loro armati ed alla testa delle milizie salernitane rinforzate da contingenti amalfitani e capuani, Siconolfo - e non i figli di D. - avrebbe inflitto a Radelchi la sanguinosa disfatta sotto le mura di Salerno, che sarebbe stato il necessario presupposto dell'offensiva, da lui subito dopo scatenata, contro il sovrano di Benevento.

Dopo l'arrivo di Siconolfò, a Salerno, le fonti a noi note non ricordano più ne D., né i di lui figli, con la sola eccezione dei due figli minori Maione e Guaiferio: quest'ultimo fu, un ventennio più tardi, fra l'861 e l'880, il quinto principe dei Longobardi salernitani. Non conosciamo pertanto né le circostanze, né l'epoca, in cui D. morì e che devono comunque porsi in un periodo di tempo anteriore all'aprile dell'851, perché in una carta salernitana scritta in quell'anno e in quel mese il figlio Guaiferio è definito "comes filius bone recordationis Dauferii".

Le fonti narrative fanno menzione di cinque altri uomini politici attivi nell'Italia meridionale longobarda durante la seconda metà del sec. IX, che portarono il nome di Dauferio e che non debbono essere confusi con D.: se tra loro vi siano stati rapporti di parentela o di consaguineità, è, allo stato attuale delle ricerche, impossibile dire. Si tratta del già ricordato Dauferio figlio di Maione, che, eletto principe dei Longobardi salernitani nella primavera-estate dell'861, venne dopo breve regno detronizzato dallo zio Guaiferio, che si impadronì dei potere. Arrestato e, dopo qualche tempo, espulso dal principato, viveva ancora in esilio, a Napoli, con i nipoti, nella primavera dell'880. Vi è poi quel Dauferio, che Erchemperto (cap. 20, p. 245) definisce "cognatus Maionis" senza altre precisazioni. Costui ebbe una parte rilevante negli avvenimenti che precedettero ed accompagnarono gli otto mesi del primo, brevissimo regno di Pandonolfa su Capua nell'862-863, avanti che venisse esautorato dallo zio, il vescovo Landolfo, e costretto a ritirarsi nel gastaldato di Suessula. Il terzo Dauferio ricordato dalle fonti è il genero del principe di Benevento Adelchi (854-878). Coinvolto nella congiura che nella primavera-estate dell'878 pose fine alla vita e al regno di quel sovrano, cercò, ma inutilmente, di salire sul trono: ebbe la meglio Gaideris, figlio di Radelchi I e nipote dei principe appena assassinato. Venne esiliato poco dopo la presa di potere di Gaideris, insieme con un Galio, forse altro genero di Adelchi. Vi è poi quel Dauferio, monaco cassinese e diacono, che tra l'887 e l'888 svolse importanti missioni diplomatiche a Roma, presso il papa Stefano VI, a Taranto e a Costantinopoli per il conte di Capua Atenolfo I. Al padre di questo monaco e diacono, anch'egli di nome Dauferio, accenna Erchemperto nel cap. 71 della sua Historia, parlando di avvenimenti riferibili all'anno 883.

Fonti e Bibl.: Erchemperti Historia Langobardorum Beneventanorum, in Mon. Germ. Hist., Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum..., I, a cura di G. Waitz, Hannoverae 1878, capitoli 14-15, p. 240; 26, p. 244; 30, pp. 245 s.; 39, pp. 249 s.; 65, p. 260; 71, p. 261; 80, p. 264; Chronica Sancti Benedicti Casinensis, ibid., c. s, pp. 471 s.; Chronica Langobardorum seu monachorum de monastero sanctissimi Benedicti, ibid., p. 481; Catalogus regum Larkjeobardorum et Italicorum Brixiensis et Nonantolanus, ibid., p. 502; Codex diplom. Cavensis..., a cura di M. Morcaldi-M. Schiani-S. de Stefano, 1, Neapoli 1873, n. 34, p. 43; Chronicon Salernitanum, a cura di U. Westerbergh, in Studia Latina Stockholmiensia, III (1956), capitoli 76-81, pp. 74-79; 84b, p. 86; 91, pp. 91 s.; 101-104, pp. 102-105; 123, p. 138; 128, p. 141; 140, p. 148; Chronicon Vulturnense del monaco Giovanni, a cura di V. Federici, Roma 1925, in Fonti per la storia d'Italia..., LVIII, p. 315; A. Di Meo, Annali critico-diplomatici del Regno di Napoli nella Mezzana Età, III, Napoli 1797, pp. 283-285, 287-295, 310-312; IV, ibid. 1798, pp. 24 ss., 32 ss., 49 ss., 176 ss., 331 ss., 353 ss.; M. Schipa, Storia del principato longobardo di Salerno, in Archivio storico per le provincie napoletane, XII (1887), pp. 93-97, 116 s.; F. P. Pugliese, Arechi II principe di Benevento e i suoi successori. 1 Foggia 1892, pp. 95-97; L. M. Hartinann, Geschichte Italiens im Mittelalter, III, 1, Gotha 1908, pp. 202 s., 207; M. Schipa, Il Mezzogiorno d'Italia anteriormente alla monarchia. Ducato di Napoli e principato di Salerno, Bari 1925, pp. 60 ss., 77 s.; M. Manifius, Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelaters, III,München 1931, p. 199; Beneventan Ninth Century Poetry, a cura di U. Westerbergh, in Studia Latina Stockholmiensia, IV (1957), pp. 35 ss.; N. Cilento, Le origini della signoria capuana nella Longobardia Minore (Studi storici dell'Ist. stor. italiano per il Medio Evo, LXIX-LXX), Roma 1966, pp. 86 ss., 138 ss., 146; P. Bertolini, Studi per la cronologia dei principi langobardi di Benevento: da Grimoaldo 1 a Sicardo (787-839), in Bull. dell'Ist. stor. ital. per il Medio Evo, LXXX (1968), pp. 74-78; G. Cassandro, Il Ducato bizantino, in Storia di Napoli, S. n. t. [ma Cava dei Tirreni 1969], pp. 89, 369.

CATEGORIE