DHIMMĪ

Enciclopedia Italiana (1931)

DHIMMĪ (in pronuncia persiana e turca zimmī)

Carlo Alfonso Nallino

Parola araba che significa "appartenente alla gente della dhimmah", ossia alla gente munita d'un patto di protezione, e designa il non musulmano suddito dello stato islamico. Tale sudditanza è ammessa soltanto per gl'infedeli che professino una religione avente libri sacri riconosciuti come rivelati anche dai musulmani, ossia cristiani ed ebrei; ai quali, per necessità di cose derivata dalla rapida conquista della Persia zoroastriana pochi anni dopo la morte di Maometto, i giuristi equipararono anche i zoroastriani (magiūs, guebri, Parsi), i quali hanno l'Avestā (v.) come presunto loro libro sacro. Altri infedeli che questi non sono tollerati nello stato musulmano; essi devono convertirsi all'islamismo o essere uccisi, benché questo precetto sia stato applicato solo sporadicamente verso gl'Indù nelle parti dell'India che ebbero a soggiacere al dominio musulmano.

Ai dhimmī è accordata la libertà di culto e per conseguenza (dato il concetto di Maometto e dell'islamismo che il diritto non sia se non uno degli aspetti della legge religiosa) anche la libertà di seguire il loro statuto personale, per la cui osservanza, come anche per controversie civili sorgenti fra appartenenti alla medesima confessione, essi normalmente si rivolgono al loro capi religiosi; benché le parti in causa abbiano facoltà d'accordarsi per sottoporre la questione al cadi (v.) o giudice musulmano, il quale allora applica il diritto dell'Islām. È tuttavia da notare che in Egitto nel 1354 fu imposto ai dhimmī di seguire nelle successioni il diritto islamico, e che i sultani ottomani, capovolgendo le norme classiche, stabilirono che il ricorso dei dhimmī alle proprie autorità ecclesiastiche per controversie in materia di successioni non fosse possibile senza l'accordo di tutte le parti in causa; perciò praticamente nell'Impero ottomano i dhimmī regolavano testamenti e successioni legittime secondo il diritto musulmano di scuola ḥanafita.

La libertà religiosa accordata ai dhimmī non deriva da idee astratte di tolleranza, ma dai procedimenti adoperati da Maometto, per necessità politiche ed economiche del momento, verso gli Ebrei e Cristiani dell'Arabia settentrionale, a differenza della sua definitiva procedura intransigente verso gli altri infedeli. Ad ogni modo i dhimmī sono in una posizione di forte inferiorità giuridica rispetto ai musulmani: nessun ufficio che implichi autorità su questi ultimi può essere loro affidato; è fatto loro divieto di portar armi e di prestare servizio militare; la loro testimonianza non è ammessa davanti alla giustizia a proposito d'un musulmano; i dhimmī non possono esigere il taglione da professanti l'islamismo e devono accontentarsi d'una composizione del sangue inferiore a quella alla quale si farebbe luogo se l'ucciso o ferito fosse musulmano; non esiste fra musulmani e dhimmī successione legittima, pur essendo ammesse fra loro disposizioni testamentarie sul terzo del patrimonio; il matrimonio è loro vietato con una donna musulmana, non meno che il concubinato con la propria schiava che abbia abbracciato l'islamismo, mentre al musulmano è lecito sposare una donna dhimmī, qualora essa appartenga a vera religione rivelata, ossia professi il cristianesimo o il giudaismo (l'esempio era stato dato da Maometto) e non, p. es., il zoroastrismo; sono imposte loro condizioni umilianti, come l'obbligo di vesti o contrassegni speciali, il divieto di andare a cavallo, l'obbligo di cedere rispettosamente il passo ai musulmani nelle vie, ecc. Ma soprattutto caratteristico per i dhimmī è l'essere sottoposti a un'imposta personale chiamata gizyah, che si considera facente parte del complesso dei beni tolti pacificamente agl'infedeli e da erogarsi a solo vantaggio dei musulmani; alla gizyah sono tenuti i dhimmī maschi, liberi, puberi e sani di mente, i quali hanno l'obbligo di pagarla ogni anno personalmente all'esattore islamico, che a sua volta deve riceverla con atto di dispregio. Anche sulla proprietà fondiaria grava per i dhimmī un tributo maggiore che per i musulmani. Il dhimmī il quale si renda colpevole di atti gravi contro gl'interessi dello stato musulmano o contro il decoro dell'islamismo (sui particolari esiste divergenza fra le varie scuole) si trasforma in un ḥarbī (v. dār al-Ḥarb).

Queste prescrizioni del diritto, salvo per ciò che riguarda le imposte, sono state nella pratica ora alleviate e ora aggravate, secondo i luoghi, i tempi, i capricci dei governanti e le passioni del momento; non mancano esempî di dhimmī arrivati ad alte cariche pubbliche e tenuti in particolare considerazione da sovrani.

Nell'uso popolare e amministrativo dell'Impero ottomano, almeno nei secoli XVIII e XIX, il vocabolo dhimmī fu sostituito dall'altro raāyā o reāyā (scritto raïa dagli Europei), che è il plurale arabo della voce araba raiyyah (in pronunzia turca reiyyé) e che propriamente significa sudditi in genere, musulmani o no. Nel linguaggio diplomatico si dicevano sujets tributaires o solo tributaires.

L'europeizzamento dell'Impero ottomano sotto la pressione delle grandi potenze europee portò alla proclamazione, almeno teorica, dell'eguaglianza di tutti i cittadini ottomani, senza differenza di religione, pur conservandosi la giurisdizione confessionale in materia di statuto personale e l'esclusione dei non musulmani dal servizio militare (l'antica gizyah fu considerata come riscatto da tale servizio). L'eguaglianza fu proclamata con il khaṭṭ-i sherīf o decreto sultanico di Gülkhāneh del 3 novembre 1839, sviluppato poi con il khaṭṭ-i humāyūn o decreto imperiale del 18 febbraio 1856, nel quale anche si proibisce d'usare negli atti pubblici espressioni ingiuriose per i non musulmani, come si soleva fare persino nei certificati di morte e permessi di sepoltura. I due decreti ebbero applicazione anche in Egitto, quale stato vassallo dell'Impero.

Negli attuali stati musulmani non europeizzati, incluso il Marocco, la distinzione fra musulmani e dhimmī è sempre in vigore.

Bibl.: Belin, Fetoua relatif à la condition des zimmis, in Journal Asiatique, s. 4ª, XVIII (1851), pp. 417-516; XIX (1852), pp. 97-140 (salva l'appendice contenente testi del sec. XVIII, è la traduzione d'una fatwà, vero trattatello della materia, redatta nel 759 èg., 1358-1359 d.C., dal giurista shāfi'ita egiziano Ibn an-Naqāsh); D. Santillana, Istituzioni di diritto musulmano malichita, Roma 1926-1931, I, pp. 77-87, 89-92; Th. W. Juynboll, Manuale di diritto musulmano secondo la dottrina della scuola sciafeita, trad. G. Baviera, Milano s.a. (1916), pp. 216-222 (§ 71 come nel testo tedesco del 1910; § 75, pp. 347-356, nella 3ª ed. olandese del 1925); R. Gottheil, A fetwa on the appointment of dhimmis to office (breve testo d'un giurista mālikita non anteriore al sec. XII), in Zeitschr. für Assyriol., XXVI, Strabsurgo 1912, pp. 203-14.

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