Umbro-marchigiani, dialetti

Enciclopedia dell'Italiano (2011)

umbro-marchigiani, dialetti

Francesco Avolio

Il territorio

L’area umbro-marchigiana, anche a causa della sua conformazione geografica, è stata interessata da vicende storiche piuttosto complesse, sebbene la geografia non le abbia assegnato confini naturali rigidamente determinati, rendendola anzi – grazie alla direttrice adriatica e a un asse di primaria importanza come il bacino del Tevere e le valli dei suoi affluenti – uno «spazio aperto» (Mattesini 1992: 507-508), nonché uno degli snodi principali sia nei collegamenti nord-sud, sia in quelli fra i due versanti della Penisola. Come ci appare oggi, l’Umbria è infatti abbastanza diversa dall’omonima regione antica (che a nord giungeva fino all’Adriatico, ma, verso ovest, si arrestava al Tevere), corrispondendo grosso modo alle «conquiste di Perugia fra il XIII e il XIV secolo» (Baldelli 1953-54, rist. 19832: 209).

Per parte loro, le Marche, così chiamate perché territori di confine dell’Impero (il termine Marca compare nel X sec.), nell’antichità erano divise in due (Celti a nord del fiume Esino, Piceni, di stirpe italica, a sud), con una bipartizione simile a quella che allora si poteva osservare anche nella vicina Umbria (abitata dagli Etruschi, stanziati a ovest del corso del Tevere, e dagli Umbri, di stirpe italica come i Piceni, a est), e che doveva essere in parte riassorbita, ma non completamente cancellata dalle vicende successive: nell’alto medioevo, ad es., vi era a nord la Pentapoli marittima di ambito bizantino, alla quale aderivano le città di Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia, Ancona, mentre a sud si trovava il potente gastaldato longobardo di Fermo, che si estendeva fino a una parte dell’attuale Abruzzo.

Le varietà dialettali dell’area

Suddivisioni principali

Sul piano delle tradizioni linguistiche, le due regioni hanno in comune il fatto di avere un’articolazione sostanzialmente bipartita tra un’area meridionale (e orientale) più conservativa – e dalle caratteristiche molto simili tanto sul versante umbro quanto su quello marchigiano – e una settentrionale (e occidentale) più aperta a influssi di diversa provenienza (per lo più toscana e/o settentrionale, romagnola) (cfr. Vignuzzi 1988: 606-607; Vignuzzi 1997: 311-312).

L’area conservativa umbro-marchigiana (come del resto quella del Lazio orientale, che ne rappresenta una continuazione verso sud) è da tempo chiamata, secondo la proposta di Bruno Migliorini, ➔ Italia mediana perché geograficamente si trova ancora al centro della Penisola, ma linguisticamente è ormai distante dalle altre parlate centrali, toscane o toscanizzate (e più affine a quelle del Mezzogiorno). Tale bipartizione di fondo può poi essere ulteriormente articolata (§§ 2.2 e 2.3), ma anticipiamo fin d’ora che, in Umbria, queste due aree «si fronteggiano dalle opposte sponde del Tevere e, oggi, del Chiascio, il più importante dei suoi affluenti in sinistra idrografica» (Mattesini 2002: 487), mentre, nelle Marche, il confine più chiaramente individuabile è quello «che passa lungo l’Esino» (Balducci 2002: 452, nota 6). In entrambi i casi, dunque, i limiti antichi sono riflessi dalle odierne articolazioni linguistiche.

Una delle maggiori differenze tra Umbria e Marche sta invece nel fatto che mentre la prima mostra, all’interno delle varie zone, una «fisionomia tutto sommato uniforme» (Mattesini 2002: 487; Devoto & Giacomelli 1972: 80), cioè sostanzialmente priva di articolazioni interne o di influssi esterni evidenti (questi ultimi, anzi, appaiono oggi in regresso), le seconde appaiono invece percorse, o meglio compresse, da spinte contrastanti, fra le quali quelle di maggior rilievo sono la settentrionale (gallo-italica, di tipo romagnolo, o gallo-picena) a nord, nel Pesarese e nel Montefeltro, che giunge fino a Senigallia e al suo entroterra, e quella meridionale adriatica a sud, nell’Ascolano compreso tra i fiumi Aso e Tronto. L’incontro fra le diverse correnti linguistico-culturali dà poi luogo, non di rado, tanto a nord quanto a sud (con l’eccezione del Maceratese) a zone miste la cui classificazione si mostra particolarmente ardua (§ 2.3). Ne consegue che da un lato le Marche si rivelano un vero e proprio ponte fra il Settentrione e il Mezzogiorno («l’Italia in una regione», come recita un efficace slogan di promozione turistica), dall’altro l’intera zona appenninica centrale offre sensibili – e forse inattese – differenziazioni non solo verticali (da nord a sud), ma anche, al tempo stesso, orizzontali (da ovest a est). Se infatti prendiamo, ad es., le città di Orvieto, Spoleto e Ascoli Piceno, scopriamo che, pur trovandosi all’incirca sullo stesso parallelo, esse appartengono a tre aree linguistiche diverse (rispettivamente centrale, mediana, meridionale), che siamo soliti considerare in un’altra successione.

L’articolazione linguistica dell’Umbria

La prima, chiara proposta di classificazione dialettale della regione fu avanzata nel 1970 da Francesco A. Ugolini, e fu poi approfondita dallo stesso studioso e dalla sua scuola (cfr. Ugolini 1970; Agostiniani 1990). Essa distingue tre zone principali.

(a) La zona perugina o umbra nord-occidentale, che include, oltre a Perugia, centri come Città di Castello, Umbertide e Gubbio. Essa è ancora ricollegata, quasi senza soluzione di continuità, all’area toscana aretina e chianaiola – ma in parte, come quest’ultima, ‘inquinata’ da influssi gallo-italici (cfr. Devoto & Giacomelli 1972: 82) – e compresa fra il paese di San Giustino e il confine toscano a nord, il lago Trasimeno a ovest, il corso del fiume Chiascio a est e quello del Tevere a est e a sud (il limite meridionale è anzi da porre nel territorio comunale di Collazzone che, come la vicina Todi, rientra già nella zona successiva). I suoi tratti tipici sono:

(i) la palatalizzazione, cioè il passaggio a /ɛ/ di /a/ tonica in sillaba libera (terminante per vocale), che coinvolge anche lo sviluppo del latino -ariu(m), il quale, come in Toscana, passa in origine a [-ajo] ([kamˈpɛna] «campana», [ˈsɛle] «sale», /maʧeˈlːɛjo/ «macellaio»); è uno dei fatti di matrice romagnola di cui si diceva, oggi peraltro in regresso in parecchie località;

(ii) il dittongamento di tipo fiorentino (e italiano) di /ɛ/ originaria in sillaba libera, che passa a /jɛ/ ([ˈpjɛde ˈvjɛni], ma ['sɛnti]); più raro, invece, il dittongamento parallelo /ɔ/ > /wɔ/;

(iii) la debolezza delle vocali non accentate, che tendono spesso a cadere, più vistosamente proprio nell’area intorno a Perugia (è il cosiddetto ritmo martellato del perugino: [ˈpruʒa] «Perugia»);

(iv) l’indebolirsi, prima dell’accento, delle consonanti doppie ([kapuˈtːʃino] «cappuccino», [muˈlika] «mollica»);

(v) la conseguente mancanza del ➔ raddoppiamento sintattico ([a ˈkasa] «a casa»);

(vi) il passaggio, fra vocali, delle consonanti /p, k, t/ rispettivamente a /b, d, g/ ([ˈabise] «lapis», [poˈdesːe] «potesse»);

(vii) alcuni interessanti resti di neutri plurali latini, divenuti maschili anziché femminili come in italiano ([i ˈdeta] «le dita», [i ˈtɛmpa] «i tempi»);

(viii) la serie di preposizioni e avverbi derivati da intus o fusi con esso ([nto] «dove», [tuˈli] «lì», [tuˈkwi] «qui», [ta] «a», ecc.).

(b) La zona sud-orientale, folignate-spoletina-ternana, linguisticamente di tipo mediano, che si prolunga fino a includere tutta la Valnerina (dove, anzi, le sue caratteristiche raggiungono le punte di maggior evidenza), e che, come si è detto, trova il suo limite nord-occidentale nel corso del Chiascio e del Tevere. Tra i fenomeni principali, del tutto ignoti al tipo perugino appena visto, ricordiamo (gli esempi, quando non specificato diversamente, vengono dalla zona di Foligno):

(i) la ➔ metafonia, vale a dire l’innalzamento di timbro delle vocali accentate /-e-/ e /-o-/, (che diventano rispettivamente /-i-/ e /-u-/) e /-ɛ-/, /-ɔ-/ (che diventano /-e-/, /-o-/), per influsso delle vocali finali -i ed -u latine originarie (ad es., [bːanˈgitːu] «banchetto», [ˈmunːu] «mondo», a Norcia [ˈfjuri] «fiori», ma [ˈfjore] «mattone»; [ˈpedi] «piedi», ma [ˈpɛde] «piede», [ˈbːonu, ˈbːoni] «buono, -i», ma [ˈbːɔna, ˈbːɔne] «buona, -e», ecc.); a Norcia, però, nelle stesse condizioni, /-ɛ-/, e /-ɔ-/ dittongano (dittonganento metafonetico o metafonianapoletana’: [ˈtjɛmpi] «tempi», [ˈbːwɔnu] «buono»), mentre Amelia e Narni conoscono il fenomeno solo per -i ([ˈnero], ma [ˈniri] «neri»);

(ii) il mantenimento, alla finale, della distinzione latina tra -o ed -u (ad es., a Trevi [ˈɔtːo] «otto», ma [ˈkorpu] «corpo»; a Foligno [diˈʃɛnːo] «dicendo», ma [kaˈpilːu] «capello»; a Terni [ˈsatːʃo] «so», ma [porˈkitːu] «maialino», ecc.);

(iii) lo sviluppo di un articolo determinativo maschile /lu/ (< illum), che in molte località, si oppone, sempre in virtù della distinzione tra -o e -u, a un articolo neutro /lo/ (dal latino volgare *illod), associato in primo luogo a sostantivi che non ammettono una forma plurale, e che spesso erano neutri già in latino: [lu ˈmunːu] «il mondo» (lat. mundus), ma [lo ˈferːu] «il ferro», cioè il metallo (lat. ferrum);

(iv) il ➔ betacismo, cioè la continuazione di v- e b- latine ora come /v-/ (in posizione iniziale o intervocalica) ora come /(-b)b-/ (dopo consonante o raddoppiamento sintattico): [ˈvokːa] «bocca», ma [ʃbokːaˈlone] «chi parla a voce alta»;

(v) le assimilazioni (➔ assimilazione) consonantiche progressive dei nessi originari latini -nd-, -mb-, -ld- (addirittura ai dintorni di Perugia arrivano o arrivavano pronunce come [proˈfonːo] per «profondo», [ˈgamːo] per «gambo», [ˈkalːo] per «caldo»);

(vi) lo sviluppo di -rj- a /r/ ([forˈnaru] «fornaio», [maʃeˈlːaru] «macellaio»), che di nuovo ha interessato la zona perugina;

(vii) gli sviluppi di j-, dj- e g + e, i, che danno tutti /j/ oppure /gːj/ ([joeˈnɔtːa] «giovanetta», [jo] «giù» < deorsum, [ˈfrigːje] «friggere»);

(viii) lo sviluppo del nesso l + consonante a /r/: [kurˈtelːu] «coltello», [ˈfarʤa] «falce»;

(ix) la cosiddetta lenizione postnasale, cioè il passaggio dei suoni /-k-, -t-, -p-/ quasi a /-g-, -b-, -d-/ dopo /-n-/: [ˈbːangu] «banco», [ˈmonde] «monte», ecc.;

(x) l’uso del possessivo enclitico, cioè posposto e privo d’accento, con i nomi di parentela (tipico del Centro-Sud, e nel medioevo noto anche alla Toscana): a Norcia si ha [ˈfìjːimu] «mio figlio», [ˈfratetu] «tuo fratello». Arcaismi latini sono custoditi nel lessico, come mostrano, fra le altre, le voci [feˈmːina] «donna», [fuˈra] «rubare», [karoˈsa] «tosare», [ji] «andare», variamente diffuse nell’area, ecc.

(c) La zona sud-occidentale, formata da dieci comuni intorno a Orvieto e molto più affine a quella perugina (alla quale può essere senz’altro aggregata quando si parla di sostanziale bipartizione linguistica dell’Umbria), quindi centrale e non mediana, ma dove è comunque evidente la prossimità alla Toscana meridionale e alla Tuscia viterbese, della quale, peraltro, il territorio orvietano fece parte fino ai primi dell’Ottocento. Essa «si caratterizza, più che per peculiarità proprie, per la mancanza di alcuni tratti pertinenti alle due aree» principali (Mattesini 2002: 488). Possiamo comunque notare, rispetto alla zona nord-occidentale:

(i) l’assenza della palatalizzazione di /a/ tonica;

(ii) il mancato indebolimento delle vocali non accentate;

(iii) il passaggio di /-i/ a /-e/ nei plurali maschili ([le bːafːe] «i baffi») noto a Perugia (e anche nelle Marche centrali e nel Viterbese), ma non nella restante area umbra nord-occidentale;

(iv) la mancanza delle preposizioni e degli avverbi rafforzati da intus, mentre sono presenti le forme rafforzate da /me/ (< medio): [meˈli] «lì», [meˈlːa] «là», [meˈsta] «costà», ecc.

Gli studi più recenti hanno poi consentito di individuare, accanto alle tre zone principali, due aree di confine o meglio di transizione:

(a) l’area Scheggia-Todi, che taglia longitudinalmente la regione da nord-est a sud-ovest, includendo centri importanti come Gualdo Tadino e Assisi, e si configura, nel suo complesso, come un’anticipazione della zona sud-orientale di tipo mediano (cfr. Moretti 1987: 134-141);

(b) l’area Trasimeno-pievese, che funge invece da snodo fra la Toscana orientale, la zona perugina e quella orvietana (cfr. Batinti 1988).

L’Umbria non si mostra unitaria nemmeno dal punto di vista lessicale: ecco così i netti contrasti tra parole toscane e/o settentrionali e voci che sono invece proprie del Centro-Sud, come quelli tra fabbro (nord-ovest della regione) e ferraro (sud-est), donna e femmina, andare e gire o ire, ascoltare e sentire, accendere e appicciare.

La suddivisione dialettale delle Marche

L’obiettiva complessità della situazione linguistica regionale ha spinto per molto tempo gli studiosi ad adottare vari sistemi di classificazione. La classificazione che sembra più adeguata è però quella in quattro aree, spesso a loro volta articolate in varie subaree, riproposta di recente da Sanzio Balducci (Balducci 2002: 453-458).

(a) Area pesarese, suddivisa in quattro subaree (marecchiese, pesarese, urbinate-fanese-senigalliese, con l’appendice staccata della riviera del Conero, a sud di Ancona, e pergolese-cantianese), che si estende sull’intera sezione settentrionale della regione. Le sue caratteristiche principali, che nelle varie subaree possono avere maggiore o minore intensità, sono sostanzialmente quelle della varietà gallo-italiche di tipo romagnolo (da qui il loro nome di gallo-picene) e cioè:

(i) la palatalizzazione, vale a dire il passaggio a /ɛ/ della /a/ accentata in sillaba che termina per vocale ([kɛr] «caro», [ˈpɛder] «padre», [ariˈvɛta] «arrivata»), che sfuma tra Fano e Senigallia;

(ii) la caduta delle vocali non accentate, eccezion fatta per /-a/, sia finali ([prim] «primo», [sal, sɛl] «sale», [tɛmp] «tempi», ma [garˈbɛta] «garbata») sia prima e dopo l’accento (/stiˈmana/ «settimana» perfino ad Ancona, [dmɛn] «domani», [pɔvr] «povero» nel Montefeltro, ecc.), che a Pergola ha però luogo solo all’interno di frase ([un matːs de ˈrɔse] «un mazzo di rose»;

(iii) il passaggio dei suoni /-k-, -t-, -p- /, tra vocali, rispettivamente a /-g-, -d-, -v-/ (detto sonorizzazione o lenizione): [ˈdiga] «dica», [aˈvud] «avuto», [kaˈvei] «capelli»;

(iv) l’eliminazione delle consonanti doppie o intense ([ʃeleˈrɛt] «scellerati», [ˈvaka] «vacca»);

(v) i pronomi personali soggetto del tipo /mɛ, tɛ/ «io», «tu» nella subarea pesarese, e, in tutta l’area, la reduplicazione dell’intera serie pronominale con forme prive di accento (a Pesaro [mɛ a ˈparle] «io parlo», [ˈtɛ t ˈsi] «tu sei», altrove [ˈia a ˈparle] «io parlo» [lu l ˈbala] «lui balla», [ˈlori i ˈbala] «loro ballano», ecc.).

(b) Area centrale anconetana, che comprende anch’essa quattro subaree (anconetana, osimana-loretana, jesina, fabrianese), ma assai differenziate tra loro, le cui caratteristiche comuni sono quindi relativamente poche, e cioè:

(i) il mantenimento delle vocali atone finali, con presenza di /-o/ finale ([ˈsale], [ˈvino]);

(ii) la conservazione delle consonanti doppie ([ˈmamːa, ˈspalːa]);

(iii) la particolare pronuncia spirante di /-ʧ-/ e /-ʤ-/ (a Jesi [ˈpeʃe] «pece», come nel fr. fiches, [ˈpaʒina], come nel fr. page), che si infiltra nel territorio mediano;

(iv) pronomi personali analoghi a quelli della lingua italiana (con la preferenza per noialtri e voialtri al plurale).

Compaiono poi in quest’area fenomeni centro-meridionali di notevole importanza, come

(v) la metafonia, di tipo sabino e napoletano (i tipi [ˈpedi] «piedi» o [ˈkworpo] «corpo»);

(vi) le assimilazioni progressive di -nd- (la più vitale), -mb- e -ld- (a Castelfidardo, Ancona, [faˈtːʃɛnːa ˈfatːa ke ˈdːiu la beneˈdiga] «faccenda fatta che Dio la benedica»), anche se il dialetto di Ancona e Falconara se ne mostra ancora immune, mentre, d’altro canto, conosce, come le aree più a nord, la riduzione delle consonanti doppie e il passaggio /k/ > /g/ tra vocali ([imˈbrjago] «ubriaco»; a Jesi anche /t/ passa a /d/: [voˈlede] «volete», [senˈtido] «sentito») e, fatto comune alla subarea osimana-loretana, la chiusura di /o/ in /u/ fuori d’accento ([kutiˈgi] «cotechino»).

(c) Area centrale maceratese-fermana (cfr. Franceschi 1979), la più ampia e compatta, che mostra una chiara fenomenologia di tipo mediano, comune alla zona umbra sud-orientale (cfr. § 2.2). Essa si estende dal corso dell’Esino (provincia di Ancona, ma le condizioni mediane valicano il fiume verso nord a Mergo e a Serra San Quirico) fino a quello dell’Aso (provincia di Ascoli Piceno), e include, oltre a Macerata e a Fermo, anche Camerino, Tolentino, Visso, Amandola. I centri di Recanati, Porto Recanati e Civitanova Marche hanno subito recentemente un sensibile influsso dalle zone poste più a nord, e vanno quindi perdendo alcuni dei tratti mediani più vistosi.

(d) Area ascolana, corrispondente alla fascia costiera della provincia di Ascoli Piceno fra i corsi dell’Aso e del Tronto (estremo sud della regione), capoluogo incluso, con diramazioni più o meno ampie verso l’interno (cfr. Balducci 1993; Franceschi 1993). Qui le condizioni sono quelle del versante adriatico del Mezzogiorno, fra le quali si segnalano:

(i) forti sviluppi delle vocali toniche, a volte con abbassamenti di un grado (a San Benedetto del Tronto [pəˈlːetːʃə] «pelliccia», [ˈfomə] «fumo», [ˈrɛtə] «rete», [ˈbːavə] «bove», a Campofilone [ˈmalə] ← [ˈmɛlə] «mela»), ma anche con frangimenti e dittonghi (➔ dittongo); ne sono una minima esemplificazione le forme [ˈnejvə] per «neve» di Monteprandone, [ˈdajʧə] per «dice» di San Benedetto;

(ii) la metafonia di tipo napoletano, cioè dittongante ([ˈpjenʦə] «pensi», [ˈmwortə] «morto»), con successiva monottongazione nella fascia costiera sambenedettese ([ˈtimpə] «tempo», [ˈfukə] «fuoco»);

(iii) il passaggio delle vocali non accentate, e soprattutto finali, al suono /ə/ (con la parziale eccezione di /-a/ nei centri collinari e ad Ascoli), denominato dai linguisti ➔ scevà e simile alla cosiddetta e muta francese (ad Ascoli [prəməˈrusə] «premurosi», [səˈmarə] «somaro», [pəvəˈretːa] «poveretta»). I fenomeni del consonantismo e della morfologia sono spesso analoghi a quelli dei dialetti mediani (resti di betacismo, lenizione postnasale, assimilazioni progressive, possessivo enclitico, ecc.); fra gli altri, diffusi anche nell’Abruzzo teramano, si segnalano:

(iv) gli esiti di l + consonante, che portano a un’assimilazione (ad Ascoli [lu faˈdːʒɔ] «il falcione»; si parte da una pronuncia falgiòne);

(v) la posposizione al verbo, senza accento (ènclisi), dei pronomi e dei locativi (ad Ascoli [ˈsotːʃ ˈmisːə] «ci ho messo»);

(vi) tenere per avere ([ˈtɛngə tre ˈfːijːə] «ho tre figli»);

(vii) l’uso di essere alla prima e spesso alla seconda persona dei verbi transitivi ([so ˈvistə] «ho visto»).

In questa situazione, i tratti comuni alla gran parte delle parlate marchigiane sono, come si immaginerà, davvero pochi (§ 4.2). Possiamo comunque ricordare l’uso del verbo alla terza persona singolare anche per la terza plurale (è il tipo loro va via, diffusissimo anche nell’italiano regionale, da Pesaro ad Ascoli) e la frequenza di /ar-/ < re-, determinatosi per ragioni fonetiche simili nelle varie zone ([arkurˈda] «ricordare», [arpiˈja] «riprendere» tanto nel nord e ad Ancona, quanto nell’Ascolano), gli infiniti tronchi e a volte terminanti in /-a/ ([ˈkora] «correre», [ˈveda] «vedere»).

Il lessico dà tipi interessanti, come, nel Pesarese, [karnaˈʧɛr] «macellaio» (oggi in regresso), ad Ancona [impaliˈki] «appisolarsi», nel Maceratese [ˈstrofu] «cencio», [ˈmaʃulu] «mansueto», [zmuʃiˈna] «rimestare, scompigliare» (conosciuto anche a Roma), ad Ascoli [ˈfurja] «molto». Maggior diffusione hanno i tipi lessicali ferraro (a cui, nel nord, si oppone fabbro), ràgano «ramarro», mentre remoti arcaismi sono lama «dirupo» e néngue «nevica» (lat. nĭnguit), questi ultimi comuni anche all’Umbria e all’Abruzzo contigui.

La presenza del dialetto nei recenti rilevamenti statistici

La buona tenuta del dialetto, messa in luce da parecchie recenti ricerche dedicate non solo a centri medi e piccoli, ma agli stessi comuni della cintura perugina, è stata confermata dai rilevamenti svolti dall’Istat. Nel 2006, infatti, l’Umbria e le Marche erano le sole regioni dell’Italia centrale dove si registrava «un uso del dialetto in famiglia superiore alla media nazionale (rispettivamente 56,1% nelle Marche e 52,6% in Umbria)» (media nazionale 48,5%). Ma c’è di più: se infatti, fra il 2000 e il 2006, è scesa quasi ovunque la percentuale di coloro che, in famiglia, si dichiaravano totalmente o quasi dialettofoni (dal 19,1 al 16%, dato nazionale), mentre ha sostanzialmente ‘tenuto’ quella di coloro che usano sia italiano che dialetto (dal 32,9 al 32,5%), in Umbria, nello stesso periodo, entrambe le percentuali sono salite (rispettivamente dal 13 al 14,9% e dal 34,9 al 37,7%); nelle Marche è invece scesa la percentuale dei dialettofoni più o meno esclusivi (dal 18,1 al 13,9%), ma quella dei ‘bilingui’ si è mantenuta inalterata (42,2%).

Simili i dati riguardanti l’uso del dialetto con amici: anche qui l’Umbria è in significativa controtendenza, sia per quanto riguarda la dialettofonia esclusiva (11,9% nel 2000, 13,6% nel 2006), sia per quanto riguarda l’alternanza di codice (34,2 contro 39,6%), mentre le Marche appaiono complessivamente stazionarie (dal 16 al 13% e dal 41,7 al 41,8%). Pur con tutte le riserve per un metodo d’indagine che resta pressoché esclusivamente basato sui giudizi che gli intervistati danno di sé stessi (autovalutazione), si tratta di segnali abbastanza precisi, se non di un recupero (in vari sensi) del dialetto, quanto meno di una sua maggiore stabilità all’interno del repertorio (➔ repertorio linguistico).

Italiani regionali umbri e marchigiani

La situazione in Umbria

Data la presenza di più zone dialettali, per giunta fortemente differenziate, è facile intuire che non esiste un ➔ italiano regionale unitario e che anche le varianti subregionali non siano particolarmente affini: si deve avvertire però che, mentre è osservabile di nuovo un’opposizione fra una varietà sud-orientale e una perugina, da quest’ultima può ora essere distinta, per un certo numero di tratti, una varietà definibile altotiberina (Città di Castello è il principale centro dove essa è in uso). In linea generale, fuori dalle loro zone, e anche restando all’interno della regione, i perugini vengono di frequente scambiati per toscani, gli altotiberini per romagnoli e i parlanti della zona sud-orientale per romani.

Sintetizzando molto (per maggiori dettagli si rinvia a Mattesini 2002: 493-495), le caratteristiche più evidenti di ogni varietà sono:

(a) varietà perugina: la labilità delle vocali atone e finali (come nel dialetto: [ʤim a pontəfelˈʧino] «andiamo a Poltefelcino»); il passaggio di /-ʎː-/ a /-jː-/ ([ˈfijːo] «figlio»), la pronuncia spesso sonora di /s/ tra vocali ([ˈnazo], [ˈvizo]), il ➔ raddoppiamento sintattico, il passaggio di /s/ a /ʦ/ dopo /l, n, r/ ([ˈpɛnʦo] «penso», [ˈborʦa] «borsa»), l’articolo determinativo con i nomi propri femminili (diffuso anche nelle Marche settentrionali); nel lessico, da notare i tipi babbo, calzetti «calzini», essere (è qui, «c’è»), frégo «bambino», sàntolo «padrino», trasporto «funerale»;

(b) varietà altotiberina: un lieve intacco palatale di /a/ in sillaba libera, la diversa distribuzione di /e, o/ accentate, il cui grado di apertura è in funzione della struttura sillabica (aperta in sillaba chiusa e chiusa in sillaba aperta: [ˈtɛtːo, ˈpɔlːo] ma [ˈbene, ˈkosa]), che si ritrova nell’italiano delle Marche del nord, il conseguente abbassamento di /i/ e /u/ in sillaba chiusa ([ˈvesto] «visto», [ˈfrotːo] «frutto», ma [ˈvino, ˈduro]), la riduzione delle consonanti lunghe prima dell’accento ([daˈvero/, /maˈtina]), la perdurante assenza del raddoppiamento sintattico, la distinzione tra /s/ e /z/ (come nel dialetto), la conservazione dei nessi /-ls-, -ns-, -rs-/ ([ˈpɛnso] «penso», [ˈborsa] «borsa»), la tendenza di /s/ ad essere pronunciata /ʃ/ (la cosiddetta s salata dei romagnoli);

(c) varietà sud-orientale: mancanza del dittongo /wo/, almeno nei livelli più bassi ([la ˈskɔla], [ʧe ˈvɔle] «ci vuole»), la stabilità delle vocali fuori d’accento, il passaggio di /ʧ/ a /ʃ/ ([ˈluʃe] «luce»), la pronuncia intensa di /b/ e /ʤ/ tra vocali ([ˈabːile] «abile», [ˈvidːʒile] «vigile»), il raddoppiamento sintattico ([a ˈrːoma]), la tendenza di /p, t, k/ ad essere pronunciate rilassate sia tra vocali, sia dopo /n/ (e anche dopo /l/, come nel dialetto: [le baˈdade] «le patate», [il ˈmonde] «il monte», [anˈgora] «ancora», ecc.). Ai tipi lessicali perugini prima citati fanno riscontro papà, pedalini «calzini», stare (sta qua, ci sta), pischello «bambino», compare, accompagno «funerale».

Il quadro delle Marche

Anche per quanto riguarda il versante italiano del repertorio, le Marche mostrano una varietà linguistica paragonabile, in qualche modo, a quella dialettale.

Nel nord, fra i molti altri, si segnalano i seguenti tratti:

(a) la diversa distribuzione delle vocali aperte e chiuse, come nella variante umbra altotiberina ([ˈbene, ˈera, ˈsedja], ma [ˈrɔtːo, ˈstrɛtːo]);

(b) la pronuncia aperta di /e/ finale accentata: [mɛ, trɛ, perˈkɛ], fino circa a Fano;

(c) la riduzione delle doppie, fino ad Ancona ([ˈtrɔpo] «troppo»).

Nel centro, da Jesi in giù, molti i fenomeni in comune con l’Umbria sud-orientale (§ 4.1), ma si notano anche i seguenti tratti:

(a) la ➔ spirantizzazione di /ʧ/, /ʤ/ e /b/ ([ˈpaʒina] «pagina», [staj ˈvɛ] «stai bene»), tranne che nell’Ascolano;

(b) l’espansione di /te/ come pronome personale soggetto (solo te ce vai? «ci vai solo tu?»);

(c) la posposizione del possessivo (il cane mio, la scuola vostra);

(d) espressioni avverbiali o verbali come da per lui «da solo», ne vene da Macerata «viene da Macerata», quanti o quandi n’adè? o ne è? «quanti sono?».

Cenni sulle tradizioni scrittorie dell’area

In età moderna e contemporanea i dialetti vengono di solito trascritti seguendo le principali convenzioni grafiche della lingua (con un uso largo e spesso improprio di accenti e apostrofi). In questo quadro, le maggiori difficoltà riguardano – tanto in Umbria, quanto, soprattutto, nelle Marche settentrionali di tipo gallopiceno – la trascrizione delle consonanti che si trovano in posizione finale a causa della caduta delle vocali, e del cumulo consonantico che, per gli stessi motivi, si è formato all’interno della parola: le soluzioni oscillano tra ‹c›, ‹g›, ‹c’› e ‹g’› per /-ʧ, -ʤ/, ‹sc’› o ‹sc› per /-ʃː/ e ‹ch›, ‹gh› per /-k, -g/ (pec’ «pece», fugg’ «fugge», pesc’ o pesc «pesce», foch «fuoco», bugh «buco», ecc.). Solo nella zona senigalliese (che ha lo stesso problema del Pesarese) si è andata affermando l’abitudine di inserire un trattino orizzontale al posto di ogni vocale che è o sarebbe caduta (disp-razion- «disperazione», ing-gnacc- «ingegnaccio», pesc- «pesce»), risolvendo così il problema anche all’interno della parola.

Nelle zone mediane delle due regioni, ma anche in quelle più a nord, non sempre viene evidenziata con appositi accenti la chiusura metafonetica di /ɛ/ e /ɔ/ (tempu, focu per [ˈtembu] e [ˈfoku]); solo di rado è trascritta la lenizione fra vocali o quella postnasale, o la palatalizzazione di certi suoni (come la /s/ prima di altre consonanti, che a volte tende a diventare /ʃ/), o ancora si fa caso alla differenza tra /ʃ/ e /ʃː/ (casciu «cacio», pesce «pesce»). La consonante /ʒ/ viene spesso resa, nell’Anconetano, con sg: pasgina «pagina», nfradisgià «infradiciare». Nell’Ascolano, le difficoltà maggiori, sono, com’è evidente, nella grafia di scevà, che a volte viene segnata con una e sbarrata, altre ancora con un apostrofo o con una e (vin’, vine). Quest’ultima è la soluzione oggi più diffusa (come nell’Abruzzo contiguo e in diversi punti dell’Italia meridionale).

Cenni sulla letteratura dialettale

Nella fase della letteratura dialettale ‘riflessa’, l’Umbria, e in particolare la zona perugina, vive – a partire dal Seicento, e, a più riprese, fino al secolo scorso – la tradizione delle Bartocciate, componimenti giocosi che prendono il nome dalla maschera di Bartoccio (< Bartolomeoccio), stilizzazione del contadino benestante del pian del Tevere la cui parlata sapidamente rustica veniva spesso caratterizzata in modo enfatico a scopi comico-parodistici, ma che, per lo meno nel caso di Francesco Stangolini (metà del XVII secolo), riscuote invece – come il personaggio stesso – la simpatia dell’autore.

Tra i molti altri nomi, meritano un sia pur brevissimo cenno almeno il conte Mario Podiani, che, nel 1530, con l’intenzione di restituire al volgare perugino l’antico prestigio, scrisse la commedia I megliacci; Giovan Battista Lalli (1572-1637), autore di sei ottave in «lingua norcina rustica»; Virgilio Verucci, inventore (nel Pantalone innamorato,1663) della maschera perugina di Guazzetto, a cui fa da contraltare, a Spoleto, il personaggio di Biasciangelo, creato da Bernardo Luparino.

Nel XIX e XX secolo si registra il nascere e lo svilupparsi di una notevole tradizione poetica dialettale a Città di Castello con Giovan Battista Rigucci (1801-1847) e Angelo Falchi (1880-1925), mentre nel resto della regione troviamo Matteo Innamorati (1809-1853), della zona folignate, Giuseppe Lazzari di Terni e Giuseppe Cardarelli (1848-1914) da Orvieto. Tra le voci più recenti, da citare i poeti perugini Luigi Monti (1875-1935) e Mariano Guardabassi (1896-1952), Antonio Minciotti (1921-1983), di Città di Castello, nonché Renato Brogelli, autore di apprezzate commedie in dialetto ternano.

Nelle Marche è notevole, e anche qui duratura, la tradizione delle Intervenute, commedie in cui, dalla fine del Cinquecento in poi, si sviluppava in vario modo, anche sul piano linguistico, il contrasto comico tra città e campagna; la regione, anzi, si rivela forse inaspettatamente, a quest’altezza cronologica, «l’unica area dell’Italia centrale […] a proporre testi integralmente scritti e recitati in dialetto» (cfr. Breschi 1992: 489). A titolo puramente indicativo, ricordiamo poi il conte Lattanzio Lattanzi, autore, nel 1723, di un Maggio rusticano nel dialetto di Fossombrone (Pesaro); Germano Sassaroli, da Filottrano (Ancona), che tra il 1850 e il 1870 scrisse rime dialettali di contenuto sociale e anarchico; Odoardo Giansanti detto Pasqualon (1852-1932), forse il poeta dialettale più famoso e importante della regione; Giulio Grimaldi (1873-1910), fanese autore, oltre che di una notevole serie di poesie, del noto racconto Pescatori dell’Adriatico; Palermo Giangiacomi (1877-1939), anconetano, a cui si deve la fortunatissima commedia L’imbriago. Ottima, ancor oggi, la raccolta antologica La poesia dialettale marchigiana pubblicata nel 1934 da Giovanni Crocioni. Fra coloro che hanno avuto maggiore fortuna critica, anche internazionale, negli ultimi tempi, citiamo infine l’anconetano Franco Scataglini (1930-1994) e il fanese Gabriele Ghiandoni (n. 1934).

Studi

Agostiniani, Luciano et al. (a cura di) (1990), L’Umbria nel quadro linguistico dell’Italia mediana. Incontro di studi (Gubbio, 18-19 giugno 1988), Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane.

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Franceschi, Temistocle (1993), L’ascolano fra “romanico” e “romanzo”. Uno studio geolinguistico, in Balducci 1993, pp. 11-76.

Mattesini, Enzo (1992), L’Umbria, in Bruni 1992, pp. 507-539.

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