DIALETTO

Enciclopedia Italiana (1931)

DIALETTO (dal gr. διάλεκτος; fr. patois, dialecte; sp. dialecto; ted. Mundart; ingl. dialect)

Giulio BERTONI
Ciro TRABALZA

Un unico linguaggio, cioè un unico pensiero (senza cui non sarebbe data comprensione fra gli uomini), si frange, nel suo svolgimento, in un'infinita molteplicità di dialetti, di lingue letterarie, di lingue individuali (v. linguaggio). Ognuno parla una lingua poco o molto diversa da quella degli altri; e ognuno ricava gli elementi di questa sua lingua dalla sua storia: dall'ambiente, dove gli è toccato e gli tocca di vivere, dalla sua cultura e, insomma, dalla sua stessa formazione spirituale. Dentro questi elementi vibra la sentimentalità di chi parla, la quale trasfigura e ricrea la materia linguistica, improntandola d'una nota personale. La comprensione è facilitata dai tratti o caratteri comuni, per cui s'intendono via via uomini d'uno stesso villaggio, d'una stessa regione, d'una stessa nazione e di nazioni e di razze diverse: una lunga, interminabile ininterrotta e vivente catena, attraverso cui la materia linguistica si differenzia, tanto che noi possiamo, rompendone la continuità, staccarne gli anelli e considerarli avulsi e isolati. Così si riesce a distinguere i dialetti, e le lingue letterarie che già furono dialetti: e se ne studiano i tratti comuni e i caratteri diversi costituendone gruppi e sottogruppi, sezioni e sottosezioni.

La concezione dei dialetti come altrettanti tipi linguistici circoscritti entro certi limiti è giustificata da bisogni e da necessità scientifiche; e non si può dire che sia una concezione falsa, perché, rigorosamente parlando, non potrebbe neppure essere utile, se non contenesse elementi di verità. Ma questi elementi stanno in ognuno dei fenomeni considerati, non già nella nozione generale, che vuole tutti stringerli in fascio. Tanto è vero, che quando dalla nozione generale veniamo al fatto particolare, la stessa nozione subisce limitazioni o estensioni in varia misura. In altre parole, quando si viene a un esame approfondito, ci si avvede che la realtà ci fornisce soltanto tratti dialettali, di cui ognuno si dirama in direzioni diverse, cosicché non è mai possibile chiudere tutti insieme questi tratti dialettali entro una linea, che diciamo isoglossa. Per ogni fenomeno occorre un'isoglossa diversa. Ne viene che la questione va impostata sopra una duplice esigenza, per cui da un lato si mantenga e dall'altro si dissolva il concetto di "dialetto".

Non è esagerato dire che tutte le discussioni che si sono avute sino ad ora sui dialetti derivano da una cattiva impostazione del problema. È celebre il dibattito fra G. I. Ascoli e P. Meyer. Il primo ammetteva l'esistenza dei dialetti come tipi definiti, organismi circoscritti, determinati dalle diversità etnologiche dei parlanti. Egli ricavava i tipi dialettali dalla combinazione di tratti fonetici, morfologici e sintattici. Ammetteva, insomma, che i caratteri definitori fossero dati dalla simultanea presenza di tratti in qualche misura comuni anche ad altri dialetti. Il Meyer, invece, sosteneva che le delimitazioni dialettali sono impossibili, perché non si può studiare l'estensione d'un agglomerato di fenomeni, ma soltanto si possono esaminare singolarmente le aree di ciascun fenomeno. Due teorie, che, nella loro assolutezza, contengono ognuna una parte di vero. Gli elementi etnici erano poi dall'Ascoli considerati come fattori naturali e come le ragioni profonde delle differenziazioni dialettali. E sono fattori indubbiamente importantissimi, i quali operano, però, non dal di fuori, ma dal di dentro, creati, come le razze, dalla realtà storica nel suo svariato determinarsi. Un altro studioso, il Gröber, accentuò l'importanza del fattore cronologico; altri insistettero sulle forze disgregatrici e unificatrici separatiste e centralizzanti (Meillet, Meyer-Lübke, De Saussure) sul loro giuoco e sulla loro vicenda nel movimento della lingua; altri ricorsero volta per volta, all'uno o all'altro di questi motivi per determinare i confini di particolari dialetti (Morf, Gauchat, Wrede, ecc.).

Bibl.: G. I. Ascoli, in Arch. glottol. italiano, II, p. 317; P. Meyer, in Romania, V, p. 504; L. Gauchat, Giebt es Mundartgrenzen?, in Archiv f. das Studium d. neuer. Spr. u. Lit., CXI, p. 365; N. Maccarone, Il concetto dei dialetti e l'Italia dialettale nel pensiero ascoliano, in Silloge linguistica dedicata alla memoria di G. I. Ascoli, Torino 1929, p. 302 segg.

Il dialetto nell'insegnamento della lingua nazionale. - Il rapporto tra dialetto e lingua, nella concezione di cui possiamo riconoscere massimo assertore e rappresentante l'Ascoli (v. sopra), dà luogo in didattica, specie in paesi ricchi di varietà dialettali, a due metodi diversi: l'uno che, fondato sul noto canone pedagogico del procedimento dal noto all'ignoto, prescrive di condurre l'allievo all'apprendimento della lingua nazionale e letteraria per mezzo del dialetto da lui parlato, nella stessa maniera che all'amore cosciente della grande patria noi lo guidiamo attraverso il culto della piccola patria natale: tale metodo è riassunto nel motto dal dialetto alla lingua; l'altro è il suo contrario, e si fa forte di due pericoli, la bilinguità e il regionalismo, impedimento all'unità nazionale.

Federigo Mistral protestava con ferventi parole contro il modo onde s'insegnava il francese mlle provincie meridionali. E la sua voce non rimase inascoltata. Se non che quando in Italia la riforma fascista della scuola (ord. min. 11 novembre 1923) proclamava l'obbligatorietà del metodo dal dialetto alla lingua, in Francia (ord. min. dicembre 1924) si tornava alla convenzione del 1793, se non per decretare la lotta contro il dialetto, almeno per prescrivere che il francese fosse insegnato esclusivamenie col francese.

In Italia, per le stesse ragioni storiche della sua formazione spirituale, prevalse fin dalle origini della nuova letteratura il metodo dialettale, e non soltanto nella scuola; ma l'applicazione fu piuttosto frammentaria ed empirica. Un grande tentativo di sistemazione fu compiuto dal Manzoni, l'apostolo dell'unificazione linguistica, intesa soprattutto come scorta all'unità politica e morale della patria. Ma se per meritata fortuna egli poté vedere avverato il sogno d'una lingua popolarmente nazionale, primo germe della vagheggiata unità, il metodo da lui raccomandato nella scuola a favorire il pieno realizzarsi della sua idealità, non ebbe né la continuità né l'ampiezza richieste, sebbene non gli venissero meno seguaci e in varia maniera sostenitori di alta autorità (De Sanctis, Boselli, Villari, Del Lungo, l'Ascoli stesso, il Morandi, il Monaci). Mancò la virtù della perseveranza nell'allestimento dei mezzi (vocabolarî dialettali, testi per traduzioni ed esercizî, grammatiche, preparazione di docenti, ecc.); nella formazione d'una coscienza nazionale del problema; nell'organizzazione ufficiale del metodo. E forse un ostacolo di maggior resistenza si aveva nell'imprecisione del concetto di dialetto e del suo rapporto con la lingua.

Ora, con la convenienza di tale metodo proclamata dalla riforma Gentile, auspicata già e precorsa dal Monaci e dai suoi discepoli, viene a coincidere una concezione del dialetto meglio approfondita e armonizzata coi postulati della nuova estetica del linguaggio. Scortata da tale concezione, l'applicazione della formula dal dialetto alla lingua può ormai essere regolata da norme agili e fini, come si conviene a un fatto spirituale quale è il linguaggio, che in ciascuno di noi si colora e vibra di ciò che è più propriamente nostro, purché, s'intende, all'arduo e delicato compito non manchino soprattutto buoni libri e maestri consapevolmente bene orientati verso la nuova dialettologia.

Bilinguità è ricchezza; lingua e dialetto, egualmente necessarî nell'economia individuale e nazionale, si purificano mutualmente (come mostrò il Salvioni) e s'arricchiscono l'una delle risorse dell'altro, così nell'effettivo parlare, come nell'espressione letteraria; e quanto al regionalismo, esso non è più per l'Italia un pericolo, grazie all'opera cementatrice della guerra e del fascismo; anzi un ritorno alle fresche e sane sorgenti della tradizione regionale non può che essere benefico e rinnovatore.

Bibl.: C. Trabalza, Dal dialetto alla lingua. Nuova grammatica italiana con 18 versioni in dialetto d'un brano dei "Promessi Sposi", Roma 1917; E. Monaci, Pe' nostri manualetti, avvertimenti, con due appendici: I: Appunti bibliografici; II: Norme per la compilazione dei vocabolari dialettali, Roma 1918; G. Lombardo-Radice, Lezioni di didattica, Palermo 1925; C. Trabalza, Dalla piccola alla grande patria, in Scuola e italianità, Bologna 1926; B. Terracini, I rapporti fra i dialetti e la scuola, in Educazione nazionale, 1927; Le bilinguisme et l'éducation: travaux de la confér. internat. tenue à Luxembourg du 2 au 5 avril 1928, Ginevra-Lussemburgo 1928 (con bibl.).

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